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Autore: beavlar    16/07/2020    3 recensioni
Fili e Kili sono morti, hanno sacrificato tutto per il loro re, per la loro gente, ora anche Thorin dovrà rinunciare a tutto, ai suoi pregiudizi, alle sue idee, alle sue alleanze, per il suo "tesoro" e il suo popolo.
Dall'altra parte una mezz'elfa divisa tra due razze, dovrà invece fare i conti con il suo oscuro passato, accettando se stessa e accettando accanto a se il re di Erebor.
Due animi carichi di dolore e rimorsi, in cerca del loro posto al di sotto della Montagna e al di sopra delle stelle.
Genere: Fantasy, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Thorin Scudodiquercia
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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Preghiere inascoltate




 
 







Una luna era passata dell’arrivo dei restanti della famiglia di Durin alla montagna ma tre da quando il re era tornato nella pietra scolpita e dal quale la notizia si era sparsa dalla roccia piu’ alta della montagna alle gemme piu’ oscure sotto di essa: il racconto di ciò che era accaduto nelle terre selvagge e tutto ciò che ne era scaturito al ritorno da esse.
 
La salute dell’erede al regno di Elcar.
 
La vita salvata alla sorella del re.
 
Le storie su come quello fosse stato possibile e su come fosse avvenuto erano ormai diventati racconti che inondavano ogni angolo di Erebor: l’essersi travestita della futura regina per partire con la compagnia faceva sospirare le nane e allargare il petto dei nani. Mai era successa una cosa del genere e mai sarebbe dovuta succedere, non secondo le tradizioni, non secondo ciò che era da sempre stato legge nel regno di Durin e la devozione con cui la sua discendenza seguiva queste regole.
Dalle storie e dagli annali, mai nessuno era venuto a conoscenza di un simile gesto da parte di una ‘ibinê, un gesto che pendeva sulla lama della scelleratezza e della nobiltà ed è anche per questo che brillò ancora di piu’ sotto gli occhi e che ravvivò gli animi di preoccupazione di fronte a quello che aveav portato quel gesto così divisorio. Ma il reale motivo delle intenzioni della futura regina rimaneva oscuro a tutti; non un nano osava pensare alla benché minima possibilità che potesse essere legata  qualcosa ben piu’ saldo di una alleanza tra due regni e dalla lealtà che univa quindi indissolubilmente Ghìda, figlia di Telkar a Thorin, figlio di Thràin.
 
Già prima dell’arrivo della carovana le prima storie erano cominciate a diffondersi: prima dalle caserme delle guardie, poi alle fucine, poi giù fino alle miniere tra i piccoli seggi sospesi, per poi salire per le immense scalinate e spargersi a macchia d’olio tra i vicoli dei mercati impregnando ogni pietra di Erebor; un passaparola che raccontava la verità solo a metà e chiunque conosceva solo la metà di quello che fosse realmente accaduto e di chi riversasse in quella situazione: non una regina, non una signora dei nani, non una mezz’elfa… solo una donna che aveva desiderato tutto e troppo.
 
Parlavano di come il re l’avesse portata quasi morta, dopo la fine dello scontro contro i branchi di orchi verso il piccolo accampamento che le due compagnie erano state in grado di allestire per curare i feriti, delle urla mentre il re con il capo delle guardie la tenevano ferma per bloccarle le emorragie, della situazione disperata in cui riversava subito dopo, della decisione di Thorin figlio di Thràin di abbandonare la carovana per tornare al piu’ presto alla Montagna: lanciandosi in quella che era stata una corsa disperata contro il tempo.
 
Così Tàrim aveva raccontato a sua figlia Nìm e a suo figlio Fàrim la vicenda, tentando di consolarli quanto piu’ gli fosse possibile: dopo quello che gli avevano visto fare e a come  lo avessero visto tornare a fianco del re e la loro dama.
Si erano talmente legati a lei che gli chiedevano di riportargli qualsiasi notizia da palazzo e dai turni di guardia, ma in realtà le notizie erano poche. Solo una cosa era riuscito a dire a entrambi, che era ben sorvegliata e così era: era ormai risaputo a tutte le guardie che il re da quando fosse tornato passasse le sue giornate diviso tra le sale del consiglio e quelle del trono, instancabile e ligio ai suoi doveri, ma che poi si ritirasse tutte le notti nelle stanze della futura regina. Era anche ormai risaputo tra le guardie reali l’ordine imposto per il quale ogni notizia riguardante Ghìda, anche che fosse di minimo conto, gli venisse riportata immediatamente, che fosse un risveglio lieve o qualsiasi cambiamento della sua situazione.
Ma le sue condizioni erano rimaste invariate, l’unica cosa che le guardie riuscivano a riportare al re erano lievi parole prive di significato che mormorava nel delirio della febbre, che per un elfo sarebbero state facili da comprendere; un insieme di supplice e di ricordi e di un nome: Gadril.
 
Nìm e Fàrim pur sapendo le mattine insieme ai restanti della compagnia si sedevano in attesa lungo il bordo di un immensa colonna che confinava tra l’entrata del palazzo e l’uscita verso il regno, subendo spesso delle occhiate tristi e empatiche di tutti i passanti: la sua mancanza si sentiva, le loro mattinate sembravano così vuote adesso, e la possibilità che lo sarebbero continuate ad essere irreversibilmente li faceva stringere l’uno all’altro, ripassando insieme tutto quello che avevano imparato in quell’ultimo mese con Ghìda come insegnate.
 
“Così sarà contenta quando si sveglierà e ci lascerà giocare di piu’ con le spade, magari ci insegna pure qualche trucchetto da usare contro gli orchi!”
 
Aveva tentato di tirare su il morale Lòni un giorno, motivandoli un minimo, ma la sua euforia nascondeva un’immensa preoccupazione come quella di tutti gli altri, se non maggiore: si era trovato a doverli consolare tutti, compresa la sorella del suo migliore amico, che silenziosa si raggomitolava su di lui mentre leggevano cercando un minimo di conforto quando giacevano su quel pavimento freddo.
 
Fu però quando il gruppo dei nani degli Ered Luin, con i restanti soldati della schiera di Erebor tornarono che tutte le domande dei nani della Montagna ebbero una risposta definitiva, completata dal pezzo mancante che era sfuggito a tutti sino a quel momento: per quale ragione la figlia di Telkar fosse ridota così, e a causa di chi.
Molti se ne presero la responsabilità alle prime: nelle taverne mentre si festeggiava il loro rientro, i guerrieri raccontarono, tra una pinta e l’altra, di branchi di orchi che avevano inseguito la carovana per giorni, di come li avessero avvistati nel mezzo della notte, o per chi faceva parte del gruppo con Nori, di come dopo aver cavalcato per ore avessero incontrato il gruppo in preda alla stanchezza e alla paura braccati come bestie.
Raccontarono alla luce delle candele, fissati da bocche spalancate o colme di birra, di come fossero rimasti in una conca innevata bloccati e senza possibilità di fuga e di come le frecce cominciarono a cadere dal cielo come una visione abbattendo i mannari che dalla parte opposta alla valle correvano verso di loro nella neve; infine rivelarono anche chi fosse il misterioso arciere che ne aveva uccisi a decine salvano molti di loro da morte certa.
Per molti fu difficile ammettere quella realtà, ammettere da chi fossero stati salvati, ma fu un merito che non riuscirono a toglierle in alcun modo; seppur limando alcuni dettagli non riuscirono a non ammettere che per quanto insignificante, il suo gesto aveva salvato la vita di molti nani.
 
Appena però oltre le storie dei soldati nei mercati vennero raccontate anche le vicende dai nani della carovana delle Montagne Azzurre, la vera responsabilità cadde solo sulla principessa Dìs; la futura regina si era lanciata senza protezione alcuna per salvare la sorella del re, della quale non conosceva neanche il viso: aveva rischiato di morire per una nana qualsiasi, per una nana che sarebbe potuta essere la moglie di un minatore, la sorella di un fabbro o la figlia di droghiere per quanto ne poteva essere a conoscenza.
 
E da quando la storia divenne completa ogni giorno che passava sempre piu’ occhi venivano  puntati verso il picco della montagna, schivando con lo sguardo la pietra scolpita e l’intrecciarsi frenetico delle scale e per la prima volta il popolo di Durin si ritrovò unito per alcuni attimi da un pensiero comune incentrato da una parola che non veniva piu’ pronunciata: mezz’elfa.
 
Ma ora tra le strade di Erebor regnava il silenzio: una quiete calma e sonnolenta prima dell’imminente arrivo dei primi raggi del giorno che filtrando dalle grandi finestre sulla parete della montagna, rimbalzando per il marmo lucido, avrebbero annunciato ad Erebor l’inizio di un nuovo giorno che timido tardava ad arrivare quella notte.
 
Le miniere parevano la cosa piu’ oscura e antica che fosse mai state plasmata dai Valar: il richiamo al cercare al loro interno scavando e battendo era solo un silenzioso sospiro non abbastanza forte da spingere alcun nano nell’oscurità della notte in quei fori infiniti, da dove, se richiamato a sufficienza, non ne sarebbe piu’ uscito.
I mercati nei fondi della Montagna erano addormentati: le porte chiuse a doppia mandata, le oreficerie non esponevano niente di prezioso, gelose, esibendo solo travi di legno che sbarravano le finestre; i lunghi tessuti non volteggiavano rapidi tra i vicoli scavati nella dura roccia e il lieto cantare nelle taverne avvicendato da antichi urli di battaglia non accompagnavano i piu’ fortunati nelle ore di riposo dalle consuetudini.
Nelle forge non batteva niente che non fossero le pale dei mulini e lo scorrere dell’acqua tra le loro travi che schizzando con il suo gocciolare riusciva spesso a raggiungere le fornaci perennemente accese e i fiumi d’oro che ne scorrevano accanto, frizzando e scomparendo all’istante in un fremito debole, come quelli che attraversano i petti delle guardie appollaiate come rapaci tra i terrazzi e le scale dei piani superiori.
Queste guardavano e osservavano ogni singolo movimento tra i corridoi che vista l’ora erano deserti, sperando e sognando il momento in cui sarebbero potuti tornare alle loro case  abbandonando la ronda e accogliendo invece il meritato riposo, dovuto agli ardui turni a cui erano sottoposti negli ultimi giorni.
Negli ultimi piani della montagna i silenti guardiani si alternavano ad ogni scala dall’entrata del palazzo, sotto ogni colonna e stretti nei propri mantelli trattenuti in piedi dalle immense picche che sovrastavano gli elmi squadrati, lanciando brevi occhiate attente verso l’entrata delle stanze reali dalle quali, per buona sorte, non usciva un suono: non un richiamo, non una richiesta di aiuto che erano pronti a udire ad ogni attimo.
Osservavano attenti le porte sigillate, non potendosi mai immaginare cosa stesse succedendo al loro interno, ipotizzando un sonno tranquillo per il re ormai chiuso dal tramonto nelle silenziose stanze non sue, non riuscendo però a immaginare la cruda realtà: un re stanco, abbandonato in una sedia di legno rivestita di pellicce in un lieve dormiveglia nel quale non si concedeva alto che brevi attimi di torpore, vegliando su due occhi che come le porte del palazzo, rimanevano serrati.
 
Una veglia silenziosa condivisa anche da un altro nano i cui passi risuonavano pesanti tra i passaggi sotto il palazzo, riservati ai fidati del re, oltrepassando porte sbarrate e finestre oscure dalle quali non proveniva alcuna luce se non piccole luminescenze labili delle fiamme dei camini.
Dopo la notte insonne era arrivato il suo turno di coricarsi, beandosi di qualche ora di sonno che, se Durin avesse voluto, sarebbe riuscito a protrarre fino alle ore inoltrate dell mattinata, quando quei corridoi sarebbero diventati irrimediabilmente il palco degli urli di Dori verso il fratello o la riservata stanza di addestramento nella quale Glòin esasperava l’audace figlio Gimli all’uso di asce della sua portata, che spesso si traduceva nell’uso delle proprie pulite e affilate.
 
Contò una per una, tutte le porte che segnavano sempre di piu’ l’arrivo verso la propria di casa, appartamenti alternati da immensi archi o corridoi che conducevano a molti altri, inoltrandosi ancora piu’ intricati nella roccia, girando spesso piu’ volte su se stessi creando o vicoli ciechi o percorsi fittizi che non facevano altro che delineare ancora meglio la fine di un appartamento dall‘altro. 
Mure verdi e lisce staccate l’una dall’altra solo da immensi arazzi e stendardi impennati sugli alti muri che narravano e rappresentavano la storia e i volti di chi avesse occupato prima di loro quei corridoi, e tra tutti solo lui e suo fratello poterono confermare di esserci cresciuti tra quelle gallerie.
 
Svoltò in tutto tre volte girando prima a destra e poi due volte a sinistra, prima di giungere dinnanzi alle rune che intagliavano l’arco difensore della porta scura che aveva desiderato oltrepassare ormai da diverse ore: si lasciò trasportare fino ad essa trascinandosi come un moribondo lasciandosi cadere la giornata pesante e tutta la tensione che gli si era accumulata addosso nelle ultime ore, frastagliate tra i suoi nuovi doveri, dei quali spesso non riusciva neanche capacitarsi, e gli occhi sempre piu’ buoi del Re Sotto la Montagna, che preso dalle domande su quello che fosse accaduto, non si arrestavano neanche un attimo: studiava mappe e carte, mandava messaggi, infoltiva le guardie per il palazzo, organizzava riunioni e consigli, gestendo tutti i dubbi che gli si erano presentati in quella mangiata di giorni.
 
Per quanto avessero tentato di venire a capo della vicenda di quella che poteva essere una disgrazia niente era saltato fuori: sul perché diversi branchi di orchi fossero lì, sul perché li stessero braccando, sul perché se ne fossero accorti solo in quel momento e sul perché nessuno prima di loro ne fosse stato a conoscenza.
Decine di corvi furono rinviati alle sette famiglie, ma infine, chini sulle mappe, tutti avevano raggiunto una conclusione: era stata un’infausta coincidenza. Nessuno dei sette clan, avrebbe fatto nulla al proposito, tranne i  Monti Gialli: dalle bianche scogliere di Elcar, non arrivò risposta alcuna.
 
Si chiuse la porta alle spalle lasciando un sospiro stanco oltrepassargli il petto e senza attendere oltre si lasciò andare alla porta dietro di lui con la base della schiena e si sfilò dalla testa la pesante cotta di pelle incisa lanciandola sulla sedia accanto al focolare che si trovava di fronte a lui, facendo, seppur attutito dalle pellicce sul legno, un rumore assordante del quale si pentì amaramente subito dopo; ma così come una martellata durò così poco che non ebbe neanche il tempo di pensarci a quel suo pentimento.
 
Chiuse gli occhi beandosi della porta dietro di se che gli sorreggeva la schiena, slacciando con gesti automatici le fibbie di cuoio che tenevano fermi i guanti metallici  intorno ai polsi e alle mani, per poi con strattoni veloci togliersi ogni singolo anello che tratteneva i tirapugni ancora allacciati; mantenne gli occhi chiusi anche per sbottonarsi i primi lacci della cotta di maglia prima di aprirli verso l’alloggio illuminato della flebile luce delle candele quasi del tutto consumate, la cui cera discendeva dalle lumiere inondando i muri si cui erano appese.
Con una spinta che gli costò l’ultima forza che potesse essere in grado di sprigionare, si allontanò dalla porta e avanzò verso il focolare al centro della stanza nel quale i tizzoni ormai erano diventanti altro che flebili fiammelle sepolte dalla cenere e dopo aver abbandonato sulla sedia di fronte questo i tirapugni ancora stretti nella mano, su cui già era stato gettato il gilet di pelle, si chinò per terra afferrando due ceppi da terra lanciandoli al suo interno osservando come le fiamme cominciarono di nuovo a bruciare riscaldando la stanza.
 
La tentazione di fumare o bere qualcosa divenne terribilmente allettante, ma il suo corpo non avrebbe retto oltre e sarebbe crollato prima essere riuscito a raggiungere una delle credenze o perfino il mobile infondo alla stanza per afferrare la pipa sopra di esso; si sfilò quindi la cotta di maglia che ancora teneva addosso e fece la stessa fine dei guanti e del gilet, venendo poggiata al suo fianco.
 
La stanchezza non impedì però a Dwalin di seguire le forme nelle fiamme che come un lugubre teatrino si alternavano da scene di guerra passate e i capelli fluidi e il profilo morbido e triste che infestava perennemente suoi pensieri e verso il quale non era riuscito a rivolgere neanche una parola d’affetto durante il viaggio di ritorno.
A parte qualche espressione in monosillabi Dìs neanche gli aveva rivolto la parola, conoscendolo, sapeva benissimo cosa le avrebbe chiesto, cosa avrebbe voluto dirle e come avrebbe finito per consolarla, anche se non le era mai servito.
Le sue apprensioni sarebbero state tardive, troppo: due mesi di dolore sopportato da sola, di cui lui stesso si sentiva responsabile non sarebbero state cancellate dalle sue parole per quanto lo desiderasse, per quanto bramasse di far suo quel suo dolore celato da orgogliosa e regale quale era, in un silenzio che piu’ volte lo aveva fomentato a cercarla per le sale superiori del palazzo e a stringerla a se.
Infine però ma si era ben guardato dal farlo o a pensarlo perfino rispettando la sua volontà, così come Thorin che per quello che sapeva, così come lui, aveva accettato la sua decisone, rimanendo in attesa: una attesa che sarebbe durata secoli anche, ma il dolore provato sarebbe stato per tutti molto piu’ lungo di qualche maledetto secolo.
 
Temeva il giorno in cui Fili e Kili sarebbero diventati solo un ricordo, riducendoli solo a degli eroi caduti e sgretolando davanti agli occhi di tutti cosa erano davvero stati: figli, nipoti, amici, perché la loro presenza purtroppo era sempre troppo presente negli animi di tutti.
Ori delle volte si girava per parlare dietro di se, convito di trovare Fili pronto a cercare l’approvazione dell’amico, suo fratello bloccava le frasi a metà quando parlava di loro, Glòin aveva impiegato giorni a spiegare a Gimli cosa gli fosse accaduto e lui stesso stentava a ricordare quasi i suoi visi.
 
Poggiò entrambi gli avambracci sulle ginocchia piegate e socchiuse gli occhi per immaginarseli tra le fiamme e ci riuscì e quando lo fece se ne pentì amaramente: li rivide entrambi, a casa di Bilbo, seduti un accanto all’altro a tirarsi occhiate e ginocchiate sotto il tavolo incoraggiando gli altri a partire, piu’ entusiasti di tutti i presenti messi insieme, guardando Thorin in una maniera che non sarebbe mai riuscito a togliersi dalla testa.
Lo avevano sempre guardato così: pieni di orgoglio per essere suoi nipoti, pieni di onore e rispetto per il sangue che gli scorreva nelle vene, pronti a tutti pur di dimostrargli di essere degni di questo; tenevano a lui in una maniera a cui solo un padre poteva aspirare.
 
Abbassò lo sguardo verso il tappeto lasciandosi sfuggire dalle labbra un un’esalazione angosciante quando un misto di parole e gesti gli tornarono alla mente.
 
 
“Signor Dwalin, la prossima volta che voi e lo zio andate ai Colli Ferrosi ci portate con voi?”
 
“Si si, per favore come dice il fratellone, vi prego, vi prego ,vi prego.”
 
“Dovete chiederlo a vostra madre”
 
“A-mad, a-mad, possiamo, possiamo?”
 
“Solo se filate dritti a coricarvi nei prossimi due minuti, e attenti che conto.”
 
“Chi arriva per ultimo puzza di troll!”
 
“Non vale Fili aspettami! Ricominciamo!”
 
“Li lascerai davvero venire con noi? So che non è un’idea che ti aggrada, ti conosco da troppo.”
 
“Se ci sarai tu sono ben sicura che ritorneranno a casa senza un graffio o perfino un capello sporco, e sai anche che se succedesse tu saresti il primo a incappare nella mia collera Dwalin figlio di Fundin.
 
“Incapperei anche nell’ira di tuo fratello mia signora.”
 
“Temi piu’ me o il Thorin Scudodiquercia?”
 
“Se la metti in questo modo credo che la risposta sia ovvia, principessa.”
 
 
Scosse la testa per scacciare quei momenti dalla sua mente: doveva smetterla di crogiolarsi nei ricordi, non sarebbe servito a niente, solo ad aprire una ferita che in verità non si era mai richiusa, ma che con il suo arrivo Dìs aveva reso ancora piu’ sanguinante e dolorosa.
 
Si alzò da terra dandosi una spinta con le mani e decise che era meglio lasciar perdere tutto e abbandonarsi alle soffici pellicce sul letto che da quando era entrato lo richiamavano incessabilmente offrendogli una buona motivazione per seppellire il dolore nella vaga possibilità di un sonno sereno.
 
Avvicinandosi verso grandi passi verso il letto infondo alla stanza portò le mani dietro le spalle pronto a togliersi la  camicia lurida indossata per tutto il giorno, ma un bussare lieve alla porta lo paralizzò a metà dell’ opera con la schiena scoperta che si irrigidì al rumore che a malapena era sicuro di aver udito.
Lasciò il tessuto verde cadere di nuovo giù sulla su schiena girandosi su se stesso per osservare la porta di casa appizzando le orecchie; forse aveva sentito male, ma il rumore si ripresentò leggermente piu’ alto di prima: tre battiti netti contro il legno scuro della porta così flebili comunque che gli fecero subito scartare l’idea che ci fosse un’emergenza o che inavvertitamente avesse osservato così a lungo le fiamme che era già giunto il mattino.
Confuso osservò la porta per qualche istante prima di incamminarsi verso di essa cominciando a scartare come prima tutte le possibilità remote che potevano aver spinto chiunque fosse a bussare alla sua porta a quell’ora; e quando finalmente abbassò la maniglia della porta e guardò fuori capì che non sarebbe mai riuscito ad arrivare alla risposta neanche se avesse usato tutta la sua piu’ fervida immaginazione.
Spalancò la bocca stringendo la maniglia con una tale forza da far formicolare la mano e sentire le giunture scattare contro il ferro battuto, mentre il freddo proveniente dal corridoio non gli sembrò nulla rispetto al calore che dalla pancia si irradiò fino ai battiti sempre piu’ velocizzati nel suo petto di fronte a chi vide.
 
“Dìs…”
 
Se ne stava lì, davanti alla sua porta con la lunga treccia nera poggiata sulla spalla lunga fino al ventre, i primi ciuffi grigi che si intrecciavano tra le catenelle dorate nei capelli che ripide le scendevano fino alla fronte a terminare con una piccola gemma blu: blu come gli occhi che lo scrutavano inespressivi, se non fosse stato per le sopracciglia lievemente inclinate e la bocca spalancata per parlare, ma dalla quale non uscì un suono.
Lo osservò in silenzio per quelli che parvero dei secoli, chiudendo leggermente la bocca forse rendendosi conto di quanto poteva parer confusa in quel momento o forse dettato dai suoi occhi di Dwalin che indugiavano sul suo viso scioccato dalla visita, scioccato di vederla, o peggio, scioccato che lei lo fosse venuto a cercare.
 
Ma il suo sguardo pareva piu’ quello di una nana che si era appena pentita di essere lì e questo, anche se ben celato, lo ferì profondamente, ma il suo essere ferito non cambiava il fatto che lei fosse davanti a lui. Perché era lì?
 
Dwalin stesse per dare voce ai suoi pensieri ma venne interrotto bruscamente da Dìs che prese la parola per prima e serrò le labbra di scatto sbattendo le palpebre distogliendo dapprima lo sguardo da lui come per ritrovare il senno perso.
 
“Stavi dormendo?” Chiese alzando lo sguardo da terra.
 
A Dwalin le parole gli sembrarono essersi bloccate in bocca ma infine scosse la testa non riuscendo a distogliere lo sguardo da lei.
 
“No, non ancora, ero appena tornato dalla caserma del palazzo.” Dovette ammettere avanzando di un paio di passi trattenendo sempre la porta con una mano e lanciando un paio di sguardi dietro di lei e di fianco, cercando la presenza di qualcun altro ma in quel corridoio c’erano solo loro due. “Sei sola?”
 
“Si, sono venuta sola, le guardie non hanno insistito.” Rispose decisa senza aggiungere altro con lo sguardo che lottava per rimanere fisso nel suo e le labbra che sforzava di far rimanere ferme e questo lo confuse ancor di piu’ di quanto non fosse; forse l’irrequietezza di un momento di debolezza notturna, forse un pensiero fuggevole che era scomparso appena scesa dalle scale del palazzo, forse un desiderio pentito appena la porta era stat aperta, era titubante, ora ne era sicuro: lei non voleva essere lì, affatto.
 
Il petto gli saltò un battito quando studiò lo sguardo perso nel vuoto, si lo stava guardando, ma sembrava come se gli occhi azzurri gli passassero attraverso, fissando qualcosa che lui non poteva vedere.
 
Non era piu’ la sua Dìs, e non lo sarebbe piu’ stata, ma infondo poteva dire che fosse mai stat sua? No, ma il desiderio che lei fosse felice non era cambiato e il mandarla via in quel momento era l’unica cosa che forse poteva renderla tale
 
Lasciò la maniglia della porta e si poggiò sullo stipite della porta incrociando entrambe le braccia al petto: un gesto che come un muro verso l’esterno spesso lo proteggeva  da qualsiasi cosa avesse davanti e gli sembrava assurdo che ora si dovesse difendere da Dìs.
 
“E’ l’alba. Dovresti essere a letto, cosa ci fai qui?”
 
“E’ l’unica ora in cui sapevo che ti avrei trovato qui da solo.”
 
“Se me lo avessi chiesto sai che mi sarei fatto trovare quando tu avresti voluto e dove avessi voluto.”
 
“Posso entrare?” Chiese e senza aspettare una risposta, impulsivamente avanzò verso di lui pronta a varcare la soglia ma prontamente le parò un braccio davanti impedendole di entrare in casa: si era già preparata a quel gesto perché non sobbalzò neanche un po' rimase con gli occhi fermi osservando all’interno, con il viso che era seppur impassibile era diventato ancora piu’ inespressivo.
 
“Prima dimmi cosa succede.” Insistette triandosi su’ dallo stipite e poggiando ora tutto il peso sul braccio teso tentando di guardarla in viso, ma lei non si mosse stringendo le mani che teneva fisse all’altezza del ventre l’una nell’altra con forza.
 
“Voglio parlare con te.”
 
“Di cosa?”
 
La sua insistenza non ebbe l’effetto sperato, se ne pentì appena Dìs mosse il viso per guardarlo di nuovo: dagli occhi freddi cominciò a scendere una lacrima silenziosa, e poi un’altra, e un'altra ancora, senza sosta ma il suo viso non trasmutava rimanendo impassibile non venendo scalfito neanche da quelle gocce salate che le cominciarono a scavare il viso e ad ammazzare, per ogni lacrima che le scendeva dalla guancia, lui.
 
“Dei miei figli.”
 
 
 
 
 
 
 


Con una lentezza quasi irreale le tenebre cominciarono a dilatarsi e a fare spazio alla luce che percepiva sugli occhi e al calore che questa le donò immediatamente ridestandola da quello che le era sembrato un lungo sonno senza sogni; la schiena era poggiata su qualcosa di soffice, sentiva le sue mani essere avvolte in un tessuto morbido e fresco che si insinuò tra le sue dita appena le mosse.
 
Aprì lentamente gli occhi e la flebile luce la avvolse, le ci vollero dei lunghi momenti per comprendere cosa stesse accadendo o dove fosse. La penombra, o almeno quella  che le sembrava tale ai suoi occhi offuscati, continuava a regnare e un odore acre di sangue rappreso gli arrivò alle narici, smorzato solo da quello fresco dei lenzuoli e delle vesti pulite; i contorni cominciarono a prendere lentamente forma ma infine un soffitto familiare le si formò davanti agli occhi illuminato dalla luce del giorno inoltrato che filtrava dalla finestra: un intarsio di marmo verde e venature dorate si incrociavano sopra la sua testa, di cui conosceva ogni percorso.
 
Era nella sua stanza.
 
Era ad Erebor.
 
Si abituò ai contorni che la circondavano, ruotando la testa sul cuscino, osservando le mura della sua stanza che erano rimaste così come le aveva lasciate l’ultima volta; ne studiò ogni angolo facendo guizzare lo sguardo da una parte all’altra: le tende che conducevano alla sala da bagno erano serrate coperte dal paravento scuro sul quale era poggiato malamente il vestito che prima di partire in fretta e furia si era sfilata accatastandoci sopra collane e ciondoli, il caminetto scoppiettante illuminava i piedi del letto e la pelliccia sotto di esso fondendosi con la luce del giorno che filtrava dalla finestra, i libri accatastati sul tavolo aperti da giorni sulla stessa pagina da giorni: sembrava come se non se ne fosse mai andata.
Le uniche cose le fecero capire che il tempo inesorabile era passato riportandola alla dolorosa realtà, furono le decine e decine di fiale posto accanto sul tavolo basso accanto al suo letto, così come scatole su scatole piene di bendaggi e panni umidi dentro una singola bacinella colma d’acqua, ma accanto a questa una cosa  in particolare le fece bloccare il respiro sorpresa, e artigliare le coperte con foga: oltre la superficie del cuscino, accanto alla testata del letto se ne stava una sedia infoderata di pellicce smosse l’una sulla altra in modo da creare un piccolo giaciglio; tra i vari manti di animale adagiati su di esso per renderla piu’ confortevole, una peluria nera e folta incatenò il suo sguardo bloccandolo su di esso, era quella pelliccia.
 
Thorin, allora era vivo, era ad Erebor ed…era stato lì.
 
Lo stomaco le si aggrovigliò su se stesso rendendola incapace di ragionare per qualche attimo nel frattempo che la sensazione di calore nel petto e della sua mano ancora stretta nella sua si andarono ad affievolire, facendole  tornare alla mente tutto quello che l’aveva condotta fin lì: i giorni a cavallo, la neve, i vestiti pesanti che le coprivano metà del viso, gli ululati, le grida, il corpo di Thorin a terra e poi la corsa, il dolore ed infine il buio e due labbra posatele sulla tempia.
 
Inconsciamente si portò le dita della mano dove sentiva imperterrita quella sensazione di calore: no, se l’era sognato, era in preda ai deliri e al dolore, non era reale, eppure le era sembrato tutto così lucido in quel momento, così vero da parole contratte il petto in un respiro tremante; le sue labbra nei capelli, la sua mano stretta nella propria, le parole sussurrate sulla pelle, quella rabbia nei suoi occhi spenta sotto il suo tocco.
Solo di quello era sicura in quel momento, che gli avesse accarezzato il viso: si ricordava la barba ispida, la pelle ruvida del collo e della mascella sotto le sue dita, il sangue che gli macchiava il viso e quel calore, tanto calore.
 
Inaspettatamente i suoi ricordi si spensero appena volle andare un po' piu’ su con il braccio verso i capelli, allontanandolo di colpo quando riuscì finalmente a notare la causa di quel dolore: il suo braccio era bendato e rigido, coperto da varie bende bianche che dal polso salivano su fino al gomito e pii sulla spalla andandosi a confondere dietro le ciocche castane dei capelli, ma permettendole di vedere chiaramente che la fasciatura le arrivava fino alla scapola.
 
Girò il collo per osservare meglio effettivamente fin dove arrivasse, se tutto il suo corpo fosse ridotto il quello stato, pregando che non fosse così, ma una seconda fitta ben piu’ in basso le diede la conferma alle sue preoccupazioni facendole crollare la mano di nuovo tra le pellicce sul letto e sbarrare gli occhi dal dolore.
Un’angoscia incontrollabile prese pieno possesso del suo petto e la domanda che non si voleva porre le si inchiodò in testa mandando a morire ogni altra certezza: da quanto era in quello stato? Quanto tempo aveva passato ignorante di quello che era successo distesa in quel letto?
 
Spostò lo sguardo dal braccio piu’ in basso ancora, verso le coperte blu, ricamate con piccoli disegni geometrici dorati che le continuavano a nascondere la gravità della situazione in cui si era cacciata: fu la paura sempre piu’ crescente e il dubbio che le diedero la forza di stringere i denti e puntare le mani dapprima solo poggiate sul letto, per farsi forza e tirarsi su dal cuscino che le sembrò improvvisamente solo una comoda prigione.
 
Chiuse gli occhi e prese un profondo respiro tentando di darsi un minimo di coraggio e infine si diede una botta con i fianchi per tirarsi su’ stringendo tra le dita le lenzuola: mai fu piu’ difficile trattener un gemito di dolore tra i denti, tanto da far imprecare selvaggiamente a bocca chiusa e accasciare con il respiro pesante alla tastiera del letto facendo scivolare dal corpo ciò che le copriva la vista, mostrandole finalmente cosa le provocasse una simile agonia.
 
Un enorme garza le fasciava il busto, stringendola da fin sopra il seno interrompendsoi sotto di esso, da dove poi ne cominciava un secondo piu’ stretto macchiato da piccole auree rossastre e verdi che invece la fasciava fino alla vita dalla quale cominciava la gonna di una sottana bianca che spaccata ai lati le permetteva di muovere le gambe facilmente. Cauta si tirò ancora piu’ su e vi ci avvicinò la mano opposta sfiorando le garze con le dita: sentiva ancora i canini del mannaro nella carne, una sensazione fantasma che la fece subito ritrarre le dite e trattenere un gemito che però continuo nella sua testa rimbombando e facendole sentire la testa pesante come un macigno.
Prese un profondo respiro e lasciò cadere la testa all’indietro sullo schienale del letto tirando di nuovo su le lenzuola blu incapace anche solo di guardare le fasciature senza che un ennesima fitta le attraversasse il busto, cercando di fermare la testa che non smetteva di girarle, ma questa sembrava aver deciso di non lasciarla in pace, confondendole i sensi ancora di piu’ e costringendola ad aprire gli occhi cercando un  punto fisso sopra il soffitto da fissare ma le figure cominciarono ad apparsi di nuovo: no, no doveva rimanere sveglia.
 
Rimani con me Ghìda
 
I rumori cominciarono a farsi piu’ chiari pian piano che il dolore al testa passava e la mancanza che l’aveva colpita andò a svanire permettendole di sentire, sovrastato dal flebile canto di uccelli fuori dalla finestra, un mormorio basso e scandito di cui non riusciva a capire le parole; puntò lo sguardo verso la porta e con sua grande sorpresa questa era socchiusa, lasciando un raggio di luce attraversare l’intera stanza e permettendole di vedere sotto di essa: delle ombre si muovevano fugaci nel corridoio.
Cercò di appizzare le orecchie tirando su la testa per sentire qualcosa mossa da una incertezza sempre piu’ crescente, ma non ci riuscì a sentire nulla di quel mormorio, fino a che un rumore di piastre metallico non lo interruppe seguito da un passo pesante che si allontanava: una guardia.
 
E appena i passi cessarono la porta si aprì del tutto svelandole l’identità di uno degli interlocutori schiarendole immediatamente i pensieri e il petto: Thorin si stagliava alto e rigido sulla soglia della porta, una pelliccia scura che gli copriva le spalle e la cotta nera, che scendava rigida come il modo in cui la stava osservando; anche dalla penombra che creava la luce alle sue spalle riuscì chiaramente a vedere il suo viso, e il sorriso che avrebbe tanto voluto mostrargli si andò a spegnere ancor prima di nascere: la bocca definita in una linea dritta incorniciata dalla barba scura, il naso dritto e gli occhi azzurri ridotti a due fessure che le scavarono una voragine nel petto dolorosa e profonda.
 
Lo sguardo austero le si appicciò addosso studiandola da cima a fondo spaventandola terribilmente mentre la mano si andò ad artigliare ancora di piu’ alla maniglia della porta creando uno stritolio sul metallo.
 
Non lo aveva mai visto così. 
 
E il motivo non fu difficile da capire, anzi si diede della stupida a pensare che avrebbe reagito in maniera differente solo perché era ferita, anzi forse proprio il fatto che fosse in quelle condizioni era il motivo della sua collera: si vergognò terribilmente investita dai sensi di colpa e dal suo ordine che le rimbombava nella testa.
 
“Sei sveglia.” Fu glaciale, non un’emozione uscì da quelle parole, portandola a distogliere lo sguardo verso il basso.
Rimase zitta decidendo di non rispondere alla sua affermazione annuendo, cercando di calmare il petto che comincia a dare i primi segno di cedimento sotto quello sguardo giudicatore che a suo malgrado sapeva perfettamente di meritare, ma non immaginando che potessero farle così male.
 
Era già pronta al seguito, alle sue urla e rimproveri, perfino ad essere percossa, ma niente di questo accadde, il solo rumore che si sentì furono i suoi passi pesanti e il chiudersi della porta dietro di se; lo sentì avvicinarsi al letto, il passo scandito dal vibrare degli anelli della cotta di maglia rimanendo in silenzio, portandola a stringere il lenzuolo ancora piu’ fermamente sul petto.
 
“Mi dispiace.”
 
Avrebbe voluto dirgli, ma le parole le si bloccarono di colpo scaraventate giù da un orgoglio per se stessa che superava, o in qualche modo eguagliava, il senso di vergogna che la inghiottiva ogni passo che Thorin compiva verso di lei.
 
Con la coda dell’occhio lo vide avvicinarsi accanto a sé dandole la schiena, voltandosi verso il tavolo vicino al suo letto non donandole una parola o uno sguardo, solo tanto freddo  che le fece rabbrividire la base del collo.
 
Aveva paura? Aveva davvero paura di Thorin in quel momento?
 
Un rumore si innalzò oltre le sue spalle dovuto da qualsiasi cosa con la quale fosse indaffarato: un tintinnare di vetro e uno strappo netto di un tessuto che tagliò l’aria a metà per quanto violento.
Quel rumore dilaniò anche quella tensione che si andava sempre piu’ ad accumulare, facendo diventare la stanza oscura seppur fosse giorno; fu proprio quel senso di angoscia che non riusciva piu’ a tollerare che le diede la forza di aprire la bocca parlando veloce ma flebile, come un respiro trattenuto troppo a lungo.
 
“Quanto sono rimasta incosciente?” Gli chiese puntando lo sguardo all’altezza della sua nuca sperando che si voltasse per guardarla o almeno si degnasse di risponderle ma quello che accadde le fece gelare il sangue nelle vene: voltò solo il capo oltre la sua spalla uccidendola con lo sguardo.
 
“Mettiti di fianco.”
 
“Thorin…”
 
“Ho detto mettiti di fianco.” Sibilò graffiante, scandendo ogni sillaba, con voce sempre piu’ roca, tanto da farle spalancare gli occhi incredula e da bloccarle qualsiasi intenzione di poter chiedere ancora spiegazioni o di rivolgergli la parola perfino: ora l’unica cosa di cui era certa era solo che non l’avrebbe uccisa, ma non tutte le morti sono fisiche dopotutto e quella che gli stava infliggendo con il suo sguardo non curante era la peggiore.
 
Rimase zitta obbedendo al suo ordine, incapace di dibattere, e con cautela si lasciò scivolare nuovamente giù, rimanendo cauta nel non ferirsi come aveva fatto prima e, voltando la testa di lato, si adagiò sul fianco portando il braccio sano a farle da rialzo per il collo e la nuca nel quale velocemente vi nascose metà del viso: incapace di guardarlo combattendo con tutta se stessa dal non cominciare un pianto silenzioso.
Troppe le emozioni contrastanti, troppa la delusione nella sua reazione e troppa la voglia di stringerlo tra le braccia immergendosi nel suo petto avendo però la consapevolezza che non sarebbe accaduto.
 
Solo quando la vide distesa voltò di nuovo lo sguardo studiandola con la coda dell’occhio e  infine si girò  su se stesso; le ci volle qualche istante, riuscendo a vedere solo un parte della sua figura da quella posizione, ma capì che tratteneva qualcosa tra le mani: seppur sapendone che se ne sarebbe pentita alzò un minimo la testa per osservargli le mani e tra queste spiccava un panno bagnato e le sue intenzioni finalmente le furono chiare portandola a calmare i battiti del cuore che le stavano distruggendo lo sterno.
 
Avanzò di un paio di passi avvicinandosi a lei e puntò dapprima il ginocchio sul materasso inclinandolo e poi vi ci sedette sopra affiancandola rimanendo nel suo devastante mutismo; si posò la pezza con cautela sulle gambe prima di  lanciarle un ultimo sguardo che però lei questa volta non riuscì ad interpretare: dal suo viso contrito scaturì un occhiata angosciata e forse non si aspettava che lei lo stesse osservando perché appena i loro sguardi si incrociarono, il suo viso tornò imperscrutabile e si spostò di nuovo verso il suo fianco.
 
Non riuscì a vederla bene ma la su mano si avvicinò al suo busto e con lentezza fece scivolare il lenzuolo via da lei scoprendole il fianco fasciato; un brivido le attraversò la pelle appena questo scivolò via portandola a distogliere di nuovo lo sguardo, incapace di dire se la pelle d’oca che sentiva rizzarsi fosse dovuta al freddo o all’angoscia di quello che sarebbe seguito.
 
Thorin passò al setaccio dapprima le bende con lo sguardo ignorando quello di Ghìda che sentiva ancora fisso sui suoi movimenti, rendendogli quello che doveva fare ancora piu’ difficili e rendendolo ancora piu’ furioso di quanto già non si sentisse da quando l’aveva vista sveglia, da quando non l’avesse guardata negli occhi risvegliando quei sentimenti che fino a che era rimasta addormentata era riuscito a celare, ma che ora riusciva a malapena a controllare.
 
Socchiuse gli occhi tentando di controllarsi si eclissò, per quanto gli risultasse arduo, dalla situazione compiendo quel gesto che in quelle lunghe giornate aveva adempiuto senza esitare, cercando di sovrapporre alla sua immagine quella di un soldato qualsiasi in battaglia: se voleva essere tale lui l’avrebbe trattata come tale.
 
Ghìda percepii le mani calde spostarsi verso la fasciatura e snodare il nodo che le tratteneva fisse e poi il lieve scivolare di queste oltre il suo corpo facendola rabbrividire appena la pelle incontro il freddo della stanza che la circondava e la pelle raggrinzirsi su se stessa dove sentiva la tensione delle ferite, sostituita ben presto dalla pressione delle dita di Thorin che le accarezzarono la pelle studiandola.
A quel contatto chiuse involontariamente gli occhi mordendosi il labbro con forza mentre una serie di brividi cominciarono a percorrerle il corpo appena le sue dita sfiorarono la pelle nuda: rudi ma al contempo così dolci che per un attimo sperò con tutta se stessa che quello fosse l’unico contatto che avrebbe sentito ma non fu così, non poteva essere così.
 
Fu un attimo, dita di Thorin dapprima leggere premettero intorno alla ferita con decisione tale da farle sbarrare la bocca incredula, esponendola alla luce del giorno e insieme a queste un qualcosa di bagnato e freddo le si andò a poggiare sulle ferite facendole sgranare gli occhi: un bruciore violento e improvviso la fece gemere di dolore al solo tocco; strinse forte gli occhi cercando di focalizzarsi solo sulle dita di Thorin sulla sua pelle e sul loro percorso, cercando di far ricomparire quella sensazione di piacere che l’aveva invasa fino a poco prima ma fu tutto inutile: la carne stessa del fianco le sembrò come se fosse tirata e premuta su un ferro bollente.
 
Con forza strinse i pugni e seppellì il viso nel cuscino soffocando un altro piccolo strillò che le stava per uscire dalla bocca ma il bruciore fu talmente forte da farle spostare a suo malgrado il fianco di lato e costringendo Thorin questa volta ad afferralo con piu’ decisione tanto da bloccarla premendo un’altra volta sulle ferite pulendole, ma provocandole un dolore tale che uno spasmo le attraverso il corpo facendola ritrarre dal suo tocco improvvisamente gemendo ancor di più a causa della fitta che il movimento per sfuggirli aveva scaturito.
 
“Sta ferma!” Sibilò adirato pulendole le ferite e trattandole il fianco con piu’ forza premendole ancora il panno bagnato sulla ferita e con tutta se stessa tentò di rimanere ferma chiudendo sempre di piu’ gli occhi a ogni fitta di dolore o a ogni movimento brusco di Thorin che compiva per farla stare al suo posto.
 
Ci vollero dei lunghi minuti, fatti di sospiri e gemiti da parte di entrambi, che tentavo di controllarsi, di non superare il limite  ma alla fine gli spasmi che le attraversarono il corpo cessarono e lo strusciare del panno divenne solo un sensazione di fresco piacevole così come le gocce d’acqua che sentiva scenderle dal fianco verso la pancia bagnando il materasso sotto di lei, così come le dita calde di Thorin che tornarono delicate sulla sua pelle clamandola: si lasciò andare al suo tocco un'altra volta, ma durò poco, troppo poco, la realtà torno veloce e dolorosa.
 
Appena notò che il dolore era scomparso, Thorin si allontanò da lei e guardando verso il basso ritrasse sia le mani che la pezza fredda e si alzò deciso dal fianco del letto, smuovendo il materasso e le coperte , riportando il gelo intorno a lei.
Il buio calò nella stanza, neanche il camino acceso riuscì a scaldarla o darle quel minimo di conforto che le dita di Thorin erano riuscite a donarle per quei momenti, portandola a credere infantilmente che sarebbe crollato, ma lo sguardo di ghiaccio che manteneva avvicinandosi al tavolo accanto a sé disintegrarono ogni speranza che ciò potesse avvenire.
 
Tirò su il collo dal braccio titubante, spostando lo sguardo dal cuscino a Thorin, che si puliva le dita con uno straccio in silenzio, rendendola ancora piu’ insicura su quello che dovesse fare: indecisa se parlare o meno e la sua espressione celata malamente dai capelli scuri e dalle sopracciglia nere la fecero piu’ optare per la seconda scelta. Ma infine si tirò su dal cuscino senza mai staccare gli occhi dal suo profilo basso e con calma si mise seduta così come l’aveva trovata portandosi il lenzuolo a coprirsi il petto e il fianco scoperti stringendolo tra le mani come una barriera invisibile che in quel momento avrebbe dovuto difenderla da quello che sarebbe successo.
 
Il dolore del corpo era niente in confronto a quello che sentiva nel petto, dovuta a quel muro invalicabile che ora li divideva, fatto di paure e urla che da lì a poco avrebbero preso controllo della stanza e di parole che non avrebbero mai dovuto pronunciare ma che alla fine entrambi pronunciarono, ferendosi  piu’ di quanto avessero voluto e il paradosso era che era lei che era lei la causa, e Thorin le stava solo dando la conferma di questo.
 
“M-mi dispiace.” Riuscì a sussurrare alzando gli occhi su di lui, e appena lo fece notò Thorin serrare la mascella e il suo corpo essere oltrepassato da un fremito che finì per sfogarsi sul panno tra le mani che strinse con forza, prima di poggiare entrambe i pungi serrati sulla superfice del tavolo, facendola pentire di aver parlato.
 
“Fai silenzio…” Un ringhio gutturale prese possesso della sua voce voltandosi gradualmente verso di lei con gli occhi che attimo dopo attimo divennero due braci ardenti e lasciando oltrepassare un guizzo che fu come la scintilla che lo fece esplodere: la guardò negli occhi assottigliando lo sguardo furente. “Pensavo di essere stato chiaro, pensavo di essere stato estremamente chiaro in quello che tu avresti dovuto fare, in quello che ti avevo ordinato di fare.”
 
“E lo sei stato, ma questo non…”
 
“No!” Rabbioso si lasciò andare a un urlo che la fece azzittire all’istante: il petto di Thorin si muoveva frenetico dal basso verso l’alto come se cercasse di controllarsi in qualche modo, come se quella non fosse l’unica rabbia che avrebbe voluto riversarle adesso; quello che però lei non poteva immaginare è che non era rabbia era dolore, che ormai aveva lasciato dietro di se solo l’ombra di ciò che era Thorin, un ombra che mai lasciava trasparire, quella che lo rendeva un nano come tutti.
 
“Hai la benché minima idea di quello che ho dovuto fare per portarti fino a qui?” Chiese non richiedendo una risposta premendo con ancora piu’ forza i pugni sul tavolo che cigolò lievemente. “Stavi per mandare a monte tutta la spedizione con i tuoi comportamenti da ragazzina!”
 
Un fremito le oltrepassò la schiena a quelle parole, a come era stata denominata dalla sua bocca ancora una volta: per lui era comportarsi da ragazzina quello che aveva fatto? Per lui era stato un comportamento da ragazzina l’aver rischiato la vita per salvare qualcun, altro? Per salvare lui e la sua gente?
 
Per salvare la propria gente.
 
Tutto era pronta sentirsi dire, che fosse stat una stupida, una egoista, che non meritasse piu’ a sua fiducia, cha la rinnegasse perfino, si era preparata a tutto durante quel viaggio se fosse stat scoperta, ma non poteva rinfacciarle di aver salvato delle vite, le loro vite.
 
“Io non sono una ragazzina, sapevo benissimo quello che stavo facendo!”
 
Una smorfia simile a un sorriso gli si formò sul viso, staccando le mani dal legno per poi avvicinarsi verso di lei sovrastandola con la sua altezza e scuotendo la testa volendo negarle qualsiasi possibilità di dibattere un'altra volta. “No, tu non lo sapevi, tu non sai nulla. Ti sei lanciata in campo aperto contro quattro mannari ignorando qualsiasi ragione: dovevi rimanere con la compagnia e chiamare aiuto invece che gettarti da sola mettendo a rischio non solo la tua vita ma quella di tutti quanti!”
 
Il buon senso le diceva di stare zitta, ancora, zitta... Ancora.
 
Di lasciare che si sfogasse contro di lei ora che aveva cominciato, di lasciare che gli urlasse addosso, non ribattendo neanche una volta, che lui avesse ragione o no. Il buon senso le diceva di dargli ragione, che era stata una sciocca, che rischiare la vita in quel modo era stato da sciocchi  ma lui aveva sbagliato, sì, aveva sbagliato di grosso, le aveva fatto tutto quello che era stato in suo potere e oltre, e non avrebbe ascoltato oltre di quelle sciocchezze.
 
Drizzò la schiena verso di lui affrontandolo faccia a faccia mentre una rabbia sorda cominciò a prendere possesso del suo corpo annullando anche il dolore che le costò quel movimento e il successivo staccarsi dalla tastiera del letto e mettersi seduta dritta.
 
“Io ti ho chiamato, ho urlato il tuo nome. Ho chiamato ma nessuno mi ha risposto, tu non mi hai risposto!” Sottolineo il tu quasi urlando afferrando con decisione le lenzuola sotto di lei per rimanere dritta sfidandolo. “Ho fatto quello che il mio istinto mi ha detto di fare ciò che andava fatto e non me ne pento.”
 
Thorin sgranò gli occhi a quell’affermazione che lo ferì piu’ di quanto avesse mai potuto immaginare: come osava non pentirsi per ciò che le era capitato, a incolpare lui di quello che le era capitato? Come se non bastassero i suoi sensi di colpa a torturarlo, come se lui non sapesse che sarebbe dovuto essere con lei in quel momento, che era solo per una sua dannatissima distrazione che tutto ciò era accaduto, che era colpa sua? 
 
Fuori di se le afferrò la mascella e la costrinse a guardarlo in faccia, facendole patire ogni istante che aveva patito lui, ogni momento che era stato costretto a guardare senza poter fare niente, a vederla contorcersi giorno e notte senza poter fare niente.
 
“E il tuo istinto ti ha suggerito di farti ammazzare? Di questo non ti penti? Di essere quasi morta? Perché è quello sei stata per alcuni attimi.” Ricordò studiandole lo sguardo scuro che lo stava incenerendo incurante di ciò che le stesse dicendo: il non aumentare la presa facendole male gli costò tutta la forza che avesse in corpo. ”Se vuoi finire trucidata per il tuo stupido orgoglio fallo senza che io sia costretto a guardare!”
 
A quel puntò lei si tirò via con uno strattone dalla sua stretta muovendo il viso all’indietro inarcando le sopracciglia in un misto di ira e dolore puro, un dolore che scaturiva da parole non dette, da una verità troppo difficile da pronunciare, ma che Ghìda aveva provato in tutti i modi di fargli capire ma che lui non riusciva a capire, non avrebbe mai capito.
 
“Pensi che sia davvero per orgoglio che io ti abbia seguito?” Gli chiese con una punta di ironia puntandosi il dito addosso lasciando che le lenzuola scivolassero via da lei rizzandosi sempre piu’ alta. “Per dimostrare di avere ragione su dite? Per avere ragione su Thorin Scudodiquercia? Pensi davvero che quello che io abbia fatto sia stato dettato da un desiderio egoistico?”
 
“Il motivo per cui lo hai fatto non mi concerne, e neanche mi interessa, l’unica cosa che mi importa è il risultato e ciò che hai ottenuto seguendoci è stata quasi la morte.”
 
“Però non lo sono, non sono morta. Sto bene.” Sputò Ghìda allargando le braccia  per poi abbassarle serrando le mani in due pugni, mostrandosi a lui come se fosse normale la situazione in cui riversava, come se tutto quello che avesse passato fosse normale, come se tutto quello che gli aveva fatto patire fosse normale.
 
“Bene?!” Sputò portandosi al bordo del letto toccandolo con le gambe tanto che Ghìda poteva sentire il respiro instabile di Thorin sul viso. “Bene?!“ Ripete sottolineandone ogni singola lettera. “Non hai aperto occhio per giorni interi, ho dovuto anteporre ad altri doveri la tua incolumità e la tua sicurezza, ho dovuto mobilitare le guardie e sorvegliarti giorno e notte e per questi giorni l‘unica cosa che sei stata è un maledetto peso per questa Montagna e per ogni nano al suo interno.”
 
La furia che l’aveva annebbiata si trasformò in un buco nel petto che le rese difficile perfino respirare o di compiere qualsiasi azione che non fosse fissarlo negli occhi incredula passandogli gli occhi da una parte all’altra dei due pozzi blu, che la guardavo furenti : davvero si era convinta che quei piccoli gesti avessero cambiato qualcosa, che l’averle tenuto la mano o averle pulito le ferite avessero cambiato ciò che lei significasse per lui?
Eppure glielo aveva detto esplicitamente, lei era un contratto, e lei come una bambina si era illusa che fosse una bugia per farla rimanere rinchiusa in quelle mura per tenerla al sicuro da un pericolo ridicolo, e lei… e lei che invece lo aveva inseguito perché si era innamorata di un nano, di un re, che non l’avrebbe mai considerata tale.
 
“Se tu mi avessi fatto venire con te dal principio questo non sarebbe successo.” Disse monocorde controllando le lacrime che le pizzicavano gli occhi, ma che non avrebbe versato: oh no se lo poteva scordare.
 
“Se tu fossi rimasta qui questo non sarebbe successo.”
 
“Se io fossi rimasta ad Erebor tu saresti morto adesso!”
 
Urlò dandosi una spinta tale da riuscire perfino ad alzarsi in ginocchio sul letto fronteggiandolo faccia a faccia, petto contro petto, sotto il suo sguardo sorpreso, se non per la reazione quasi violenta, per il movimento che quella rabbia era stata in grado di farle compiere, ignorando ogni ragione e ogni dolore che cominciò a farsi sempre piu’ nitido sul suo fianco.
Ma quello che sentiva dal suo cuore ormai sanguinate non era niente a confronto al dolore che le stava provocando in quel momento quel gesto.
 
Non pretendeva che l’amasse, non le importava, ma almeno chiedeva la benedizione che lui comprendesse che tutto ciò che aveva fatto lo avesse fatto solo e unicamente per lui. Per dimostrare di essere pronta a morire per lui, per dimostrargli di essere pronta ad essere la regina che lui si meritava al suo fianco, per essere la nana che non era mai riuscita ad essere, perché lui l’aveva fatta sentire tale, una nana e nient’altro.
 
Le mani strette in due pugni al lato del corpo, e lo sguardo fisso nei suoi occhi blu, la stavano mangiando viva portandola oltre il confine che non avrebbe mai dovuto superare ma che in quel momento si ritrovò a scavalcare incurante di quello che sarebbe successo in seguito, incurante della rivelazione che le uscì con voce spezzata quanto decisa dalla bocca.
 
“Ti avrebbero portato su una lettiga e io sarei stata forzata ad osservare mentre ti ponevano su una lastra di pietra fredda consumata dai sensi di colpa perché avevo deciso di accettare un tuo maledetto ordine invece di seguirti come sarebbe stato giusto fare!”
 
“Il mio fato Ghìda non è affar tuo.” Sibilò tra i denti autorevole tentando farla zittire, ma questo non fece altro che distruggere la poca lucidità che le era rimasta.
 
“E’ l’unica cosa che ti riguarda che è affar mio!”
 
Urlò con tutto il fiato che avesse in gola, liberandosi del pensiero che l’affliggeva dal primo momento in cui aveva messo piede in quella radura, dal momento in cui lo aveva visto cadere a terra, da ogni momento perfino nella sua incoscienza quello era l’unico pensiero che l’assillava e la dilaniava: l’idea di perderlo per sempre.
Le lacrime furono difficili da gestire, la sola opzione la struggeva ogni volta, il solo dover ricordare quei momenti la uccideva ancora e ancora.
 
E fu solo quell’urlo a pieni polmoni che finalmente scaturì una reazione di Thorin che ammutolì attonito mentre tremava su se stessa osservandolo in un modo che mai si sarebbe aspettato da lei; Ghìda era sul punto di piangere, glielo poteva leggere dai goti arrossate o dal lieve tremolio del labbro inferiore, e dalla ruga in mezzo alla fronte che si assottigliava e si irrigidiva ogni volta che tentava di reprimere una lacrima.
Era pronto a vederla esplodere tra le sue braccia a vederla prendergli a pugni il petto con furia a sottolineare come lei fosse una nana come tutti, ma quello che seguì non se lo sarebbe mai aspettato neanche se glielo avessero giurato.
 
 “Lo sai cosa ho provato a vederti a terra?” Sibilò, anche se la voce, però, tremò, così come i suoi occhi che luccicarono bagnati nel frattempo che si puntava il dito addosso collerica. “A non sapere se quella freccia sarebbe arrivata a segno?  Mi sono sentita disintegrata, distrutta dalla consapevolezza che se avessi mancato il bersaglio tu mi avresti lasciato sola!” Sottolineò e infine una singola e lenta lacrima le attraversò la guancia, dritta come la schiena che fieramente teneva su per contrastarlo ma che non riuscì a rendere la sua voce piu’ autorevole, che inevitabilmente si spezzò. “Tu… tu saresti scomparso e non ti avrei rivisto piu’, sarebbe tornato tutto come prima che ti incontrassi, come prima che mettessi piede in questa montagna e avrei compianto ogni giorno della mia vita perché…” Ghìda si bloccò di colpo quando si rese conto che le sue parole stava prendendo una piega inevitabile.
 
“Perché io ti amo.”
 
Glielo voleva urlare a squarciagola in faccia ma non ci riuscì, sotto quegli occhi azzurri furenti, così vicini al suo viso, non riuscì piu’ a dire una parola: la foga era scomparsa man mano facendola diventare un guscio vuoto e debole, quello che si era sempre sentita di essere e così si lasciò andare di nuovo seduta sul letto, tirandosi via da vicino al suo volto e lasciandosi andare al materasso ormai gelato come la pietra sotto di lei abbassando lo sguardo vergognandosi come non mai, incapace di sostenere i suoi occhi.
 
“Perché tu non c’eri piu’… il mio re non c’era piu’.”
 
Sussurrò senza freni e abbassò il capo fissandosi le gambe nude  prima di nascondere il viso tra le mani respirando a scatti, trattendo la testa con le mani sulle ginocchia passandosele poi nei capelli lasciandosi andare su se stessa, stanca, incredibilmente stanca: quelle parole l’avevano svuotata, e l’incapacità di non riuscire a pronunciarle successive sformandole in una semi verità la fece sentire una bugiarda.
 
Non alzò neanche lo sguardo di lato quando sentì un peso piegare il materasso, sapendo che ora Thorin gli si era seduto accanto percependo anche la sua gamba accanto alla propria; non lo alzò neanche quando sentì la sua mano sfiorarle i capelli  oltrepassandoli e muovendoglieli di lato nel tentavo di guardarla in volto: decisone alla quale si antepose spostando la testa di lato verso la candela accanto al letto.
Riuscì perfino a sopprimere i brividi che le attraversarono il collo appena le sue dita furono abbastanza vicine a questo da sfiorarle la guancia e poi poggiarsi sotto il mento, afferrandolo, costringendola a guardarlo di nuovo. Le sue dita le alzarono il viso verso il suo mandando in malora ogni suo desiderio che la discussione finisse lì, pronta a sentire quella stretta aumentare un'altra volta, ma non fu così.
 
Appena posò gli occhi sul suo volto notò come il viso contorto dalla rabbia era scomparso, le labbra prima serrate in una linea dritta erano leggermente dischiuse e gli azzurri la guardavano ovunque sul viso tranne che negli occhi, studiandola attentamente prima di incatenare gli occhi blu nei suoi; una scintilla glieli attraverso facendoli brillare di luce propria: la stava guardando in una maniera che le fece fremere il petto.
 
“Giurami…” Mormorò seriamente nel frattempo che le sue dita si fecero piu’ leggere sul suo mento fino solo a sorreggerlo solamente rendendola indifesa di fronte a ogni occhiata o parola.
“…che non farai mai piu’ una cosa del genere.”
 
Sentì la gola seccarsi improvvisamente e le si andarono a sciogliere ricadneo pesanti sulle sue gambe al contrario del suo cuore che andò a stringersi ferocemente e poi cominciare a batterle perfino nelle orecchie rendendo tutto ovattato.
 
Come poteva chiederle questo? Non ne sarebbe mai stati in grado anche se l’avesse obbligata non poteva chiederle una cosa del genere.
 
Al suo silenzio le alzò ancora di piu’ il mento e la calma che aveva mostrato per quei pochi momenti svanì di nuovo : assottigliò lo sguardo cominciando a spazientirsi, le strinse ancora di piu’ il mento rudemente interrompendo quel tocco dolce che aveva guidato il suo viso a così poca distanza dal suo..
 
“Ghìda dammi la tua parola.” Ripete autorevole, come se fosse un ordine a cui si potesse obbedire, come se lei potesse davvero obbedire: forse era l’unico ordine a cui non sarebbe mai stato in grado di accettare.
 
“Non posso.” Riuscì a mormorare mentre la voce cominciava di nuovo a incrinarsi.
 
“Tu devi.” Sottolineò, ringhiando.
 
“Thorin…” Ripeté mentre la testa cominciava a ciondolarle e gli occhi a farsi di nuovo pesanti, fissandogli il labbro spaccato rimembrandole quei momenti che avrebbe voluto solo cancellare: resistette all’impulso di togliersi dalla sua presa e prendergli il viso tra le mani ripetendo quelle parole una per una, ma compì un gesto piu’ intimo, talmente intimo e dolce che perfino il re dei nani, non poté fermare il suo cuore dallo spezzarsi a metà.
 
Gli poggiò una mano sul petto abbassando lo sguardo su questo, insicura che la sua mano potesse andarsi a poggiare lì dove tutto era cominciato per lei e dove tutto sarebbe finito per lei: un ultimo gesto per fargli capire cosa intendesse, perché non potesse giurare fedeltà al suo re.
 
“Io non posso.” Mormorò ancora alzando lo sguardo di nuovo verso il suo, ora tanto vicini da isolarli da qualsiasi altra cosa che non fossero i reciproci respiri sulla pelle.
Lo vide avvicinarsi sempre di piu’ mentre l’indice che le tratteneva il mento si andò a inarcare portandola ad alzare verso il suo: sentì il suo respiro sul suo viso, il profumo di cenere che le si andò a insidiare nel naso annebbiandole la testa e rendendola malleabile come il metallo fuso.
 
La fronte di Thorin si andò a poggiare con delicatezza sulla sua portandola talmente vicino da sentire i loro nasi sfiorarsi l’uno sull’ altro mentre le loro bocche si avvicinavano incontrollate e incontrastate, perché nessuno dei due sarebbe stato capace di fermarsi in quel momento e nessuno dei due lo voleva. Fece scivolare lentamente il pollice oltre il suo mento prendendole con dolcezza la guancia con la mano osservandole gli occhi neri socchiusi e lo scintillio che emanarono oltre le lunghe ciglia nere, per lui, solo per lui.
Le mani di Ghìda si andarono a muovere sul suo petto poggiandole entrambe su di esso, per un attimo sembro quasi volerlo allontanare, fermarlo in qualche modo diventando capace di bloccare quell’enorme sbaglio, quell’immenso e dolce sbaglio nel quale si stavano per lasciar andare.
 
Ghìda strinse lentamente le dita vicino al collo della camicia  sentendo il suo respiro sempre piu’ vicino e la barba scura sfiorarle lievemente la pelle: il cuore le sobbalzò nel petto desiderando quel momento come un’assetata, eppure qualcosa le diceva che non ne sarebbe piu’ riuscita a tornare indietro se fosse accaduto; anche se quasi socchiusi riuscì a vedere gli occhi di Thorin scintillar dal desiderio, un desiderio che in quel momento lo stava bruciando vivo.


Durin ti prego fermami.
 
Mahal ti prego fermalo.
 


Ma le preghiere di entrambi non furono ascoltate e in quel piccolo angolo di infinito, fatto di stelle e fiamme, le loro bocche si incontrarono scuotendo le radici stesse della montagna e slacciando quel filo che non aveva fatto alto che tirarli l’uno all’altra giorno dopo giorno e fu come se respirassero per la prima volta.
 
Tutte le stelle dell’universo di bloccarono e rallentarono il loro giro frantumando il velo del giorno solo per osservare quel momento marchiato a fuoco sotto il nome di entrambi prima che avessero emesso il loro primo vagito.
 
No, Ghìda aveva ragione, non potevano tornare indietro, non piu’, saldati insieme da un legame indissolubile ed eterno come Arda stessa.
 
Il sentimento che provavano entrambi finalmente prese un nome, struggente e spaventoso che per poco non li divise ancora facendoli scappare da quella stanza a gambe levate, ma fu la paura stessa di non poter provarlo mai piu’ se non in quel momento che invece di allontanarli gli fece premere nuovamente le loro bocche l’ una sull’altra.
 
Il loro solo sfiorarsi incerti non fece altro che saldarli ancora di piu’ e ben presto entrambi si lasciarono andare a quella sensazione che li colmò all’istante, riempitoli di un desiderio  che superava di gran lunga qualsiasi brama mai provata finora da un nano: superava l’amore per l’oro, per le gemme, per l’argento, per la gemma delle gemme sotto di loro.

Le labbra di Ghìda erano tremanti e incerte, scosse da dei leggeri tremoli quando si baciarono una seconda volta con piu’ decisione, facendo chiudere gli occhi a Thorin che fino a quel momento li aveva tenuti socchiusi per osservarla, per essere sicuro di quello che fosse appena accaduto e di quello che stava per accadere di nuovo fosse reale e non fosse frutto di un sonno mancato.
Thorin aveva bramato quel bacio così tanto e così ardentemente, rilegandolo nelle ore segrete notturne, che vi si abbandonò diventando roccia fusa sotto le sue mani ancora poggiate sul suo petto che se fossero state un po’ piu’ a sinistra avrebbero sentito il suo cuore esplodergli nel petto.
 
Troppa la disperazione, troppa la paura di essersi persi che le armature di entrambi caddero a terra dopo un estenuante battaglia combattuta con se stessi e contro tutto ciò che erano sempre stati costretti ad essere, due corpi che non fecero altro che fondersi l’uno con l’altra in un bacio che divise le loro anime a metà donandola inconsapevolmente l’altra metà all’altro
 
Ghìda lo trattene tirandolo ancora di piu’ verso di se schiudendo la bocca appena senti un po' piu’ di pressione sulle labbra lasciando il respiro di Thorin intrecciarsi con il suo perdendo ogni briciolo di autocontrollo e trasformando quel bacio dapprima incerto e dolce in quello che era da sempre stato per entrambi, un bisogno, che ogni movimento delle loro bocche invece di diminuire aumentava a dismisura bruciandoli vivi.
 
Thorin le passò la mano dietro i capelli incrociando le dita tra le ciocche castane e l’altra a stringerle con decisione la vita tirandola ancora di piu’ verso di se insinuando la lingua nella sua bocca con ancora piu’ prepotenza ardendolo vivo ogni volta che sentiva ritirarsi incerta; sorpresa Ghìda si lasciò scappare un gemito nella sua bocca portando le sue braccia a cingergli il collo e le spalle ricambiando con simil ardore ogni suo gesto, ogni suo bacio.
 
Quello per lui fu il punto di non ritorno: senza staccarsi dalle sue labbra la spinse di nuovo giù’ verso il cuscino incoraggiato dalla schiena di lei che si tirava sempre piu’ indietro portandolo con se; le bloccò il viso con smania con la mano mentre quella libero scivolò lentamente verso la sua spalla, sfiorandole il seno, fino ad attraversarle la pancia per poi afferrale il fianco scoperto facendola rabbrividire portandola a premere il suo corpo ancora piu’ sul suo
 
L’eccitazione li saldò in una bolla fatta di respiri pesanti e fremiti che si facevano sempre piu’ rumorosi e incontrollabili, come il calore che Ghìda cominciava a sentire nel basso ventre che la portò ad afferrargli i capelli della nuca con forza. e ad allargare le gambe per farlo adagiare ancora meglio sopra il suo corpo che non sentiva piu’ neanche suo, che non voleva neanche piu’ che fosse suo. Si lascio andare a un sospiro quando sentì il calore della sua mano scendere ancora piu’ giù verso la coscia nuda portandole la gamba intorno al suo ventre che lei intrecciò senza indugi facendo incontrare loro bacini.
 
Thorin non aveva più’ il controllo di se stesso e in quella situazione non era neppure sicuro di volerlo piu’: si lasciò andare ancora di piu' se fosse possibile a quel bacio che lo stava torturando. Si tirò su con il ginocchio puntato sul letto adagiandosi su di lei lasciando che la gamba allacciata sul suo fianco lo portasse sempre piu’ a perdersi in lei senza possibilità di tornare indietro stringedola con forza a se.
 
Ma un secondo gemito lo fece destare, non di piacere, ma di dolore che interruppe tutto violentemente,  frantumando come il vetro la campana di respiri e baci in cui si era trovato intrappolato, e come un bagno ghiacciato la consapevolezza e la ragione lo investirono spaccandogli il cuore a metà: uno sbaglio tutto quello che era successo era stato un enorme sbaglio.
 
Aprì di scatto gli occhi ansimante e le sentì il suo petto muoversi affannato sotto il suo, come il cuore di entrambi che si scontrarono in quei respiri pesanti: gli occhi di lei a malapena socchiusi e le goti arrosate e le labbra gonfie che per un attimo lo tentarono un'altra volta ma la realizzazione che si era fatta largo in lui era un qualcosa di talmente struggente che superò ogni suo desiderio.
 
Si allontanò da lei facendo scivolare via la mano dalle sue gambe nude tirandosi indietro dalle sue labbra, e direttamente su in piedi  e serrando le mani in due pugni conficcandosi le unghie nella carne la vide ferita, profondamente ma anche profondamente consapevole di quello che era successo e di quello che stava per succedere, che entrambi volevano che succedesse.
Thorin non avrebbe retto un attimo di piu’ di quello sguardo, perché o si sarebbe messo a urlare ancora o l’avrebbe presa, pentendosene amaramente subito dopo: senza guardarla oltre mise piu’ distanza che poté tra lui e quel letto, lui e l’unica cosa che non avrebbe voluto abbandonare dietro di se.
 
“No…” Riuscì a sentirle sussurrare mentre usciva dalla porta sbattendosela violentemente alle spalle e per la prima volta in vita sua fuggì come un codardo: da quella stanza, da quell’odore, da quegli occhi ,da quelle labbra.
 
La devastante verità lo aveva schiacciato rendendolo cieco a qualsiasi altra cosa gli stesse capitando intorno, un forte dolore al petto lo investi facendolo piegare su se stesso poggiandosi sul muro accanto alla porta con la mano piegato in due dal dolore: no, lo aveva saputo lo aveva sempre saputo, avrebbe dovuto prevederlo, evitarlo, eppure tutto gli fu improvvisamente e terribilmente chiaro.
 
Lui non sarebbe stato capace di affrontare un simile dolore a subire quel calore per poi vederselo portato via come era quasi successo; rabbrividì a quel pensiero sentendosi sprofondare ancora di piu’ graffiando la pietra fredda sotto le sue dita: non poteva piu’ patire quel dolore, non ora che aveva capito che la sua anima non gli apparteneva più’, non ora che sapeva che sarebbe rimasto legato a lei in eterno, non ora che il re di Erebor che tutti si aspettavano che fosse era diventato un puro e semplice nano, non ora che non c’era piu’ scelta, non ora che per quanto lui non lo volesse, non potesse accettarlo, avrebbe amato lei e solo lei fino alla fine dei suoi giorni. E ne avrebbe sofferto fino alla fine dei suoi giorni.
 
 
 
 





Le onde si infrangevano velate sulle sabbia nere, i granelli di sabbia si muovevano l’uno sull’altro flebilmente, ma lo sbattere sulle scogliere rimaneva comunque così tumultuoso da rendere l’aria della grotta terribilmente pesante e forniva il lamento che avrebbe permesso che le parole pronunciate al suo interno rimanessero un maligno segreto ben custodito.
 
Due mannari si ruggivano a vicenda andando a sbattere le schiene contro la parete umida della roccia, coperti dall’oscurità spezzata solo dalla luce della luna che netta spargeva i suoi raggi dall’entrata della caverna. Dal profondo di questa dei passi pensati riecheggiarono feroci, come gli occhi del nano a cui appartenevano che stringeva tra le mani prepotentemente un foglio di pergamena che venne brutalmente lanciato sul suolo umido a di fronte ai piedi macabri e rancidi del suo interlocutore.
 
“Cosa significa?”
 
“Il mio padrone desidera che tu lo dica a noi. Non ha gradito che la tua prole si trovasse lì. Non hai piu’ il controllo Telkar, figlio di Tolkur.”
 
Il capoclan avanzò furente verso gli occhi gialli e raccapriccianti, che avevano osato mettere in discussione la sua autorità: la puzza disgustosa di cadavere marcio che emanava  invase l’aria umida intorno al signore dei nani  rendendogli la cicatrice sull’occhio ancora piu’ marcata.
 
“Non osare Snaga, lerciume, ad attribuire le vostre disfatte a me! E’ solo una piccola marcia ragazzina, quello che fatto quello è stato per puro piacere nel crogiolarsi nel suo orgoglio.”
 
Al termine usato i due mannari smisero di lottare tra di loro e indirizzarono la loro attenzione verso il nano che rimase fermo osservando la bocca dell’orco nero continuare a produrre bava verde e viscida che gli deformò il riso lugubre che gli si dipinse sulle labbra e a quel gesto Telkar continuando a guardarlo compì solo un passo indietro dal viso dell’orco ma questo non interruppe i due mannari: avanzarono intimidatori con la bava alla bocca affiancando l’orco in piedi di fronte a lui.
 
“Assicurati, che sia in grado di fare ciò che andrà fatto o sarà il tuo corpo a essere eviscerato sulle mura di quella montagna nano.”
 
“Lei è mia, farà ciò che io le ordinerò. Per Thorin Scudodiquercia e la sua stirpe non ci sarà un’alba, Angmar sarà vostra e l’obbedienza dei sette clan mia e l’ombra della guerra si spargerà da essa, che lo vogliano o no.”
 
L’orco nero avventò una delle sue mani nel pelo di uno dei mannari accanto a se agguantandogli il collo prepotentemente  e conficcandogli le unghie nere nella carne facendolo guaire dal dolore e spingendolo verso il basso in una lenta tortura che fece sedere la bestia accanto a lui obbediente, facendolo smettere di sbavare e ringhiare.
 
“E se non avrai la loro obbedienza?”
 
“Bruceranno tutti.”
 
 
 
 
 
 
 
 





Angolo Autrice
 
Per la prima volta posso addirittura dire di essere in anticipo!!!!!
ALLLLLLLORAAAA DAJE UN PO’, DITEMI DITEMI, QUANTA SODDIFAZIONE VI HO DATO? EH? EH? <3 <3 <3
Un po' gne però sempre una soddisfazione c’è stata dai, una piccola gioia per tutti e due da un certo punto di vista, però così doveva andare, come già mi era stato detto, non sono tipi da facilitarsi la vita e in realtà sarebbe stato anche ooc che Thorin se la semplificasse.
Mi si è spezzato il cuore eh, cioè in realtà per tutto il capitolo ce l’ho avuto spezzato, ma proprio tanto, sia per lui che per lei e so che avrei dovuto farla vedere ma fare un piccolo riassunto anche per far percepire il tempo che passa la trovo una cosa piu’ semplice.
Dìs e Dwalin mi hanno fatto stringere un po' il cuore anche loro, non vi preoccupate come ho già detto sarà una cosa accennata, saranno poche le parti così.
Telkar invece spero che abbiate capito un po' di cose, anche se mi va di rivelarle un po' alla volta >.>
Come dite ch si evolverà la situazione tra i nostri due amori? Cosa farà Thorin a questo punto? E Ghìda sarà capace di affrontare un rifiuto del genere pur essendo consapevole di ciò che sono l’una per l’altra? (Quanta tensione sessuale si portano dietro? XD) Cosa deve fare Ghìda per suo padre e come reagirà Erebor al risveglio di Ghìda? La riusciranno davvero ad accettare, questo cambierà qualcosa con Thorin? Ditemi ,ditemi, secondo voi come si evolve, perché mi rendo conto che vi sto strappando il lieto fine dalle mani ogni volta. E sopratutto una domandona, state notando dei cambiamenti nel mio stile di scrittura? Lo trovate migliorato peggiorato, rispetto dal capitolo 5 in poi (escludo gli altri perchè erano molto piu' semplici e sintetici infatti verranno revisionati).
PS: ve piace la copertina? Sta volta mi ci sono impegnata yeeeee.
Nekoblonde ti ho dato alla fine uan scansione temporale hai visto? Ahahahhaah
Non ho ricevuto recensioni per il capitolo prima GIUSTAMENTE quindi non ringrazierò nessuno :3 lol però ringrazio preventivamente tutti quelli che commenteranno ma come al solito farò le menzioni onorevoli per tutti quelli che seguono la storia: Alcalime91,  Star_of_vespers ,Thorin78 , valepassion95, Aralinn, NekoBlonde, Perla_16, Ribes Roger , marisole, e Nekoblonde
 
Grazie in anticipo a tutti quelli che vedranno questa parte in seguito e commentereanno <3

 
 





 



SPOILER:



“Vorrei non averti mai incontrato.”

 
   
 
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