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Autore: Restart    21/07/2020    0 recensioni
Caterina vive il suo grande amore con Stefano. Lo sa, è certa che passerà il resto della sua vita al suo fianco. Ma lui se ne va troppo presto. Caterina si sente affondare in una spirale di dolore che rischia di risucchiarla completamente, se non fosse per l'aiuto di Andrea. Insieme cercheranno di affrontare la vita dopo la perdita di Stefano.
Secondo capitolo della serie "Per le vie di Firenze". Trovate la prima parte sul mio profilo.
Genere: Drammatico, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Alla fine, Stefano si decise ad incontrare sua madre. Lo aveva fatto solamente per fare un piacere ad Andrea. Si era presentato il giorno successivo alla presentazione del libro. Era apparso sulla soglia di casa nel pieno pomeriggio. Era un caldo asfissiante. Il sole gli bruciava la pelle chiara. La camicia di lino ondeggiava debolmente, seguendo l’andamento del leggero venticello che arrivava dal mare. Sentiva l’ansia attanagliarli lo stomaco. L’aria era ancora più rarefatta per lui: respirava pesantemente. La testa gli pulsava, il cuore gli stava schizzando in gola. Per un attimo desiderò non essere andato là. Desiderò aver preso quel treno per Firenze, aver fatto finta di niente, essere tornato alla propria vita. Non sarebbe cambiato nulla. Lui avrebbe continuato a vivere ignorando la sua famiglia, sua madre avrebbe continuato a disprezzarlo. Eppure, i piedi erano fissi nel terreno. Doveva fare quei passi in avanti. Doveva togliersi dalla pesante e pressante presenza di sua madre. Doveva svoltare pagina. E per farlo era necessario entrare in quella casa antica, dolorosamente familiare. Lanciò un’occhiata all’interno: niente era cambiato. L’arredamento antico, il pavimento con i motivi geometrici, le pareti zeppe di quadri. Non c’erano foto in casa loro. Non c’erano mai state. Stefano fece battere le nocche nel portone di quercia. Un rumore di tacchi a spillo riempì la casa. La figura di sua madre era apparsa dall’enorme sala da pranzo. Non era cambiata. L’abito rigido, sartoriale, i capelli tirati all’indietro, il trucco leggero. Le mani nodose sfoggiavano solamente due fedi. La ridondanza della casa non era ravvisabile in Maria. Non espresse il minimo segno di sorpresa: lo sapeva fin dentro le ossa che il figlio sarebbe tornato. E si era preparata.
«Ciao», la voce di Stefano ostentava sicurezza. Teneva gli occhi fermamente legati a quelli azzurri della madre, la schiena ben dritta. Ma le mani erano strette in pugno. Un dettaglio che a lei non passò inosservato. Sorrise ironica.
«Alla fine hai deciso di onorarmi con la tua presenza» gli passò avanti e si diresse verso il salotto, invitandolo in maniera sprezzante a seguirla. E lui lo fece. Quando Maria si sedette sulla sua poltrona prediletta, lui cercò in tutti i modi di starle il più lontano possibile.
«Quindi a cosa devo la tua visita?» chiese freddamente lisciandosi delle pieghe inesistenti sulla gonna. Stefano si schiarì la voce prima di aprire la sua borsa. Ne estrasse una foto: Caterina e Giulio si abbracciavano e sorridevano nella direzione dell’obiettivo. Erano così simili: i capelli castani chiari, gli occhi verdi. Giulio sfoggiava i suoi primi denti. Mostrò la foto alla madre.
«Questa è Caterina, mia moglie. Fa la restauratrice, ed è bravissima nel suo lavoro. Lui è Giulio. Ora ha due anni e mezzo, questa foto è di qualche mese fa. Eravamo a casa di alcuni nostri amici. L’ho chiamato Giulio come tuo padre, ma penso te l’abbia detto Andrea» posò la foto sulle ginocchia della madre e poi tornò a sedersi. «Sono disposto a perdonarti per come mi hai fatto sentire e per tutto quello che mi hai detto. Possiamo fare finta di nulla» gli si era formato in gola. Alla fine, voleva solamente che sua madre gli volesse bene. Non pretendeva un rapporto affiatato come quello che Caterina aveva con la sua, oppure quel legame così forte che c’era tra lei e Giulio. Gli bastava solamente poter pensare che la propria madre c’era. Che lei accettava quello che era.
Maria non toccò nemmeno la fotografia. La guardava con la bocca serrata in una smorfia e gli occhi stretti. Alzò lo sguardo gelido verso il figlio.
«Ti piacciono sempre gli uomini?» bastò quella domanda per comprendere che a sua madre non interessava niente di lui. Non le interessava della carriera, della famiglia. Non era possibile tornare indietro con lei.
«Sì» il mento alto, gli occhi fissi su di lei.
«Allora non abbiamo nient’altro da dirci» concluse lei freddamente, posando la fotografia sul piccolo tavolo accanto a lei. Lui fremette. Tutta la rabbia che aveva accumulato in quasi dieci anni stava pian piano scivolando via da sé. Una situazione nuova si presentava. Indifferenza. Se lei non poteva accettarlo, allora lui avrebbe fatto finta che non esistesse. Puntò le iridi chiare in quelle della madre e sorrise amaramente. Stefano poteva finalmente sostenere un duello con sua madre. «Non mi vergogno di quello che sono, né delle relazioni che ho avuto. Ma se per te, tutto quello che sono, tutto quello che ho fatto è motivo di imbarazzo non abbiamo nient’altro da dirci» Si alzò, indossò gli occhiali e si avviò verso l’uscita. Ma prima si fermò sulla soglia della porta e mandò un’altra occhiata a quella donna.
«Mi dispiace per te. Hai scelto una vita solitaria» e se ne andò.
*
Prima di lasciare la città cercò il fratello. Si era liberato di un fardello ed era tempo che anche lui lo facesse. Andrea era chiuso nel suo ufficio. Seduto alla scrivania lucida stava giocando con la sua fede. Quando Stefano entrò senza bussare fece un salto impaurito. Prese la fede di fretta e la strinse in un pugno.
«Ho finalmente visto mamma» si sedette difronte al fratello: aveva una luce nuova negli occhi. Si sentiva una persona diversa. «Ci siamo chiariti una volta per tutte. Ti sbagliavi Andrè, a lei non importa niente di come sto, non le importa di Caterina, non le importa di Giulio. A lei non importa nemmeno di te. Allontanati da lei. Ti sta manipolando, ti sta trattando da fantoccio. Meriti più di tutto questo. Lo so»
Andrea non disse niente. Strinse ancor di più l’anello: il metallo premeva contro la carne della mano, si stava facendo male. Voleva veramente ascoltare Stefano. Voleva scappare. Voleva costruirsi una vita nuova proprio come aveva fatto lui. Lo voleva con tutto se stesso. Ma allo stesso tempo il fardello delle responsabilità lo avvolgeva, non gli lasciava via d’uscita. Il terrore di trovarsi senza niente lo immobilizzava. Come poteva anche solo pensare di lasciare una vita di agi per buttarsi nell’ignoto? Un nodo enorme gli impediva di respirare. Era dilaniato nel profondo.
«Non posso lasciare Napoli, così, come se niente fosse. Ho un’azienda da gestire. E poi, lei è sempre nostra madre. Non posso abbandonarla» gli costò molto dire quelle cose, ma era sicuro che fossero le più corrette. E furono inaspettate per Stefano. Incassò il colpo con un sorriso di circostanza. Non poteva fare altro per Andrea. Ormai non era più un bambino di quattro anni che contava esclusivamente su di lui. Aveva ventisei anni. Era in grado di decidere per sé.
«Bene. Allora non abbiamo nient’altro da dirci. Ti aspetto a Firenze, sempre che tu voglia venirci a trovare» allungò la mano e l’altro la strinse in maniera vigorosa. Forse troppo.
Quello che Stefano non sapeva era che Andrea non era mai uscito dal guscio di quel bambino di quattro anni. Aveva ancora bisogno del fratello maggiore, della sua linfa vitale. Non si sentiva in grado di procedere. Non si sentiva in grado di decidere per sé. E si era appena rinchiuso in se stesso, fingendo di avere il controllo. In realtà aveva solo paura.
*
Andrea non tornò in Toscana quell’estate. E nemmeno l’estate successiva. Si era caricato di lavoro, si era rinchiuso in una bolla di doveri. Aveva seguito ciecamente ogni cosa che sua madre gli ordinava. Aveva anche divorziato da Carla. Quando aveva saputo che lei si era risposata, si era rintanato ancora di più nelle scartoffie. Non aveva avuto più vita fuori da quell’ufficio. Era dimagrito, le guance si erano infossate, gli occhi azzurri erano opachi.
Poi una sera di ottobre aveva ricevuto una chiamata. Era di Stefano. L’ennesima nell’ultimo anno. Le aveva rifiutate tutte. La sua decisione era una ferita bruciante, ancora fresca dopo tutto quel tempo. Era tentato di rifiutare anche quella telefonata. Ma poi si ricordò essere il compleanno del fratello. E per un attimo pensò che forse potesse immergersi in quella bella vita che conduceva un’altra volta.
La voce dall’altra parte era quella di Caterina. Per un attimo l’immagine della cognata gli si materializzò davanti agli occhi: aveva i capelli raccolti, il vestito bianco, di cotone, proprio come la sera che avevano passato insieme a Giulitta.
«Ciao, Andrea, come stai? Stefano soffre la tua mancanza. Perché non vieni qualche giorno in su? Ti dobbiamo far conoscere una persona». Andrea era immobilizzato. Non riusciva a comporre una frase di senso compiuto.
«Chi?» la voce era strozzata: cercava di non lasciarsi andare, di rimanere stoico.  
«Lucrezia. È nata tre giorni fa» Caterina lo disse semplicemente, lasciandolo spiazzato. Come un flash gli venne in mente quando l’aveva conosciuta per la prima volta, proprio la sera in cui era nato Giulio. Ricordava ancora vividamente la gioia che l’aveva colto non appena aveva ricevuto quella notizia. Era salito in macchina, aveva guidato tutto il giorno.
«Sono contento per voi» la sua voce era gelida. Caterina incassò il colpo.
«Grazie. Be’, ci sentiamo allora» la delusione impregnava la voce roca della ragazza. Non attese nemmeno che lui dicesse altro. Chiuse la chiamata. E lui rimase a guardare il vuoto sentendosi inutile. Si sentì peggio di uno straccio. Capì di aver sbagliato tutto nell’ultimo anno. Avrebbe dovuto seguire Stefano. Avrebbe dovuto fare il salto.
Come un automa si diresse verso la macchina. Ma quella sera non tornò a casa. Imboccò l’autostrada.
*
Arrivò a Firenze in piena notte. La città era deserta. E ancora sconosciuta. Parcheggiò appena poté, preferendo camminare. Si sapeva orientare meglio. Si sentiva l’eco della musica da discoteca, delle voci. Un gruppo di ragazzi bevevano birra sulle scale davanti al duomo. Girò verso San Lorenzo: le strade cominciavano ad essere sempre più familiari. Il portone di casa di Caterina era all’imbocco di via San Gallo. Stefano era affacciato alla finestra a fumare. Aveva i capelli più corti, non indossava più gli occhiali. In un primo momento non riconobbe il fratello. Ma bastò un attimo in più. Il viso acquistò luce propria. Gli fece cenno di salire. Non lo fece arrivare neanche a metà scale che gli corse incontro per abbracciarlo.
«Non sai quanto mi sei mancato» affondò il volto nel petto di Andrea. Anche lui era al settimo cielo. «Anche a me sei mancato». Stefano gli sorrise. «Devi vedere Lucrezia» lo invitò a salire ancora, suggerendogli di fare piano. Ma quando entrarono Caterina e Lucrezia erano già in piedi. La donna si illuminò non appena vide Andrea. La trovò bellissima. Portava i capelli sciolti che ondeggiavano ad ogni suo movimento, e una vestaglia verde che faceva risaltare il colore dei suoi occhi. La bambina che teneva in braccio aveva un lungo ciuffo di capelli scuri. Caterina la teneva stretta al seno, cercando di farla smettere di piangere.  
«Andre la vuoi prendere?» nella voce di lei c’era una punta di sfinimento. Era la prima sera fuori dall’ospedale e si era già alzata due volte. Stefano faceva il possibile, ma Lucrezia non si calmava se non con lei. E darla al cognato sarebbe stato un azzardo, ma aveva bisogno di riposarsi. Lui accettò volentieri, portando avanti le braccia con un sorriso. Lucrezia era così simile a Stefano: il nasino leggermente ricurvo, la bocca carnosa. Strillava con una forza sovrumana, dimenandosi tra le sue braccia. Andrea iniziò a camminare per tutta la casa, avanti indietro; nel frattempo Caterina si era stesa sul divano.
Riuscì a calmarla solamente quando iniziò a canticchiare la stessa ninnananna che aveva cantato a Giulio. Quella volta Caterina seguì la melodia con interesse e partecipazione: gliel’aveva insegnata lo stesso Andrea, dichiarando che era l’unica cosa che si ricordava di suo padre. Solo quelle parole, quella voce profonda, morbida. Era troppo piccolo per ricordarsi altro.
Stefano rimase serio. Il padre se lo ricordava. Ricordava il suo sguardo torvo, scuro, la voce massiccia con cui gli dava ordini. Gli occhi scuri lo mettevano sempre a disagio. Ricordava anche come si comportava con sua madre. Era il padrone lui, e la sua famiglia doveva essere perfetta, perfettamente ai suoi ordini. Aveva sei anni quando era morto. E non aveva versato nemmeno una lacrima. Si era ripromesso che non sarebbe diventato come lui. Si sarebbe impegnato a diventare migliore. Con Andrea aveva un rapporto diverso. Per un attimo pensò che per Andrea fosse stato meglio crescere senza padre, piuttosto che con uno come quello. E l’immagine di suo fratello dondolare dolcemente Lucrezia glielo confermò.
«Andrè, quanto rimani?» l’altro alzò gli occhi sorridendo. «Il più possibile Ste’». E subito tornò a dedicarsi alla bambina.
*
2008, 3 dicembre
Firenze si stava imbiancando. Per la prima volta Giulio e Lucrezia vedevano la neve. Erano appiccicati alla finestra della grande sala nella casa dei nonni. Giulio teneva una mano dietro alla schiena della sorellina per evitare che si ribaltasse. Ma lei non aveva bisogno di supporti. Le manine erano ben strette allo schienale del divano e scrutava con attenzione il giardino che cambiava colore. Gli occhi azzurri, freddissimi, erano quelli di Stefano, così come i capelli con quel ciuffo castano che le ricadeva sulla fronte. Aveva iniziato a dire pochissime parole, ma era sempre molto chiara, diretta.
Caterina era seduta dietro a loro e lavorava. Stavano organizzando una cena per la sera dopo, un modo per riunire tutto il gruppo. E per festeggiare il ritorno di Mia. Ma non era impresa facile. Lei era sicura di aver superato la sua relazione con Max. E Caterina sperava che fosse veramente così, anche perché nel frattempo Max si era sposato con Anita e avevano avuto un figlio, Federico. Caterina aveva chiesto anche ad Andrea di raggiungerli, ma non aveva avuto ancora risposta. Sbuffò. Non l’aveva mai entusiasmata l’idea di fare l’organizzatrice, troppo stressante. Troppe responsabilità.
Il suo telefono squillò, rompendo la quiete. Numero sconosciuto.
«Caterina Pacini?» la voce dall’altro capo del telefono arrivava male. Era disturbata dal suono delle sirene. Il suo cuore iniziò a battere talmente forte che era sicura che le uscisse dal corpo. Iniziò a sudare freddo. Il peggiore degli scenari si stava lentamente costruendo davanti ai suoi occhi «Sì».
«Signora, suo marito ha avuto un incidente». Sei parole. Un disco si ruppe. Il suo cuore smise di battere per una manciata di secondi. La voce continuava a spiegare, ma Caterina capiva poco. Ormai sentiva solo un fischiare nelle orecchie che le impediva di recepire tutto quello che le stava attorno.
«Signora, ha capito? Suo marito ha perso la vita. Mi dispiace moltissimo» era troppo fredda quella voce. Era meccanica. Sembrava stesse recitando. Caterina sentì la terra mancarle sotto i piedi. In un attimo era stesa sul pavimento.
Quando riaprì gli occhi incrociò quelli di sua madre. Erano rossi, gonfi. Tremava. «Cate, Cate, come ti senti?» le teneva la testa in grembo e le accarezzava la guancia. Le lacrime della madre gocciolavano sul suo viso, ma lei non riusciva a sentirle. Non sentiva niente del suo corpo.
«Caterina quelli dell’ospedale hanno chiamato ancora, sei svenuta la prima volta. Ci sta parlando il babbo. Ti accompagna lui a Careggi, va bene? I bimbi te li tengo io» Caterina annuì in silenzio, con gli occhi vuoti, spenti. La sua mente era affollata, pesante, una potente emicrania le rendeva difficile anche tenere le palpebre aperte. Anche parlare le sembrava un’azione complicatissima.
Suo padre l’accompagnò fino all’ospedale. Varcò le porte dell’ospedale in silenzio, tenendo lo sguardo basso, fisso sulle punte delle scarpe.
Stefano era steso su un lettino gelido, in una stanza altrettanto gelida. Caterina sentì i brividi correrle lungo la schiena e farla scuotere tutta. Non riusciva a fare altro che guardare quel corpo da lontano. Quello non era suo marito. Non era l’uomo di cui si era innamorata.
Non vi si avvicinò. Non lo fece mai. Fu suo padre a parlare coi medici. Fu suo padre a confermare che quel cadavere era l’uomo migliore del mondo. Il suo uomo. La sua roccia. Caterina si mordeva le labbra talmente forte da farle sanguinare. Era bianca. Era debole.
Aveva paura.
Una paura che le attanagliava le ossa, che l’aveva resa non umana. Semplicemente vegetale. E quando il medico si zittì, lei girò i tacchi e uscì dall’ospedale. Voleva solo morire. Voleva andarsene con Stefano. La vita le sembrava inutile. Vuota.
Quando suo padre la raggiunse Caterina era seduta sulla panchina all’esterno.
«Caterina vuoi che chiami io la sua famiglia?» suo padre le aveva stretto la mano. Era fredda. La sua famiglia. Scosse la testa.
«Me ne occupo io. Chiamo subito» si alzò e attraversò la strada. Aveva bisogno di restare sola.
Andrea non rispose subito. Il telefono squillò a lungo prima che lei potesse sentire la sua voce.
«Caterì scusa se non ho risposto all’invito, sono stato un po’ indaffarato in questi giorni. Comunque sì, vengo. Parto domattina sul presto così passiamo il pomeriggio tutti insieme, eh? Che ne dici?» Lei inspirò profondamente. Comunicare la morte di Stefano l’avrebbe resa vera. L’avrebbe resa tangibile. E ne era terrorizzata.
Spiegò tutto ad Andrea con estrema calma, lentezza. Lui non disse niente. Non la salutò nemmeno. Attaccò il telefono senza farla finire di parlare. Il vuoto dentro lei si stava piano piano riempiendo di viscido dolore.
   
 
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