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Autore: Shireith    06/08/2020    3 recensioni
Sherry è scappata, sì, ma d’altronde solo questo può fare: scappare. Può fuggire, nascondersi, addirittura maturare col tempo la pallida speranza di essere al sicuro; a nulla servirà. Gin la inseguirà anche in capo al mondo, se necessario – è un corvo, dopotutto, e i corvi, specie se avari, non si lasciano sfuggire le prede.
Storia partecipante al contest "Il Colore Del Peccato" indetto da Laila_Dahl sul forum di EFP.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Ai Haibara/Shiho Miyano, Gin
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Corvo che inseguiva gli angeli


 
 Occhi color indaco si tuffano nei suoi, glaciali e inespressivi. La giovane Sherry lo osserva da sottinsù con espressione all’apparenza dura, ma il tremolio delle sue mani sottili tradisce i timori della sedicenne che vorrebbe esser ovunque tranne che lì.
 «Che cosa ti serve, Gin?»
 Anche la voce è incerta – a Gin questo piace. Shiho, invece, s’ammonisce in silenzio; se solo non ci avesse messo tanto a sbrigare le ultime faccende in laboratorio, ora sarebbe a casa con Akemi. Quando – qualche minuto prima – ha sentito la porta schiudersi e quella ha illuminato una porzione di stanza, ha immaginato si trattasse proprio di lei, di sua sorella. Invece è comparso Gin.
 Non è riuscita a trattenere una reazione spontanea: è sbiancata, poi ha schiuso le labbra per liberare parole che tuttavia non sono mai venute a galla. C’è stato solo un rantolo, almeno crede. Non ricorda bene. La mente le si è offuscata. Ora è di nuovo lucida, ma la paura è sempre lì, le striscia sottopelle come un essere viscido con la promessa di non abbandonarla mai.
 Continua a osservare l’uomo che come lei rimane in silenzio, con la differenza che il suo non è un silenzio indotto da alcun sentimento d’inquietudine; pare divertito, anzi.
 Lo vede misurare a piccoli passi la stanza immersa nella penombra e gettare occhiate a oggetti di ordinaria amministrazione che non destano in lui alcun interesse. Gin agguanta un becher e lo studia svogliato, pensando tra sé che non gli tornerebbe utile nemmeno se volesse versarci dentro un po’ di liquore. I timori di Shiho sono fondati: temporeggia di proposito, sa di non piacerle, di metterla a disagio.
 Tenendo fede al silenzio, Gin affonda la mano sinistra in tasca e ne estrae un pacco di sigarette; ne preleva una e se la porta alla bocca, stringendola tra i denti e accendendola senza nemmeno chiedere il permesso – non ne ha bisogno, uno come lui. Shiho lo osserva per tutto il tempo immobile, maturando in sé la pallida e remota speranza che salti fuori qualche imprevisto che lo costringa ad andarsene.
 Non avviene.
 «Ti dà fastidio il fumo, ragazzina?»
 In un altro frangente, Shiho rivolgerebbe un sorriso sprezzante alla vita: quando mai è stata fortunata, lei? Quando mai un suo desiderio, per quanto sciocco e insulso, si è avverato?
 S’impone di concentrarsi su Gin, di reggere il suo gioco al massimo delle sue capacità. «No», è l’unica sillaba che le scivola dalle labbra. «C’è tanta gente che fuma, qui, non è un problema.»
Molto bene, Shiho.
 Ha risposto alla domanda di Gin senza dargliela vinta ed è anche riuscita a non offrirgli qualche appiglio per continuare a infierire. Non si è sottomessa né si è posta in modo sfacciato o impertinente, risultando di fatto neutra.
Gin sorride compiaciuto. «Non sei più rompiscatole come un tempo.»
 Ricorda ancora quando l’ha incontrata per la prima volta: era appena una bambina di sette, forse otto anni, e si era lamentata per via della puzza di rancido e aveva versato parecchie lacrime perché le mancava Akemi.
 «Sono cresciuta, da allora», osserva Shiho – vuole spezzare il silenzio, il modo in cui la osserva Gin la fa sentire inadeguata, sporca.
 «Lo vedo.» Gli occhi dell’uomo corrono lungo tutto il suo corpo e si soffermano in punti fin troppo specifici. Shiho deglutisce – Gin se ne accorge e sorride. Dopo attimi che a Shiho paiono decenni, Gin risale lungo i suoi fianchi – smettila di guardarmi, non sono tua ­– e si sofferma sul suo viso. La sua pelle è candida e liscia, i suoi occhi che lo scrutano diffidenti lo invitano a volere di più, ancora di più. I suoi capelli sono bellissimi. Quelle ciocche ramate appartengono a lei e a lei soltanto, non ci sono altri membri dell’Organizzazione con una chioma simile – non che Gin sappia, almeno; non è tipo da mostrare interesse per i moscerini.
 Che belle, quelle ciocche ramate. Un giorno saranno sue.
 Il tempo scorre lento, scandendo i battiti tormentati del cuore di Shiho.
 Gin pensa si sia appena tradita con le sue stesse mani quando la vede scoccare una quarta occhiata all’orologio – le ha contate.
 «Hai fretta?» domanda compiaciuto – ha vinto.
 «Un po’», ammette lei, cogliendolo di sorpresa. «Il ragazzo di Akemi ha insistito per venirmi a prendere. Lo conosci, credo: Dai Moroboshi – Rye.»
 Gin non riesce a trattenere una smorfia. Non gli piace quel Dai Moroboshi, puzza di guai. Il suo fiuto gli suggerisce addirittura che possa essere invischiato con i federali; non avendone tuttavia le prove, si limita a tenere quest’informazione per sé. È risaputo, comunque, che Rye ronza attorno ad Akemi Miyano come un’ape sul miele, ragion per cui Gin non dubita delle parole di Sherry.
 Afferra con fastidio la sigaretta non ancora finita e la spegne su un tavolo, senza curarsi di rovinarne la superficie o di spargere cenere in giro. «Quel coglione fa il tassista, ora?» Sbuffa, sprezzante, e un ghigno orribile gli deforma il viso. «Peggio per lui. E per te, ragazzina.»
 Shiho lo osserva andarsene con il cuore in gola: quand’è sicura della sua lontananza, si dilegua senza mai guardarsi alle spalle. Sente ancora la paura rintanata sottopelle, ma presto subentra anche una buona dose di orgoglio – è la prima volta in cui sia mai riuscita a fregare Gin e la cosa le piace.
 Purtroppo per lei non durerà a lungo.
 
*
 
 Gin la vuole, la desidera, la brama. Ha capito, da quel lontano giorno di due anni prima, che Sherry deve essere sua. Le ha fatto visita spesso, da allora.
 Ogni volta i suoi occhi inespressivi si tuffano in quelli indaco di Sherry, poco importa che lei non voglia – meglio, anzi. Ogni volta Gin la osserva farsi piccola sotto il suo sguardo fisso nel vano tentativo di dissimulare il disagio. A Gin tutto ciò piace, lo diverte. Dipende da lei – dal fastidio che le causa, sì, ma soprattutto da lei come persona.
 Per Gin, Sherry è diventata ormai un’ossessione, la sua costante in un mare di incarichi noiosi e raramente stimolanti. Forse si è avvicinato a lei un po’ per inerzia, deve ammetterlo; tuttavia della ragazza lo attirano tante cose.
 L’ingegno, anzitutto. Possiede, nonostante la giovanissima età, una spiccata intelligenza che ha modellato tutti gli altri lati del suo carattere: la sua introversione, i suoi modi di fare distaccati, la sua ironia pungente – e tanto altro. Questo, in realtà, è dovuto alla vita che l’Organizzazione l’ha costretta a condurre, ma Gin lo ignora; o meglio, non se ne cura. Sherry ha la vita che ha, semplicemente. Non è tipo da interrogarsi sui perché dell’esistenza, lui: prende la vita così come viene; e se non gli piace quello che ha da offrire, trova un modo per porvi rimedio.
 La sua stessa Sherry rientra in questo schema. Non gradisce le sue attenzioni? Non è importante. Lui la vuole, è questo che conta. Opporsi non farà altro che rallentare il processo – solo rallentarlo, perché fermarlo è impossibile.
 
*
 
 Un giorno Gin raggiunge il suo scopo – non avrebbe potuto essere altrimenti.
 Gli eventi che portano al suo ambito traguardo sono vaghi, questo perché poco importanti. Ricorda, come sempre, di essere andato al laboratorio. A Sherry questo dava molto fastidio, all’inizio, ma poi si è abituata – arresa? – alla presenza costante dell’uomo e si è adattata di conseguenza.
 I suoi occhi, freddi e maligni, l’hanno catturata con lo sguardo, soffermandosi con particolare attenzione sulle zone che finalmente sono maturate. L’indaco di Sherry non l’ha accolto con gioia, anzi l’ha fulminato, quando le sue mani grandi si sono insinuate tra le sue ciocche ramate e l’hanno attirata a sé. Gin ha registrato ogni singola sfumatura e odore di quei capelli tanto belli mentre la baciava con voracità.
 L’ha poi accolta nel suo letto; proprio lì, tra quelle lenzuola candide di lino così in contrasto con loro – con lui. Il corvo ha finalmente catturato la sua preda; affamato, avaro, vorace, l’ha da subito trattata come qualcosa di suo.
 Ricorderà a vita, Gin, quegli occhi indaco che l’hanno guardato in un misto di mille sentimenti che dell’amore candido e vero non hanno nulla; occhi indaco che l’hanno guardato con diffidenza, odio, disprezzo. A lui sta bene così. Il suo non è amore, non lo sarà mai; è il primo a esserne conscio. Non ha mai voluto l’amore, Gin – solo lei.
 Scosso da un desiderio primordiale, l’ha inseguita a lungo, incurante del rifiuto e dei sentimenti di Sherry. Ancora una volta, ha dato retta al suo istinto e a quello soltanto; l’istinto di averla, di farla sua, costi quel che costi.
 C’è riuscito – il corvo avaro ha agguantato la sua preda.
 
*
 
 Vodka non l’ha mai visto tanto livido di collera.
 «Scappata come, Vodka?» sibila a denti strettissimi, gli occhi fissi sull’uomo più robusto. Malgrado la stazza fisica, quello si sente impotente.
 Deglutisce, Vodka. «È… scappata, non c’è più. Non so come abbia fatto. Le manette con cui l’avevamo imprigionata sono ancora lì, non sono state né forzate né aperte da una chiave. Forse si è slogata un pollice ed è riuscita a far scivolare il polso», azzarda.
 Gin sente montare la rabbia, ma s’impone di stare calmo, limitandosi a fulminare Vodka con lo sguardo – se non fosse un membro tanto importante gli sparerebbe seduta stante, tanto il boss non farebbe storie. Non essendo – per ovvi motivi – a conoscenza dell’effettivo svolgersi dei fatti, Gin dà tuttavia per buona la sua ipotesi. Si fa largo nella sua mente l’immagine di quella ragazzina che si libera dalle manette facendosi beffe di lui e avverte l’impulso impellente di rompere qualcosa.
Maledetta ragazzina.
 Solo più tardi sorge in lui il pensiero che dopotutto va bene così. Sherry è scappata, sì, ma d’altronde solo questo può fare: scappare. Può fuggire, nascondersi, addirittura maturare col tempo la pallida speranza di essere al sicuro; a nulla servirà. Gin la inseguirà anche in capo al mondo, se necessario – è un corvo, dopotutto, e i corvi, specie se avari, non si lasciano sfuggire le prede.
 
*
 
 Vorrebbe che lei fosse lì.
 La piccola Sherry ha sempre tremato di paura al minimo accenno del suo nome, tre lettere e una sillaba che le raggelavano il sangue nelle vene e le mozzavano il fiato. La sua fragile corazza l’abbandonava di colpo, quando gli occhi piccoli e sadici di Gin la trovavano.
 Gin ama questo aspetto di Sherry – sempre l’ha amato e sempre l’amerà. La sfuggente Sherry, figlia prodigio di due tra i più grandi scienziati che i corvi abbiano mai accolto sotto le proprie ali, è sua; solo lui è in grado di instillare in lei quel terrore che una normale ragazza della sua età proverebbe per molto meno. Gin si sente potente, sa di avere il controllo – anche ora che lei è lontana, Sherry è proprietà sua.
 Sicuro di ciò, un ghigno orribile – sporco, maligno, perverso – gli cattura il volto pallido e scavato mentre osserva la ciocca di capelli ramati che stringe tra indice e pollice: ne conosce ogni sfumatura, ogni nodo. Anche ora che lei è lontana – eppur sempre incredibilmente vicina – Gin può quasi sentire l’odore peculiare dei suoi capelli mentre gli pizzicavano il naso; può avvertire su di sé il contatto della sua pelle candida e bollente.
 Sale in macchina con un unico pensiero – la sua Sherry è stata lì e quella ciocca lo riporterà da lei.
 
*
 
 Shiho trema: l’aria è pungente e lei, sudata, è quasi nuda. I vestiti sono ridotti a brandelli e la coprono appena.
A fatica riesce a sollevare il mento per guardare in alto, verso il cielo: nel suo campo visivo si concretizza il suo incubo peggiore, un incubo che ormai non è più frutto dei suoi timori ed è diventato certezza.
 «Gin.»
 Lo pronuncia a fatica, quel dannato nome che lei odia, odia, odia; lo pronuncia a fatica, ma non trema – non di paura, almeno. Shiho si dice di non averlo fatto perché non vuole dargli la soddisfazione di vederla in uno stato tanto pietoso, ma Sherry sa bene che non è così; sa, ormai, di conoscere così a fondo Gin da non poterne più essere spaventata. Gin è parte di lei, lo è diventato quando gli ha permesso di metterle le mani addosso, di bearsi dei suoi occhi, di inebriarsi del suo profumo – quando gli ha permesso di vincere.
 Il premio della vittoria di Gin è lei, ovviamente; e benché il premio lo ignori, benché si ripeta che no, è solo colpa sua, in realtà non lo è. La Shiho bambina e ragazzina non ha colpe. La Sherry divenuta quasi adulta non ha colpe. Il premio che ora giace sull’asfalto nero e freddo non ha colpe.
 Nero – quale ironia.
 Le viene quasi da ridere.
 Il nero ha dettato tutta la sua vita. L’ha strappata al grembo materno, allontanandola dai genitori di cui s’è presto disfatto; poi c’è stata Akemi, solo e ultimo tassello bianco della sua grigia esistenza che una volta sparito ha tramutato quel grigio in nero.
 Il suo colore.
Il colore di Gin.
 «Come hai fatto a trovarmi?»
 È stanca, sfinita; le parole le escono quasi per miracolo, tra un colpo di tosse e l’altro. La mente è annebbiata, i ricordi vaghi: ha memoria di Gin che le somministra l’antidoto – probabilmente temporaneo, sviluppato da chissà quale scienziato dell’Organizzazione – e lei che torna a essere Shiho Miyano tra un gemito di dolore un brivido di freddo.
 Gin s’inginocchia a due passi da lei. Le carezza il volto con la mano sinistra, la stessa mano che poi s’insinua tra i suoi capelli e che lei non può allontanare perché troppo debole. La vista appannata, riesce a stento a vederlo tuffare l’altra mano in tasca ed estrarne una ciocca ramata. Il familiare ghigno attraversa il volto di Gin e lei vorrebbe sputargli in faccia.
 «È stata questa a portarmi da te, Sherry», spiega tranquillo, dondolando la ciocca nell’aria fredda della notte. «Divertente, non trovi? Anche la scorsa volta è andata così. La differenza è che ora non c’è nessuno a salvarti.»
 Ha ragione, non c’è nessuno a salvarla: è sola, come lo è sempre stata.
 Shiho non crede nemmeno più che qualcuno debba salvarla. È forse stata un angelo, un tempo; quando ancora era bambina, quando ancora la purezza del suo animo era incorrotta. Ma poi i corvi l’hanno presa e scaraventata all’inferno, trasformandola in un angelo caduto. Nemmeno Conan, angelo bianco, ha potuto strapparla al suo destino.
 Sorride al pensiero: spera stia bene, Shinichi. Non le è dato saperlo, ma si augura ardentemente di sì.
Non piangere per me, Kudo – è un pensiero che nasce senza che lei lo controlli. Fa quasi ridere: è come se avesse appena preannunciato il suo destino.
 Si sente sempre più debole; ogni respiro è una fatica immane, una fitta lacerante alle costole la percuote a ogni entrata d’aria. Gin osserva divertito. Dopo non sa quanto tempo, lo vede alzarsi e spazzolarsi i pantaloni sporchi di polvere. «Torno subito, Sherry», lo sente dire mentre si allontana di alcuni passi, dandole le spalle.
 L’occhio le cade altrove. È un istante – un pensiero s’impossessa di lei e Shiho subito lo afferra, tramutandolo in certezza. Non saprebbe dire quale parte di lei sta dettando le regole quando prende la decisione più difficile e liberatoria della sua vita; una decisione che quella vita gliela strapperà – patetico, in effetti.
 È patetico, pensa mentre a fatica striscia verso quei frantumi di vetro che ha intravisto poco prima, che la sua ultima scappatoia risieda nella morte – è patetico, si ripete mentre afferra il pezzo di vetro più grande e tagliente. È però l’unica opzione che le rimane e Shiho è disposta a tutto, pur di non essere di nuovo sua.
 Non vuole. Non vuole che ancora una volta il corvo avaro incomba su di lei, che la catturi tra le sue ali con la convinzione di poterla controllare – non vuole più, Shiho, che lui trionfi.
 Lo fregherà di nuovo – sarà l’ultima volta, ma anche la più memorabile.
 Lo stesso terrore che Shiho ha provato per tanti anni cattura lo sguardo di Gin non appena l’uomo si volge e comprende ciò che lei sta per fare. Lo stesso ghigno che Gin ha rivolto a Sherry per tanti anni s’impossessa delle labbra di Shiho mentre con tagli netti e precisi recide le vene di ambi gli avambracci.
 E mentre lo sente imprecare invano, una preghiera silenziosa sfugge alla sua mente – è il desiderio maligno ed egoista che tutta la sofferenza che ha provato diventi anche la sua, di Gin.
 Ironico – alcuni direbbero poetico – che, proprio sul punto di morte, Shiho auguri a Gin di vivere a lungo. Gli augura, sì, di condurre un’intera esistenza nel tentativo di inseguirla; sarà un tentativo vano, perché lei non ci sarà più. Gli è sfuggita, finalmente. Lui potrà anche cercarla, ma non la troverà mai. Vivrà una vita intera e gli mancherà la cosa – la persona – che più di tutte ha desiderato.
 Quando la morte se la prende, Shiho è contenta. Si aspetta di vedere le porte dell’inferno spalancarsi per lei, dandole il bentornato a casa; e invece vede tutto bianco. Non ha più freddo, né caldo. Si sente bene. Si sente in pace. Crede addirittura di sentire qualcuno che la chiama; creder di vederlo – di vederla.
 
«Shiho-chan
 
 Un uomo e due donne, una molto più giovane dell’altra; la prima ha i capelli chiarissimi, la seconda li ha scuri.
 Shiho sorride – ora vi è davvero, a casa.
 
L’angelo caduto è morto.
Il corvo avaro vivrà.
   
 
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