Tanabata
Il commissariato di Nagano era semi vuoto, la maggior parte dei dipendenti, sia civili che non, erano in ferie e quei pochi che erano rimasti avevano fortunatamente poco lavoro da sbrigare, come se anche la criminalità fosse andata in vacanza.
Gli agenti rimasti avevano deciso di arredare in modo più festivo i propri uffici, molti avevano comprato una pianta di bambù in vaso apposta per il Tanabata e Yui Uehara era proprio una di questi.
Al suo alberello aveva appeso campanelli, fili colorati e un solo cartoncino blu marino, il suo colore preferito. Solo lei sapeva il desiderio scritto, con la sua elegante calligrafia, in quel biglietto colorato che aveva nascosto tra le foglie in modo che fosse difficile da individuare.
Stava finendo di sistemare delle pratiche, quando un suono ormai inconfondibile cominciò a farsi man mano più nitido, come un passo malfermo e zoppicante.
Poco dopo Kansuke entrò nell’ufficio.
«Hai finito?» domandò, con tono tranquillo.
«Quasi…» rispose lei, tornando a dedicarsi agli ultimi documenti, non accorgendosi che l’occhio destro dell’uomo, l’unico funzionante, si era spostato proprio sull’alberello di bambù, focalizzandosi sul cartoncino.
Un leggero sorriso si dipinse sul volto dell’uomo, contornato dalla barba rada e poco curata.
«Finito!» esclamò lei, spegnendo il computer e chiudendo l’ultimo faldone.
«Che ne dici se andiamo fuori a cena?» domandò lui improvvisamente, allungando il braccio con cui non si reggeva sulla stampella e prendendole la borsa dall’attaccapanni.
«A cena…?» ripetè lei un po’ confusa.
Kansuke rispose solo con un cenno di testa, ma qualcosa nei suo occhio grigio come il mare in tempesta doveva averlo tradito, perché subito dopo la collega aggiunse: «Hai letto il mio desiderio di Tanabata, vero?»
Gli scappò da ridere e dovette voltarsi, cominciando a zoppicare fuori dall’ufficio.
«E chi lo sa, forse sì, forse no…»