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Autore: ryuji01    10/07/2020    0 recensioni
Forse il caso, forse Archeus ci aveva condotti su quelle isole disperse in mezzo all’oceano, dove parve per un giorno arrivare la fine del mondo. Tuttavia sapemmo presto che nessuno si sarebbe ricordato di quello che avvenne in quel luogo.
In qualche modo, benché quello sia il destino di ogni umana cosa, ne fummo tristi. Non perché volessimo essere ricordati come eroi, anzi sarebbe sbagliato ricordarci come tali: dopotutto eravamo semplicemente degli esseri umani. Però, il fatto che i posteri non avrebbero mai potuto imparare dalle nostre esperienze, dai nostri pianti, in fondo in fondo velò di sconsolazione i nostri spiriti. Non che, comunque, per noi umani sia così facile apprendere.
Ma avevamo una, una sola certezza: che pace sarebbe stata, fintanto che tutti si fossero ricordati che ad illuminarci, è la stessa luce.
Genere: Avventura, Introspettivo, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Anime
Capitoli:
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Nel caso vi troviate proprio persi, anche se vi consiglio di continuare la lettura fino in fondo ad ogni capitoletto, alla fine del capitolo trovate un glossario con le traduzioni.
 
Mokupuni
Isola
 
Un ragazzo percorreva velocemente uno degli angusti vicoli della periferia con la testa china. Ogni suo passo era concitato; aveva il volto arrossato per il caldo meridiano, e l’odore di putrido che veniva dagli edifici fatiscenti gli faceva torcere il naso.
La stretta via terminava in un molo di legno marcio fermato sulla banchisa in malo modo. Impauriti alla vista del ragazzo, dei wimpod scapparono, arrampicandosi su per le pareti degli edifici per poi infilarsi in una qualche fessura e scomparire.
Il giovane si fermò per farsi sferzare il viso dalla brezza salmastra, mentre osservava quel panorama, davanti al quale gli venne una fitta al cuore, come accadeva ogni volta dopotutto. Titubò, poi inspirò quell’aria malsana per continuare a vivere. Sospirò.
Più a largo di qualche metro rispetto alle abitazioni abusive, il mare riprendeva il suo colore ancestrale, e sopra di esso degli wingull danzavano leggiadri, piangendo il loro pianto. La distesa d’acqua salata, costellata da isolette qua e là, continuava a sinistra incorrotta fin verso l’orizzonte, mentre a destra veniva chiusa nell’abbraccio della baia dove sorgeva la città di Mana‘olana.
Le spiagge candide quanto neve appena caduta erano interrotte da una striscia di asfalto nero costruita loro a ridosso, e dietro di essa si ergeva qualche filare di costruzioni. Dietro gli abitati, poi, si stagliava un’immensa foresta che il giovane sperava sarebbe rimasta intatta per molto tempo ancora, come lo era sempre stata. Questa si estendeva coprendo di un leggero manto viride tutti i colli dell’uka, dai quali nascevano le pendici del sommo monte Lanakila, unica cima d’Alola dove riposavano nevi perenni.
Quella era la sua regione natale, che adesso stava venendo man mano corrotta, ed egli purtroppo non poteva capire quanto in profondità quella malattia fosse arrivata, o forse semplicemente non lo voleva capire.
Il ragazzo strinse la sua maglia lisa all’altezza del petto, con le sue forti mani, e si costrinse a distogliere lo sguardo da quel nostalgico e tremendo spettacolo. Poi si voltò e tornò indietro di qualche passo per fermarsi ad una piccola porta di un edificio le cui finestre erano state sbarrate con delle assi.
Con cautela, fece scattare la maniglia e aprì la porta cigolante, infilandosi dentro il buio locale. La porta si richiuse alle sue spalle da sola, con tanta veemenza che pensò gli sarebbe cascato il soffitto sopra la testa.
Mentre l’aria fresca del locale lo avvolgeva, confortevole, il ragazzo si diresse al bancone del locale, dietro al quale un omone vestito elegante stava preparando un qualche cocktail. Il banconista aveva iniziato a squadrarlo dall’alto al basso, ma quando i loro occhi si incrociarono, il suo sguardo si addolcì leggermente. Il ragazzo serrò i pugni.
Sarebbe stato meglio fare in fretta: quel posto era stato costruito per incontri a fini non proprio legali, e ci si poteva sempre trovare qualcuno sulla cui strada era meglio non incappare. Almeno, però, lì nessuno faceva domande sul conto altrui, fintanto che neanche l’altro si fosse dimostrato troppo curioso.
Si sedette al bancone, su uno degli alti sgabelli imbottiti, rivestiti di una morbida stoffa cangiante color porpora. Nell’attesa, ordinò il solito, un semplice succo di baccananas, perdendosi nei suoi pensieri mentre l’uomo gli versava il denso liquido giallo.
Quando seguiva l’addestramento per entrare nelle guardie reali i suoi istruttori parlavano spesso di quella rete criminale i cui membri venivano semplicemente detti mea pale kānāwai, i fuorilegge. Se ne possedevano pochissime informazioni, e tutti quelli che erano riusciti a scoprire qualcosa erano celebrati unanimemente come eroi. Per questo erano anche la preda più succulente per tutti quegli ingenui cadetti che desideravano gloria e fama assicurata.
Nella sua innocenza, anche il giovane l’aveva desiderato un tempo, per un momento, cosicché magari, almeno per una volta, si sarebbe potuto sentire come tutti gli altri. Sarcastico come, non appena fu sbattuto fuori dall’unità di cui faceva parte, ritrovatosi a dover fuggire per non venire arrestato, la spirale degli eventi lo aveva fatto scivolare in quel fossato da cui, ormai lo sapeva, era così difficile uscire. Tuttavia, non potendo sopravvivere altrimenti, aveva deciso di sguazzare nell’abisso, fin tanto che il fango non fosse diventato sangue almeno.
Dietro al bancone, su dei ripiani di vetro ben lucidati riposavano delle bottiglie eleganti, ripiene di liquori e di grappe, con quella loro peculiare viscosità da cui il ragazzo era sempre rimasto affascinato. I raggi del sole venivano distorti e ovattati dalle spesse finestre variopinte, che davano sulla baia, e quando si scontravano con le bottiglie si creava un complesso gioco di riflessi che portava pace nel suo animo, rapendolo con la sua gravosa bellezza.
Quello era l’unico punto di tutto il locale illuminato; tutto il resto era rischiarato fiocamente da degli steli di metallo opaco che terminavano in boccioli vitrei, al cui interno brillavano delle fiammelle tenui.
Il ragazzo chiuse gli occhi che potevano finalmente riposarsi dall’intensa luce meridiana, riempì lentamente i polmoni di quell'odore pungente che impregnava l'aria del locale, e bevve un sorso dal suo bicchiere.
Si sentiva fuori posto, e non tanto per quell’universo di cui era finito a far parte, ma perché era come se si fosse trovato da un’altra parte del mondo, come se da un momento all’altro fosse finito in uno di quei posti esotici le cui foto ricoprivano i libri provenienti mai ka ʻāina ʻē, da terre straniere. Le sue membra erano inebriate da quella cultura, quella nuova tradizione che anelava a far soccombere per sempre la sua, ma, per quanto ne potesse essere terrorizzato e disperato, ormai era succube anche lui di quell’incubo; presto non si sarebbe nemmeno più riconosciuto.
Un efficace veleno era penetrato in ogni anfratto del governo d’Alola, corrompendo nel tempo anche la mentalità della gente, presa così alla sprovvista da non riuscire a reagire in alcun modo, tantomeno quando videro che persino tra i propri cari c’era chi aveva cospirato l’intossicazione e bramato la malattia, che per loro portava un altro nome, molto più semplice, molto più cieco, quasi speranzoso: civilizzazione.
L’omone andava avanti indietro per la porta della cucina, portando con sconcertante destrezza le pietanze più disparate, che emanavano i più invitanti profumini.
All’improvviso, mentre stava finendo la propria bevanda, la porta del locale sbatte con il solito fracasso, ed una voce calda e sicura irruppe nella quiete.
« Ahola, ragazzo! Vedo che non sono ancora riusciti a catturarti; ne sono veramente contenta. Allora, trovato qualche posto carino dove stare, o girovago come al solito? » Gli chiese la donna dall’aria materna, vestita con degli abiti che cadevano morbidi sulle sue curve. Dietro di lei la seguiva un uomo muscoloso, che portava in spalla un signore in giacca e cravatta, mani e polsi legati.
« Evitami i convenevoli, ché sai bene come sono messo. Forza, dimmi cosa devo fare. »
 
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All’orizzonte svettavano alti palazzi di vetro, metallo e pietra, i primi segni dell’urbanizzazione che piano piano, come un’onda, avrebbe travolto tutta Mana‘olana. Nella parte originaria della cittadina le abitazione erano fatte di legno e avevano i tetti coperti di palma; in fianco alle porte erano inchiodate statuette apotropaiche, raffiguranti i kapu, i numi protettori delle isole.
Più verso l’uka si trovava una specie di piazza, al cui c’entro si ergeva un grande pedana da combattimento, dove un tempo si svolgevano gli incontri di lua, ma che a quel giorno servivano solo durante le hoʻolauleʻa per mettere in scena danze e spettacoli. In quello spiazzo e lungo le vie che vi sboccavano era perennemente allestito un vivace mercato, dove i malihini andavano per comprare qualche ricordino del proprio viaggio; non importava a nessuno che cosa un tempo avevano significato quei simboli, ora prodotti venduti in serie. Neanche agli isolani interessava più oramai. Contava solamente guadagnare e, alla fine, non li si poteva biasimare.
All’improvviso, una magra figura con il volto mascherato si gettò tra la folla, inseguito da dei poliziotti  che urlavano alla gente di fare largo, aiutati dalle ringhia dei growlithe.
Benché all’apparenza fosse gracile, quel ragazzo correva incredibilmente veloce: sembrava quasi come se stesse danzando, destreggiandosi a serpentina tra le persone ignare e confuse. Gli inseguitori, però, lo seguivano senza intoppi, schiamazzando a destra e a manca perché la gene si scansasse.
I growlithe, invece, erano smarriti: non avevano una chiara visuale, e gli odori del mercato gli impedivano di captare in che direzione fosse andato il mascherato. Inoltre, non potevano usare i propri poteri in un posto tanto affollato, ché altrimenti avrebbero rischiato di ferire qualcuno.
Comunque, il ragazzo non sarebbe riuscito ad andare avanti così ancora per molto: il battito del cuore gli martellava le tempie, e il respiro era sempre più costretto e annaspato, tanto più che non riusciva ad ispirare abbastanza aria.
Ad ogni ampia falcata, l’anello di metallo opaco incastrato nelle fessure per le narici della maschera vi sbatacchiava rumorosamente, facendo vibrare il volto del giovane; ma per quanto gli desse fastidio, togliersela sarebbe stato troppo rischioso.
Finita la zona più gremita del mercato, il ragazzo iniziò a dare fondo a tutte le sue forze: doveva trovare il modo per arrivare alla foresta, dove sarebbe stato più semplice seminarli. Si scervellò per qualche istante, senza in realtà riuscire a concentrarsi per davvero. La frustrazione era come un pugno allo sterno, giusto sotto le clavicole: non erano riusciti a risolvere niente, e tutto era andato per il peggio.
Ad un tratto, però, il suo sguardo cadde su un ragazzo che era appena uscito da una viuzza laterale e, benché fosse più alto e ben più atletico rispetto a lui, decise che avrebbe provato comunque a prenderlo in ostaggio, perché l’alternativa sarebbe stata la galera.
Con lo slancio della corsa, cinse la vita del ragazzo e gli punto un coltello alla gola. Lo strattonò con sé, tenendoselo davanti a mo’ di scudo umano, ed indietreggiò per un vicolo che portava alla foresta.
Da lontano, si sentivano i latrati dei growlithe, che aveva superato la massa di persone, e i loro versi rabbiosi si facevano sempre più chiari e distinti, ma al contempo, da dietro di lui, si udivano provenire i primi versi dei manana, per un momento, fu sollevato.
Quell’attimo di distrazione, però, fu abbastanza perché il ragazzo, che tratteneva, si divincolasse dalla stretta del suo braccio e, a quel punto, all’unisono ogni parte del suo corpo  cominciò a tremare istericamente. Era la fine.
Tuttavia, inaspettatamente, quel giovane si girò verso di lui, guardandolo dritto negli occhi con fare grave. Il suo volto era magro ma dai tratti morbidi, con labbra carnose, un po’ più scure della pelle olivastra, e i suoi corti capelli mori, appiccicati sulla fronte dal sudore, in qualche punto lasciavano intravedere delle sfumature rosa.
« Lasciami andare » Gli intimò con voce salda il giovane che continuava a fissarlo serioso, con dell’aspettativa. « E se vuoi, poi, puoi anche scappare, per quel che mi riguarda. »
Le iridi azzurre di quel ragazzo, che lo teneva fermo per le braccia, avevano iniziato a rilucere, come le  acque, quando a mezzodì riflettono il sole con il loro brilluccichio ammaliante e disorientante. Quel colore cristallino era identico a quello di cui si era sempre immaginato fosse il mare di Pali-uli, terra leggendaria di gioia e ricchezza dove, come narrato nei tomi de Ka loʻolelo lōʻihi, venivano cresciuti i figli degli aliʻi.
Non appena il mascherato si accorse che erano stati raggiunti, però, l’incantamento finì e, in un istante, ripuntò il coltello dall’elaborata impugnatura al collo del ragazzo, tenendolo fermo con l’altro braccio. « E ʻae mai ʻoukou i koʻu hele, akā naʻe pepehi ā make au iāia! » Urlò con voce spezzata, ma la sua ansima rumorosa, le mani nervose e lo sguardo, che balzava terrorizzato da un poliziotto all’altro, lo tradivano.
Il ragazzo minacciato di morte sospirò profondamente, abbastanza perché la lama del coltello gli facesse rivolare del sangue giù per il collo. Era meglio fare in fretta, prima che qualcuno di loro lo riconoscesse.
Prese dal polso il suo osteggiatore torcendoglielo dietro la schiena per disarmarlo, e poi lo scaraventò a terra. Si sgranchì un attimo la schiena: messosi al sicuro da uno, doveva occuparsi degli altri. Avanzò verso gli agenti con passo sicuro e i suoi occhi ripresero a emanare una tenue luce turchina, la stessa di prima.
« Adesso, tutti voi ci lascerete andare senza fare storie » Proferì. « Quando tornerete in caserma, e vi chiederanno cosa sia successo, direte che avete dovuto abbandonare l’inseguimento perché, una volta nella foresta, avete incontrato un bewear. Tutto chiaro? »
Come incantati, sia i poliziotti che i growlithe se ne andarono, sotto lo sguardo stupito del mascherato.
 
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Gli alberi della foresta avevano alti fusti ricoperti da una sottile corteccia, e lussureggianti chiome da cui di tanto in tanto pendevano delle liane. L’aria che vi si respirava era assurdamente afosa e non spirava un soffio di vento. Alto nel cielo, il sole batteva coi suoi caldi raggi dai quali neanche l’ombra degli alberi poteva portare sollievo.
« Adesso che ci siamo allontanati abbastanza dalla città, mi vuoi dire perché mi hai aiutato? »
« Preferivi che ti lasciassi nelle mani della polizia? Se vuoi, faccio sempre in tempo a riportartici. »
« Non è quello che intendevo » Si spazientì il mascherato. « Capiscimi: ti ho puntato un coltello alla gola, e ho pure minacciato di ucciderti! »
« Sì, è ti stavi pisciando sotto mentre lo facevi. »
« Lo so, ma… è che non sono un criminale. Non volevo farti del male, ma al contempo è stata l’unica cosa che mi è venuta in mente da fare per poter scappare senza che quelli là mi seguissero. »
Dalle valli ad est, riecheggiò un rumore assordante, il pianto di una krokorok in calore.
« Veramente… » Sospirò, abbassando lo sguardo « non volevo farti del male. »
« Tranquillo. » Rise l’altro, dandogli una possente pacca sulla schiena. « Sarei riuscito a stenderti in ogni caso: te l’assicuro. »
Al sordo suono dei passi dei due ragazzi i piccoli ledian e i pikipek scappavano, nascondendosi nel sottobosco o tra le folte fronde.
« Comunque… » Ricominciò l’altro « Che ruolo hai per poter utilizzare il mana? »
« Fidati: non ti interessa. »
« Eccome se mi interessa, invece. » Ribadì, alzandogli la maglia così per vedere il tatuaggio, che avrebbe dovuto permettergli di capire che pattuente si trovasse davanti.
« T’ho detto che non ti interessa! » Gli berciò contro, strattonandolo via.
« Ma… » Costatò perplesso il ragazzo, recuperato l’equilibro. « Non hai nessun tatuaggio! Eppure coloro col potere dei folletti lo dovrebbero avere sull’addome basso, e sono abbastanza sicuro che sia quello lo ‘ao del tuo mana. Tra l’altro dov’è il tuo manana pattuente? Non dovrebbe stare sempre con te? »
« Parliamo un po’ di te, invece: che ne dici? » Propose seccato, scoprendogli il ventre a sua volta. « Come mai il mio mana non funziona su di te, visto che neanche tu mi sembri essere un pattuente di alcun tipo? »
« Beh, è semplice » Ridacchio. « Diciamo che sono un monaco del tempio del ghiaccio, o almeno… circa. È un po’ complicata la storia. Ad oggi vivo qua verso il kai. E non ho il tatuaggio perché non ho ancora stretto il patto, ma a tutti gli effetti il manana mi ha già offerto la sua benedizione, e così il mana è già presente in me, solo che non lo posso usare volontariamente. Per questo, il tuo potere non ha effetto su di me. »
« Alla faccia del semplice. È quasi più contorta la tua situazione della mia. » Se la rise il ragazzo « Comunque, se vuoi te la puoi togliere la po‘oki‘i? Non ho intenzione di andare dalla polizia, tanto. »
Quella maschera era un tradizionale simulacro di Kapu Pulu intagliato a mano nel legno.
« Non per offenderti, ma… sai com’è: ci conosciamo da troppo poco tempo perché possa essere sicuro di fidarmi di te. Ma grazie comunque della preoccupazione. »
« Comunque è veramente bella. »
« Sì, piace moltissimo anche a me. Peccato che dovrò bruciarla… » Sospirò triste. « Era un regalo del mio kumu, ma se non lo faccio rischio la galera, quindi… »
I ragazzi proseguivano spediti per il loro tragitto, tagliando liane, scalando pendii di radici e, più di una volta dovettero aggirare la tanta di un manana potenzialmente pericoloso.
« Ma, scusa la domanda: perché mi stai seguendo? » Chiese il mascherato.
« Beh, perché non ho un cazzo da fare, ovvio no? » Ironizzò.
« Dai, seriamente: perché? »
« Perché » Il volto del ragazzo dagli occhi cerulei si incupì « Non appena l’effetto del mio mana sarà finito e quei poliziotti si renderanno conto di chi ero, mi inizieranno a cercare per tutto l’uka. Quindi è meglio sbrigarmi. »
« Un attimo » Si fermò il ragazzo, il sangue raggelatosi nelle vene. « Tu sei ricercato dalla polizia? »
« Sì, ma penso che tu sia l’ultima persona a potermelo dire con quel tono. »
« Ma io non ho fatto niente di male. »
« A parte puntarmi un coltello alla gola, ma tralasciamo i dettagli, no? » Consigliò. « Comunque, neppure io ho fatto nient… »
« Un attimo, un attimo, un attimo. Un giovane pattuente ricercato dalla polizia, il cui mana è di ‘ao āiwaiwa: tu devi essere quel tale Huali! »
« Sono diventato famoso, allora! » Ridacchiò tra lo sconforto e l’amarezza. « Sì, sì, sono proprio io. Ma dimmi: voi persone normali sapete perché sono ricercato? »
« No, le locandine dicono solo che hai stretto un patto con un folletto. » Spiegò incerto, guardando lontano da quel ragazzo, mentre stropicciava il fondo della sua maglia, con convulsione preoccupata.
D’un tratto, Huali gli si avvicinò e sorrise come un folle. Il mascherato trasalì, costringendosi in un’apnea. A quel punto la foresta si riempì di una fragorosa risata.
« Ahahah, ma quanto sei scemo… » Si piegò in due dalle risate il ragazzo, simulando un finto divertimento. Sperava che dietro quelle risate, forse isteriche, sarebbe riuscito a nascondere le paure di una vita senza tregua e senza requie, come di un mostro ripugnante aberrante agli occhi della gente; sperava che il loro frastuono avrebbe ovattato, almeno alle orecchie di quel giovane, la colpa che alla fin fine egli sentiva sua. Un essere che ambulava senza meta, corroso dentro e bestiale al di fuori, ecco qual era la sua essenza.
« Scemo a chi?! » Riprese a respirare in preda al panico l’altro, mentre l’altro si forzava ancora a sbellicarsi. « Potresti essere un semplice ladro come un assassino per quanto ne sappia. »
« Non ho mai ucciso nessuno » Affermò, d’un colpo gravoso e triste. « In verità non ho mai fatto niente » Sorrise con falsità. « Ma se lo chiedi a loro ti diranno che ho rubato qualche pietruzza. »
Piano piano che si avvicinavano ai pendii dei colli, lo scenario cambiava poco a poco: gli alberi si facevano sempre più radi, la terra sempre più brulla e il sottobosco, che verso il kai impediva quasi i movimenti, lì non era più così lussureggiante. Anche gli schiamazzi dei manu erano ormai vaghi pianti alle loro spalle, ma al compenso si iniziavano a vedere dei manana strisciare celeri per terra, di buca in buca.
« Comunque, il mio nome tu lo conosci già, adesso tocca a te dirmi il tuo. »
« Kōnane. Sono Kōnane. » Rispose il ragazzo, con un sorriso genuino, portando le proprie mani dietro al capo, per slacciare il nodo che gli teneva attaccata la maschera al volto.
 
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Kōnane, finito di mangiare la cena di bacche che avevano improvvisato, si era cambiato i vestiti con degli altri che aveva nascosto in una grotta di quella zona, quella mattina stessa. Nel frattempo, invece Huali si era sdraiato sulla pietra della montagna, per poi addormentarvici.
Quando si svegliò, il sole era iniziato a tramontare ed il cielo si era tinto d’arancio e di rosa. Huali era intento a guardare fisso il cielo imbrunito. Il suo volto era quieto, il suo corpo rilassato, tutta la sua figura era immersa nella luce del tramonto, e stagliava un’ombra tagliente sulla pietra dietro di sé. Sembrava star contemplando quella scena con un’aria religiosa, come se stesse pregando a qualche creatura leggendaria.
Il sole stava man mano affondando con tutto il suo splendore nella scura e rada foresta, le cui chiome erano smosse da un venticello serale proveniente dal kai. Dove l’astro diurno calava, il cielo si era infranto nell’iride, mentre la parte opposta della sfera celeste stava già prendendo i colori della notte, permettendo di vedere il brillio delle prime stelle.
« Ben risvegliato, Huali. Hai fatto buon riposo? » Gli domandò Kōnane senza muoversi.
« Diciamo… » Gli rispose l’altro, massaggiandosi una spalla.
Il sole era ormai tramontato completamente dietro gli alberi, ma la sua luce aleggiava ancora nell’aria con una strana iridescenza.
« Sono contento per te. » Sorrise il ragazzo.
Ci fu in quel momento un silenzio imbarazzante durante il quale tutta la loro estraneità si rivelò, per poi dissolversi, diradandosi come nebbia mattutina.
Uno scoppiettio improvviso catturò l’attenzione di Huali, che solo allora si accorse del piccolo fuoco che quel ragazzo aveva acceso affianco a sé, e in mezzo alla brace le ultime fiamme lambivano quasi con dolcezza un anello metallico.
« Non preoccuparti Huali » Proferì Kōnane, anticipando ogni possibile apprensione del ragazzo « Ho badato che il fuoco non producesse troppo fumo quando l’ho acceso. E in ogni caso, se qualcuno ci avesse rintracciato, sarebbe già arrivato, ma non è apparso nessuno, quindi siamo al sicuro. »
Dopo qualche minuto, quando anche la luce solare restante si estinse definitivamente, si aprì il sipario del cielo notturno dove risplendevano le stelle e la falce crescente della luna, che rischiaravano la terra fievolmente.
Dai candidi ghiacciai innevati, che rispecchiavano la luce astrale come fossero una pietra preziosa, scendeva un’aria gelida e densa, che correva giù lungo la schiena dei due ragazzi.
« Piuttosto » Lo rimbeccò Huali. « Perché eri inseguito da dei poliziotti?»
« Ah, quello… » Si fermò un attimo Kōnane, con un’espressione incerta, poi amareggiata. « Senti, per quanto riguarda tutto quello che è successo questo pomeriggio, kala hoʻi. Kala hoʻi mai iaʻu ē. » Parole traboccanti di senso di colpa.
« Sta tranquillo, non fa niente. » Gli rispose l’altro dopo un po’, senza rivolgergli lo sguardo.
Non appena la luce era calata, la foresta aveva iniziato a brulicare di vita, e i manana si erano svegliati e lasciavano le loro tane e i loro nidi, preparandosi a danzare il conflitto dell’esistenza fino all’aurora. Era molto più cupa di quel pomeriggio: non se ne distinguevano che le chiome delimitanti l’orizzonte, e ne provenivano versi lancinanti e rumori paurosi che, però, non facevano breccia nell’animo dei due ragazzi.
« Comunque, il motivo per cui mi seguivano. Allora, questa mattina sono stato alla protesta contro la costruzione del supermercato nel bosco sacro a Kapu pulu. Hai presente, no? »
Huali fece cenno di sì, ne aveva letto a proposito qualche giorno prima, su un giornale.
« Io avevo già visitato qualche volta quel bosco. Tu l’hai mai visto?
« Nasce in una zona circondata dalla torbiera, dove crescono arbusti ed alte erbe. Una volta ci ho anche visto una liliwai in fiore, lì. Il bosco si trova in una zona asciutta, superata la torbiera, ed è il più antico di tutte le isole. Lì vivono solo piante autoctone della regione, protette dalla torbiera che ha fatto sì che quelle introdotte da tutte le popolazioni che nel tempo hanno colonizzato l’isola, persino noi, non vi si diffondessero. Entrare in quel bosco è come fare un viaggio nel tempo, in un’epoca arcana e immemore. In mezzo ci si trova un piccolo heiau, ma, anche se è piccolo, sul suo kuahu erano poggiate offerte di ogni tipo: lei, lunghe piume sgargianti, bacche rare, profumi e altri oggetti.
« Ma, nonostante sia un luogo di culto secolare, quegli imprenditori hanno intenzione di costruirci sopra un supermercato » Sibilò con rabbia il ragazzo, annichilito. « Ed mi lascia veramente sconsolato il pensiero che la monarchia gliene abbia dato il permesso.
« Così, come tutte le mattine da qualche settimana, anche stamattina ero là a protestare, e quando abbiamo saputo che incominciavano i lavori per bonificare la torbiera io e qualche altro manifestante abbiamo deciso di prendere azione. Ci siamo mascherati e siamo partiti. Volevamo soltanto sabotare i loro macchinari e, lo so, non è una cosa giusta, ma comunque non avevamo intenzioni violente nei confronti dei lavoratori. I tizi a capo del progetto, invece, avevano preparato per noi una muta di houndoom addestrati al peggio. Poveri…
« Insomma, ce la siamo vista brutta, molto. Ad un certo punto, nella fuga, una di noi è inciampata e, quando quei manana l’hanno raggiunta, hanno iniziato a morderla e lacerarla. Lei cercava di divincolarsi, dimenandosi, mentre io sono rimasto lì paralizzato, impalato dall’angoscia come un cretino, e l’ansia mi faceva salire il vomito. » La voce si riempì di rammarico, gli occhi gli si abbassarono.
« Alla fine, qualcuno l’ha soccorsa, e quando siamo riusciti a seminare gli houndoom, ci si è messa la polizia a inseguirci » Constatò con tono amaro. « Poi, quando pensavo che anche quella avesse perso le mie tracce, mi sono ritrovato ad essere inseguito in città. Il resto lo sai anche tu.
Ogni tanto, il silenzio era interrotto dai versi dei manana che stavano sfruttando al meglio quella notte, troppo corta come tutte le altre.
Intorno ai due, diretti nella foresta per rubare qualche uovo di spearow favoriti dall’oscurità, iniziarono a sfrecciare di soppiatto degli sneasel, le cui bianche unghie riflettevano le stelle, producendo veloci bagliori.
« Un attimo che vado a prendere delle erbe repellenti…  » Riferì Kōnane all’altro, alzandosi in piedi « Sennò, tempo di tornare a casa e avremo tutti i vestiti strappati… sempre nel migliore dei casi. »
Così dicendo, il ragazzo rientrò nella grotta, e poco dopo ne uscì con dei fascetti di erbe essiccate ed una scatoletta.
« Li hai fatti tu quelli? » Chiese stupito Huali, avvicinatosi.
« Sì, studio la tradizione di Alola da quando sono piccolo, e prima che arrivassero da oltremare i repellenti, qua nella regione si utilizzavano questi. »
Il giovane tirò fuori un fiammifero dalla scatoletta, e lo sfregò su una delle facce abrasive. Alla luce della piccola fiammella, i loro volti s’illuminarono.
« Funzionerebbero meglio se le erbe fossero fresche, ma beh… non prenderebbero fuoco con un fiammifero in quel caso, no? »
Kōnane portò uno dei fascetti sopra la fiamma, dando vita a una piccola scintilla ad una delle sue estremità. Quando vide che s’era acceso, spense il fiammifero, e poi si mise a muovere lentamente le erbe ardenti per diffondere nell’aria il fumo aulente che quelle sprigionavano.
« Ecco, a posto. Uno dovrebbe bastare a tenere i manana lontani per qualche minuto. »
L’odore non era cattivo, solo molto intenso, ma finché avesse fugato le creature che si aggiravano quatte quatte sotto il velo della notte, Huali avrebbe sopportato.
Il cielo era sempre più scuro e si iniziava a vedere che l’infinità di stelle che vi brillava, ognuna di un colore differente, si concentravano per la maggior parte lungo una fascia centrale allontanandosi dalla quale diventavano sempre più rare. Kōnane ne indicava alcune a Huali, elencandogli i nomi che quella terra aveva loro donato. Poi il ragazzo iniziò a raggrupparle in costellazioni, da quelle più semplici, di sole forme geometriche, a quelle così complesse che i loro contorni erano quasi impossibile da figurarsi. Infine gli raccontava le leggende ad esse legate, miti tramandati da così tanto tempo, che sembravano parlare della vera essenza dell’uomo e della realtà.
« È ora. » Lo avvisò Kōnane narrata un’altra di quelle storie « Andiamo. »
A Huali dispiacque veramente dover lasciare quel luogo meraviglioso.

Glossario:
‘ao āiwaiwa: tipo folletto (lett. tipo misterioso, meraviglioso)
‘ao: tipo
ali‘i: figura politica di un certo rilievo
E ʻae mai ʻoukou i koʻu hele, akā naʻe pepehi ā make au iāia!: Lasciatemi andare, altrimenti lo uccido!
hoʻolauleʻa: santuario tipico hawaiano, formato da una piattaforma rialzata in pietra
hoʻolauleʻa: celebrazioni
Ka loʻolelo lōʻihi: La lunga storia, titolo del libro fittizio contenente tutta la storia di Alola, tra il mitico e il reale
kai: mare, zona costiera
kala hoʻi mai iaʻu ē: versione più enfatica e formale di kala hoʻi
kala hoʻi: scusami, perdonami
kapu: i Tapu (per maggiori informazioni guardare la parte linguistica che segue)
kuahu: altare
kumu: maestro
lei: collana di fiori
liliwai: Acaena exigua, pianta estinta della famiglia delle rose
lua: stile di lotta molto pericoloso tipico delle Hawai‘i
malihini: stranieri, turisti
mana: contestualizzato, la forza elementare che i pokémon possono controllare
manana: libero adattamento della parola pokémon
manu: pokémon uccelli
Pali-uli: una specie di Eden della cultura hawaiana
po‘oki‘i: maschera
uka: entroterra
 
Spazio autore:
Questa storia ce l’ho in cantiere da troppo tempo ormai, e so che se non la pubblicassi adesso, non la finirei mai, quindi eccola qua.  Ho iniziato a scriverla quando è uscita la settima generazione, e pertanto si basa sui contenuti di “lore” che erano stati svelati solo fino a quel punto.
Spero che vi possa piacere  comunque. Però vi avviso: è abbastanza lenta, soprattutto questa prima parte. Non ho tanto altro da dire, quindi lascio la parola a voi, per critiche, consigli e commenti.
Grazie mille di aver letto fin qui e al prossimo capitolo.
 
Curiosità:
Un po’ come i più inesperti se ne escono con dei sincretismi culturali per quanto riguarda l’Estremo Oriente, mischiando cultura cinese, coreana, giapponese, tibetana e chi più ne hapiù ne metta, la stessa cosa accade per la cultura polinesiana, soprattutto in ambito linguistico.
Infatti le parole che vengono usate quando si ambienta una storia alle  Hawai‘i, per un motivo  a me oscuro – benché abbia la mia ipotesi – si tendono ad usare termini provenienti da varie altre lingue polinesiane.
Infatti, in hawaiano c’è stata un’evoluzione fonetica abbastanza rara, che si può riscontrare solo in pochi altri luoghi della Polinesia, ossia il cambiamento: t à k, k à ‘ (colpo di glottide).
Parole come tiki e tapu (usato nei videogiochi) ne sono un esempio, giacché in hawaiano sarebbero ki‘i e kapu.
Dopo varie ricerche non saprei dirvi comunque da che lingua provengano precisamente quei termini, però posso dirvi che:
  1. Lessicalmente parlando non si sono differenziate granché le lingue polinesiane l’una dall’altra, e quindi sono quasi certo che se andate a cercare quelle parole le troverete un po tutte uguali in tutti i dizionari.
  2. I tiki, wikipedia docet, sono dei simulacri delle personificazioni delle divinità (per intendersi, lo Strano Ninnolo dei videogiochi) tipici delle Isole Marchesi, quindi… sarà Marchigiano (?)?
Ultima curiosità: la parola maschera, po‘oki‘i, è composto da po‘o faccia e ki‘i immagine, simulacro. Quindi vuol dire letteralmente “simulacro da faccia”
   
 
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