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Autore: adipocera    08/08/2020    0 recensioni
Era difficile navigare i silenzi durante il giorno.
Ma di notte...
(Occhio agli spoiler per le ultime stagioni. Sickfic, but make it angst (mi dispiace), e un po' sperimentale. Hilson... sempre.)
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Greg House, James Wilson | Coppie: Greg House/James Wilson
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Più stagioni
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Era difficile navigare i silenzi durante il giorno. Fare attenzione a dove mettere i piedi, camminare davanti a una finestra aperta, esporsi alla luce crudele del sole come sotto al riflettore di un palco, girare le chiavi nella serratura con ossessiva cautela, cercando inutilmente di non fare rumore. Era innaturale, muoversi così di soppiatto in pieno giorno, come se l'aria non fosse già satura di rumori e altri stimoli, la gente fuori quell'appartamento, nel palazzo, le macchine fuori da quel palazzo, per le strade, e le sirene della polizia e delle ambulanze spiegate ad ogni ora. Era innaturale tenere la tivvù spenta e ammutolire sospiri di stanchezza perché il tuo migliore amico era di là in camera tua a piangere, innaturale evitare camera tua per non sentire i lamenti incessanti del tuo migliore amico, innaturale avere paura del tuo migliore amico, di cosa la malattia- o la terapia- o la disperazione lo stesse facendo diventare.
Arrivava un momento in cui si zittiva e sapevi che era ora di correre (per quanto la tua gamba ti permettesse di correre) al suo fianco e tenergli il secchio e ascoltare i gorgoglii del suo esofago esausto mentre rimetteva, e rimetteva, finché non portava su solo acqua e rimpianti, e teneva gli occhi opachi fissi su quel disastro che aveva combinato, e tu tenevi i tuoi in un punto sconosciuto tra i suoi capelli spettinati mentre il rancidume nauseabondo cominciava a riempire l'aria che tu inspiravi avidamente, perché in quel puzzo mortificante c'era qualcosa di quasi piacevole, e nei suoi colpi di tosse qualche cosa di confortante, qualche cosa della sua presenza, del suo bisogno di te.
Ed era mortificante davvero, perché tu odii aiutare le persone. Ma la tua possessività prevalse quella volta come aveva già fatto altre cento volte prima e avrebbe fatto altre cento, mille volte dopo. Poi il momento svaniva e con esso la validità della tua scusa; lui alzava gli occhi verso di te come a dire grazie e arrivederci e con quel piccolo lampo di affetto incondizionato che aggiungeva resta, parlami, ti prego. Ma tu ami la tortura, degli altri e di te stesso, quindi sfoderavi quel tuo sguardo da è troppo tardi e andavi via, e anche senza guardare indietro sapevi che lui aveva il viso sepolto nelle mani e nessuna forza di gridare.
Ma di notte.
Di notte era scontato non dover fare rumore, ed era facile navigare i silenzi.
Dormivi- o cercavi di dormire, sul divano, perché non sopportavi il suo incessante agitarsi e rigirarsi nel sonno, né tantomeno i suoi sospiri, i suoi respiri e la sua stupida presenza in quel tuo stupido letto. E poi erano giorni che vi ignoravate a vicenda. Non ti saresti arreso così in fretta.
Sveglio. Insonne. Ora seduto al pianoforte, accarezzavi i tasti, senza premerli. Le finestre erano chiuse, e del caos urbano che infuriava in strada non trapassavano che le luci elettriche dei lampioni e un ronzio soffuso in sottofondo.
Esitavi. C'era un modo per lasciare che quelle emozioni indesiderate lasciassero il tuo corpo, anche se solo temporaneamente. Suonare. E quindi ora iniziavi, lento, pianissimo, a scorrere le dita sui tasti immacolati, improvvisando una melodia che era tutta te: angosciosa, desiderosa, in bilico verso qualcosa e ancorata a tutto il resto, a un mondo che stava andando in pezzi.
Eri concentrato e perfettamente conscio del tuo posto in relazione allo spazio, conscio di dove fossero il divano, le mensole, ogni piastrella... i suoi occhi sulla tua schiena curva. Si era alzato- perché era già sveglio da prima, pensavi, e inciampando nel buio era arrivato sull'uscio della porta alla quale ora si teneva saldamente aggrappato, e potevi sentire il suo respiro pesante.
Continuavi a suonare, e la tua praticata maestria nascondeva il tremore delle tue mani e delle tue pupille. Conscio di dov'eri, e di dov'era lui. Dei suoi passi scoordinati. Si era appoggiato con la schiena dietro al divano, per poterti guardare.
Lo sentisti dire scusa ed era quello che ti aspettavi da lui, perché niente lo feriva più che sapere di aver ferito qualcuno. Ed ecco una cosa pericolosa, perché i suoi sensi di colpa funzionavano su di te meglio che su chiunque altro, e tu lo detestavi e lo amavi al contempo. Nessun altro ti portava in ginocchio con una tale semplicità, e ciò era da ammirare. Forse in fondo si trattava più di una tua debolezza che di un suo punto di forza, ma che differenza avrebbe fatto ammetterlo ora? Quindi iniziasti un pezzo jazz, chiedendo cosa posso suonare per te, stasera? che era come accettare le sue scuse, eccetto che era molto, molto più di quello.
   
 
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