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Autore: Shirokuro    05/08/2020    1 recensioni
{ unima | raccolta di one-shot basate su "polaroid 2.0" | angst, fluff, introspettivo }
1. giri immensi: [...] sembrava aver vissuto così tanto da non aver nemmeno bisogno di fare domande: così vecchi che le risposte non avevano valore.
Genere: Angst, Fluff, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Videogioco
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giri immensi
solo guai

anita!centric, ferriswheelshipping

 
Respirava l’odore latente del suo amante immergendosi nelle sue camicie, tutto ciò che le rimaneva mentre lui invece si lavava dell’odore di lei sotto la doccia; nel mentre ascoltava lo stridio delle troppe dimensioni che collidevano nell’afa estiva. Accoglieva l’aroma del caffè nella pioggia, attendendo il loro turno per salire sulla ruota panoramica nel punto ristoro del parco divertimenti di Sciroccopoli. Galleggiava nel respiro della sua dolce metà, ricordava.
   Di mille cose, di mille eventi, di mille giorni, lei ricordava solo i momenti che rievocavano le luci della città. Quale città, aveva poca importanza. Sì, per i più critici che potrebbero aver storto il naso leggendolo, anche il suo respiro le ricordavano: lui era la fonte prima immobile del colore sullo sfondo. Lo era davvero.
   Anita sospirava ed esalava la sua malinconia, ogni giorno, ogni secondo. Ogni motivo era valido, perché tutte le cose che la facevano penare erano causate da lei che conviveva con se stessa. Erano trascorsi ormai tre anni da quando aveva tagliato i ponti con il suo passato e quella che probabilmente era la storia più avvincente da raccontare in un qualunque bar. L’aveva narrata così tante volte, realizzava mentre ancora una volta rendeva complici delle sue avventure gli sconosciuti che sorseggiavano le proprie birre. Accarezzò con le dita il suo, di boccale.
   Prima di giungere a Fiordoropoli, aveva vagabondato tanto. Aveva visitato le regioni di Kalos, di Sinnoh e quella di Kanto. In particolare, a Zafferanopoli le era stato fatto presente che c’era la possibilità di usare il Supertreno per giungere nella regione vicina che nel transito da Pratopoli aveva sorvolato ignorandola quasi del tutto, non fosse stato per un paio di volte, nei pressi di qualche Percorso dove si era temporaneamente fermata per far riposare Zekrom che lei stava usando per spostarsi. Aveva imparato nel corso della sua nuova abitudine di nomade che anche i Pokémon più forti necessitavano di riposo, soprattutto quelli che erano stati dormienti per tanti anni sotto forma di roccia. Nelle poche ore che riempiva facendo tattiche pennichelle celata fra le fratte, aveva percepito un’atmosfera calda e piacevole, quasi come l’abbraccio di un familiare lontano. Aveva deglutito nervosamente al pensiero, per questo inizialmente scartò l’idea di fermarsi più dello stretto necessario. Ma oltre dieci mesi dopo aver vagato senza meta o scopo per quella che era la regione natia del più importante Professore che la storia avesse mai conosciuto e della quasi leggendaria Silph S.p.A., a risentirla nominare nella città che più di tutte la faceva sentire a casa – il resto della regione pareva un luogo vecchio per i suoi standard, Unima era sempre stata, per così dire, un passo avanti – si era sentita stranamente triste ed aveva deciso di voler finalmente affrontare il calore di Johto.
   Era stata una decisione difficile in realtà. Prima di tutto, perché non aveva mai preso un treno prima. Aveva lottato nella Metrò Lotta, sì, e ogni tanto l’aveva usata per raggiungere Roteolia, ma il Supertreno pareva avere un fascino differente: entrambe le città che collegava erano definibili “grandi”, scegliere questo mezzo piuttosto che arrivare a destinazione con Volo sembrava più un capriccio che una necessità – a differenza per l’appunto della sperduta città che nella sua regione non sapeva nemmeno collocare bene su una cartina – e, osservò  durante l’attesa in panchina, c’erano molte persone che sembravano utilizzarla per andare a (o tornare dal) lavoro. Anche questo la fece innervosire. Ogni cosa attorno a lei sembrava urlasse “casa”, “routine”. Invidiò sporadicamente durante il viaggio i suoi compagni sul vagone in cui sedeva, e anche sugli altri che componevano il mezzo. Quando qualcuno le chiedeva se le mancava Soffiolieve od anche solo l’atmosfera di dove ha vissuto la più entusiasmante delle sue vicissitudini, lei diceva che no, non le mancava e che si sentiva costretta fra quattro mura al solo pensiero di fare ritorno. Mentiva. Ciò che odiava di Unima era l’impossibilità di vivere con l’uomo che aveva amato come nessun altro. Erano le quattro mura che occupava da sola. Per il resto, la adorava con tutta se stessa – perché faticare tanto per liberarla dalla stretta ideologica e dalla minaccia materiale del Team Plasma altrimenti? Le si spezzava il cuore al solo pensiero di averla abbandonata.
   La vita non le era mai stata più avversa di come le si era mostrata da quando era partita per diventare un’Allenatrice con i suoi migliori amici. Creare nuovi rapporti era difficile, quando ci si sentiva così diversi e quando non si era davvero interessati, ma si stava cercando disperatamente di sostituire qualcun altro. Allora ogni singolo giorno si era limitato ad essere la faticosa e pesante copia di quello precedente. Non si capacitava del perché, né riusciva a comprendere quale fosse. Si dannava ogni passo che faceva per i luoghi a lei sconosciuti e lontani culturalmente ed emotivamente del paese. E la sensazione di calore che stava andando a ritrovare, già sfiorata per sbaglio quasi un anno prima, la terrorizzava. Aveva paura di spezzarsi definitivamente. Partendo quasi come fosse stata una barbona senza dimora, con solo i soldi che racimolava grazie alle lotte, non sempre aveva vissuto tempi rosei. C’erano state notti in cui, presa dallo sconforto, si era lasciata abbracciare dal sonno nel freddo dei boschi come quelli vicino a Nevepoli. Ogni tanto, nella pigrizia dettata dall’umore sotto le scarpe, non lottava, costringendosi al digiuno per la conseguente mancanza di disponibilità economica. Pure i vestiti scarseggiavano, nello zaino pochi cambi. Nella sua testa volteggiavano questi pochi fatti, eppure anche solo quelli costringevano la sua pelle in una pericolosa morsa che avvicinava ogni centimetro del suo corpo a contatto con l’aria al suo cuore, quasi a volerlo stritolare e ridurre ad un’informe poltiglia pulsante. Rabbrividiva, quella stessa pelle, al pensiero di come l’avrebbero fatta sentire i ricordi delle sconfitte e dei pianti disperati, dei primi incubi, se solo le fossero tornati alla mente.
   Per fortuna, mentre commentava l’assenteismo di Nardo, rievocò invece il fatto che per quella notte sarebbe stata ospitata da una giovane infermiera del Centro Pokémon locale, come lo era stata negli ultimi tre giorni. Non avrebbe dovuto cercare alloggio, né cibo, per una volta dopo non ricordava quanto tempo. Sorrise, descrivendo la bellezza della leggendaria battaglia tra Zekrom e Reshiram, e poi mandò giù un altro importante sorso di birra.
   L'infermiera l’aveva subito notata, quando aveva lasciato alle sue cure i suoi fidati compagni di modeste misure e le affidò le Pokéball contenenti quelli più massicci assicurandosi di non farli uscire per alcuna ragione. Una precauzione tristemente necessaria, dopo l’infelice accidente avvenuto a Petroglifari. In quella città ossessionata dall’antico si era lasciata sfuggire l’origine della creatura incarnazione degli Ideali – banalmente un sasso – e l’infermiera del Centro non resistette alla tentazione di vedere con i suoi occhi il nero cavaliere. Non solo l’edificio andò in mille pezzi, inizialmente Anita ebbe a che fare con le accuse del direttore di aver attentato all’incolumità pubblica e nemmeno la confessione della pentita ragazza che lavorava lì sembrò smuoverlo, fin quando non intervenne la professoressa Aralia per conto suo, tramite un collegamento telematico. Dopo che assicurò che la castana mai avrebbe potuto essere armata di cattive intenzioni – e facendosi forza della sua credibilità e notorietà in campo scientifico –, Anita la supplicò di non dire a nessuno dove si trovasse e che proprio avesse desiderato raccontare l’infausto evento che riconosceva come esilarante a posteriori avrebbe dovuto celare la località in cui era avvenuto. La professoressa rise leggermente, con una nota di tristezza nella voce. Le disse che le era già debitrice per l’eternità, come l’intera regione di Unima, e che non sarebbe stato un peso farle quel minuscolo favore. «Non darti troppi grattacapi», le disse. In quel momento Anita realizzò che, fosse rimasta nella sua terra natale, sarebbe stata virtualmente intoccabile. Provò sentimenti contrastanti, poi la donna continuò a parlare, cogliendola di sorpresa visto lo stato di immersione nei suoi pensieri. Le chiese, come le avrebbe chiesto sua madre – e come la genitrice probabilmente aveva chiesto all’interlocutrice tante volte da quando era scappata dalla fredda verità –: «Come stai?»
   Quel ricordo era diventato, nel breve tempo che era trascorso da allora, un ricorrente rimorso. «Non mi lamento», aveva risposto. Era una bugia, sì. Si sporcava della sua malinconia e del suo rammarico le guance appena qualcosa poteva anche solo sussurrarle una lettera sola. Quella maledetta lettera. Si lamentava tantissimo. Non capiva come era riuscita a distanziarsi dalla felicità così tanto.
   «...inoltre quasi quindici anni fa il suo protettore è stato rinvenuto dall’eroe che ha definitivamente messo un punto all’oscuro capitolo del Team Rocket». Anita fu destata da quella che avrebbe chiamato “trance”. Il nome di quell’organizzazione la riportò sullo stesso piano dimensionale degli altri esseri umani. Aveva già sentito quel nome, quindi investigò ulteriormente. «Team Rocket?» L’infermiera annuì. La castana era tornata alla sua temporanea casa, cullandosi nelle premurose attenzioni della sua ospitante. L’altra, ad ogni modo, iniziò a raccontare del crudele gruppo che capeggiato dal Capopalestra di Smeraldopoli del tempo aveva tormentato per anni le regioni comunicanti di Johto e Kanto. Alla Campionessa onoraria venne alla memoria quel personaggio pentito che aveva incontrato tanto tempo prima, che dichiarava di aver fatto parte del suddetto Team, ma di aver cambiato totalmente vita. Aveva un figlio, una compagna. Pensò, ingenuamente e forse con una nota di tradizionalismo, che quello fosse il migliore dei finali: una famiglia.
   Non aveva mai riflettuto sull’evenienza, l’idea che il suo corpo fosse capace di creare nuova vita le era praticamente estranea. “C’è sempre l’adozione”, si disse, quando pur sforzandosi non riuscì a figurarsi a partorire. La sua mente fece un altro balzo mentale e si rammaricò, piuttosto, che se avesse deciso di accogliere la prole altrui, questa non avrebbe avuto le caratteristiche del padre. In quel momento Anita si stupì di quanto fosse all’antica e sorrise. L’infermiera poggiò il piatto fumante di zuppa davanti a lei. «È un rimedio di famiglia per la sbronza, domani mattina sarai fresca come un fiore», le spiegò. Ringraziò e chiese la storia dietro a quel metodo, gli ingredienti e tutte quelle domande di circostanza che da giorni si scambiavano. L’ambiente colloquiale l’aveva rincuorata. Le era mancato. La sua testa, comunque, si era fissata su quella nuova fantasia dell’avere figli. Fermarsi, crescere un nuovo membro della generazione successiva, con un padre amorevole. Ma che padre? Chi l’avrebbe accompagnata in una simile follia? Salvare Unima le parve una barzelletta in confronto. Qualcuno di bello, si disse, così da poter rimpiangere il loro ipotetico pargoletto. Il pensiero rimase sullo sfondo della conversazione con la giovane donna che nel frattempo aveva iniziato a raccontare aneddoti collegati a quella miracolosa zuppa fatta con verdure e latte di Miltank – la specialità del luogo; improvvisamente Fiordoropoli non le sembrava più così una “grande città”.
   “La bellezza è un concetto soggettivo”, continuò a riflettere Anita, accennando stupore quando l’infermiera giunse all’episodio in cui suo fratello era rinsavito dopo una serata così disastrosa che le parve una storia inventata. “Quindi, ciò a cui ambisco è qualcuno di speciale”, concluse. E chi più speciale di N?
   «Tutto bene? È troppo calda? Non ti piace il sapore?» La povera donna si era improvvisamente agitata e la castana ci mise un po’ a realizzare che il motivo erano le sue lacrime, iniziate a scendere non avrebbe saputo dire quando. Chiese scusa e la rassicurò.
   «Prima mi raccontavi di una Torre, giusto? Dove si troverebbe?» chiese, cambiando discorso.
   «Nella prima città a nord, Amarantopoli. È un luogo estremamente suggestivo: ti consiglio veramente di andarci, è uno dei tanti luoghi di questa regione che ti scaldano il cuore e che ti fanno sentire grata di esserci mai stata». Anita sorrise: comprendeva il sentimento di amore nei confronti della propria terra natale.
   «Allora domani stesso lascerò questa casa, se non ti creo disagi. Se posso sdebitarmi in qualche maniera per l’ospitalità, lo farò solo che volentieri. Anzi, ti prego, chiedimi qualcosa».
   L’infermiera ricambio il sorriso, scosse la testa e le disse: «È mio dovere aiutare chi ha bisogno, e tu, amica mia, stavi disperatamente chiedendo di venir soccorsa. Mi basta averti vista serena per qualche istante».
   “Amica”. La nomade dagli occhi blu dovette trattenere le lacrime che minacciavano di versarsi ancora.
   Come promesso, il giorno dopo uscì dall’appartamento che aveva invaso per qualche giorno. Recuperò i suoi Pokémon e dopo aver ringraziato ancora la giovane partì alla volta della Torre Campana. In groppa a Bouffalant, ci mise un giorno solo. Aveva deciso di viaggiare via terra per godersi il paesaggio. Così facendo, ebbe anche l’occasione di visitare il Parco Nazionale, che prima aveva solo sentito nominare. Constatò che in confronto al parco divertimenti dove aveva vissuto alcuni dei suoi ricordi più caldi, era solo un praticello. Assurdo quanto differenti fossero queste regioni. Certo, erano abbastanza distanti fra loro e anche Unima vantava alcuni villaggi non esattamente ultra futuristici, ma l’immensa distesa verde che accoglieva tutti quei Pokémon non era altro che tanta erba alta ed una fontana. Si riposò e lasciò i suoi compagni godersi il sole e l’atmosfera silenziosa del Parco prima di proseguire: lei non apprezzava, ma loro amarono il luogo. Dormì su una panchina. Quando finalmente arrivarono ad Amarantopoli, era ormai notte fonda e gli unici luoghi che poteva visitare erano il Centro Pokémon e il Pokémon Market. Decise di passare la notte nel primo di questi.
   Amarantopoli era totalmente diversa dalla località in cui era arrivata. In molte regioni che aveva visitato aveva osservato il cambio repentino di stile tra una città e la successiva, ma questa volta si sentì sommersa dalla meraviglia. Nel momento esatto in cui mise piede oltre quello che sembrava un torii, poté percepire che quel posto era diverso e forse che le avrebbe cambiato la vita. La prima cosa che volle fare, fu cercare la casa in cui era nata Valérie, la Capopalestra di Kalos che era originaria del posto – era un po’ un’appassionata della storia degli Allenatori e durante il suo viaggio aveva scoperto quanto la sua priorità, appena giunta in un luogo di importanza per questi personaggi che l’avevano ispirata in momenti difficili, fosse proprio respirare l’aria che aveva dato loro le prime scoperte e le prime lotte, intuizioni o ricerche. Dicevano della donna specializzata in tipo Folletto che fosse peculiare e che fosse evidente non fosse stata cresciuta nel luogo in cui si era fatta un nome. Anita pensò di poter capire perché. Quella città aveva un sapore diverso. Ancora non sapeva descriverlo con precisione, ma le restava sulla punta della lingua ed allo stesso tempo partiva dalla sua gola – da dentro. Faceva un po’ male.
   Quando la mattina successiva si incamminò verso il Sentiero Din Don, era piena di energia. Un’energia frenetica, incontrollabile, quasi spasmodica. Per un istante non parve essere capace di controllarla e valutò l’idea di rimandare la visita, ma le sue gambe non si fermarono ed il leggero bacio dell’ansia sulla sua nuca sembrò solo spronarla ad andare avanti. Comprese la sensazione a cui non era riuscita a dar forma la sera prima. Quello che circondava il percorso, eternamente in autunno, era il bosco dove si era riposata l’anno prima. Era tornata nel posto in cui le si era, per l’ennesima volta, aperta una ferita nel bel mezzo del petto. Qualche scherzo del destino l’aveva riportata lì. “Volevo affrontare questo, d’altronde”. Inspirò e piano piano, passo dopo passo, fece uscire i suoi Pokémon dalle proprie Pokéball. Non voleva restare sola ed anche se poteva sentirli dagli strumenti, necessitava del loro reale calore per non urlare. Disturbare la pace ed il silenzio religioso, mistico di quel Sentiero le appariva come un peccato mortale. «Goditi ogni metro» le aveva suggerito un abitante a cui aveva chiesto indicazioni. Sembrava molto vecchio, sembrava aver vissuto così tanto da non aver nemmeno bisogno di fare domande: così vecchi che le risposte non avevano valore. Ha invidiato anche quel anziano.
   Giunta finalmente davanti alla Torre Campana, entrò, lasciando indietro i propri amici. Salì fin sopra il tetto. Ogni piano che si avvicinava al cielo, il muscolo che pompava sangue dentro di lei, tra i polmoni che faticavano a tenerlo a bada, si agitava sempre di più. Ma quel mostro dentro di lei, che da un momento all’altro sentiva pronto ad abbandonare il proprio ruolo e lasciarla con un buco nel busto, aveva ragione. Quando mise la testa fuori, tra le tegole della Torre, ai suoi occhi si palesò una visione che non avrebbe mai nemmeno sognato di vedere.
   Nell’aria fredda del nuovo giorno, pungente e stimolante, contro la luce che timida ancora cercava di raggiungere ogni angolo del mondo, si stagliava la sagoma del suo bramato amante e di un gigante Pokémon uccello. La gioia dell’incontro tra i mille colori che le ali dell’immensa creatura creava ogni battito delicato di ali e lo sguardo amorevole di N si fondevano ed in quel momento la castana sentì di starsi sciogliendo, come credeva si stesse sciogliendo la campana dietro ai due. Emanavano una vampata irreale di calore. Faceva caldo e faceva freddo. «Abbiamo molto in comune, Ho-oh», disse il ragazzo al Pokémon, «entrambi cerchiamo un Allenatore dal cuore puro. Entrambi l’abbiamo trovato e ora lo abbiamo perso».
   “Non mi hai persa”, voleva dirgli. “Sono qui”, erano le parole che le morivano dentro prima di poter scoprire il mondo esterno. Ma non gli disse niente. Passare la vita insieme? Loro? Era anche solo possibile sognare un simile finale? Aveva passato anni a sognare quella riunione fatidica, quello era il suo “e vissero felici e contenti”. Lo sarebbe dovuto essere, quantomeno. Ma innanzi alla felicità apparentemente, Anita aveva scoperto di essere terrorizzata da quello che le favole non raccontavano: il dopo. I pianti sarebbero smessi? La malinconia sarebbe stata sconfitta? E dove si sarebbero stabiliti? Stabiliti, poi? Loro? Due nomadi alla ricerca l’uno dell’altro erano capaci di diventare sedentari? Lui lo desiderava? Perché se ne era andato? La sua testa era stata infettata da una febbre di insicurezze in pochi secondi e fece qualche passo indietro, per nascondersi totalmente. Si coprì la bocca con le mani, per reprimere il desiderio di urlargli contro ogni sentimento che poteva farle provare. Dove sarebbero andati?
   Non voleva un figlio, voleva stare vicino a lui. Ed era vicino a lui. Allora perché aveva la sensazione che, fosse uscita alla scoperta, sarebbero solo scappati ancora più lontani? Insieme, o l’uno dall’altra, non faceva differenza: era stanca di scappare. Espirò e cercò il coraggio di affrontarlo, sperando di poter discutere di loro. Lei voleva che lui diventasse una sicurezza, nella sua città natale magari. Sua madre lo avrebbe accolto come un figlio; era un bravo ragazzo, lo avrebbe accettato sicuramente. Il panico appena vissuto era stato utile a giungere all’unica risposta valida: loro dovevano discutere di cosa ne sarebbe stato di loro.
   Ma quando ritornò sul tetto, fu incredibilmente grata di non ritrovarlo e di constatare che tutto ciò che rimaneva della sua visione era l’alone di magia della presenza di Ho-oh.
   All’uscita della Torre Campana l’aspettavano i suoi compagni. Si aspettava di ritrovarli a giocare o di non ritrovarli proprio, ma di doverli cercare e chiamare uno ad uno. Si meravigliò della riunione immediata e del silenzio ad accoglierla. Avvertì distintamente il fruscio delle foglie gialle ed arancioni e null’altro. Cogli occhi spalancati li guardo tutti e li analizzò, mentre loro aspettavano indicazioni. Probabilmente loro avevano assistito a ciò che lei non era riuscita a sorprendere: Reshiram che prendeva il volo ed andava lontano. Li invidiò, contraddicendo il sollievo che aveva provato solo qualche minuto prima. Doveva essere stato uno spettacolo inaspettato quanto bellissimo. Zekrom doveva avergli dedicato uno sguardo malinconico, prima di domandarsi come mai era lì e poi realizzare che la causa delle sofferenze di Anita era lì. Lui, governatore degli Ideali, non fosse stato catturato dalla castana, l’avrebbe inseguito probabilmente. Serperior si avvicinò e l’avvolse con dolcezza, accarezzando le gambe prima ed il resto dopo. Lei lasciò uscire una piccola risata, quando avvertì il solletico. Tutti gli altri Pokémon continuarono a fissarla, ma capì che quell’unica risata li aveva risollevati.
   Si avviò, dopo aver fatto rientrare nelle rispettive Pokéball i suoi compagni, in direzione della Torre Bruciata. La visitò con lezia, ascoltando distrattamente le spiegazioni della guida. La sera si diresse verso Mogania, prese un tè con un vecchio Capopalestra della città prima di lasciarla e si fece ospitare per la notte da un pescatore vicino al Lago d’Ira. Si addentrò nel bosco dietro allo specchio d’acqua e dopo un paio di giorni di viaggio notò una baita in una valle della catena montuosa che aveva già sorvolato provenendo da Sinnoh. Chiese rifugio anche lì ed apprese di un Allenatore che in quel luogo si era presentato con Arceus stesso. Fu molto gentile, come tutti gli anziani di quella regione era estremamente disposto a rispondere a domande riguardanti le storie e le leggende di Johto (per quanto non fosse sicura di trovarsi ancora lì o di aver già raggiunto e superato il suo confine), e le dedicò del tempo per spiegarle le sue teorie sulla connessione tra il creatore del mondo intero e gli Unown. Diceva che Arceus, secondo lui, poteva creare solo vita, per questo i concetti stessi di tempo, spazio e caos si incarnano in tre Leggendari. «Non ci sarebbe motivo di dare vita a questi elementi altrimenti astratti e che permeano il mondo intero, no?» Anita annuì. «Arceus non è un architetto, non è uno scriba, non un ingegnere, non comprende il concetto di materia o quantomeno non lo intende come lo intendiamo noi», spiegò. L’Allenatrice non era sicura di capire appieno. «Arceus però, come ho visto con i miei stessi occhi anni fa, comunica con gli umani!»
   «Con l’Allenatore che è venuto qua ed ha seguito Camilla nelle Rovine?»
   «Esattamente. Comunicava come un qualunque altro Pokémon, ma non ha senso una cosa simile: Arceus è colui che ci ha dato l’esperienza stessa. Deve saper comunicare con noi in qualche maniera: sapevi che queste Rovine erano in realtà un tempio dedicato a lui?» Lei scosse la testa. «Questi resti sono collegati alle Rovine d’Alfa. Gli abitanti di entrambe le regioni volevano che Arceus parlasse loro e come parlare con qualcuno quando non si può fisicamente fare? Si scrive». L’uomo andò avanti per qualche ora ad esporre le prove a sostegno della sua tesi e proporre ipotesi che limitavano le capacità telepatiche di Arceus e minavano tanti miti che lo ritenevano onnipotente. Anita ascoltò attentamente, pur non avendo interesse in queste cose.
   Si diresse poi ad Hoenn. Anche lì visitò luoghi che si sarebbero potuti definire turistici e fece domande banali. Constatò la cura impiegata nel Centro Spaziale di Verdeazzupoli. Trascorse più tempo del dovuto a Porto Alghepoli, dove anche i suoi compagni – nonché quelli nuovi che aveva catturato nel mentre – sembravano stare particolarmente bene. Ancora, apprezzò Forestopoli e qui scoprì il personaggio di Rocco, a cui si interessò per un certo periodo, tramite Alice, una saggia che tutti gli abitanti seguivano ed ammiravano senza mai contraddirla; non era un culto cieco, la donna diceva cose che perfino lei riteneva giuste. Le ricordava, inoltre, la Foresta Bianca, ed a causa di ciò le risultò difficile andarsene subito.
   Descrivere l’interità dei suoi viaggi da allora in poi, sarebbe difficile. Però quel nuovo vagabondaggio sembrava più essere una lunga, lunghissima vacanza. Anita si era dimenticata del disagio che provava ripensando ad Unima, tanto che un giorno disse le uniche parole che non credeva avrebbe più pronunciato: «Torniamo a casa». Dava la colpa alla consapevolezza che non avrebbe più ricordato le carezze segrete di N, che non sperava più di sentirle nuovamente. Il momento in cui le loro strade si erano nuovamente incrociate, non era stata capace di piangere ancora pensando alle vecchie passioni che prepotentemente l’avevano spinta ad abbandonare i posti della sua gioventù. E col senno di poi, il fatto di averlo incontrato nuovamente in un luogo che non era quello da cui stava scappando, ma al contrario, che aveva avuto il coraggio di affrontare, le dava speranza. Non speranza di balzare ancora una volta sulla via del suo destino, senza un motivo, ma sperava che avrebbe scorto la bellezza di una luce così prepotente smettendo di fuggire. Non pretendeva fosse N. Non pretendeva fosse la felicità. Sperava che accettando le sfide che tornare a Unima significava affrontare, le cose si sarebbero sistemate. Credeva che prendersi le proprie responsabilità era un passo più vicino al venir ricompensata.
   Mentre sorvolava Austropoli, pensò che “i grattacieli somigliano alle loro torri”, che magari su uno di loro si sarebbe riposato Ho-oh, che era grata di non chiesto niente a quello che avrebbe ricordato per sempre come il suo più sofferto amante, che preferiva la Metrò Lotta al Supertreno e che non vedeva l’ora di riabbracciare i suoi amici, prima di far finta di non essere sparita per anni e dire «È da un po’ che non ci sentiamo».
 



 
angolo d'autrice. mentre lavoro a tempo perso al rifacimento di Bb, mi è venuta in mente un'idea per tener attivo il profilo. scrivere una raccolta di one-shot basate su polaroid 2.0 di carl brave e franchino, che è una delle mie ossessioni da due anni a questa parte, con protagonisti i personaggi di unima. o meglio, l'idea iniziale era una raccolta sulla ferriswheel, ma non mi precludo la possibilità di scrivere su altri personaggi: alla peggio cambierò descrizione.
il collegamento con la prima canzone su cui ho scritto, solo guai, è labile. oltre alle occasioni citazioni dirette, volevo risolvere il conflitto del testo originale: meglio se non ne parliamo, ti direi dai, prendi un aereo e partiamo, ma tanto ormai. questa frase del ritornello è essenzialmente la linea guida che mi sono data. poi scrivendo, anita è diventata patriottica ed un'appassionata di grandi allenatori incapace di affrontare in maniera matura la sua delusione amorosa e che aspetta sia il caso a costringerla a farlo. volevo trasmettere il senso di malinconia e l'illusione che la felicità e la serenità siano ad un grande evento di distanza. nella storia si potrebbe pensare che il grande evento che rende anita, per così dire, "felice", sia avvenuto e sia stato l'accidentale incontro con n: invece no, non è successo niente, avrebbe potuto renderlo un grande evento parlandogli, ma non lo ha fatto, trovando così la serenità nella consapevolezza che non è necessario vivere una riunione drammatica per capire quale direzione si vuole seguire nella vita. basta rifletterci su, e così capisce di amare unima e di volerci tornare.
spero sia stata una lettura gradita nonostante lo stile un po' ridondante e l'atmosfera cupa per la maggior parte del testo. ovviamente consiglio a tutti di ascoltare l'album a cui sto facendo riferimento se non l'aveste già fatto a suo tempo (specialmente se avete familiarità con i modi di dire romani o roma stessa). grazie di esser giunti fino a qui!!
   
 
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