Anime & Manga > Captain Tsubasa
Segui la storia  |       
Autore: Melanto    13/07/2020    3 recensioni
[Sequel di 'Malerba']
Un figlio morto, uno che lo odia e una moglie che lo sopporta. Questo è ciò che possiede Akio Morisaki, oltre al suo lavoro, e pensa di non meritare nient'altro.
Ma quando la solidità che gli è sempre valsa il nomignolo di 'sequoia' inizia a vacillare, gli toccherà fare anche quello che non avrebbe mai pensato pur di tenere strette le proprie radici alla terra e capire, perduto nel tempo che aveva creduto di controllare, quanto profonde siano quelle della sua famiglia.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Mamoru Izawa/Paul Diamond, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Mori no Kokoro - Il Cuore della Foresta'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Roots - Capitolo 8

 

 

 

- VIII: ...e alla distanza del sole -

 

 Akio non si era mai affidato alle sensazioni, costruendo tutta la vita sulla concretezza. Le sensazioni erano astratte, difficili da affrontare in maniera pratica, difficili da inquadrare. Per lo più superflue e ininfluenti. Ma da quando Shuzo era tornato o, meglio, da quando lui aveva cercato di avvicinarsi a suo figlio, aveva iniziato a fare più spesso affidamento sull’istinto e quelle intuizioni che un tempo avrebbe catalogato come inutili.

L’ultima quella mattina, mentre faceva colazione. Yumeko aveva continuato ad apparirgli tesa nel girare distrattamente il cucchiaino nel tè senza neppure guardarlo. Il suo istinto aveva riconosciuto l’allarme, glielo aveva comunicato, ma non aveva posto domande. La tensione però era strisciata fino a lui, l’aveva contagiato, così aveva terminato quello che restava del caffè ed era andato al lavoro.

Per un po’, preso com’era stato dalla solita routine, ci aveva pensato solo distrattamente, scegliendo di ignorare il formicolio di disagio che sentiva addosso come una giacca cucita male.

Poi la porta dello studio si era aperta, proprio mentre era concentrato su un rapporto di uno stabilimento che gli aveva mandato Ryuusei, e Yumeko era scivolata all’interno portando con sé tutta la tensione di quella mattina, come la ventata d’un profumo.

Akio sgranò gli occhi e tolse gli occhiali, guardò l’orologio da polso. «Non sei un po’ in anticipo per il nostro pranzo? Non sono neppure le dieci e mezza.»

Yumeko tolse i grandi occhiali da sole rotondi e sciolse il foulard di seta che aveva al collo. Infilò tutto nella borsa che le pendeva al braccio.

«Non sono venuta per il nostro pranzo. Volevo parlarti di una cosa e non volevo farlo per telefono.»

Akio si alzò. Girò attorno alla scrivania e spostò la poltrona per sua moglie. Un gesto che a volte gli dicevano fosse troppo demodé, ma che aveva sempre ripetuto per lei, fin da quando si erano conosciuti. Lui prese posto nella poltrona di fronte.

Se la mattina Yumeko gli era sembrata tesa, ora nei gesti e nelle espressioni leggeva chiara preoccupazione. Di nuovo, l’assorbì, e il disagio che aveva vestito si strinse attorno al petto, dentro.

«Ieri non sono stata del tutto sincera quando mi hai chiesto se fosse tutto a posto…»

«Lo avevo capito. Che è successo?»

Yumeko gli prese una mano. Akio sentì che era fredda.

«Shuzo è venuto a casa.»

Akio tese l’intera schiena come vi avessero piazzato un ferro rovente, lo riportò ai tempi in cui era stato imponente e fiero. I tempi in cui era stato sequoia. Eppure, dentro, non avvertiva la vecchia durezza, quanto un calore che si allargava inaspettatamente dal petto verso la pancia.

«Davvero?»

Da quanto tempo era mancato? L’ultima volta che lo aveva visto in quella casa risaliva ai tempi dell’ultima, grande fuga. Lui era andato a prenderlo all’uscita del riformatorio e lo aveva riportato a casa. Quella sera stessa si erano incontrati a cena. Shuzo era scappato il giorno dopo, e non si erano incrociati.

Suo figlio aveva avuto quindici anni.

«E… come mai? Com’è andata? Ricordava dove fosse e come… È salito in camera?»

La camera di entrambi, che poi era diventata solo di Yuzo. La tensione nella schiena si perse un po’ quando ricordò che da quella stanza aveva tolto tutto ciò fosse appartenuto al figlio scapestrato. Seppure Shuzo vi fosse entrato, ci sarebbe stato poco o nulla dei suoi ricordi.

«Sì, ma non è per quello che sono qui. Lui era contento. Ha rivisto le cose di suo fratello. Era contento davvero», ripeté Yumeko, poi ingoiò il piccolo sorriso che aveva accennato. «Ha visto la serra.»

Akio ricordò quella assurda sensazione di déjà-vu avuta la sera prima. Shuzo c’era stato davvero, allora, e l’istinto… l’istinto aveva cercato di avvertirlo, ma lui era ancora neofita di quel modo di vivere e non aveva capito.

La schiena crollò del tutto e, più che sequoia, appariva come un pezzo di burro ammollato. Ora le sensazioni che gli parlavano, riusciva a comprendere bene cosa stessero dicendo e non s’incupì per questo. Chissà come gli sfuggì un sorriso; gli prendeva solo metà della bocca, però.

«Non l’ha presa bene, vero?»

Yumeko abbassò lo sguardo come ne fosse colpevole, ma la colpa in tutto era sempre stata solo di una persona. E quella persona era lui.

«È andato su tutte le furie. Quando ha chiesto di volerla vedere era così entusiasta che ero convinta ne sarebbe stato solo molto sorpreso, magari avrebbe borbottato qualcosa, ostentato indifferenza e nulla di più.»

«Invece ne ha dette di tutti i colori», anticipò Akio e magari, se si fosse sforzato facendo del male a sé stesso, avrebbe anche potuto immaginare quali parole fossero volate.

Yumeko gli strinse la mano. «Era così in collera quando è andato via…»

«Non gli avrai anche detto della Sogetsu?»

«No…»

Akio tirò un mezzo sospiro sollevato.

«…ma Mamoru mi ha telefonato questa mattina, dopo che tu eri già uscito. Ieri sera, Shuzo aveva una cena con altri maestri d’ikebana della città. C’era anche il tuo… Shuzo lo sa.»

«No, no, no!»

«Mi dispiace…»

«Avrei dovuto essere io a dirglielo!»

«Hai aspettato troppo. Credevi che non sarebbe venuto fuori? Sono mesi che vai alla Sogetsu.»

«E quando avrei potuto farlo?! Come?! Credi che non ci abbia mai pensato? Non è facile!»

Akio si alzò di scatto e camminò a vuoto per lo studio con falcate ampie. Si massaggiò il viso e poi guardò Yumeko rimasta seduta e che lo fissava con espressione crucciata. Allora si fermò, le mani puntellate sui fianchi, sotto la giacca aperta. Espirò a fondo e abbassò il viso per guardarsi le scarpe.

«Scusa, hai ragione tu», disse tornando verso di lei. «Avrei dovuto farlo prima. Non sarebbe comunque cambiato niente, ma forse non sarebbe finita così.»

Crollò a peso morto sulla poltrona, mentre tutte le conquiste raggiunte in quei mesi cadevano in pezzi, una dietro l’altra: vetrate messe in fila e attraversate da uno stesso sasso scagliato con tutta la forza possibile. Era stato a un passo dal capire ogni cosa, non si era mai sentito così vicino a suo figlio come in quei mesi, ma ormai il danno, seppur involontario, era stato fatto.

Yumeko tornò a prendergli la mano. «Lasciamo passare qualche giorno. Diamo tempo a Shuzo di metabolizzare queste notizie inaspettate. Era davvero sconvolto, non avrebbe mai pensato che tu…»

«Perché non gli ho mai dato modo di potersi aspettare qualcosa da me. Ho sempre preteso e basta. Ero io quello che si aspettava che lui rispondesse a tutte le mie aspettative, e non gli ho mai dimostrato nulla. Ma nessuno di noi due, ora, può aspettare.»

Akio si alzò, si allungò sulla scrivania, recuperò il cellulare e le chiavi della macchina.

«Che vuoi fare?»

«Devo parlarci.»

«Non è una buona idea… Non adesso. Aspetta un paio di-»

«Giorni? Che diventano settimane? E dopo cosa, mesi? E senza accorgercene saranno passati anni. Non voglio, Yumeko. Non un’altra volta in cui torniamo a ignorarci come non esistessimo più l’uno per l’altro. Ho sempre rimandato e aspettato che le cose si sistemassero da sole o che il tempo ci mettesse una pezza, ma se non sono io a provarci, non risolveremo mai niente.»

Furono le ultime parole cui Yumeko non rispose, limitandosi a guardarlo mentre inforcava l’uscita in tutta fretta, senza aspettarla né chiederle di andare con lui, perché era da soli che avrebbero dovuto affrontarsi.

Come padre e come figlio.

 

Da quando si era trasferito a Obuchi, le uniche notti in cui Shuzo aveva dormito male erano state quelle in cui non aveva avuto Mamoru al suo fianco. Eppure, quando al mattino si era svegliato non c’era stata la sensazione di riposo che solitamente lo accompagnava. Forse perché aveva dormito solo quattro ore, ma era una di quelle giustificazioni annoiate di chi era troppo stanco anche solo per inventarsene di migliori. L’unica cosa certa, era stata che la magia che Mamoru aveva sempre avuto su di lui stranamente non aveva funzionato. La sua arma – perché Mamoru continuava a esserlo – aveva fatto cilecca, si era inceppata come i migliori Kalashnikov e lui aveva continuato ad agitarsi nel letto. A sentire un fastidio continuo dentro di sé, un dolore che non era riuscito a localizzare perché sembrava venire dappertutto. Ossa, muscoli. Forse dalle caviglie? Boh. Forse dalle spalle? Boh. Forse dal petto? Boooh.

Shuzo si era tenuto stretto alla sua ancora, la testa nascosta nel petto e sotto alle lenzuola. Le braccia erano state salde attorno a Mamoru, il calore era stato continuo, il battito… il respiro…

Eppure, quando alla mattina la sveglia era suonata alle sette, lui aveva avuto già gli occhi aperti e asciutti. Si era alzato, dicendo a Mamoru di prendersi un altro paio d’ore di riposo, perché avrebbe pensato lui al resto e il suo compagno aveva solo mugugnato, troppo stanco per capire cosa-dove-come-quando.

Shuzo ne aveva sorriso, gli aveva baciato la testa dai capelli arruffati e si era trascinato fino al salotto. Aveva acceso una sigaretta senza nemmeno mettere su il caffè. Si era seduto al divano e tra il salire delle volute di fumo e lo scendere nel petto del catrame e della nicotina aveva disaminato i propri comportamenti trovandoli così puerili da chiedersi se avesse davvero trentasette anni o solo sette. In faccia aveva la barba o quella era peluria prepuberale?

La rabbia, il cannibale avevano preso il sopravvento e lui li aveva lasciati fare, perché la cosa che si era trovato davanti era stata troppo grande affinché potesse affrontarla da solo e uscirne indenne.

Non aveva neppure saputo spiegarsi bene cosa avesse provato davvero: le emozioni si erano aggrovigliate strette, nodo di radici indistricabile. Quando gli capitava di trovarne mentre ripuliva una pianta, quei nodi potevano fare solo una fine. Forse era quello a fargli male, senza che ne trovasse il punto preciso. Era quel nodo tirato, smosso per cercare di scioglierlo a tutti i costi quando era palese non ci sarebbe riuscito. Che importava se quelle annodate sarebbero morte? Le altre radici avrebbero sopperito.

E lui quante radici aveva, dentro?

E quante Akio?

E fino a quanto potevano permettersi di strapparle via senza uccidere tutto?

Shuzo non era riuscito a rispondersi con chiarezza: uccidere tutto, chiudere ogni possibilità. Il giorno prima ne era stato certissimo e adesso? Una mezza nottata, degli scatti di collera e tutto era tornato a finire nel calderone del ‘forse’ in cui aveva gettato il suo rapporto con Akio da quando aveva scelto di metterne su uno.

Comunque, il problema peggiore di quella mattina era stato pensare di aver quasi aggredito Mamoru.

Quando lasciava libero il cannibale, poi non poteva certo sperare di non pagarne le conseguenze.

La sua era stata, dopo la sigaretta, iniziare la mattinata con una telefonata.

– Mori, questo è un record! Ti sei ricordato di me dopo due mesi? Per un attimo pensavo avessi perso il mio numero.

«Ah, no, dottore. Lo sa che io ritorno sempre, come ogni buona malerba.»

Kido aveva riso e lui, con tutti i suoi sensi di colpa, gli aveva spiegato cos’era accaduto.

– Era da parecchio che non ti prendeva così… – aveva sospirato lo psicologo, in tono accigliato.

«Lo so… Ma Akio mi ha spiazzato di brutto quando proprio non me l’aspettavo.»

– I genitori lo fanno, a volte. È come un marchio di fabbrica. Che ne dici se ne parliamo il prossimo lunedì? Sarò a Numazu per l’intera giornata; ti va di pranzare insieme? Così non ti faccio venire fino a Tokyo.

«Mi sembra un buon compromesso. Il pranzo glielo offro io.»

– Sarebbe poco professionale da parte mia, accettare.

«Non rompa, dottore. Ci vediamo lunedì.»

Si era quindi preparato in fretta e aveva iniziato la sua giornata con un leggero mal di testa da sbronza e l’espressione cupa.

«Se non fai un sorriso, temo che i nonni finiranno col chiamare l’ambulanza per farti portare all’ospedale più vicino.»

Shuzo si riscosse dai propri pensieri, distogliendo lo sguardo dal bicchiere che aveva tirato fuori dalla lavastoviglie e non aveva fatto altro che rigirare tra le dita senza decidersi a riporlo.

Kumi dava la schiena al locale e al bancone, tra le mani girava dei rocchetti di spago colorati per preparare i nuovi kokedama.

Shuzo guardò lei e poi oltre la sua spalla, dove il tre rimasti della Banda Bassotti lo studiavano da sopra una tazza di tè, un giornale spiegazzato e occhialetti calati sul naso.

«Ci fosse stato ancora Ikeda-san, buon’anima, gli avrebbe detto di farsi i fatti loro.»

«Che succede?» Kumi non mollò. «Sei silenzioso, oggi. E il fatto che ‘Mamoru dorme un po’ di più perché è stanco’ non me lo sono bevuto del tutto, sappilo. Che avete combinato? Se sono porcate non le voglio sapere!»

Shuzo snudò il sorriso smagliante, strinse gli occhi e sollevò più volte le sopracciglia. «Sei sicura che non vuoi saperlo? Potrei suggerirti spunti interessanti per ravvivare il tuo rapporto di coppi-ahiahi! La pianto, la pianto!»

Kumi smise di colpirlo solo quando si arrese alzando le mani. «Cretino! Sputa fuori cos’hai combinato e possibilmente senza battutacce!»

Shuzo si tirò più indietro, fino ad appoggiarsi al bancone di fondo, dove c’era la Cimbali. Cincischiò con il bric del latte, finse di voler sistemare una postazione che era già a posto.

«Ho reagito male per una cosa che ho saputo ieri, e me la sono presa un po’ con chi capitava a tiro…»

«Mamoru?»

«Anche.»

«Ti sei arrabbiato per un motivo valido?»

«Sì. Ma avrei dovuto prendermela con chi lo meritava, non con gli altri.»

«Capita di perdere le staffe e diventare intrattabile. Ma l’importante è ammetterlo e scusarsi, senza aspettare che siano gli altri a fare la prima mossa. Se sbagli, devi farla tu.»

«L’ho fatta.»

«E Mamoru ti ha perdonato?»

Annuì, Kumi si strinse nelle spalle.

«Allora smettila di stare col muso e rimuginare. Se Mamoru ci ha messo una pietra sopra, sai che è così. Non è un tipo che porta rancori. A meno che…» Kumi si avvicinò, alzò la testa per guardarlo meglio negli occhi. I suoi, due belle castagne lucide appena uscite dal guscio, avevano quel modo di scrutarlo, quando era così vicina, che aveva un po’ del paranormale. Gli aveva raccontato, una volta, di discendere da una famiglia di veggenti e Shuzo non aveva mai pensato che fosse matta per questo. «Chi ti ha fatto arrabbiare?»

Quella precisione chirurgica di saper fare le domande giuste, ad esempio, richiedeva o una mira da cecchino o, in alternativa, un sesto senso da fattucchiera.

«Quando le cose vanno male la risposta è solo una, Spydey

«Che ha fatto tuo padre?» sospirò Kumi.

«Non saprei: esiste?»

«Bene, perché a questo c’è rimedio: puoi mandarlo al diavolo ogni volta che se lo merita. Ma se non esistesse, Shuzo…» gli poggiò una mano sulle braccia che aveva incrociato al petto, e in quei begli occhi che tutto sembravano vedere, compreso l’invisibile, calò una leggera malinconia. «…allora non potresti fare niente per rimediare alla mancanza. Questo dovresti saperlo.»

«E tu dovresti sapere come si è comportato con me. Perché ne parlate tutti come se dovessi giustificare quello che ho passato a causa sua?! Mi sembra di essere tornato indietro di vent’anni, cazzo!»

Con un gesto stizzito si gettò lo straccio sulla spalla. Il vecchio livore risaliva, lo stesso che il giorno prima credeva d’esser riuscito ad acquietare stringendosi a Mamoru, ma che la notte lo aveva tenuto agitato. Era sempre lì, non voleva andarsene. Lui era in bilico per intero tra un’accettazione che non riusciva a digerire e un rifiuto totale che aveva ben chiaro ma non riusciva ad applicare. Li sentiva dibattersi prepotenti in egual misura e lo confondevano, lo arrabbiavano. Tutto era alimento per la rabbia: i silenzi di suo padre, la propria indecisione, l’invasione dello spazio personale, la paura che non fossero le ennesime bugie.

Sull’ultima si irrigidì.

Non aveva mai pensato alla paura in maniera così consapevole. E non gli piacque.

Kumi continuava a parlare, ma lui aveva perso già il filo del discorso tra i pensieri che si rincorrevano. Sentiva le orecchie calde all’improvviso; l’agitazione che si manifestava nel suo corpo con piccoli segnali.

«…con calma. Questo soprattutto. Non c’è bisogno di aggredirvi ogni volta, le stesse cose si possono dire anche senza scannarsi.»

«E qualcosa che non so la potresti aggiungere, Spydey

«Non fingere di rispondere come se avessi sentito tutto quello che ho detto. Se ne hai capito un quarto è già oro!»

Shuzo tenne il mento sollevato per un istante, ma una sghignazzata gli esplose letteralmente in bocca.

«E io che provo anche a parlarti seriamente. Perché spreco il mio tempo?»

La ragazza raggiunse di nuovo la postazione di confezionamento lasciandolo a ridacchiare come un cretino. Shuzo sapeva di esserlo, perché non aveva alcun motivo per comportarsi in quella maniera sciocca, ma il suo sistema di difesa si era azionato ed era ironico fino al ridicolo.

«Hai appena detto qualcosa di stupido che non vorrò sapere?»

Mamoru fece capolino in quel momento uscendo dalla porta a spinta che separava il locale dal retro. Aveva un’aria più riposata e Shuzo si tranquillizzò un pochino.

«Il nostro socio è idiota», rimbeccò Kumi dalla postazione di confezionamento.

«Grazie per la notizia dell’ultim’ora, piccoletta.» Mamoru guardò verso di lui e il suo primo istinto fu quello di distogliere lo sguardo. Ora non era più brillo come la sera precedente, e la vergogna per come si era comportato era più forte di ogni stupidità.

«Avresti potuto svegliarmi, non c’era bisogno che aprissi tutto da solo.»

«L’ho già fatto altre volte, non è un problema. Tu eri a pezzi, avevi bisogno di dormire ancora un po’.» Rimase a rigirare lo straccio per qualche minuto, lanciando occhiate disinvolte alla sala e ai clienti che, pacifici, continuavano a consumare le loro ordinazioni della mattina. Non era neppure mezzogiorno, per la pausa pranzo c’era ancora tempo. Lo sguardo ricadde sui nonni che continuavano a fissarlo con insistenza. Lui assottigliò le palpebre e si portò indice e medio agli occhi per dire ‘vi osservo mentre mi osservate’.

«Puoi venire un momento in cucina con me?»

La voce di Mamoru gli si appoggiò contro l’orecchio e lui girò appena il viso, inquadrando solo una parte del suo corpo, ma non il viso.

«Che c’è?»

«Vieni e basta.»

Mamoru chiese a Kumi di occuparsi del locale mentre loro sparivano oltre la porta a spinta.

Dall’altra parte, la veranda era aperta e l’aria calda di giugno era quel soffio piacevole che ti faceva stare in pace col mondo, pieno di profumi.

Shuzo si sentì afferrare alla vita dalle braccia di Mamoru, e l’attimo dopo era chiuso nel cerchio protettivo del suo abbraccio.

«Che succede?»

«Dimmelo tu. Credevo che ieri avessimo chiarito.»

«Infatti.»

«E allora perché non mi hai neppure guardato in faccia quando sono arrivato?»

Shuzo sospirò. Gli affondò la mano destra nei capelli; la sua testa poggiata sulla medesima spalla. Mamoru aveva il profilo che gli sfiorava il collo, il naso lo accarezzava con dolcezza e le labbra lasciavano baci sotto l’orecchio e nella parte d’incavo vicino alla clavicola. Piccoli brividi li seguivano appena ne lasciava uno, e il calore arrabbiato sfumava in uno che lo faceva sentire amato e protetto.

In quel momento, realizzò che invece era stato lui a non riuscire a proteggere chi amava da sé stesso.

«In passato hai fatto di peggio.»

«Questo non mi consola, gioia.»

«Ma non voglio nemmeno che ti abbatta.» Mamoru lo convinse a voltarsi. Dai fianchi, le mani gli presero il viso, glielo tennero alto. Tuffarsi nell’oscurità accogliente dei suoi occhi lo fece sentire a casa subito. Non era mai esistito, per lui, un buio così familiare in cui non si sentisse minacciato. «Col tuo carattere ci sono venuto a patti fin da subito. Lo conosco, so affrontarlo. E ti amo per quello che-»

Shuzo gli rubò le ultime parole. Le mangiò, per tenerle sempre con sé. Prendere acqua, restituire fiato, toccargli il collo con una mano e con l’altra la schiena. Vicino, sotto le dita, e poi guardarlo di nuovo negli occhi e continuare a sentirsi a casa.

«Credevo di essere io quello masochista, ma sotto sotto anche tu…»

«Il masochismo ha tante facce.» Mamoru sollevò un sopracciglio e lui sorrise. Lo abbracciò come non aveva fatto quando si era svegliato.

«Non ti ho salutato come si deve questa mattina», sussurrò nei suoi capelli. «Buongiorno.»

«Nh, per questo dovrai impegnarti di più se vuoi essere perdonato.»

«Non credo che quell’impicciona della Spydey approverebbe se cercassi di farmi perdonare sbattendoti sul tavolo della cucina… Ha borbottato qualcosa sul fatto di non voler sapere le nostre porcate, quindi…»

Sghignazzò nel momento in cui la porta a spinta veniva aperta con un colpo secco. Malerba si girò e proprio Kumi fece capolino sulla soglia, tenendo il battente con la mano.

«Shuzo, devi venire subito di là», disse con urgenza. «C’è tuo padre.»

Il corpo ebbe un moto involontario, un sussulto che lo irrigidì e lo fece staccare bruscamente da Mamoru. Lo sguardo fisso sul battente che smorzava l’oscillazione poco alla volta fino a fermarsi. Il calore della collera era tornato a salire, ricordandogli che la tregua, nella battaglia contro Akio, era esistita solo quando era scappato di casa, ma ora non era più disposto a essere lui quello che si allontanava, che abbandonava il campo e firmava la resa. Lui era lì per restare. Ci aveva messo così tanto a riguadagnare un posto in cui potesse sentirsi accolto, che se c’era qualcuno che doveva togliersi di mezzo, quello era Akio.

Mamoru lo afferrò per un braccio appena partì a passo di carica.

«Sei ancora convinto di quello che vuoi fare?»

«Ieri per colpa sua ho perso la testa, sono tornato indietro a quasi dieci anni fa, ho litigato con te, ho litigato con mamma. Sì, certo che sono convinto. Non ho bisogno di un padre.»

Ma nel dirlo, tra il ridestarsi del cannibale che scrocchiava le dita e sgranchiva le gambe, avvertì l’eco di un’altra sensazione. Aveva una dolenza vecchia che per tutto questo tempo si era annidata nei ricordi del bambino che era stato. Sembrava impossibile che facesse male come allora, eppure, nello spingere la porta avvertì distintamente qualcosa stirarsi dentro, fino al limite. E poi strapparsi, come quando saltava un bottone o il punto di una camicia. Uno strappo piccolo quanto la capocchia di uno spillo, ma dentro al quale, se ci avesse messo l’occhio, forse avrebbe potuto vedere il buco nero che celava dall’altra parte.

Vide subito suo padre che parlava con Kumi tra il banco del confezionamento e l’ingresso. Quando Akio lo notò, smise di parlare con la Spydey e si tese ancora di più di quanto già non fosse di suo. Aveva sempre la solita presenza rigida, dalla schiena dritta che lo faceva sembrare un ostacolo impossibile da abbattere. O, almeno, quando era stato bambino a lui era sembrato così. Ma poi l’immagine di quanto accaduto nell’izakaya si sovrappose alla figura che aveva davanti e vide quanto quell’imponenza fosse meno spaventosa e rigida, più curva.

La prima volta che aveva capito che suo padre era invecchiato era stato durante l’esecuzione di Daidouji. Se l’era trovato accanto, con i suoi colori ingrigiti, con le sue rughe profonde. Anche adesso erano così, e si era aggiunta qualche macchia sulle mani la cui pelle sembrava più sottile, attorno alle ossa; raggrinzita.

Akio era vecchio, lo scoglio spaventoso era una roccia sbeccata dalle erosioni del vento e delle acque, le sue, sempre in burrasca contro di lui, sempre desiderose di abbatterlo. Ebbene, ormai gli mancava solo un colpo e l’avrebbe visto finalmente colare a picco.

Si fermò accanto a loro, incrociando le braccia al petto. Adesso era lui a ergersi dritto e solido. Si augurò anche spaventoso.

«Sto lavorando», esordì guardandolo fisso. Kumi si dileguò in un attimo.

«Sì, lo so. Forse avrei dovuto avvisarti.»

«E quando mai lo fai?»

«Volevo solo scambiare due parole con te. Puoi concedermi dieci minuti?»

Lui sbuffò sarcasmo; tra le mani sentiva il manico del coltello, era suo e l’avrebbe stretto forte per affondare meglio il colpo. «Sono anche troppi. Te ne concedo cinque, ma non qui. Esci e aspettami nel vicolo dove c’è il retro del Kokoro. Ti raggiungo.»

Non gli importava che avesse o meno capito, Shuzo gli volse le spalle e tornò sui propri passi. Non cercò lo sguardo di Mamoru quando rientrò dietro al bancone. Anzi, a dirla tutta, non cercò lo sguardo di nessuno, perché quando si trattava di lui e Akio lo scontro era sempre a due: non esistevano alleati, ma solo loro. Però sentì i passi di Mamoru seguire i suoi quando andò nel retro e uscì in veranda.

«Avreste potuto parlare qui fuori. Non c’era bisogno di mandarlo nel retro.»

Shuzo saltò giù dall’engawa e infilò le scarpe da ginnastica, senza neppure allacciarle, ma facendo sparire le stringhe ai lati della scarpa.

«No. In casa mia non ci deve entrare. Non è più il benvenuto.»

«Shuzo, pensaci bene…»

«Avevi detto di essere dalla mia parte e di aver accettato la mia scelta, ieri. Hai cambiato idea?»

Mamoru, in piedi accanto alla colonna, emise un lungo respiro a labbra strette, affondando entrambe le mani nei capelli. Poi si accoccolò sui talloni e lo guardò accigliato.

«No. Sono sempre dalla tua parte, ed è proprio per questo che vorrei che ci pensassi ancora un po’, prima. Rischiate di non tornare più indietro.»

«E quando mai noi siamo andati avanti? A conti fatti, siamo sempre rimasti allo stesso punto, solo che ora sono io quello che rifiuta e lui quello che verrà rifiutato.» Sollevò le spalle, dentro non voleva sentire niente. «Vediamo se finalmente capisce cosa ho provato per tutti questi anni.»

Raggiunse il cancelletto, lo aprì. Akio era già fuori che lo aspettava, con le mani infossate nelle tasche dei pantaloni del completo grigio scuro. L’aveva sorpreso a compiere un circoletto su sé stesso che interruppe subito quando lo vide.

Fai quello che devi fare, quello che hai sempre voluto. Fallo e basta.

Il cannibale si leccò le labbra, frugò con precisione nel suo petto fino ad afferrare il nodo di radici tutto aggrovigliato. Lo studiò, lo soppesò e infine, con un gesto secco, lo strappò via.

 

Si era precipitato al Kokoro con la fretta di doversi spiegare, ma quando si era trovato davanti suo figlio, per un attimo aveva pensato che fosse meglio fare dietro front e andarsene. Shuzo, la sua figura per intero, lo aveva iniziato a respingere dal momento in cui si erano trovati insieme nel locale. Aveva avuto un ricordo spiacevole, di quando si era presentato lì e suo figlio era appena uscito di prigione. Era stato così sicuro di sé, così confidente nei propri mezzi e nelle proprie convinzioni. Era stato il vecchio Akio, quello che non voleva capire né vedere e pensava di essere dalla parte del giusto.

Ora sapeva quanto fosse stato nel torto e aveva perso tutta la sicurezza. Shuzo gliel’aveva rubata fino all’ultima goccia per usarla contro di lui.

Akio aveva le mani che gli sudavano nelle tasche e la quasi certezza che non sarebbe riuscito a spiegarsi né farsi capire come sperava, ma era disposto a rischiare lo stesso. Arrivato a quel punto, che senso avrebbe avuto tirarsi ancora indietro?

Avrebbe avuto davanti suo figlio, non un mostro.

E dire che una volta, quando l’aggressività di Shuzo era iniziata a emergere con tutta la forza, aveva pensato davvero che suo figlio lo fosse. Un mostro terrificante dai denti aguzzi che avrebbe divorato tutta la loro famiglia. Li avrebbe azzannati alla gola, squarciato le pance, mangiato le viscere. Come un cannibale insaziabile che distruggeva non per fame, quanto per il puro desiderio di fare terra bruciata. Aveva avuto paura di suo figlio, della sua diversità e allora aveva iniziato a combatterlo con tutti i mezzi a disposizione per non farsi sopraffare, perché quel figlio giorno dopo giorno si allontanava dalla somiglianza con sé stesso che aveva desiderato. Si allontanava e trasfigurava in qualcosa di incomprensibile e violento. Davvero, un mostro.

Solo ora aveva capito di averlo creato lui e che il mostro che vedeva in Shuzo era solo quello che era stato in prima persona. Anche per questo motivo non se ne sarebbe andato. Akio di suo figlio non ne aveva più paura. Però quando lo vide uscire dal cancello sul retro si sentì chiuso con le spalle al muro, con tutte le colpe messe in fila da un lato e dall’altro.

Strinse con forza le chiavi della macchina che aveva nella tasca. La seghettatura dell’acciaio iniziò a incidere il segno nella carne.

Shuzo era ben dritto e con le braccia conserte. Una struttura fisica ampia messa in risalto dalla postura. Anche in quello Akio si rivedeva, nell’usare la propria fisicità per imporsi sugli altri, ben prima dei gesti, degli sguardi o delle parole. E gli occhi di suo figlio erano di pietra. Il colore e la forma che richiamavano la mitezza di quelli di Yumeko e Yuzo erano piegati alla volontà di chi li portava, una volontà forte e spietata. Il cannibale-bambino che aveva ricordato era diventato uomo da molto tempo e aveva imparato a usare tutte le armi di cui egli stesso lo aveva dotato.

Akio non si mosse da dov’era, anche se avrebbe voluto fare un passo in avanti, ma la forza con cui Shuzo gli si opponeva lo teneva a distanza; era il loro muro dalle pareti trasparenti. Lo aveva scoperto alla famosa prima cena con i genitori di Mamoru, tutti insieme allo stesso tavolo non capitava da così tanti anni che ne aveva perso il conto. Era stato emozionante, era stato sfiancante ed era tornato a casa con una speranza che non avrebbe mai creduto di poter afferrare, un’opportunità. Ma ora, quel muro gli diceva di essere così spesso che per quanto potesse vedere attraverso, non c’erano più spiragli per passare. Quello che aveva trovato e custodito si era richiuso e lui aveva peccato di prudenza e paura.

«So che hai visto la serra e che hai saputo del-»

«Di quello che ti sei messo in testa o di quello che vuoi dimostrare non me ne fotte un cazzo, ma tutto quello che fai distrugge quello che sto costruendo. E non te lo permetto.» Shuzo calò il primo colpo d’ascia alla base delle sue gambe senza neppure dargli modo di prepararsi a riceverlo. «Ieri ho litigato con Mamoru per colpa tua, ci arrivi? Per la tua stronzata di voler… cosa? Dedicarti alle piante? Fare ikebana? Non te n’è mai fregato un cazzo.»

«Non c’era motivo per cui litigaste, stavo solo cercando di-»

«Qualunque cosa fosse cercavi male.»

«Ascolta. Capisco che tu possa essere arrabbiato.»

«No, tu non capisci un cazzo, papà! Non hai mai capito un cazzo di niente di me da che sono venuto al mondo!»

«Lo so che in passato ho-» Akio si fermò da solo e vide anche Shuzo storcere una smorfia di disappunto verso il pavimento. Entrambi lo avevano sentito. «Mi hai appena…»

«È stata solo una fottuta abitudine del cazzo! Lo vedi? Capisci solo quello che ti fa comodo!» s’arroccò Shuzo, indietro di un passo e lui venne avanti.

«Mi hai sempre accusato di non aver fatto nulla per te e ora sto cercando di fare del mio meglio. Se solo provassi a fidarti, per una volta.»

«Nessuno te lo ha chiesto, perché quel tempo è passato! Che ti interessi alle piante adesso non cambia niente! Era allora che avresti dovuto farlo! Era allora che ti saresti dovuto esporre per me! Che avresti dovuto difendermi! Ora non ne ho più bisogno.»

«Lo so, io volevo solo-»

«Cazzo, non è quello che vuoi tu, ci arrivi?!» Shuzo allargò le braccia nel vento e il passo indietro che aveva compiuto per un istante divennero altri tre in avanti.

Così vicini…

«È quello che voglio io! Per una volta, è quello che voglio io! E io non ti voglio nella mia vita, come te lo devo dire?! C’ho provato, ho cercato di digerire la tua presenza in qualsiasi modo. L’ho fatto per la mamma e l’ho fatto per Yuzo, ma, ehi!, non funziona. Perché mi urti. E mi urta quello che fai, quello che pensi e quello che dici perché è falso! Tu sei falso dalla testa ai piedi e pretendi pure la mia fiducia?! Tu?! Merda, sei completamente fuori di testa!»

…e alla distanza del sole.

Akio si sentì mancare ogni concretezza da sotto ai piedi, a partire dalla terra. E dov’era finito il fiato? Era così corto, adesso, come lo stoppino d’una candela consumata. Si era consumato anche lui, in poche parole e in quegli occhi di pietra che dicevano che non c’era spazio per venire perdonato, non c’erano possibilità. Forse non c’erano mai state dal principio.

«Almeno… ascoltami…»

«Perché dovrei? Per anni ho sperato che fossi tu ad ascoltare me, a chiedermelo almeno una volta. Perché dovrei renderti il favore, adesso? Piuttosto, se davvero vuoi fare qualcosa per il sottoscritto: vattene e non tornare. Per davvero però. Qui non ti ci voglio. C’abbiamo provato, non è andata. Così è la vita, Akio, non si può vincere sempre. Accettalo e basta.»

La semplicità di un’alzata di spalle, la noncuranza nel tono di voce, gli occhi freddi come la terra profonda che non era baciata dal sole. Di rovente c’era solo la rabbia di suo figlio covata a lungo, di rovente c’era il sogghigno del mostro che aveva fatto crescere, dentro di lui, e poi aveva abbandonato a sé stesso. Si era preso la vendetta che si era meritato e a lui non era rimasto più niente.

Akio sentì il calore fluire via dal corpo con la velocità di un velo che scivolava a terra. Dalla testa verso i piedi sentì freddo, e il cuore accelerare, accelerare, accelerare. Stava arrivando e ormai aveva imparato a riconoscerlo.

In bocca aveva la colla, le frasi restavano parte di un amalgama che non riusciva a ingoiare. Era bloccata nella gola, diventava di piombo. Fece un passo indietro e l’appoggio del piede era incerto.

L’attacco di panico stava arrivando come lo ricordava e quando vide suo figlio stringere appena gli occhi decise che non si sarebbe fatto sorprendere davanti a lui da tutte le proprie debolezze accumulate.

Shuzo avanzò di mezzo passo, lui si tirò dritto con la volontà che gli era rimasta, rigido e severo come un tempo. L’ultimo equilibrismo della sequoia prima di cadere.

«Akio…?»

«Sì, hai ragione. Non è andata, non funzioniamo. Non funzioniamo affatto. Abbiamo solo perso tempo», disse in fretta, anche se nella testa continuava a ripetersi una tiritera che aveva una voce sconosciuta.

Non è il tempo a perdersi…

Erano loro.

Si erano persi da troppo e forse ne sarebbero venuti fuori, ma non era detto che dovessero farlo insieme. Shuzo, di sicuro, aveva già trovato la sua strada. Akio, invece, sarebbe rimasto lì a cercarla ancora.

Sentì la faccia contrarsi in un’espressione che riconobbe innaturale. Aveva un sorriso a tirargli la bocca, ma non uno qualunque. Doveva far valere la presunzione della propria recita, doveva crederci egli stesso almeno un po’ per sperare che ci credesse anche suo figlio. Quindi si tese tutto, perché il corpo era il primo mezzo dell’attore per trasmettere un’emozione e lui doveva dire a Shuzo che non importava se l’aveva rifiutato e che, anzi, gli aveva fatto un favore così poteva smetterla con la pantomima del provare a cercare un punto d’incontro. Tanto, sotto sotto, neppure lui l’aveva mai voluto davvero, lo stava facendo per sua moglie e per Yuzo; proprio come Shuzo.

Il gioco infantile di uno specchio riflesso.

Shuzo strizzò gli occhi assieme al disprezzo sprigionato dallo sguardo e Akio non rimase a fare da bersaglio. Gli volse le spalle e aveva le budella ritorte e i brividi nella schiena, sotto ai denti. Sudore freddo nei palmi delle mani, sulla fronte, attorno al collo. Si allontanò dal vicolo a passo sostenuto e ogni sforzo era proiettato a camminare, mettere un piede dietro l’altro e mantenere l’apparenza della propria rigidità e sicurezza. Non importava se sentisse le gambe sgretolarsi come fossero di sabbia asciutta. Tolse le mani dalle tasche per darsi spinta e bilanciamento. Le apriva e chiudeva, erano intorpidite. Tutte le sue appendici erano un formicolio di non detti, quelli taciuti con Shuzo erano precipitati nelle mani e nelle gambe, assieme alle ultime speranze che lo avevano spronato negli ultimi mesi, anni.

La macchina era parcheggiata all’altro lato della strada, vi salì senza mai guardarsi indietro. Le chiavi già tra le mani che iniziavano a tremare vistosamente, ma non da chi era fuori dal suo spazio chiuso e protetto.

Akio si disse di tenere duro, sarebbero bastati pochi metri, anche solo arrivare alla fine della strada. Eppure, riuscì per miracolo ad andare anche oltre, guidando grazie alla meccanica dei propri ricordi che lo facevano muovere anche senza ragionare. Nel percorso allentò la cravatta, spuntò la camicia, respirò a bocca aperta. Poi, nella prima stradina isolata, costeggiata solo dai cipressi e che neppure sapeva dove portava, accostò e spense il motore, lasciandosi andare contro il seggiolino. Il viso al tettuccio, gli occhi chiusi, la bocca spalancata.

La lunga guerra con Shuzo si poteva dire finita, ma nessuna pace era stata siglata, solo una resa, la sua, incondizionatissima.

Ora poteva lasciare al panico tutto lo spazio di cui aveva bisogno.

Aprì gli occhi a mezz’asta e si riversò in avanti, senza più un briciolo di forza. La testa appoggiata al clacson che suonò a lungo la sua unica nota, perdendola nel nulla.

 

Gaho l’aveva guardato per tutta la durata della lezione. Gli occhi fissi su di lui e nessun altro. Non aveva neppure gironzolato tra i banchi per mettere mano alle composizioni degli altri allievi. Aveva fissato Akio Morisaki e non aveva capito cosa fosse accaduto.

Perché che fosse successo qualcosa era palese.

Quell’uomo l’aveva colpito fin da subito e non l’aveva mai visto così soffocato dai propri pensieri come in quel momento. Il caos che aveva cercato di addomesticare – anche con ottimi risultati – gli era esploso tra le mani e non sembrava più in grado di rimetterne i pezzi in fila. Il suo sguardo era vuoto di tutto. Il caos poteva fare anche questo; la confusione e il suo contrario sapevano essere figlie di uno stesso padre.

«Riko!» Joji riprese lo zelante nipote che aveva cercato di parlare al signor Morisaki e gli fece intendere di non disturbarlo con una rapida sgrullata di capo. Tutti sembravano essersi accorti della differenza, mentre Akio continuava a fissare, come in trance, il vaso che aveva davanti. Non lo aveva neppure toccato e Gaho pensò che non lo vedesse affatto: lo fissava, si passava una mano sul mento e poi sulle labbra e non faceva nulla che non fosse guardare. Come non avesse avuto altra scelta, come avesse esaurito le idee e sé stesso.

Attorno, il chiacchiericcio era animato e un po’ perplesso, ma solo il trillo penetrante della campanella riuscì a forare la barriera che Morisaki aveva eretto. Quasi saltò dalla sedia e si guardò attorno, confuso dal posto, dal momento, dalle persone. Infine, fissò ciò che aveva davanti e sprofondò il viso in entrambe le mani, sfregandolo in fretta.

Sia Morisaki che Gaho attesero che gli altri fossero usciti per fare le rispettive mosse.

Akio afferrò la giacca abbandonata allo schienale della sedia e poi la cartella del lavoro che non scordava mai di portare.

«Ci sono giorni in cui creare non è una buona idea», disse Joji, fermandolo tra i banchi.

«Sì, ho… Mi sono distratto.»

«Potrai lavorarci la prossima volta.»

«Non credo ce ne sarà una.»

Gaho si accigliò; Akio aveva di nuovo la rigidità del primo giorno o, almeno, cercava di imitarla ma era un qualcosa di stridente e artificioso.

«Ho parlato con tuo figlio l’altro giorno.»

«L’ho saputo.»

«Perché non gli hai detto che sei mio allievo?»

«È una lunga storia.» Akio accennò un sorriso, mentre guardava lo spigolo del tavolo su cui aveva poggiato la mano. «Il succo è che non sapevo come fare. Non sono mai stato capace di parlare con lui, e così ne pago le conseguenze, cercando da solo le risposte.»

«Non sempre le cose si debbono fare da soli.»

«A volte è necessario.» Akio alzò lo sguardo. «Comunque non mi sembrava di averti detto che Shuzo Mori fosse mio figlio.»

Joji si strinse nelle spalle e sorrise. «Non ce n’era bisogno. Si vede.»

«Davvero?» Gli occhi di Akio ebbero un guizzo di orgoglio, ma poi ricomparve l’accenno di sorriso nelle labbra. Anche in quello si assomigliavano, era una smorfia particolare che Gaho aveva visto spesso sul volto del sensei Mori, solo più storta e sicura di sé. «Non dirglielo, non gli farebbe piacere.»

Morisaki lo superò accennando un saluto col capo, che chinò subito dopo. La sua altezza piegata sulla sommità delle spalle da un peso che non si vedeva, ma che doveva essere pesante. Joji era stato convinto di averlo aiutato ad alleggerirlo e ora era tornato.

Quanto poco conosceva di Shuzo Mori come persona e quanto invece poteva capire del suo spirito attraverso i suoi lavori era incredibile; tra le due realtà c’era un abisso che solo la comparsa di Akio Morisaki gli aveva fatto scoprire. Del sensei della KadouEnshu sapeva briciole del passato – l’aspetto più chiacchierato di tutti, quello della galera – ma solo ora stava scoprendo che c’era moltissimo altro rimasto sepolto. Un diverso cognome, vecchi rancori sospesi tra padri e figli.

«Che è successo, Akio?»

Sulla porta, Morisaki si volse e guardò verso i rami e i fiori abbandonati sulla cattedra, inspirò a fondo e Gaho lo imitò. L’odore delle foglie e dell’acqua era forte, l’odore dei fiori. Per lui era familiare come quello del caffè, ma per Akio cos’era diventato?

«Credevo che dopo averle detestate così tanto, le piante potessero darmi le risposte che stavo cercando. Potessero unirci, anche se ci avevano diviso. Invece hanno solo terminato il lavoro iniziato anni fa o, forse, mi hanno aperto gli occhi su quella verità scomoda che non volevo vedere: per quanto profonde, tutte le radici possono spezzarsi, se si colpisce il punto giusto.» Morisaki si volse, poggiò una mano sullo stipite. «Ti ringrazio del tempo che mi hai dedicato e delle cose che mi hai insegnato, sensei. Penso che da ora in avanti continuerò da solo.»

Akio Morisaki se ne andò così, vestendo la stessa sconfitta con cui era arrivato. Era come un cappotto vecchio, ma confortevole, che cadeva bene nei punti giusti però aveva il fondo delle tasche bucato. Ti ci affezionavi, si instaurava del sentimento, dei ricordi e anche se sapevi di doverlo buttare, lo tenevi con te, perché avevi provato a cambiare ma non ne avevi guadagnato nulla.

Vecchio cappotto, vecchi rami. Una composizione ormai sfiorita.

La morte che moriva una seconda volta.

Gaho raggiunse la porta dopo che Akio fu uscito, guardò verso la sua figura di spalle che si allontanava solitaria per i corridoi silenziosi della scuola. Avrebbe voluto dirgli qualcosa che potesse lenire la delusione che gli aveva letto negli occhi, ma non sarebbe servito, perché non l’avrebbe accettato; era un tipo orgoglioso, proprio come il figlio. Come aveva detto, le risposte doveva trovarle da solo e magari dopo lo sconforto o nel mezzo dello stesso, sarebbe riuscito a capire.

«Le piante rinascono anche nei deserti, Akio Morisaki. Ma solo se sanno aspettare la pioggia.»

 

“Combattiamo, tutto il tempo,

tu e io, va bene.

Siamo la stessa anima.

Non ho bisogno… non ho bisogno di sentirti dire

che se non fossimo così simili

ti piacerei molto di più.

 

Ascoltami adesso,

ho bisogno di farti sapere

che non devi andare da solo.

 

E sei tu quando guardo nello specchio.

E sei tu quando non rispondo al telefono.

A volte non puoi farcela da solo.”

 

Sometimes you can’t make it on your own – U2

 

 


 

 

Note Finali: …e boom. Il cannibale ha dato fondo al rancore represso, si è preso la rivincita e Akio non può far altro che raccogliere tutti i cocci che ha disseminato negli anni. Ha provato a fare le cose giuste, ha provato a trovare un modo per farsi perdonare ben sapendo che avrebbe ricevuto un rifiuto… ma alla fine non è stato preparato lo stesso.

Shuzo lo ha messo alla porta.

Lui ha potuto solo andarsene.

E i ruoli si sono invertiti per una volta e fanno malissimo. Ora anche Akio sa cosa si prova a stare dall’altra parte.

Ma c’è rimasto ancora un capitolo.

Ci vediamo alla fine :*

 

 

   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Captain Tsubasa / Vai alla pagina dell'autore: Melanto