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Autore: little_psycho    24/07/2020    2 recensioni
spoiler!chapter 181 | post-canon | platonic OT3
La sanno tutti la storia di Buddha e della ragnatela. Buddha si affaccia dal paradiso e vede che un peccatore all’inferno ha salvato un ragno. Commosso, cala il filo di una ragnatela dal paradiso fino all’inferno; il peccatore lo vede e inizia ad arrampicarsi, ma altri lo seguono. Il primo peccatore, temendo che il filo si sarebbe spezzato, non vuole far salire tutti gli altri. Buddha taglia il filo per il suo egoismo. I peccatori devono aver sofferto tanto.
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Emma, Norman, Ray
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il filo della ragnatela 



 

Ray vorrebbe tanto dire di averla finalmente trovata: due lunghissimi anni, pieni di batticuore e speranze frantumate, la pressione che gli mettevano gli occhi desolati di Norman e Phil. 

Era sempre stato certo che si sarebbero ritrovati grazie a quel bizzarro legame che li univa attraverso il sangue, il tempo, la distanza. Non è da lui essere un sognatore, non è da lui accettare la più minima fantasia, ma… con Emma tutto è possibile, no?

Ma non trovano Emma. Emma se n’è andata. 

 

***

 

Per Norman sembra tutto normale - la guarda incantato, in contemplazione, e gli andrebbe bene anche se fosse una farfalla appesa a una parete. Norman se l’era già persa in quei due anni nel bunker, si erano ritrovati e dopo le lacrime e gli abbracci e uno schiaffo ben piazzato (Ray ne è ancora orgoglioso), si era aspettato qualcun altro. Quindi - quindi per Norman è una possibilità di ricominciare e di lavare via l’onta della sua debolezza. 

Ma Ray non ha mai fatto niente di male (Ray…) (Ray l’aveva seguita fino all’inferno e ritorno, stava per perdere l’ultimo briciolo di sanità in quel deserto, con la pelle che cadeva a pezzi e disperato) (poi era arrivata Emma). Onestamente, potrebbe raccontare tantissime storie che diventano meravigliose alla frase “poi era arrivata Emma”.  

Ecco perché la loro ricerca è stata così disastrosa. Emma non era arrivata. Lo avevano fatto loro. 

(Ray e Norman non possono essere gli eroi di nessuno.) 

 

***

 

Insomma, ha i capelli di Emma, ha gli occhi di Emma - ha le sue dita screpolate e le sue clavicole troppo definite, la sua voce assillante e quel sorriso che potrebbe illuminare un giorno di pioggia. Ha tutti i pezzetti che la rendono, infatti, Emma. 

Ma non lo è. 

Suona ridicolo come Ray si focalizzi su qualcosa di tanto ovvio - i suoi ricordi e le sue emozioni fanno di lei Emma, ma se tutto scompare…

Ovvio che è arrabbiato con Emma: li ha lasciati con quel suo enorme sorriso, nascondendo ostinatamente un peso che alla fine l’aveva fatta colare a picco. 

Non vuole essere lui a dirlo, fino a quando non scopre che in realtà freme dalla voglia di farsi del male e fare del male. 

«È morta» dice a Norman in una stanza vuota, il fuoco che scoppietta nel camino, perché le notti invernali di New York City possono essere fredde. 

Norman non sposta gli occhi dal libro, le ombre lo fanno apparire più vecchio e stanco. Beh, forse sono anche i traumi - però di quello non si parla. «A meno che sia caduta dalle scale in questo momento - inizia con calma, con una nota di ironia, ma Ray non ride - dovrebbe essere piuttosto viva». 

«Sai a cosa mi riferisco» lo attacca con cattiveria, alzandosi e allargando le braccia. «Lì dentro non c’è più nessuno». Fa male pensare al corpo di Emma come a un guscio vuoto, a una casa abbandonata e infestata dai fantasmi. Sono passati sei mesi e…

Norman scuote la testa e posa il libro sulle ginocchia, lo guarda confuso. Con quei capelli bianchi e gli occhi acquosi potrebbe passare per un vecchietto pronto a spirare sulla propria poltrona preferita. Ray sente il bisogno di una scazzottata. «Che stai...»

«Lei non è Emma. Siamo degli sconosciuti ed è venuta con noi perché in un paesello in mezzo alla neve non ci sarebbe potuta rimanere per sempre.»

«Mi fa sentire bene.»

«Cosa?»

«Vederla.»

Norman fissa un punto indefinito alla sue spalle, la camicia gli sta troppo larga. Ray ha perso la voglia di prenderlo a pugni. 

Apre la porta e lo avvolge un’aria freddissima.

«Mi distrugge» sussurra con la testa abbassata. Il tonfo della porta copre il rumore del libro che viene scaraventato per terra. 

 

***

 

Emma (nella sua testa non la chiama mai Emma, in realtà non le dà nessun nome) a volte si stringe tra lui e Norman di notte, attorcigliandosi i ricci rossi con le mani. Gli occhi sono impossibili da riconoscere al buio, due pozze liquide che lo guardano divertite. Sta parlando di fare uno scherzo a Norman, crede. Spesso sta con Gilda e Violet, ma alla fine ritorna sempre da loro. 

«Ray?» 

Gira meglio la testa, guardandola fisso. Forse anche il colore dei suoi occhi è irriconoscibile al buio. Nero contro nero. «Che c’è?»

«A volte mi sento una ladra.» Affonda la guancia nel cuscino, il suo respiro trema. 

«Il nome, la famiglia, questo posto. Li sto rubando a qualcun altro.»

C’è qualcosa di bagnato che gli solletica il dorso della mano, si accorge troppo tardi che sono lacrime. Un pianto silenzioso in una stanza piena di sconosciuti. 

Ray la circonda con le braccia, la lascia abbandonarsi nel suo abbraccio e bagnargli il pigiama. Non parla. Incontra lo sguardo scuro di Norman al di sopra della spalla di… Emma. Vorrebbe dirle che va bene rubare ai morti. A loro un nome e una famiglia e un posto non servono più. 

 

***

 

La sanno tutti la storia di Buddha e della ragnatela. Buddha si affaccia dal paradiso e vede che un peccatore all’inferno ha salvato un ragno. Commosso, cala il filo di una ragnatela dal paradiso fino all’inferno; il peccatore lo vede e inizia ad arrampicarsi, ma altri lo seguono. Il primo peccatore, temendo che il filo si sarebbe spezzato, non vuole far salire tutti gli altri. Buddha taglia il filo per il suo egoismo. 

Sarebbe stato meglio se nessuno avesse visto il filo in un primo momento, alla fine. Probabilmente Buddha si era preso in giro da solo, credendo di poter dare una seconda possibilità. Chissà se i peccatori avranno sofferto il doppio, all’inferno, con la speranza di una via d’uscita. 

«Mi dovevi lasciar bruciare a Grace Field House» dice Ray all’improvviso, additando Emma che litiga con delle equazioni di matematica, accovacciata su una sedia di legno. 

Non c’è Norman (non avrebbe mai osato dirlo davanti a lui) (c'è un limite al dolore che si possono infliggere a vicenda), ma in compenso c’è Don che sembra congelarsi sul posto. Oliver li guarda incuriosito, appoggia la testa sulla mano aspettando la risposta di Emma. Anche lui si sente in colpa. 

Non sembra tanto scioccata dalla rivelazione del suo quasi suicidio - che poi, detta così, sembra quasi che sia successo per caso. Avevano dodici anni. Sembra un’altra vita. 

«Ma adesso non saresti qui» gli risponde amorevole, e il tetro spettro della Mamma gli appare davanti agli occhi. 

Già. 

(Le speranze sono pericolose - le persone le gonfiano con tutte le loro preoccupazioni per l’avvenire, le rendono delle realtà patinate che vivono innocue nel retro delle loro teste.)

I peccatori devono aver sofferto tanto. 

 

***

 

C'era sempre stato un ostacolo tra loro tre e il resto della famiglia - no, forse più una protezione. Un bozzolo sottilissimo che li avvolgeva, tenendoli al caldo e a debita distanza da tutti. Sempre insieme, sempre a fare danni, il circolo elitario dei piccoli prodigi (dei piccoli pezzi di carne col più alto valore). Come un meccanismo perfettamente oliato. 

Ed erano, in qualche strano modo, il principio dei vasi comunicanti: si riempivano tutti alla stessa maniera, collegati, uniti da un sottile filo rosso sangue. 

Adesso, il collegamento si era interrotto, il filo si era spezzato. Per due anni il dolore che era stato distribuito così equamente, un po’ per ciascuno, ma non abbastanza per ucciderli - beh, tutto il dolore di Emma si era riversato su Norman e Ray. 

Ed erano anche stati contenti di sopportarlo, accudendolo e proteggendolo, per poterlo ridare intatto a Emma quando l’avrebbero ritrovata. 

Ray è geloso di quel dolore - da quando ha cinque anni, da quando ha chiesto a sua madre “perché mi hai fatto nascere?” - Ray non è altro il dolore che ha provato. Niente di più e niente di meno.

Ray e Norman vogliono soffrire e vogliono consolare ma - ma Emma non si è ripresa il suo dolore. Lo ha lasciato a loro, intoccato e putrefatto, in quel vaso rotto. 

Ray si aggrappa all’idea che non ci potesse essere altro modo. Non vuole pensare che Emma per un singolo momento sia stata contenta di rinnegarlo e di andare avanti. 

Tutti hanno bisogno del proprio fardello, della propria piaga da grattare con le unghie sporche.  

«È troppo leggera.» Sembra che solo Ray abbia il coraggio di dire la verità. Almeno questa volta Norman non vuole negare. I loro vasi stanno per traboccare - se solo allentassero la pressione, giusto un po’. 

«Non ha nessun peso che l’affondi.» 

Ray gli dà un blando pugno sulla spalla ed entrambi sghignazzano con le loro voci rauche. 

Emma è uscita dal bozzolo, ha tagliato il filo e ha rovesciato il vaso.  

Sono passati altri sei mesi. 

 

***

 

Un giorno di tre anni prima, dopo l’ennesima visita da uno strizzacervelli vecchio e canuto, Ray si era girato verso di lui irritato, pensando a tutto quel tempo perso che avrebbe potuto spendere per cercare Emma. 

«Andremo in prigione?» aveva chiesto vivamente incuriosito, osservandolo dall’unico occhio visibile. 

«Per aver ucciso dei demoni» continuò mellifluo, pensando anche a Yugo e Lucas. Dovrebbero pagare per la loro morte, è tutta colpa loro. Però non lo disse. Non ce la faceva. 

L’altro lo aveva guardato impietosito e aveva esclamato tristemente “questi ragazzi!”. 

Era una cosa che faceva spesso, soprattutto quando Phil piangeva pensando al demone che aveva trafitto la Mamma. Questi ragazzi! 

Quando Chris non voleva dormire perché aveva paura di non risvegliarsi di nuovo. Questi ragazzi! 

Adesso Emma passa tra i letti dei bambini (per Ray sembra strano definire bambini quelli che ormai hanno dieci anni), silenziosa come un’ombra a dispensare carezze. Canticchia un motivetto familiare, sente una vocina assonnata mormorare “mamma”. 

A Ray appare come in sogno un albero sotto al quale è seduto con un libro sulle ginocchia, la figura slanciata di sua madre che lo guarda inorridita e se stesso accennare delle note. 

Emma ricorda? Emma ricorda qualcosa, sprazzi, sensazioni che il suo subconscio sta riportando a galla? 

Sente una lacrima scivolare su una guancia. L’asciuga con stupore, e con stupore ancora più grande si accorge che ne stanno arrivando tantissime, così tante che la sua vista diventa annacquata. Un singhiozzo scappa al suo controllo e terrorizzato cerca annaspando la porta. Sono tre anni che non versa una lacrima. Non sa come fermarsi. 

Incontra però le braccia fragili di Norman, lui - vorrebbe scappare, correre via per le strade affollate della città, perdersi e non tornare mai più. Artiglia la sua maglietta di cotone, si morde la lingua per non farsi scuotere dai singhiozzi. Norman gli accarezza i capelli con delicatezza. 

Emma non si è mossa, è rimasta sola come la statua di un angelo in un giardino abbandonato. Ha lo stesso sguardo dello strizzacervelli. Questi ragazzi!

Ray piange anche il dolore intatto di Emma. Lei non lo userà.

 

***

 

Stanno giocando a scacchi - loro due contro Norman, che ovviamente sta vincendo, checchè ne dica Emma due teste invece di una non diventano più intelligenti. 

All’improvviso cade dalla sedia con l’imbranataggine che la distingue e Norman ride forte. Ray alza gli occhi al cielo. «Non riusciremo a distrarre il nemico con questi sporchi trucchetti» commenta, gettando un’occhiata esasperata verso di lei. 

Hanno affittato un appartamento, perché sarebbe stato abbastanza ridicolo pagarne tre quando sarebbero stati tutti nello stesso. Emma lo voleva con le finestre grandi e Norman lontano dalla strada. Ray li aveva chiamati viziati e poi aveva preteso un minino di spazio verde nei dintorni. A guardarlo bene, ricorda un po’ troppo Grace Field House. 

I raggi del sole colpiscono direttamente la figura di Emma, e la sua ombra si proietta sul muro. Sta ridendo, pensa in un primo momento, presa dalla ridarella. 

Apre la bocca ed è sicurissimo che si lamenterà del dolore alle ginocchia, interromperanno la partita e per quel giorno si saranno risparmiati l’ennesima sconfitta. 

Vede prima la faccia preoccupata di Norman e poi sente il pianto di Emma, addolorato, rumoroso, terribile. 

«Mamma» articola tra le lacrime, lamentosa. Spalanca gli occhi verdi e li guarda sconvolta, «Yugo» riesce a pronunciare, e sembra star annegando. «Lucas».

Scivolano entrambi verso di lei, attoniti, Ray le afferra la mano con la quale si stava stringendo le ciocche con troppa forza. Gli occhi azzurri di Norman sono più luminosi del solito, le circonda le spalle, ma non parla. 

«Conny» continua dopo un po’, e le lacrime sembrano non finire mai. A quel punto anche l’espressione di Norman inizia a incrinarsi. 

Sembra sopraffatta da qualche forza mistica, continua a tremare e a piangere. Afferra le mani di entrambi, affondando le unghie nella pelle. «Ricordo tutto» dice guardandoli, non sapendo neanche lei se esserne devastata o entusiasta. Si sta riprendendo tutto il suo dolore, tutto in una volta. Anche Norman inizia a singhiozzare nella pozza di luce che hanno occupato nel salotto. Ray tira su col naso e prima o poi uno di loro dovrà prendere dai fazzoletti, ma non adesso. 

Emma gli tira il ciuffo. «Sono contenta di averti salvato.»

Emma era tornata. 

«Già.»

Dopo otto anni, Ray è contento di aver avuto delle speranze. 











 

Notes

Io… avevo in programma due fic che ovviamente non ho scritto perché non trovavo ispirazione e allora mi sono messa a vedere l’anime, poi ho letto il manga ed è nato questo. Perché il finale mi ha messo addosso una tristezza mai vista e volevo fare giustizia al personaggio di Ray, proprio maltrattato nella seconda parte del manga. 

Preciso che la storia di Buddha e la ragnatela l’ho letta in un racconto di Akutagawa “Il filo di ragnatela” e il filo nella mia storia sarebbe la metafora per la speranza. Ray vorrebbe non averla mai avuta ma alla fine della storia ne è contento. 

Invece, tutta l’idea delle persone che sono gelose del proprio dolore e che ne hanno bisogno, viene spiegata in “Le mosche” di Jean Paul Sartre. Nell’opera originaria c’è Oreste che dice a Elettra “Eravamo troppo leggeri” riferito al non avere fardelli emotivi. “La propria piaga da grattare con le unghie sporche” è sempre una frase presa dall’opera.  

Spero davvero che la storia vi sia piaciuta!

little_psycho 

   
 
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