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Autore: Soul of Paper    16/08/2020    6 recensioni
[Imma Tataranni - Sostituto procuratore]
Lo aveva baciato e gli aveva ordinato di dimenticarselo. Ma non poteva certo pretendere dagli altri ciò che non riusciva nemmeno a fare lei stessa. Imma Tataranni - Imma x Calogiuri
Genere: Introspettivo, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Nessun Alibi


Capitolo 42 - Partenze e Ritorni


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.



 

“Allora, le è piaciuto il regalo poi?”

 

Calogiuri era tornato da poco, dopo essersi fermato a cena dalla gattamorta. Glielo aveva anticipato, quindi si era costretta a leggersi un libro e ad aspettarlo a letto e non in piedi, come se la cosa non la disturbasse più di tanto.

 

Alla fine c’era pure la bambina e alla gelosia doveva metterci un freno, anche se questo non le impediva di sparare qualche battuta qua e là.

 

“Sì, sì, molto,” confermò, mentre si sfilava i vestiti, aggiungendo con un sorriso, “pensa che Bianca ha detto che il vestito da flamenco della Barbie ti starebbe bene.”

 

Era una delle conversazioni più rilassate che avevano avuto da quando gli aveva annunciato che sarebbe andata a Matera da sola.

 

“E c’ha ragione! Se mai torneremo in Spagna, mi devo tenere uno spazio in valigia per portarmene a casa uno,” ironizzò, ma se ne pentì immediatamente quando notò l’espressione di lui rabbuiarsi.


“A me basterebbe andare a Matera, prima che in Spagna o chissà dove.”

 

Si maledisse per averglielo ricordato e per avergli servito quella battuta su un piatto d’argento. Quando ci si metteva Calogiuri era pure peggio di lei.

 

“Vado in bagno, se mi aspetti ti devo parlare di… di una cosa importante,” proclamò poi, avviandosi verso il corridoio.

 

Come se avrebbe mai potuto addormentarsi dopo un annuncio simile! Di solito parlare di cose importanti significava guai grossi, da che esistevano le relazioni sentimentali.

 

Sperò solo che non fosse ciò che temeva di più. Ma no… non ce lo vedeva Calogiuri a chiederle una pausa di riflessione per la storia di Matera. Ma doveva sbrigarsi ad agire, prima che fosse troppo tardi.

 

*********************************************************************************************************

 

“E quindi… Irene mi ha chiesto di andare con lei a Milano questo fine settimana, cioè quello che viene, che oggi è domenica e-”

 

“E l’ho capito Calogiuri, mica sono rincoglionita ancora, anzi!”

 

L’aveva raggiunta a letto e le aveva spiegato tutto: via il dente via il dolore. Se i denti non glieli spaccava tutti direttamente lei.

 

“Lo so, ma… è che… so pure che non ne sarai felice e… e lo sapevo quando ho accettato ma-”

 

“E quindi cosa sarebbe? Una ripicca? Io vado a Matera da sola e tu te ne vai a Milano con la cara Irene?” gli domandò, con un’espressione indecifrabile, che non capiva del tutto. Non era rabbia, non solo almeno, c’era pure altro.

 

“No, no, non è una ripicca, anche se evidentemente continui a ritenermi un ragazzino infantile, che se litiga con te si butta tra le braccia della prima che trova, ma-”

 

“Non ho mai detto questo, Calogiuri! Anche se Irene non è certo la prima che trovi e… tenere il punto come fai tu ed ignorarmi, o dire quattro parole in croce, per giorni, quando sei arrabbiato, non è che sia proprio il comportamento più maturo del mondo, mi sembra!”

 

“Perché, tu quando ti arrabbi invece che fai, a parte urlare e saltare alle conclusioni, esagerando? E non solo con me! Come se mi dicessi facilmente cosa pensi! Sono giorni che aspetto una spiegazione credibile sul perché non mi hai voluto a Matera con te! Ma non è questo il punto. Il punto è che, se vado a Milano con Irene, è perché non posso lasciarla da sola dopo tutto quello che è successo a lei e Bianca a Milano. E nessun altro a parte te e Mancini sa di questa storia e… il lavoro è lavoro.”

 

Imma rimase per un attimo in silenzio, sempre con quell’espressione strana. Non sentendola rispondere, gli venne spontaneo proseguire, “e… e poi sarò di ritorno per martedì, sempre se ti ricordi che giorno è."

 

"Eh certo che me lo ricordo, Calogiuri! La memoria ce l'ho ancora buona ed è passato un anno, mica una vita!"

 

"A volte mi sembra il contrario e penso che, per certi versi, ero più libero di stare con te allora. Almeno a Matera ci potevo mettere ancora piede. E qui a Roma non dovevamo tenere il basso profilo.”

 

Imma sospirò e scosse il capo incrociando per un attimo le braccia al petto e guardandolo a lungo, occhi negli occhi, senza dire niente.

 

“Ti fidi di me o no? Io mi sono fidato nel viaggio tuo a Milano con Mancini che… che lasciamo perdere! Irene è un’amica e basta. E non mi interessa farti ingelosire o fare una ripicca, anche perché non servirebbe a niente. Io voglio che tu sia convinta di noi due veramente e non solo perché… perché ti ci senti costretta o magari perché hai paura di perdermi. Te l’ho già detto un anno fa, anche se forse te ne sei scordata.”

 

“Calogiuri…” gli sussurrò e vide la commozione nei suoi occhi e nel suo sorriso. Sentì una mano sul viso, in una carezza, ma le prese le dita tra le sue, bloccandola.

 

“Io voglio tutto Imma, voglio una storia vera, voglio la certezza che non ti senti a disagio a farti vedere in giro con me. E non solamente dove non ci conosce nessuno. Voglio fare parte di tutta la tua vita, fino in fondo. E se… se non è possibile… forse dobbiamo capire se questa storia può funzionare veramente.”

 

“Perché questa non è una storia vera, mo?!” gli domandò lei, ben più rabbiosa di quando gli aveva annunciato di Irene, “il mondo intero sa di noi due, Calogiuri, e… ed io sono molto orgogliosa di stare con te, molto, anche se non lo vuoi capire!”

 

“Hai uno strano modo di dimostrarlo, Imma!”

 

“Se non ti ho portato con me a Matera è perché c’è tutta questa storia dei giornalisti e poi… e poi perché c’era la causa di divorzio. Altrimenti ti avrei chiesto di accompagnarmi, senza problemi.”

 

“E quando succederà, allora? Per natale? O vuoi ancora passarlo con… con il tuo ex marito oltre che con tua figlia e… non vorrai mischiare le cose?”

 

“Presto, Calogiuri, presto. E no, non passerò il natale con Pietro, considerato anche com’è andata a pasqua.”

 

“Presto vuol dire tutto e niente, Imma. E pure dirmi che non lo passerai con Pietro, se non so se lo vorrai passare con me. Ed è questo il problema, e non soltanto per natale,” esclamò, amaro, perché era quello che lo tormentava da giorni.

 

“Calogiuri, se ti ho detto presto è presto. Te lo prometto,” ribatté, decisa come raramente l’aveva mai vista, e gli prese le mani e ripetè, dritta negli occhi, “ti fidi di me o no?”

 

“Lo sai che mi sono sempre fidato di te, Imma, sempre. Ma la fiducia bisogna mantenerla con i fatti, e spero davvero di poter continuare ad avere fiducia in te ed in noi due, soprattutto. E che ce l’abbia pure tu.”

 

“Certo che ce l'ho, Calogiuri!”

 

“Pure per Milano? Non starai male e non starai in ansia se io parto?”

 

“Questo… questo non so se posso promettertelo, Calogiuri. Perché dipende da come tu ti comporterai. Ma… ma se non mi sono già messa ad urlare, come mi rinfacci tu, nonostante tu abbia accettato di andare a Milano con Irene, senza parlarmene, proprio prima del nostro anniversario… vuol dire che mi fido e che so che il lavoro è lavoro. Ma, anche in questo caso, la fiducia bisogna poi mantenerla con i fatti, Calogiuri.”

 

“Lo so… e comunque ho detto a Irene che te ne avrei parlato ma… sei stata tu a dirmi che non ti devo chiedere il permesso. E poi.... io non ti impedirei mai di fare una trasferta di lavoro, Imma. E… conoscendoti, volevo sperare che non me lo avresti impedito.”

 

“No, Calogiuri. La tua carriera per me è più importante pure della mia in questo momento, anche se non te lo vuoi mettere in testa. Perché sarebbe uno spreco enorme se non facessi il percorso che ti meriti. Ma il lavoro è una cosa, il rapporto con la cara Irene un’altra. Ma anche lì… se preferissi una come lei a me… a parte l’estetica… non potrei farci molto. Siamo completamente diverse, praticamente in tutto. E tanti cari auguri a farti dire da lei che cosa pensa veramente, Calogiuri!”

 

“Veramente a me lo dice, quasi sempre, a costo di essere sgradevole,” ribatté, perché gli venne spontaneo difenderla anche se… anche se una parte di lui sapeva benissimo che Irene era la persona più misteriosa e riservata che avesse mai incontrato.

 

Però c’era un motivo se era così ed era certo che non dipendesse da lui, ma dal suo passato, e con lui si era già aperta tantissimo ultimamente.

 

“Sullo sgradevole mi trovi perfettamente d’accordo, Calogiuri,” rimarcò, con quell’espressione di quando aveva appena sentito una cosa ovvia, “allora… sai già a che ora parti?”

 

“No, i treni li prenoterà Irene. Ma per lunedì sera sarò di ritorno,” le disse, con uno sguardo eloquente, sperando che lei cogliesse l’occasione magari per proporre qualcosa per il martedì o, quantomeno, per esprimere il desiderio di fare qualcosa, qualsiasi cosa, quel martedì.

 

Non che avrebbe cambiato il problema di base che avevano o che gli avrebbe chiarito tutti i dubbi. Ma sarebbe stato almeno un passo, al di là del basso profilo e dell’orgoglio, per dimostrargli che non solo ci teneva alla loro relazione, ma anche che quelle promesse che gli aveva fatto l’anno precedente intendeva mantenerle sul serio.

 

“Va bene… allora mo dormiamo, Calogiuri. Che abbiamo una settimana di lavoro e poi… e poi il fine settimana dubito che sarà esattamente di riposo,” pronunciò, dandogli un bacio su una guancia e distendendosi meglio sul cuscino.

 

Si diede dello stupido per la delusione che provava. Imma era così, era sempre stata così: orgogliosa e testarda e, in fondo, era quello il suo bello. Ma se si era innamorato di lei era anche per quella vulnerabilità che tirava fuori in certi momenti e perché, almeno con lui, non sentiva sempre il bisogno di fingere di essere invincibile.

 

E invece… quando si trattava del loro rapporto, quando litigavano soprattutto, era così maledettamente difficile per lei ammettere di poter avere avuto torto. Pure per lui non era facile, per niente, ma non poteva essere sempre lui quello comprensivo e conciliante.

 

Si distese e spense la luce, i dubbi sul futuro che gli pesavano sullo stomaco che manco dopo una cena di quelle di sua madre, quando tornava a Grottaminarda dopo una lunga assenza.

 

Rimase immobile, cercando di prendere sonno. Udiva chiaramente il respiro di Imma ed era ancora troppo veloce: anche lei non stava dormendo.

 

Improvvisamente un brivido lungo la schiena: il fiato di lei gli faceva solletico al collo. Si sentì abbracciare da dietro, il viso di lei che si rifugiava contro la sua spalla.

 

Per un attimo, gli ricordò il loro primo viaggio in moto.

 

Era un primo passo, anche se fisico, senza parole, e del resto il loro rapporto per tanto tempo non ne aveva avuto bisogno: contavano più i gesti, gli sguardi, da sempre.

 

Ma, per quanto quel contatto lo facesse sentire bene e per quanto la amasse da impazzire, forse non bastava a risolvere tutti i problemi e a chiarire tutti i dubbi.

 

Non più.

 

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“Calogiuri, più passano i giorni e più sembri uno zombie. Vuoi fermarti per un caffè o far guidare me?”

 

“No, no, tranquilla. Sono sveglio,” la rassicurò, mentre uscivano dal maledetto raccordo anulare, di ritorno da un sopralluogo.


“Lo spero, Calogiuri, che nei prossimi giorni devi essere in forze!” ironizzò e c’era qualcosa di strano nel modo in cui lo disse, che non capì del tutto.

 

“Temi che… che a Milano possiamo avere problemi?”

 

“Meglio essere pronti ad ogni evenienza, Calogiuri…” rispose, sempre in quel modo enigmatico.

 

Gli vennero in mente per un attimo le parole di Imma su Irene. Quando faceva così, tutti i torti non li aveva.

 

“A proposito, che vestiti mi devo portare per Milano?”

 

“Come?”

 

“Sai… a Milano… sono sempre tutti eleganti, non voglio fare o farti fare brutta figura!”

 

“Calogiuri, mi sa che hai visto troppi programmi televisivi su Milano. C’è in giro un po’ di tutto, dal più al meno elegante. Comunque… non so… vestiti normalmente, magari portati giusto una cosa più elegante, che non si sa mai. Anche se dubito i vestiti avranno molta importanza.”

 

“No, lo so che andiamo lì per lavorare. Ma tu sei elegante sempre, pure in casa. Non ti ho mai vista con i jeans o una maglietta.”

 

“Perché sono molto più scomodi i jeans dei pantaloni a palazzo che metto in casa, Calogiuri. Ma voi uomini non avete il problema delle curve, quindi non potete capire, temo.”

 

Sentì un poco di calore al viso, anche se era stupido imbarazzarsi per un commento simile.

 

“A che ora partiamo poi esattamente? Ti passo a prendere a casa o-?”

 

“No, Calogiuri, meglio che andiamo in taxi tutti e due, che almeno non lasciamo l’auto di servizio in stazione e non dobbiamo parcheggiare. E sull’orario… partiamo nel primo pomeriggio dalla procura, verso le quattordici.”

 

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“E dove pensi di andare così elegante, mo?”

 

Stava ritirando nel trolley l’unico completo buono che aveva, quando Imma era entrata e si era piazzata sulla porta della stanza con le braccia incrociate.


“Irene mi ha suggerito di portarmi un completo elegante, in caso servisse. Ma starò vestito normale tutto il tempo, credo.”

 

“Altre cose che ti ha suggerito di portarti? Che so… un costume da bagno se ci fosse la piscina, con l’hotel che si sarà scelta, conoscendola.”

 

“In realtà non so l’hotel come si chiami e se abbia una piscina, Imma, ma no, niente costume. Ed Irene ai vestiti manco ci pensava, sono stato io a chiederle cosa portarmi.”

 

“Ma bene… pure i consigli di moda chiedi mo alla cara Irene. Non che sull’argomento non sia ferrata, ma tu sei bello così come sei, semplice, con la maglietta o i maglioni ed i jeans.”


Per un attimo si chiese se Imma avesse fatto mettere una cimice anche sulla sua auto, oltre che a casa del Coraini, perché gli ricordava tremendamente il discorso fatto con Irene, anche se al contrario.

 

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“Calogiuri, ci sei? Guarda che rischiamo di fare tardi!”

 

“Sì, scusatemi ma… stavo cercando la dottoressa Tataranni per salutarla, ma mi hanno detto che è via per un sopralluogo. Grazie Asia,” si congedò, chiudendo la porta dell’ufficio di Imma e rivolgendosi verso Irene che lo attendeva con un trolley già in mano.

 

“Dai, Calogiuri, forza, veloce, come direbbe Imma,” lo schernì, precedendolo ad un passo incredibile, considerati i tacchi, anche se meno estremi di quelli di Imma.

 

Scese le scale il più in fretta possibile, recuperò il suo bagaglio ed uscì, trovandosi di fronte ad un taxi in attesa, il tassista che già stava caricando la valigia di Irene in auto, guardandola come se fosse un’apparizione celeste.

 

La sua espressione mutò decisamente quando lo vide avvicinarsi con l’altra valigia e si chiese se Irene lo avesse notato o meno, ma era già salita in auto.

 

Una volta che pure lui ebbe richiuso la portiera, il tassista partì fin troppo a razzo, ma almeno sarebbero arrivati in anticipo.

 

Appena superato il Tevere però, notò che l’autista, invece di andare verso sud, continuava a procedere verso est.

 

“Ma Termini non è in questa direzione…” disse, lanciando un’occhiata un po’ preoccupata verso Irene.

 

“Ed infatti alla Tiburtina dobbiamo andare. O così mi ha detto la sua signora. Signò, non è che vi siete sbagliata?”

 

“No, no, il treno ce lo abbiamo dalla Tiburtina, grazie,” rispose Irene con un sorriso, per poi chiarire, “ho trovato un’offerta migliore su un treno che partiva da lì, Calogiuri. E poi, col traffico, forse è pure meglio che andare fino a Termini.”

 

Annuì, tranquillizzandosi un attimo dalle sue paranoie. Forse stare troppo con Imma lo aveva fatto diventare sospettoso di natura ma, dopo tutto quello che stava succedendo con la storia dei Mazzocca e di Valentina, non poteva fare a meno di essere prudente.

 

E di nemici ne aveva fin troppi pure Irene, soprattutto dove stavano per andare.

 

Il resto del viaggio trascorse in silenzio, con Irene che ogni tanto gli lanciava delle occhiate che non capì, come faticava un po’ a capire diverse cose del suo atteggiamento degli ultimi giorni.

 

“Eccoci qua, fanno ventiquattro euro.”

 

Irene allungò venticinque, dicendogli, “tenga pure il resto!” e scese dal taxi.

 

La seguì, prendendole la valigia non appena il tassista risalì in auto, ed Irene corse avanti a lui, facendo strada.


“Ma… non si entra da di qua?” le chiese, vedendola proseguire nel parcheggio oltre la porta.

 

“Tranquillo, Calogiuri, conosco una scorciatoia per i binari dell’alta velocità. Seguimi,” ordinò e lui eseguì, anche se continuava ad essere dubbioso.

 

Costeggiarono i bus ed avvertì una fitta al petto quando notò quello, inconfondibile, per Matera, parcheggiato poco più avanti.

 

Irene si bloccò di colpo, toccandosi una tasca, tanto che evitò per poco di finirle addosso.

 

“Calogiuri, devo aver dimenticato il cellulare sul taxi. Vado a vedere se c’è ancora il taxista, se no-”

 

“Vado io, aspettami qua, faccio prima!”

 

“No, Calogiuri, resta tu qua con le valigie, tranquillo. Al peggio chiamiamo la centrale dei taxi e ce lo facciamo passare,” mezzo gridò, perché si era già avviata praticamente di corsa - di nuovo si chiedeva come fosse possibile con quei tacchi - verso il parcheggio.

 

“Cercavi me?”

 

La voce, ad un centimetro dalle sue spalle, gli fece fare un salto, tanto che il suo trolley finì a terra.


“I - Imma?!” domandò, voltandosi di scatto, chiedendosi se stesse allucinando e rimanendo a bocca aperta quando se la vide davanti, “che ci fai qua? Ho provato a venirti a salutare ma… mi hanno detto che te ne eri già andata.”


“Sei tu che sei un po’ in ritardo, Calogiuri. Dai, forza, che abbiamo l’autobus che parte tra quindici minuti ed i posti migliori se li sono già belli che presi.”

 

“L’a- l’autobus?” chiese, disorientato, non capendoci più nulla.


“Sì, l’autobus per Matera, Calogiuri,” rispose, con un sorrisetto, come se fosse la cosa più normale del mondo.

 

Si chiese se per caso stesse sognando, ma era tutto troppo assurdo per poterselo essere inventato.

 

“Ma che vuoi fare, un rapimento?” le chiese invece, conoscendola e conoscendo la sua avversione verso Irene, “perché va bene che voglio andare a Matera con te, ma mica posso mollare qua Irene. Dobbiamo partire tra poco, mi ha pure lasciato qua il bagaglio e-”

 

Ma Imma si mise a ridere, scuotendo il capo, con l’espressione che aveva i primi tempi della loro conoscenza, quando lui non capiva qualcosa o si confondeva.

 

“Calogiuri… va bene che di Irene sai cosa ne penso, ma secondo te ti rapirei da un viaggio di un lavoro soltanto perché sono gelosa?” gli domandò, scuotendo il capo, prima di allungare una mano ed afferrare la valigia di Irene, appoggiarla sull’asfalto ed iniziare ad aprire la zip.

 

“Ma che fai, io-”

 

“Guarda qua!” esclamò, spalancando il trolley e Calogiuri si trovò davanti ad un misto di leopardato, zebrato e tigrato.

 

“Ma… ma… sono i tuoi vestiti?” le chiese, sentendosi improvvisamente uno stupido ed Imma rise di nuovo.

 

“Sicuramente non sono i vestiti della Miss Eleganza in Procura questi, Calogiuri. E-”

 

“Ma questa non è una delle tue valigie.”

 

“Infatti me la sono fatta prestare dalla Ferrari: temevo avresti mangiato la foglia, se magari notavi che mancava la mia valigia o il mio borsone.”

 

“Ma… ma…” balbettò, non capendoci più niente, finché sentì il cellulare vibrargli in una tasca.

 

Lo estrasse e, come pensava, c’era un messaggio di Irene.

 

Goditi il viaggio a Matera, Calogiuri, e ricorda ad Imma che mi deve più di un favore e che, se non ti tratta bene, al ritorno se la vedrà con me. Ah, e di trattarmi bene pure la valigia che è quasi nuova.

 

“Ma… ma allora…” dedusse, incredulo, alzando lo sguardo verso Imma e mostrandole il messaggio, “eravate d’accordo? Ed il viaggio a Milano era… era solo una scusa?”

 

“Diciamo che… che volevo farti una sorpresa, Calogiuri, e non volevo rischiare che, nonostante l’arrabbiatura, organizzassi pure tu qualcosa per questo fine settimana. Sapevo che un viaggio di lavoro era l’unica soluzione per tenerti impegnato e quindi… ho chiesto un favore alla cara Irene, anche se credo me lo rinfaccerà a vita mo,” spiegò, leggendo il messaggio, “e comunque… il viaggio a Milano c’è veramente. Ma tra due settimane. La cara collega me lo ha preannunciato solo dopo che le ho chiesto il favore, ovviamente, che aveva intenzione di chiedertelo.”

 

L’espressione di Imma era uno strano misto tra soddisfazione e fastidio, probabilmente per la richiesta di Irene. Il rapporto che c’era tra alcune donne era una cosa che non avrebbe mai capito forse del tutto, e quello tra Imma ed Irene era uno di questi.

 

“E comunque rispondile che, con tutti i favori che le ho fatto durante il maxiprocesso, al massimo massimo siamo pari. Ma dopo che siamo saliti in corriera, che tra un po’ ci lasciano qua e ci tocca prendere quella notturna.”

 

“Imma…” sussurrò, ancora mezzo sconvolto e, prima di rendersene, conto la stava abbracciando più forte che poteva e lei rideva sul suo collo.

 

“Grazie… grazie…” le sussurrò, non riuscendo a trattenere l’emozione.

 

“Aspetta a ringraziarmi quando saremo tornati da Matera, Calogiuri, che non sarà facile, lo sai, vero?”

 

“Non mi importa. A me importa solamente di quello che pensi tu e che tu ne sia convinta,” sussurrò, staccandosi leggermente per prenderle il viso e guardarla negli occhi.

 

“Lo sono, Calogiù, lo sono. Ma mi viene il dubbio che non lo sia tu, visto che stai facendo di tutto per farci perdere questa benedetta corriera,” ironizzò, con un sopracciglio alzato.


“Fossi matto! Vieni!” esclamò, richiudendole la valigia a tempo di record, afferrando entrambi i bagagli con una mano, il braccio di imma con l’altra e correndo con lei verso il bus.

 

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Il suo respiro vicino all’orecchio le faceva solletico.

 

Alzò gli occhi ed ebbe conferma che Calogiuri alla fine si era addormentato, probabilmente esausto per le notti precedenti in cui entrambi si erano rotolati nel letto peggio di cotolette panate, non riuscendo a prendere sonno, presi da tutti i problemi ed i non detti.

 

Vederlo dormire era sempre un regalo per lei. Soprattutto quando era così tranquillo e quando lo faceva avvinghiandosi a lei, che altro che un koala!

 

Si sentiva soddisfatta come non mai della sorpresa che gli aveva organizzato. Sia perché era stata realmente una sorpresa per lui, nonostante Calogiuri nelle indagini ormai fosse veramente molto bravo, sia perché aveva ottenuto l’effetto sperato. Avevano passato tutto il tempo sulla corriera abbracciati stretti stretti, nonostante le occhiatacce di una vecchietta seduta nei posti affianco ai loro. E Calogiuri aveva un sorriso meraviglioso che non gli si levava dalle labbra, nemmeno nel sonno: sembrava veramente un bimbo la mattina di natale.

 

Ne era valsa la pena, pure di dover chiedere un favore alla gattamorta. Ma, visto che era tanto amica di Calogiuri, come si proclamava, non aveva potuto rifiutare, e così l’aveva praticamente costretta a contribuire alla sua riappacificazione con Calogiuri. Certo, la cara Irene le aveva estorto il silenzio assenso sulla trasferta milanese, non che si aspettasse di meno da lei, ma si sarebbe assicurata in quei giorni di dare a Calogiuri un sacco di buone ragioni per non avvicinarsi troppo alla cara collega nemmeno per sbaglio. Cosa che invece avrebbe forse rischiato, se fosse partito deluso ed arrabbiato come negli ultimi tempi, con quella che non aspettava altro e che sicuramente avrebbe fatto di tutto per metterglielo contro.

 

Si era presentata da lei in ufficio il venerdì precedente, di sera, sapendo che Calogiuri era impegnato con un’udienza per quel simpaticone di Santoro.

 

“Imma? Hai bisogno di qualcosa? Se cerchi Calogiuri è all’udienza con-”

 

“Con Santoro, lo so, Irene,” le aveva risposto, sforzandosi di non dare un’inflessione troppo sarcastica al nome di lei, per forza dell’abitudine di tutti i discorsi fatti con Calogiuri, “no, veramente volevo parlare con te.”

 

“Con me? E di che cosa? Se è per il maxiprocesso e l’appello, io-”

 

“Si tratta di Calogiuri,” aveva proclamato, godendosi l’espressione di stupore mista a panico della collega.

 

“Calogiuri?”

 

“Sì… gli sto organizzando una sorpresa per il nostro anniversario,” aveva esordito, non riuscendo a resistere dal sottolineare la parola anniversario.

 

“Ah sì? E quando sarebbe? E poi anniversario di che cosa? Della vostra relazione ufficiale o di quella… ufficiosa?” le aveva rimpallato la gattamorta, con uno dei suoi sorrisi migliori, nonché più finti.


“Un anno che stiamo insieme,” proseguì, imperturbabile - col cavolo che le dava soddisfazione!

 

“Beh, buon per voi, ma io che cosa c’entro? Dubito tu voglia fare una festa con altra gente, no?”


“No, no, per carità. Ma tra una settimana, venerdì, voglio prendere il pomeriggio libero per tutti e due, portarlo con me a Matera e stare via pure il lunedì. Ma gli voglio fare una sorpresa, quindi mi servirebbe che tu ti inventassi un impegno di lavoro per il fine settimana, in modo che Calogiuri si tenga libero e non organizzi nulla.”

 

“Matera, eh? E l’idea ti è venuta prima o dopo la reazione di Calogiuri quando ci sei andata per l’ennesima volta senza di lui, per il divorzio? Va bene che meglio tardi che mai, ma-”

 

“Ma che te ne frega a te di quando ho avuto l’idea, scusa?!” aveva esclamato, pentendosi già di aver fatto l’azzardo di parlargliene, “ma poi insomma… visto che siete così amici, dovresti essere contenta se lui è felice, o no? E sono sicura che questa sorpresa lo farà molto felice.”

 

Sì, era stato un po’ da stronza incastrarla in quel modo, ma Irene era la regina dell’incastrare la gente con la gentilezza a fare quello che voleva lei, quindi non si sentiva troppo in colpa.

 

“Lo spero, visto com’è ridotto negli ultimi giorni, che pare pronto per un film di Dario Argento! E comunque va bene, anche se in realtà non mi devo inventare poi granché. Volevo parlarne a Calogiuri tra qualche giorno: ho appena avuto la conferma definitiva da Mancini che posso fare una trasferta a Milano per… testare un po’ le acque sul nuovo avvocato assunto da Eugenio Romaniello. Volevo chiedere a Calogiuri di accompagnarmi. Immagino che pure tu sarai d’accordo, no, Imma? Visto che ti fidi praticamente solo di lui per questo caso.”

 

La lingua le rimase appiccicata al palato, non sapendo se essere più infastidita o più ammirata. Non c’era niente da fare: su queste cose la Ferrari era su un altro livello rispetto a lei, in stronzaggine non sarebbe mai riuscita a batterla.

 

Ma tanto non avrebbe comunque potuto opporsi a quel viaggio di lavoro ed almeno una prima vittoria l’aveva ottenuta lei.


E non sarebbe stata l’ultima! - si ripromise, tornando al presente quando, ad una curva, Calogiuri le finì ancora più addosso, schiacciandola quasi tra il sedile ed il finestrino.

 

“Imm- ma? Scusami, ti sei… ti sei fatta male?” bofonchiò, rimettendosi più dritto.

 

O almeno provandoci, perché fu il turno di lei di aggrapparglisi alla spalla.


“Dormiamo, dai, che in questi giorni devi essere in forze, Calogiuri,” gli sussurrò, sentendo il battito accelerargli lievemente sotto il suo orecchio.

 

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“Mi era mancata Matera! C’è un’aria diversa qua.”

 

“Non dirlo a me, Calogiuri!”

 

Camminavano fianco a fianco, ognuno trascinandosi dietro il suo trolley, nonostante si fossero già beccati molti sguardi curiosi da gente che conosceva di vista - per fortuna non abbastanza da doversi fermare a parlare.

 

Almeno fino a quando lei andò verso sinistra e Calogiuri verso destra ad un incrocio.

 

“Casa di tua madre non sta da questa parte?” le chiese, con uno sguardo confuso che le strappò un altro sorriso.

 

“Sì, casa di mia madre è da quella parte. Ma c’è un altro posto dove ti voglio portare, Calogiuri.”

 

“Che cos’hai in mente, dottoressa?” le domandò ed Imma quasi voleva saltare di gioia perché quel dottoressa, più di tutto il resto, segnalava che tra lei e Calogiuri non era solo tornato il sereno, ma molto di più.

 

“Seguimi e lo scoprirai. Veloce, dai, che è già tardi ed è buio ormai!”

 

“Mi mancavano pure i tuoi veloce a Matera, dottoressa. A rischiare di rompermi il collo sui sanpietrini per starti dietro!”

 

“Non ti lamentare, che mo ho la valigia e sono rallentata, Calogiuri, ma da domani si torna al mio solito ritmo!” gli gridò, già avanti a lui di parecchi passi, godendosi il modo in cui si affrettava per raggiungerla.

 

Camminò ancora per un po’, in silenzio, facendo strada, guardandosi ogni tanto indietro e vedendo Calogiuri sempre più frastornato.

 

Infine, girarono su una strada che sicuramente gli era familiare e lui disse, “ma qui c’era-”

 

“C’era e c’è ancora, Calogiuri.”

 

Si voltò e lo sguardo di lui passò dall’incredulità alla commozione.

 

“Vuoi dire che…?”

 

Continuò a camminare e si trovò davanti ad un uomo sulla sessantina, subito fuori da un portone che per tanto tempo aveva significato momenti di incredibile felicità e tranquillità, in mezzo ad una marea di sensi di colpa.

 

“Signor Di Lecce?” lo udì domandare, in un modo che le strappò un altro sorriso.


“Maresciallo, che bello rivederla! Dottoressa, ecco qua le chiavi. Ricordando quanto era ordinato il maresciallo non credo di dovermi raccomandare su come lasciare l’appartamento.”

 

“Eh, io sono un poco meno ordinata, signor Di Lecce, ma glielo lasceremo come uno specchio o quasi, vedrà,” rispose, riprendendosi quelle chiavi che aveva potuto tenere per troppo poco tempo.

 

E pure stavolta sarebbe stata solo una cosa a breve termine, ma almeno il rapporto con Calogiuri non lo era più e sperava non lo sarebbe stato mai più.

 

“Buona serata e buon riposo che la corriera non perdona!” esclamò l’uomo, avviandosi a passo svelto dall’altra parte della strada.

 

“Imma…” le mormorò sul collo e si sentì abbracciare da dietro.

 

“Dai, entriamo, Calogiuri. Fai tu strada, che sicuramente ti ricordi qual è la chiave giusta meglio di me?” gli domandò, porgendogli il mazzo di chiavi.

 

Le fece un altro sorriso da scioglimento e, in pochi istanti, erano su quell’ascensore che aveva segnato alcuni dei momenti più belli e più brutti dei loro mesi di clandestinità a Matera.

 

Calogiuri aprì la porta ed accese la luce. Imma non perse tempo ad infilarsi nell’appartamento, come ai vecchi tempi.


“Ma… ma…”

 

“I mobili sono ancora i tuoi, Calogiuri, c’è qualche piccola differenza ovviamente, anche perché non ci stanno tutte le tue cose, ma… a quanto pare l’appartamento è sfitto da un paio di mesi, quindi… ne ho approfittato.”

 

“Ma… ma…”

 

“Che ti sei incantato, Calogiù?”

 

“No… è che… come ti è venuto in mente di….” continuò a balbettare e pareva sull’orlo delle lacrime.

 

“Non so… sarà che… mi sono sentita molto più a casa qua con te che… tutti i mesi a casa di mia madre,” proclamò, aggiungendo, per stemperare la commozione, “e poi almeno qui possiamo sfruttare tutta la casa.”

 

Si trovò sollevata da terra in un abbraccio a morsa e poi si sentì sussurrare all’orecchio, “e per fare che cosa, esattamente?”

 

“Tutto quello che vuoi, Calo-”

 

Non riuscì nemmeno a finire la frase prima di finire sul divano, avvinghiata in un bacio che fu un secondo ritorno a casa, dopo tanti giorni di freddo tra loro.

 

Ma mo altro che calore… si sentiva quasi in fiamme ovunque lui toccasse, il cuore che rimbombava nelle orecchie, mentre entrambi lottavano per levarsi gli indumenti.

 

“Vuoi fare... un remake... della nostra prima volta, Calogiù?” riuscì soltanto a dire, prima che lui le levasse il vestito da sopra la testa.

 

“Non proprio: ho molta più esperienza di allora, dottoressa,” rispose, con lo sguardo da impunito, ed era verissimo: il Calogiuri di due anni prima sarebbe morto di vergogna a dirle una cosa del genere.

 

“Sarò io a giudicare, Calogiuri, quindi applicati che poi ti dò la valuta-”

 

La parola si sciolse sulle labbra di lui. E poi le usarono entrambi per fare di tutto tranne che parlare.

 

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“Ci alziamo, Calogiù? Che c’abbiamo ancora il letto da fare.”

 

Avevano nuovamente battezzato almeno la zona giorno della casa, tra il divano, il tavolo ed il muro.

 

Del resto, dopo settimane di astinenza, la passione era esplosa senza freni.

 

“Possiamo farlo pure dopo,” rispose lui, con tono assonnato ed un po’ pigro, solleticandole la spalla con un soffio ed un bacio.


“Calogiuri… se andiamo avanti così il signor Di Lecce non sarà felice di avermi lasciato la casa e ci farà pagare il rinnovo dei mobili.”

 

“Se non si sono distrutti due anni fa non lo faranno stasera, dottoressa.”


“Abbiamo altre due notti oltre a questa, Calogiuri, si torna lunedì sera,” gli ricordò, voltando il capo per guardarlo negli occhi, e pareva uno a cui avevano appena annunciato di aver fatto sei al superenalotto.

 

“E va beh… vorrà dire che cercherò di contenermi, ma non garantisco,” ribatté, dandole un altro bacio e poi, facendosi più serio, le chiese, “ma come lo hai trovato il signor Di Lecce?”

 

“Calogiuri… lo sai che a Matera ho le mie conoscenze e pure la sede locale dei servizi segreti.”

 

“La signora Diana?”

 

“Eh, chi altri se no?! Che, se aspetto l’amico tuo, figurati che trovo!”

 

“Povero Capozza… anche se per come ti ha quasi fatta sfracellare al suolo un poco se lo merita.”

 

Rimase ammutolita per un attimo: sembrava una vita precedente, quando avevano scoperto il cadavere di Giulio Bruno. Ed invece non erano passati nemmeno due anni….

 

“Che c’è? Ti ricordi della caduta?”

 

“No, ma mi ricordo di te che mi hai presa al volo, come sempre!” rispose, girandosi del tutto ed attaccandosi al suo collo, “a parte quando quasi ci facevi sfracellare sulla valigia con le provviste di mamma tua.”

 

Manco l’avesse invocato, parlando di cibo, sentì l’inconfondibile lamento dello stomaco di Calogiuri e le venne da ridere.


“Non c’ho il ben di dio che ti faceva mamma tua, Calogiù, ma il signor Di Lecce qualcosa nel frigo dovrebbe avermela lasciata.”

 

Si sciolse dall’abbraccio e camminò verso la zona cucina, sorridendo sotto i baffi al, “se mi giri nuda per casa altro che mangiare!” decisamente frustrato che la raggiunse.

 

“Allora… qua ci stanno spaghetti, pomodorini, olive, basilico e dei nodini. Pensi anche tu a quello che penso io?” gli chiese, girandosi e trovandolo già a pochi passi da lei.

 

“Spaghetto dell’appuntato?” domandò con un sorriso quasi commosso.

 

“E caprese. Lo spaghetto lo fai tu, la caprese la faccio io.”

 

“Agli ordini! Ma prima rivestiti che mi distrai!”

 

“Guarda che sei tu più a rischio di me a cucinare nudo, che almeno la caprese è fredda!”

 

“Imma!” ruggì - mentre lei andava a recuperare il vestito abbandonato sul pavimento - in un modo che le fece intuire che sarebbe stato un pasto molto ma molto veloce.

 

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“Buongiorno!”

 

“Mmm… ma che ore sono?”

 

“Le undici. Ti ho portato la colazione. Il mio solito bar c’è ancora,” annunciò, piazzando un vassoio sul letto.

 

“Cappuccini, bombolone alla crema e… quello è il tuo cornetto all’arancia?” gli domandò con un sorriso, sentendosi realmente proiettata indietro di un anno.


“Eh, pure quelli mi erano mancati, non sai quanto!”

 

“Ah, mo ho capito perché insistevi tanto per tornare a Matera! Per i cornetti!” scherzò, prima di allungarsi per scoccargli un bacio sulle labbra, “e comunque pure a me sono mancati, soprattutto baciarti dopo che li hai mangiati.”

 

“Allora provvedo subito!” esclamò, prendendosene un bel morso, per poi torturarle le labbra con le sue.

 

Il sapore era pure meglio di come lo ricordava.

 

“Dai, Calogiù, che se andiamo avanti così i cappuccini ci diventano gelati.”

 

“Sei tu che provochi sempre! Non dare la colpa a me!”

 

Sorrise e si prese il suo bombolone alla crema. Quanto amava il cibo di quel bar e, in generale, tutto di quell’appartamento, forse anche perché ci erano legati dei ricordi incancellabili.

 

“Che vuoi fare oggi, se riusciamo ad uscire da qua?”

 

“Ci manca che non usciamo da qua, Calogiù, con tutte le storie che hai fatto per venirci a Matera!” rispose e lui sorrise e scosse il capo, con quella felicità contagiosa che amava così tanto, “e comunque domani e lunedì mattina, che il pomeriggio si riparte, facciamo tutto quello che ti pare a te. Oggi però avrei già un paio di cose in mente.”

 

“Tipo?”

 

“Tipo che spero che tu non abbia messo in valigia solo abiti eleganti per fare bella impressione sulla cara Irene e sui meneghini, perché mo c’è un po’ da camminare. Mi sono portata perfino le scarpe da ginnastica prese a Maiorca, quindi….”

 

“Quindi stasera avrò i piedi distrutti, ho capito. Ma dove vuoi andare esattamente?”

 

“Voglio farti visitare Matera, Calogiù, sia i luoghi storici più per i turisti - che scommetto per la maggior parte non c'hai mai avuto il tempo di vedere - sia… una prospettiva diversa sulla città, di chi la conosce da ahimé troppi anni rispetto a te.”

 

“Quindi mi fai da guida?”

 

“E certo! Gratis, solo per oggi. Però dobbiamo muoverci, che lo sai che questa guida c’ha poca pazienza. E poi… e poi stasera ho prenotato un ristorante, quindi ti tocca il vestito buono, Calogiù, e pure le scarpe. Cerca di preservare i piedi.”

 

“Agli ordini!" esclamò, prima di stamparle un terzo bacio al sapore d’arancia e caffè.

 

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“E dai, Calogiuri, forza, che qua si fa notte tra un po’!”

 

La seguiva mentre scendeva un vicolo a scalini dei Sassi. Erano appena stati a visitare le chiese rupestri di Santa Lucia alle Malve, Santa Maria De Idris e San Giovanni In Monterrone e stavano percorrendo il Sasso Caveoso, in direzione del Sasso Barisano.

 

“Senza tacchi starti dietro è una sfida persa in partenza!”

 

“E meno male che corri tutte le mattine o quasi, Calogiù!”

 

“Sì, ma evidentemente fare le scale sui tacchi funziona di più per tenersi in allenamento!”

 

Si voltò e lo attese, sentendo dalla voce che era stanco: i Sassi tra salite e discese non perdonavano.

 

“Dai, che ci manca ancora almeno un posto da vedere. Non è un’altra chiesa, tranquillo.”

 

“Ma non dirlo nemmeno per scherzo: erano bellissime! Grazie per avermici portato, le avevo soltanto viste da fuori e alcune nemmeno quello,” rispose, raggiungendola, con un poco di fiatone.

 

“Bene. Questo posto invece penso proprio che tu non l’abbia mai visto nell’esercizio delle tue funzioni e non credo nemmeno in privato, se non mi sono persa qualche cosa.”

 

Lo vedeva che era curioso e lei sentiva una strana sensazione in pancia, un’attesa che virava dall’emozione all’ansia.

 

Risalì per stradine sempre più familiari, i passi di Calogiuri che la seguivano a ritmo con i suoi, finché finirono in un cortiletto, circondato da alcuni ingressi nella pietra, che davano su altrettante abitazioni nel tufo.

 

Indicò verso l’entrata centrale alla loro destra e disse, uno strano miscuglio di orgoglio e imbarazzo nel petto, “lì è… è nata mia madre, Calogiuri. E ha vissuto qua fino a che li hanno sfollati verso le case popolari, che già tredici anni teneva.”

 

“Imma….”

 

Incrociò i suoi occhi, lucidissimi, talmente tanto che brillavano sotto il sole.

 

“Di solito è chiuso, ma oggi sono riuscita a farmelo aprire dal custode: sai qua è ancora proprietà del demanio, non lo hanno modificato più di tanto. Dovrebbe essere qua a momenti.”

 

“Dottoressa, sto già qua! Conoscendola sono arrivato in anticipo!”

 

Giuseppe Nicoletti, un ometto basso e dalla pancia prominente, oltre ad una stempiatura che ormai gli arrivava quasi in cima alla testa, uscì proprio da quella porta.

 

“Sono entrato per accertarmi che fosse in buono stato, che se vi fate male chi vi paga?”

 

“Tranquillo, signor Nicoletti, il maresciallo ed io siamo andati in posti ben più pericolosi di questo.”

 

“Eh, ma… vedere queste abitazioni, quelle non ancora ristrutturate, fa capire quanto siamo fortunati, dottoressa. In quanti erano nella famiglia di sua madre?”

 

“Sette figli ebbero i miei nonni, ma alla vecchiaia solo mia madre ci è arrivata. Ci sono stati al massimo in sei in quella casa, più il mulo e le galline,” spiegò, rivolta al custode tanto quanto a Calogiuri, che pareva sempre ad un soffio dallo scoppiare in lacrime.

 

“Quindi tre sono morti da piccolissimi, dottoressa?”

 

Almeno sapeva fare i conti Nicoletti.

 

“Sì, nel primo anno di vita.”

 

“Pure mio padre veniva da una situazione simile, dottoressa, ma mia nonna otto figli ha avuto. Vi lascio alla visita, quando avete finito sto al bar accanto alla casa cisterna, che qua oggi al sole fa caldo. C’avete presente, no?”

 

“Sì, Nicoletti, c’ho presente. A dopo allora!”

 

Nicoletti si avviò a passo un po’ claudicante, sparendo presto dalla loro vista.

 

“Imma….”

 

“Sei tornato col disco rotto, Calogiù?” lo sfottè, per stemperare un po’ l’atmosfera quasi solenne.

 

Lui scosse il capo, tirando su col naso, e lei gli fece strada, prima che potessero mettersi a piangere entrambi senza concludere niente.

 

Lo aveva visto solo una volta quel buco di casa, parecchi anni prima, quando sua madre aveva iniziato ad avere la demenza e - contravvenendo alla sua regola di non chiedere mai niente per non dovere favori a nessuno - era riuscita ad avere, tramite il suo amico che lavorava al museo, il permesso di portarcela, prima che la memoria se ne andasse del tutto.

 

A parte la polvere, che la fece tossire, era buio, lungo, stretto e claustrofobico come se lo ricordava, pure senza mobili.

 

“Qua dentro… ci vivevano in sei?” mormorò Calogiuri, la voce che gli si spezzava, mentre entrambi facevano luce col cellulare.

 

“Quattro bambini, due adulti, più mulo e galline d’ordinanza, Calogiuri. Facevano i contadini e questo tenevano.”

 

“Se penso alla casa dei miei genitori… ma pure dei miei nonni… mi pare una reggia a confronto e siamo sempre stati poveri. I miei nonni, mio padre e le mie zie dormivano tutti nella stessa stanza. Ma non avevano solo quella stanza… e… come respiravano qua dentro?”

 

“Male, Calogiuri, male. Infatti tra l’umidità, la mancanza d’aria e sole… quasi quattro bambini su dieci morivano piccolissimi. Mia mamma non mi ha mai voluto raccontare esattamente com’erano morti i suoi fratelli e sorelle, ho dovuto scoprire la data di morte per conto mio. Certe cose non me le diceva perchè si intristiva e… e così la loro memoria è stata persa per sempre. Come in quel film della Disney che mi hai fatto vedere, Calogiù.”

 

Si trovò nuovamente sollevata da terra - senza tacchi la sovrastava ancora di più - ed abbracciata in un modo che rese impossibile non cedere alle lacrime.

 

“Grazie…” sentì mormorare, mentre le baciava il collo con una delicatezza assurda, che peggiorò la commozione, “ora capisco ancora di più tante cose e… ci hai mai portato Valentina?”

 

“No, mia madre non voleva, si vergognava. Pure io ci sono stata solo una volta con lei, da sole. Sai, la famiglia di… di Pietro era benestante in confronto alla nostra e… mia madre non voleva che vedessero in che condizioni vivevano qua.”

 

“Quindi… a parte te e tua madre… sono il primo che-”

 

“Che mette piede qui, Calogiuri, sì. Ma so che tu… che tu puoi capire, fino in fondo, che significa.”

 

“No, pensavo di poter capire tua madre e te ma… pure io risparmierei i centesimi se fossi cresciuto in un ambiente così. E capisco perché… perché tua madre era tanto esigente con te, anche se non era giusto. Ma dovresti farlo vedere a Valentina, prima che lo restaurino.”

 

“Forse… magari mi risparmierei qualche battuta sulla tirchiaggine. Ma già mia madre mi ha cresciuta a pane e senso di colpa, e pure io tante volte con Valentì ho rischiato di fare lo stesso errore,” ammise, staccandosi leggermente da lui per asciugare le lacrime e vedendo che faceva lo stesso.


“Grazie e… e scusami se… sono stato uno stupido nelle ultime settimane, ma-”

 

“Calogiuri, tu c’avevi… c’avevi ragione che… che fosse giusto che… che ti facessi entrare in tutta la mia vita e non solo nella… mia vita nuova con te. E la persona che sono diventata parte da qua e… ed è giusto che lo sapessi e forse… era giusto che me lo ricordassi pure io. Però mo andiamo, che c’è ancora un posto dove ti voglio portare.”

 

“Mi basteranno i fazzoletti, o rischio di andare a cena conciato peggio di uno uscito da uno spot contro la droga, dottoressa?” le chiese, sfregandosi gli occhi e le guance per asciugarle del tutto.

 

“Tra le occhiaie e gli occhi rossi non garantisco, Calogiuri, ma tanto di clienti con… problemini… ne avranno visti parecchi al ristorante dove andremo.”

 

“Ma dobbiamo fare una cena o un’indagine, dottoressa?”

 

“Cena, Calogiuri, cena. Dai, forza, che dobbiamo pure riconsegnare le chiavi a Nicoletti, prima che si mangi tutto il bar!”

 

Si sentì prendere sottobraccio ed uscirono insieme, respirando a pieni polmoni l’aria che non le era mai sembrata tanto pulita.

 

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“Ma questo è….”

 

“Sì, è il quartiere di Serra Venerdì, Calogiuri. Vieni che ci siamo quasi."

 

Arrivò di fronte ad un palazzone di case popolari molto familiare: bianco, anche se un poco ingrigito dal tempo, le scale esterne che salivano come un serpente e tanto cemento.

 

"Qua sono nata e cresciuta io invece, Calogiuri. Là al terzo piano c’era l’appartamento dei miei nonni materni, che lo avevano ricevuto dopo lo sfollamento dai Sassi. E che poi è passato a mia madre. Per un po’ di anni ci abbiamo vissuto tutti insieme, anche con mio padre, visto che i miei nonni paterni erano messi pure peggio ed avevano un appartamento ancora più piccolo. Qua però non possiamo entrare, che non so chi ci viva ora.”

 

Si sentì stringere forte da dietro alla vita e si lasciò andare, appoggiandosi al petto di lui.

 

“Grazie….” le sussurrò di nuovo: quel giorno era veramente un disco rotto Calogiuri, ma lo capiva e non poteva non emozionarsi pure lei di quanto lo fosse lui.

 

“Quindi… in questo giardino ci giocavi tu da piccola?” le chiese, indicando con una mano le aiuole ed i pochi alberi di fronte al condominio.

 

“Sì, anche se andavo pure spesso verso i Sassi e giù al fiume, quando ero un poco più grande. Ma… quasi sempre da sola, in disparte dagli altri bambini. Pure allora faticavo tanto a fare amicizia, Calogiuri. Anzi, pure più di oggi, forse.”

 

Un bacio vicino all’orecchio che le diede un brivido, stava per girarsi per dargli un bacio vero, quando una voce arrochita dal tempo esclamò, “Immacolat’? A’ fuggh d’ Vrìnella e d’ Rocchì Tataranni?!”

 

Notò una vecchietta, incurvata dal tempo, che poteva avere più o meno l’età che avrebbe avuto la buon’anima di sua madre se fosse stata ancora viva. Calogiuri la lasciò andare immediatamente. Vedeva persino con la coda dell’occhio che era un poco imbarazzato e le venne da sorridere: certe cose per fortuna non cambiavano mai.

 

“Sì, signora, lei invece è...?”

 

“Vrìn Paolicelli, a momm d’ Gianvito e Melina.”

 

Spalancò la bocca, riconoscendo in quei lineamenti segnati dal tempo una delle vicine di sua madre, l’ennesima Bruna, che a quell’epoca in tantissime si chiamavano così. Di Gianvito, nonostante il nome particolare, aveva pochi ricordi, era più grande di lei di qualche anno. Di Carmela detta Melina, invece, purtroppo, si ricordava benissimo.

 

“Assà era che non apparàscev’ ddàj! Da’quonn vanndiste ches!”

 

“Eh, sì, signora, dopo che abbiamo venduto la casa di mamma sono tornata qualche volta per lavoro ma… ci siamo trasferite più in centro. E poi mo in realtà sono un po’ di mesi che vivo a Roma.”

 

“N’zèmm affdèt tìj! U carbnìr! Bèll assà è! V’addjvsè n’ televisione,” esclamò la signora, rivolgendo a Calogiuri uno sguardo che definire di apprezzamento sarebbe stato riduttivo: se lo ammirava manco fosse un attore dei film.

 

Calogiuri le fece un cenno, chiaramente confuso dal dialetto stretto materano, che non aveva mai imparato.

 

“Dice che mi sono trasferita con il mio fidanzato che fa il carabiniere ed è bello assai. Che c’ha visto in televisione,” spiegò, facendogli l’occhiolino, per poi rivolgersi alla signora, “e c’avete ragione, c’avete, signora.”

 

“Brèv! Dalla’bbìndìch! Tàness’ l’età tij!”

 

Le venne da ridere: hai capito la signora Bruna?

 

“Dice che ho fatto bene e che se avesse la mia età, pure lei…” spiegò a Calogiuri, che divenne quasi fosforescente nel giro di pochi secondi.

 

“Mà, mà, addò stai?”

 

La signora si voltò verso una donna pure lei un poco incurvata. La riconobbe a fatica: il volto, una volta tanto bello, era segnato già da profonde rughe, sebbene non avesse nemmeno cinquant’anni, ed il fisico sformato, forse dalle gravidanze, sicuramente da una vita non certo priva di fatiche.

 

“Imma Tataranni?”

 

“Melina…” rispose, anche perché l’espressione dell’altra donna era tutt’altro che amichevole.

 

“Che ci fai accà?”

 

“Due passi, Melì,” rispose, stando sul vago, perché non erano affari suoi. Vide che tutta l’attenzione di lei si spostò su Calogiuri ma, a differenza della madre, lo guardava in un modo che pareva quasi rabbioso.

 

“Ah, il tuo nuovo fidanzatino ti portasti. Cos’è, vuoi fargli vedere che vita disgraziat’ tànev’, che noi anghèr tàniam’?” le sibilò, amara, ed Imma, pur nel fastidio, la capì forse per la prima volta, perché probabilmente avrebbe provato lo stesso al posto suo.

 

Nella ritrosia, ereditata da sua madre, a rivisitare - letteralmente e figurativamente - il suo passato, c’era non solo un senso di vergogna per le proprie origini, ma pure una specie di senso di colpa verso chi non era riuscito a migliorare la sua vita ed era rimasto lì a lottare per arrivare a fine mese con il pane in tavola.

 

“Che accà non tàniam’ u temp’ e la ferz di farci u’ toyboy!”

 

Calogiuri, da fosforescente che già era, indurì i lineamenti in un’espressione infastidita, ma lei gli fece un cenno come a dire che andava tutto bene. Certo, sapere che l’espressione toyboy, pure grazie a loro, fosse stata sdoganata tra chi parlava più il dialetto materano che l’italiano non era una cosa che avrebbe mai pensato di vedere nella sua vita.

 

“Pure io c’ho i miei impegni, Melì, e Calogiuri è tutto tranne che un giocattolo, anzi uno sc’quaril, come si diceva una volta.”

 

“Ah, allora m’nzen a tutte le tue parole da gran signora, u’ dialètt anghèr t’o ricordi.”

 

“Certo che me lo ricordo, Melì. Mi ricordo bene tutto ciò che è successo qua,” le rispose, con un’occhiataccia eloquente, di quelle che facevano tremare i malviventi.

 

Melina invece, pur rimanendo per un attimo presa in contropiede, evidentemente sapendo a cosa si riferisse, si riprese molto in fretta, tornando ad una maschera di indifferenza.

 

Melina era stata una delle bimbe e poi delle ragazzine più belle del quartiere, sicuramente la più bella del condominio. Imma invece era sempre stata quella strana, che tutti prendevano in giro o per i ricci, o perché da bimba era un poco tracagnottella, e poi crescendo perché se ne stava per conto suo e le piaceva studiare. Melina e le sue amiche tante gliene avevano fatte passare, facendole spesso scherzi di pessimo gusto. Come una volta che le avevano messo un messaggio nella buca delle lettere, fingendo che fosse di un ragazzo del quartiere che le piaceva tanto ma poi, quando si era presentata all’appuntamento, con l’unico vestito decente che aveva, ci aveva trovato loro. L’avevano derisa fino a farla scappare per non far vedere loro che stava piangendo.

 

Solo che poi lei, a furia di studiare, aveva trovato un buon lavoro e fatto carriera. Melina, che si era fermata alla terza media, si era sposata a diciasett’anni e a diciotto aveva cominciato a sfornare figli, tra un lavoro di pulizie e l’altro. Aveva avuto una vita decisamente molto dura.

 

Quando faceva incontri come quello, che sembravano davvero appartenere ad un altro mondo rispetto anche solo alla Imma del liceo, le pareva di essere dentro la canzone Un Giudice di De Andrè. Solo che, per quanto la Tataranni fosse considerata da tutti una stronza, non era stronza fino a quel punto. E, se da un lato Melina aveva un poco raccolto quello che aveva seminato - e pure se all’epoca l’aveva detestata e non cordialmente - d’altro canto era difficile prendersela con a chi nella vita le era toccato un fazzoletto di terreno duro, riarso ed infertile sul quale provare a seminare. Soprattutto rispetto a chi magari si era trovato una distesa di campi sterminata e pure un giardiniere, per risparmiargli il lavoro.

 

“Nun me pare, che manco tàness’ a vrivègn di fatt’ bdè con un' che tàne l’età di mì fuggh!”

 

“Melì!” la rimproverò sua madre, anche se, fatti due conti, effettivamente ormai il primo figlio di Melina doveva avere giusto giusto un anno in meno di Calogiuri.

 

“Non fa niente, signora. E no, non me ne vergogno, affatto, anzi, visto che non è mio figlio ma il mio fidanzato, che stiamo su suolo pubblico e non facciamo male a nessuno,” rispose, decisa, pure mentre si chiedeva perché le signore oltre ad una certa età sembrassero paradossalmente reagire meglio alla storia sua e di Calogiuri di quanto facessero le sue coetanee, “mo leviamo il disturbo però. Signora Bruna, è stato un piacere rivederla. Melì con te un po’ meno, ma non ci siamo mai prese noi due. Stammi bene!”

 

Si voltò e fece un cenno verso Calogiuri che, dall’espressione scura, aveva faticato un poco a seguire il discorso ma a grandi linee lo aveva capito.

 

“Signora, è stato un piacere pure per me, purtroppo il dialetto di Matera non lo capisco molto bene, ma cercherò di farmelo insegnare,” si congedò Calogiuri con un sorriso e poi si rivolse a Melina, con il tono e lo sguardo che aveva molto raramente, quando ne stava per combinare una, “e comunque mi dispiace che abbiate questi pregiudizi, signora Melina, ma sono sicura che vostro figlio, se ha la mia età, invece mi capirebbe molto bene, visto che da Imma è impossibile non rimanere affascinati.”

 

La povera Melì aprì e chiuse la bocca, che pareva un pesce. Imma lottava tra lo sconvolgimento e la voglia di scoppiare a ridere, mentre la signora Bruna rise e basta, proclamando un, “chep’tust tànite. Stat’ ben’ ‘nzèmm! Jiòmm’n, Melì!”

 

Si prese la figlia sotto braccio, che ancora pareva l’imitazione di un pesce rosso, mentre Imma afferrò la mano di Calogiuri e lo trascinò via con sé. Fatti pochi passi e girato l’angolo, non potè fare a meno di cedere alle risate.

 

“Calogiù, ma come… ma come ti è saltato in mente?!” gli chiese, una volta ripreso un attimo di fiato

 

“E va beh… dottoressa, me lo hai insegnato tu che la migliore difesa è l’attacco, no? E poi non volevo fare la figura da toyboy zitto e muto, pure se capivo poco. Ma tra l’altro che ha detto la signora Bruna alla fine?”

 

“Che teniamo la capa tosta tutti e due, Calogiù e che stiamo bene insieme. E c’ha ragione, a parte quando ci impuntiamo tutti e due e ci teniamo il muso,” sospirò e si sentì stringere più forte la mano, ma poi Calogiuri gliela lasciò e le mise direttamente il braccio intorno alle spalle, stringendola ancora più a sé.

 

Calogiuri, come lei del resto, aveva proprio imparato a rispondere a tono con gli anni e con l’esperienza, anche se si capiva che ancora faticava, perché nella sua educazione ed un po’ nella sua natura c’era essere cortese, gentile e per questo accondiscendente. Ma il carattere era tosto, quando sentiva di stare subendo un torto.

 

Forse… forse se la sarebbe cavata pure meglio del previsto, se fossero tornati a Matera, anche se la carriera di lui esigeva una città più grande e lo sapevano entrambi.

 

“E mo dove mi porti, dottoressa?”

 

“A casa, cioè, a casa tua, Calogiù, che ci dobbiamo preparare per cena e-”

 

“Attenti!”

 

Si trovò con una cosa bianca a pochi centimetri dal viso, seguita da una macchia rosa e dal rumore di un impatto.

 

Le ci volle un attimo per rendersi conto che si trattava di un pallone, che le era quasi arrivato addosso, e che Calogiuri aveva per fortuna deviato con la mano.

 

“Scusate! La palla è nostra, ci è sfuggita!

 

Due bambini biondi corsero verso di loro, mentre un altro bimbo, una bimba dai capelli scuri ed una dai capelli rame rimasero più indietro.

 

Li riconobbe immediatamente, pure se erano passati più di due anni ed erano un po’ cresciuti: i gemelli del caso di Stacchiuccio.

 

Quando arrivarono a poca distanza, allungando le mani per cercare di prendere il pallone che Calogiuri nel frattempo aveva preso sotto braccio, si bloccarono con uno sguardo che le fece capire che pure loro l’avevano riconosciuta e parvero a disagio.

 

Scambiò un’occhiata con Calogiuri: nemmeno lui li aveva dimenticati e del resto sarebbe stato impossibile, sia per quanto li aveva colpiti quella storia terribile, sia per tutto quello che era successo tra loro in quei giorni.

 

“Dovete fare più attenzione però con la palla. Perché non giocate nel campo che è recintato e che sta qua vicino, se non ricordo male, invece che in piazza?” domandò loro Calogiuri, porgendo il pallone.

 

“Perché ci sono dei ragazzi più grandi e quindi non ci possiamo entrare,” rispose uno dei due gemelli, prendendo la sfera anche se con un poco di diffidenza, “e poi è colpa di Nicolas che voleva fare il cucchiaio e non ci riesce, che la palla gli parte troppo veloce!”

 

Guardò il ragazzino che era rimasto indietro ed era effettivamente Nicolas, anche se con una pettinatura diversa. Sembrava quasi impietrito. Le bimbe erano Brunella ed un’altra che avevano già visto ma di cui ignorava il nome.

 

“Il cucchiaio? Come Totti?” chiese Calogiuri, avvicinandosi a loro con gentilezza, “Nicolas, perché non provi con me, che sono più alto? Ma non è un tiro facile.”

 

“Ma tu giocavi a calcio?” gli chiesero i gemelli, mentre Imma osservava ancora incredula.

 

“Da ragazzino nei campetti di quartiere o a scuola, niente di professionale. Dai forza, Nicolas!”

 

Il bimbo si riprese il pallone, un poco dubbioso, ma poi si posizionò davanti a Calogiuri - che si era piazzato volutamente lontano da qualsiasi cosa di anche solo lontanamente frangibile - e provò a fare il tiro.

 

La palla schizzò in alto ma Calogiuri la prese al volo.

 

“Il cucchiaio lo devi tirare col collo del piede, cioè questa parte qua,” fece vedere a Nicolas, ridandogli il pallone, “ma guarda che è davvero difficile da fare e tu a tirare sei bravo, hai molta forza nelle gambe. Anche se è meglio che la usi nel campo e non in piazza.”

 

“Sì…” rispose il bimbo, con un sorriso.


“Dai, proviamo ancora qualche volta, ti dispiace, Imma?” chiese, rivolto a lei, ma Imma era già talmente sciolta che altro che dispiacersi.

 

Lo guardò mentre facevano altri tiri ed altre parate e, ancor prima che alla fine Nicolas riuscisse a fare una specie di cucchiarella un poco storta, il risultato era stato raggiunto: i bimbi sembravano nuovamente tranquilli e a loro agio.

 

“Mo però ve lo devo rubare, che se no arriviamo tardi a cena,” intervenì alla fine, avvicinandosi a lui, perché i bambini non lo mollavano più - non che non li capisse!

 

“Sì, scusatemi ragazzi, sarà per un’altra volta,” rispose Calogiuri, rivolgendole un sorriso meraviglioso - come faceva a farne di così belli ogni volta non lo avrebbe mai capito! - e ridando la palla proprio a Nicolas.

 

“Ma voi due siete quelli che si sono fidanzati, che c’erano le foto sui giornali e in televisione? Perché mia mamma ne parlava col mio babbo!” si inserì Brunella, che era come sempre la più sfacciata del gruppo, insieme ai gemelli, mentre la bimba mora li guardava con occhioni curiosi ma intimiditi.


“Eh sì, ci siamo fidanzati. Che uno che usa così bene il cucchiaio sia a calcio che in cucina, mica me lo potevo lasciar scappare, no?” ironizzò e vide che Calogiuri si toccò la nuca, un poco imbarazzato.

 

“Ma cucinare è roba da femmine!” proclamò scandalizzato uno dei gemelli ed Imma sospirò: pure la nuova generazioni di madri italiane stava tirando su figli maschilisti. Per non parlare dei padri.

 

“Guarda che i maschietti che sanno cucinare piacciono tantissimo alle donne, vanno a ruba. Quindi, se vuoi avere successo quando sarai grande, è meglio che impari, vero ragazze?” chiese rivolta alle due bimbe, che risero.

 

“Ma tu non sei più grande di lui? Anche se siete tutti e due già vecchi!” pronunciò Brunella, impietosa, e per la prima volta le venne di nuovo da sorridere: eh certo, con dei bimbi di quell’età perfino Calogiuri doveva sembrare quasi con un piede nella fossa!

 

“Sì, ma dopo una certa età la differenza non conta tanto, conta solo se si sta bene insieme. Però, se prima che c’avete minimo minimo diciott’anni, ma diciamo pure venticinque, vi si avvicina qualcuno molto più grande che vuole stare con voi, scappate a gambe levate e se serve chiamate pure la polizia, chiaro?” specificò, soprattutto rivolta alle due bimbe.

 

“Tanto a me i vecchi non piacciono!” rispose Brunella, implacabile, mentre l’altra bambina sembrò intimidirsi ancora di più.

 

“E allora stai a posto, stai. Noi mo andiamo veramente, però!” concluse, rivolgendosi a Calogiuri, il cui sorriso si era trasformato in quello sguardo mezzo esasperato che adorava.

 

Se lo riprese sotto il braccio e, tra i saluti dei bambini, si allontanarono dalla piazza.

 

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“Che c’è, Calogiuri?” gli chiese, perché si era bloccato ad un passo dalla porta del ristorante.

 

“Ma… ma questo….”

 

“Lo so, Calogiuri, e per inteso offro io stasera, mi sono messa già d’accordo con il proprietario del ristorante, quindi non ci provare nemmeno.”

 

“Ma… ma… cioè… non è da te venire in un posto simile, Imma!” mormorò, manco l’avesse portato in uno strip club.

 

In effetti era pure peggio: se dallo strip club uscivi spennato, da questo ristorante manco la pelle ti rimaneva.

 

Ma, capo primo, dovevano ancora festeggiare divorzio ed anniversario come si doveva, capo secondo, era uno dei ristoranti più in di Matera ed il sabato sera c’era mezza città che contava.

 

“Almeno ti leverai dalla testa che mi vergogno di te, Calogiuri. Domani tutti sapranno che sei stato qua con me.”

 

Calogiuri le fece un sorriso enorme, sussurrandole, “tu sei tutta matta!”, ma poi si rabbuiò un attimo.


“Che c’è?”

 

“Che ora di domani sapranno pure tutti che hai pagato il conto, se vuoi offrire tu, e farò ancora di più la figura del toy boy mantenuto.”

 

Normalmente non gli avrebbe dato peso, lanciandosi in proclami sull’emancipazione femminile e sul fatto che fosse perfettamente legittimo che chi invitava e sceglieva il ristorante pagasse il conto. Pure lui l’aveva fatto molte volte.

 

Ma la verità era che c’aveva ragione e non lo faceva per maschilismo, ma perché conosceva benissimo i materani.

 

“Allora mo ti dò i soldi e poi fai il gesto di offrire tu, va bene?”

 

“No, offro veramente io e poi al massimo massimo facciamo a metà. L’anniversario è di tutti e due o sbaglio? E tu hai già offerto il viaggio in Spagna.”

 

“Ma tu avevi già offerto il precedente anniversario, Calogiuri!”

 

“Non cose costose come questo ristorante più il viaggio andata e ritorno Roma - Matera e l’affitto della casa.”

 

“Calogiuri, va bene, ma a metà, che sei giovane e non puoi buttare tutti i tuoi soldi appresso a me.”

 

“E tu invece puoi?”

 

“Beh, posso già iniziare a guardare alla pensione, io!” scherzò, ripensando ai discorsi dei bimbi e di Melina quel pomeriggio.
 

“Ma se ti mancano almeno vent’anni, altro che pensione!” esclamò lui, dandole un bacio su una tempia.

 

E poi, prendendole la mano, le aprì la porta, la fece passare per prima e si avviò con lei nel ristorante.

 

“I signori desiderano?” chiese il maître, dopo poco che furono entrati, guardandola un poco sospettoso, nonostante il tubino nero con il pizzo sul corpetto, semitrasparente sulle braccia e sulla schiena, che restava in parte scoperta, comprato nel negozio di fiducia della cara Irene e pagato non poco, pure in saldo. Ma, del resto, il precedente lo aveva sfruttato tantissimo e non poteva continuare a presentarsi a Calogiuri con lo stesso vestito. A parte scarpe e borsa leopardate, era molto sobria rispetto al suo solito. Calogiuri era elegantissimo, pareva uscito da una rivista di moda maschile.

 

“Ho prenotato per due a nome Immacolata Tataranni,” spiegò, perché, con la diffusione del suo cognome a Matera, prenotare solo con quello non sarebbe bastato.

 

“Sì, certo, venite,” le rispose, sollecito, facendo strada verso la sala.

 

Al loro passaggio, si voltarono praticamente tutti, mentre sentì alcuni bisbiglii che suonavano chiaramente come “la Tataranni.”

 

Il cameriere li portò fin sulla terrazza. Per fortuna la temperatura, aiutata da alcune stufe di design, era ancora accettabile, anche se da lì a pochi giorni sarebbe sicuramente arrivato il freddo. C’era una vista meravigliosa sul Sasso Caveoso e si pagava pure quella, ovviamente, oltre al ristorante stellato.

 

“Allora, ne sei ancora convinto, Calogiuri?” gli chiese con un sorriso, quando il cameriere portò ad entrambi il menù con i prezzi da capogiro, almeno per i suoi standard.


“Certo che sì! E qui… è bellissimo… tu sei bellissima, quel vestito ti sta... meravigliosamente.”

 

Gli vide le guance farsi un poco rosate, perfino alla luce delle candele e delle torce, piazzate strategicamente intorno alla balconata per non rovinare la vista di Matera.


“Pure tu non sei messo male, Calogiuri,” scherzò, anche se le faceva sempre un piacere immenso ed era un’incredibile botta di autostima sentirglielo dire.


E quel giorno gliene aveva già date parecchie.

 

E poi Calogiuri le prese la mano e se la portò alle labbra, senza toccarle, in un baciamano da vero gentiluomo.

 

“Calogiuri, dov’è che hai imparato tutte queste smancerie? Che mi devo preoccupare?” gli chiese con un altro sorriso, perché gli ambienti raffinati sapeva bene con chi li frequentava di solito.

 

“No, no. Però... “ sussurrò, sporgendosi verso di lei, “ho un problema col menù, con tutte queste parole in francese. Tu capisci che significano?”

 

Era assurdo, ma quella cosa la rese ancora più felice, se possibile: il suo Calogiuri di Grottaminarda stava ancora lì e nessuna Irene Ferrari poteva cambiarglielo del tutto.

 

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“Oltre che bello da vedere, devo dire che è tutto ottimo veramente.”

 

In effetti toccava ammetterlo pure a lei: i prezzi ed i nomi erano ridicoli, le porzioni pure, ma fino a lì le era piaciuto tutto moltissimo. L’impronta materana nei piatti si sentiva, pur rielaborati per modernizzarli. Non che ne avessero bisogno, ma il risultato non era affatto male.

 

Stava per arrivare loro il dolce e stavano quasi per finire la bottiglia di vino - che con quello che costava, piuttosto si ubriacava ma non ne avrebbe avanzato una goccia! - quando sentì una voce che per poco non glielo fece sputare.

 

“Imma! Ma che ci fai qua?! Non ci posso credere! Imma Tataranni in un ristorante stellato?!”

 

“Ma- Maria?!” balbettò, voltandosi, sperando che le sue orecchie le stessero giocando un brutto scherzo, nonostante i decibel emessi ed il fatto che ormai tutti in quel ristorante, pure i quattro gatti che non leggevano i giornali, non vedevano i tg e non ascoltavano i pettegolezzi di paese - turisti, magari - avessero scoperto chi era.

 

Ma no, Maria Moliterni, in uno dei suoi soliti tubini da lasciarci uno stipendio - altro che il suo! - con prefetto al seguito, elegantissimo, ovviamente.

 

“Ah, ma adesso ho capito chi ha fatto il miracolo!” esclamò poi con un sorriso più grande, avvicinandosi a Calogiuri e mettendogli una mano sulla spalla, manco fosse un vecchio amico - gliel’avrebbe mozzata, gliel’avrebbe! - e aggiungendo, “Calogiuri, ti trovo bene, nonostante ti tocchi sopportare Imma quasi ventiquattr’ore su ventiquattro!”

 

“Signora Moliterni, signor prefetto,” salutò Calogiuri, cortese pur nell’imbarazzo, “e se mi trovate bene è soltanto grazie ad Imma, anzi, se potessi allungherei le giornate per stare più tempo insieme!”

 

Imma si sentì avvampare, che altro che il vino, mentre la Moliterni la guardava con un misto di invidia ed incredulità ed il prefetto di incredulità e basta. Come gli uscivano a Calogiuri certe frasi da Baci Perugina, facendole suonare sincere e disarmanti oltretutto, era una cosa che non avrebbe mai capito.

 

“Imma, un giorno mi dovrai dire come hai fatto!” esclamò Maria, ironica ma ancora incredula, “e comunque vieni a Matera e non dici niente? Già ho saputo che ci sei stata pure due settimane fa.”

 

La notizia del divorzio evidentemente era circolata, del resto procura e tribunale vivevano quasi in simbiosi.

 

“Sì, Maria, ma… sono rimasta solo due giorni e pure stavolta rientriamo lunedì. E so quanto ti rattrista pensare al lavoro nel fine settimana.”

 

“Ma per te e Calogiuri che tornate a Matera faccio un’eccezione, Imma. Peccato che abbiamo già finito di cenare e dobbiamo andare a casa, altrimenti potevamo mangiare insieme e parlare un poco.”

 

“Dubito che volessero compagnia a questa cena, cara,” rispose il prefetto, tra l’ironia e… si era immaginata solo lei o c’era pure una certa riprovazione?

 

Del resto Vitolo era amico di Pietro, giocavano ancora insieme, a quanto le risultava.

 

“Eh già… i primi tempi, l’amore, il romanticismo… ah, che nostalgia! Ma… perché non venite con noi domani? Andiamo al club del golf, vicino a Bernalda. Così, tra una buca e l’altra, chiacchieriamo un po’, che tanto di tempi morti ce ne sono moltissimi!”

 

Il prefetto pareva avere ingoiato un rospo ed Imma lo capiva benissimo, solidarietà con Pietro o meno. Lanciò un’occhiata a Calogiuri che sembrava nel panico.

 

“Maria, ti ringrazio tanto, veramente, ma a parte che non ci so giocare a golf, poi domani ho… ho già preso un impegno con Diana e Capozza,” si inventò di sana pianta, perché era l’unica scusa credibile che potesse avere.

 

“E va beh, Imma, e che problema c’è? Invita pure loro, no? Sono sicura che Diana sarà contentissima!”

 

Scacco matto.

 

Non poteva protestare oltre e dire di no: chiunque conoscesse anche solo un minimo Diana sapeva che sarebbe stata non solo felice, ma estatica dell’invito.

 

Le toccò annuire, con un sorriso tirato tanto quanto quello del prefetto, lanciando uno “scusami” non verbale a Calogiuri.

 

Ma, del resto, se voleva sperimentare come sarebbe stata la vita di coppia a Matera, non c’era forse prova del fuoco maggiore di quella.

 

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“E ora?”

 

Erano usciti da poco dal ristorante - il dolce sinceramente le era un poco rimasto sullo stomaco, pur senza colpe dello chef - quando Calogiuri, reduce da un pagamento con carta di credito a due zeri, le aveva fatto la fatidica domanda.

 

“E mo chiamiamo Diana e preghiamo che sia impegnata domani, anche se dubito rifiuterà mai un invito del genere.”

 

Compose il numero, che erano già le ventitré passate ed erano fuori tempo massimo.

 

“Pronto? Imma?” rispose, con un fiatone che le fece immaginare scenari vietati ai minori tra lei e Capozza, che era un miracolo se non le si riproponeva tutta la cena e non soltanto il dolce, “che c’è, problemi a casa di Calogiuri?”

 

“No, Diana, scusami per l’orario, ma mi servirebbe un favore.”

 

“E tanto per cambiare! Dimmi.”

 

“Senti, tu domani c’hai impegni?” domandò, pregando che le dicesse di sì e di potersi inventare qualcosa col prefetto e la Moliterni.

 

“No, io e Capozza volevamo andarcene magari un salto al mare, ma avrei tanta voglia di chiacchierare un po’ con te, Imma. Perché non venite con noi?”

 

E te pareva!

 

“Perché al ristorante di stasera c’erano pure la Moliterni ed il prefetto. Ci hanno invitati a giocare a golf domani e-”

 

“Beata te, Imma!” esclamò Diana, con voce sognante.

 

“Ed allora è il tuo giorno fortunato, Diana, perché io per cercare di svicolare ho detto che dovevo vedermi con te e con Capozza. E… e hanno invitato pure voi. Quindi dovreste domattina alle dieci presentarvi di fronte al golf club vicino a Bernalda.”

 

Diana rimase per un attimo in silenzio, tanto che pensò ci fossero problemi sulla linea.

 

“Grazie, Imma! Grazie!” urlò improvvisamente, facendole prudere un timpano, “vuoi che vi passiamo a prendere? Che la mia macchina non sarà il massimo, ma in confronto alla tua è da signori.”

 

“No… a noi… a noi ci vengono a prendere i Moliterni, probabilmente Maria voleva scongiurare un mio tentativo fuga. Ma in auto in sei, sette con l’autista, non ci stiamo.”

 

“E va beh, Imma, poco male, vorrà dire che ci vediamo domani! Grazie ancora!”

 

Si affrettò a chiudere, prima che Diana la stordisse con altre chiacchiere.

 

“E allora?”


“E allora almeno una persona domani sarà felice, Calogiuri. Mi spiace per… per averti incastrato in questa cosa.”

 

“Ma no, figurati… più che altro, come ci si veste in un golf club?”

 

“Con tanti soldi, Calogiù, con tanti soldi!” esclamò, facendolo ridere e poi si sentì stringere a braccetto, forte forte.

 

“Sei sicura che non vuoi la mia giacca e non hai freddo?”

 

“Tranquillo, Calogiù. Tra il vino, i coniugi Moliterni e la chiamata mi sono scaldata fin troppo. E poi lo sai che il contatto che scalda di più è quello del corpo? Anche se sarebbe meglio pelle a pelle ma… mi devo accontentare, per ora,” gli sussurrò, soffiandogli leggermente nell’orecchio e facendolo rabbrividire.

 

“Imma!” esclamò, prima di trascinarla in un bacio che chissenefregava del basso profilo, i giornalisti potevano pure farle un book fotografico, per quello che la riguardava. E poi erano in un vicolo talmente stretto che, o si erano appostati sui tetti, o doveva fare loro i complimenti se riuscivano a passare inosservati.

 

Almeno fino a che non sentì due colpi di tosse ed uno, “scusate, ma dovremmo passare!” un poco scocciato alle loro spalle.

 

Quasi fece un salto, sciogliendo rapidamente il bacio. Non tanto per lo spavento, ma perché quella voce l’aveva riconosciuta benissimo.

 

“Pie- tro?” bofonchiò, girandosi, ancora tra le braccia di Calogiuri che la teneva per la vita, ed avendone la conferma quando incontrò due occhi tra il ferito e l’incredulo.

 

“Imma?! Ma che ci fai qua? Non eri rientrata a Roma?” le chiese, mentre sentì i muscoli di Calogiuri irrigidirsi leggermente, e la lasciò andare.

 

Sempre un galantuomo Calogiuri, altro che ragazzino! - pensò, guardandolo con gratitudine, prima di rivolgersi di nuovo a Pietro e, soprattutto, notare accanto a lui una donna con una specie di zaino in spalla, pur se vestita elegantissima. Ce ne aveva uno uguale pure Pietro, e anche lui era altrettanto in tiro, come avrebbe detto Valentina.

 

Almeno non era il completo dell’anniversario... e del divorzio.

 

“Sì, ma sono tornata per il fine settimana. Cinzia, ci sei pure tu!?” domandò, prima di rivolgersi verso Calogiuri e proclamare, “il maresciallo Ippazio Calogiuri. Non penso vi siate mai incontrati.”

 

“Ippazio? Che nome strano!” esclamò Cinzia Sax, per poi porgergli la mano, “Cinzia Gaudiano, la fidanzata di Pietro.”

 

Sottolineò quel fidanzata in un modo quasi comico, tanto che Imma notò più quello del fatto di avere appena appreso finalmente, dopo tre anni, il suo cognome.

 

“Ah, piacere,” rispose Calogiuri, stringendole la mano.

 

“A voi non c’è bisogno di chiedere se siete fidanzati, e non solo per i giornali,” ironizzò Cinzia, prima di aggiungere, con un tono che sembrava sincero e pure compiaciuto, “siete proprio una bella coppia, anche se noi due di più, non è vero, amore?”

 

Pietro aveva un’espressione che in confronto la sua di fronte all’invito della Moliterni al golf doveva essere stata nulla.

 

“Sai, veniamo da un concerto alla Casa Cava, simile a quello al quale eri venuta pure tu, sempre se ti ricordi qualcosa, tra il cellulare ed il fatto che dormivi,” proseguì Cinzia, con un sorriso che avrebbe reso orgogliosa la cara Irene.

 

“Eh, sì, purtroppo la musica classica mi è sempre stata un poco indigesta.”

 

“Eh, ho visto che sei più tipo da musica latina,” ironizzò Cinzia, prima di aggiungere, stringendo Pietro per un braccio, “però stasera era una serata speciale, perché Pietro per la prima volta ha suonato con me ed una mia amica. Ormai è diventato bravissimo, potrebbe quasi farlo di professione!”

 

“Mi fa piacere per lui e per voi!” rispose, pensando solo che ringraziava il cielo che mo tutte le prove di Pietro se le beccava Cinzia Sax.

 

Perché, bravo o non bravo, sentirsi lo stesso brano ottocento volte avrebbe dato sui nervi pure ad un santo. E lei era tutto tranne che santa.

 

“Dovremmo invitarli una volta ad un concerto, no?” chiese poi a Pietro, che pareva voler sprofondare fino alla Gravina per quanto era in imbarazzo.

 

“Eh, ma purtroppo noi di solito stiamo sempre a Roma.”

 

“A proposito, ma da dove venite? Che non ti ho mai vista così elegante, Imma!” esclamò Pietro, all’improvviso, guardandola in un modo che la mise ulteriormente in imbarazzo.


Vide chiaramente che Calogiuri si era teso come una corda di violino.

 

“Dal ristorante, Pietro.”

 

“Così elegante? Ma in che ristorante siete andati, Imma?”

 

“Uno che dà sul Sasso Caveoso,” rispose, cercando di stare sul vago.

 

“Ma quello stellato?!” chiese Pietro, ancora più incredulo che per tutto il resto, per poi sembrarle scocciato, “con me tra un poco nemmeno in pizzeria volevi andare!”

 

“Esagerato! E comunque… per un’occasione speciale si può pure fare.”

 

“E quale sarebbe?”

 

“Tra pochi giorni è… è il primo anniversario mio e di Calogiuri ed è la prima volta che torna a Matera dopo tanto tempo,” spiegò, perché in fondo lei e Pietro erano divorziati ormai, un anno prima già separati erano, e non poteva né doveva nascondersi a vita.

 

“Il primo in quale sistema numerico, Imma?” ironizzò Pietro, prima di aggiungere, sarcastico, l’imbarazzo per le battute di Cinzia evaporato del tutto, “e allora buon anniversario! Ah, e per quegli oggetti tuoi che stanno ancora a casa mia, li potete passare a prendere prima di tornare a Matera o-?”

 

“Domani temo saremo impegnati tutto il giorno, Pietro e… dovrei noleggiare un furgoncino, che sulla mia auto non ci sta niente. Ti dispiace se li recupero sotto natale, che non penso torneremo qua prima di allora?” gli chiese e, stavolta, il sorriso di Calogiuri lo vedeva chiaramente pure in tralice, in penombra nel vicoletto buio.

 

“A natale?” ripeté Pietro, il sarcasmo sparito, sostituito da un misto di malinconia e rassegnazione.

 

“Sì, a natale. Tanto avevamo già deciso di dividerci cenone e pranzo con Valentì, no?” gli ricordò e Pietro annuì, l’aria di chi un’altra festività come le precedenti se la voleva evitare.

 

“Magari lasciate a noi il pranzo? Che la madre di Pietro almeno è più comoda?” si inserì Cinzia, serafica, Pietro che pareva sorpreso dalla notizia più di lei e che forse realizzava in quel momento che c’era perfino di peggio di una moglie ed una suocera che non si sopportavano.

 

Una fidanzata e una suocera che erano complici, troppo.

 

“Per noi, non c’è problema, no, Calogiuri?” gli domandò, giusto per cortesia, perché dallo sguardo di lui capiva benissimo che era talmente contento che avrebbe accettato di fare il cenone pure alle quattro del mattino, se glielo avesse chiesto.

 

Ed infatti scosse il capo con un sorriso smagliante.

 

“Va beh… noi mo andiamo che si fa tardi e domani sarà una giornata lunga. Buona serata!” salutò, tornando a prendere Calogiuri a braccetto e si avviò con lui non appena il “buona serata!” di risposta di Cinzia giunse alle sue orecchie.

 

Sapeva che pure Pietro doveva proseguire, almeno per un pezzo, nella stessa direzione loro, ma non udì alcun rumore di passi. Forse era rimasto bloccato con Cinzia.

 

“Grazie…” le sussurrò Calogiuri, per l’ennesima volta quel giorno, mentre continuavano a camminare a passo svelto verso casa.

 

“No, Calogiuri, grazie a te, per tutto, anche perché domani ci tocca una giornata non facile, lo sai, sì?”

 

“Non m’importa niente, a me basta sapere che sei convinta di noi due e posso affrontare pure dieci prefetti e dieci Maria Moliterni.”

 

“Io pure, Calogiuri, ma non garantirei di non fare una strage e che dovresti venire con le arance a trovarmi in galera,” scherzò, guadagnandosi un’altra risata ed un bacio sui capelli, che spazzò via pure l’aria frizzantina della notte.

 

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“Buongiorno, signori.”

 

L’autista del prefetto, impeccabile in giacca e cravatta, li venne a prendere sotto casa della madre di Imma - che col cavolo che dava loro l’indirizzo di quella di Calogiuri! - ed aprì loro la portiera sul retro.

 

Sbirciò nella vettura e vide che il prefetto era seduto al posto del passeggero, mentre Maria stava dietro di lui, attaccata al finestrino.

 

“Imma! Buongiorno, ma come ti sei vestita?”

 

“Da equitazione, Maria, sai com’è, era l’unica cosa sportiva che mi ero portata dietro per questi due giorni,” rispose, non sapendo se la Moliterni fosse sorpresa dal completo - indossato ovviamente senza la giacca - o dal fatto che non ci fosse nulla di animalier o di variopinto, per una volta, tranne le scarpe da ginnastica.

 

“No, è che… vederti vestita di bianco e beige è… inusuale. Anche se non quanto la notizia che fai equitazione,” commentò, levandole il dubbio, “Calogiuri invece tu sei sempre impeccabile, quando ti devi vestire per un’occasione.”

 

In effetti Calogiuri di polo ne aveva una marea e per fortuna si era pure portato in valigia un paio di pantaloni casual neri che non erano jeans.

 

“Grazie, signora Moliterni,” replicò, dopo aver chiuso la portiera.

 

Era talmente grossa quell’auto che pure seduti in tre dietro c’era spazio a sufficienza per stare più che comodi.

 

Partirono ed Imma vide chiaramente, dallo specchietto retrovisore, che il prefetto aveva un’espressione tutt’altro che felice. E molto probabilmente non solo per i complimenti a Calogiuri.

 

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“Scusatemi, ma qua con i jeans non si può entrare da regolamento.”

 

L’elegantissimo addetto alla sicurezza dell’ingresso aveva bloccato Capozza, nonostante si fosse impegnato a mettersi una polo, invece delle solite magliette da rockettaro ventenne. Ma probabilmente non aveva nemmeno un paio di pantaloni decenti, se non quelli della divisa.

 

Diana invece, con tanto di cappellino con visiera, aveva un vestitino che un altro po’ non era pronta per il golf ma per un matrimonio.

 

Per certi versi erano quasi più una strana coppia di lei e Calogiuri ma, chissà perché, funzionavano.

 

“Sono con me,” proclamò il prefetto, seppure con tono non propriamente entusiasta ed il giovane si mise praticamente sull’attenti.

 

“Signor prefetto, buongiorno, non immaginavo, scusatemi,” li fece passare subito il ragazzo, tutto ossequioso.

 

Percorsero varie stanze, elegantissime, ovviamente, finché arrivarono all’aperto e un caddy li raggiunse con in spalla tutta l’attrezzatura necessaria.

 

Era un bel ragazzo, giovane, biondo, occhi azzurri, ovviamente abbronzato, visto il lavoro che svolgeva.

 

“Signor prefetto, signora Moliterni, che piacere rivedervi!” salutò, cordialissimo - evidentemente il prefetto era uno dei clienti migliori - ed Imma dovette mordersi le labbra per non ridere, quando notò il modo in cui la Moliterni se lo guardava. Altro che bonbon!

 

“Credo di non avervi mai visto qui prima d’ora? Jonathan Fanelli, piacere,” si presentò ed Imma si dispiacque immediatamente per il povero ragazzo, costretto ad un nome inglese probabilmente da una madre che guardava troppa televisione.

 

“La dottoressa Imma Tataranni, il maresciallo Calogiuri, la signora Diana De Santis ed il brigadiere Capozza,” chiarì il prefetto, facendo le presentazioni.

 

Il ragazzo strinse le mani a tutti, che manco un attore dopo lo spettacolo e poi chiese, “a che livello siete con il golf?”

 

“Mai giocato in vita mia e presumo neppure gli altri, giusto?” rispose Imma e tutti scossero il capo.

 

“Va bene. Allora, mano a mano che facciamo le varie buche, vi spiegherò le basi. Mi scuso già con voi,” disse poi rivolto ai coniugi Moliterni, “temo che dovrete pazientare un po’.”

 

“Non è colpa tua, Jonathan, siamo noi che ce li abbiamo portati,” rispose il prefetto, pronunciando il noi in un modo che faceva capire chiaramente quanto non fosse stata una sua idea.

 

Non fosse stato il prefetto, Imma avrebbe già più che volentieri tolto il disturbo - che se lui non ne aveva voglia lei manco per idea! - ma toccava sopportare almeno per qualche ora.

 

Si stavano avviando tutti insieme verso la prima buca, quando incontrarono un’altra coppia di golfisti, sulla cinquantina, con caddy al seguito, una ragazza stavolta.

 

Vitolo, Maria!” esclamarono, prodigandosi in abbracci e baci da vecchi amici.

 

Poi li guardarono, un poco sorpresi, ed alla fine la signora si rivolse con un sorriso verso Calogiuri, “ma è Matteo vostro? Quanto è cresciuto! Ti sei fatto proprio bello!”

 

Tra Vitolo, la Moliterni e Calogiuri era una gara a chi fosse più in imbarazzo, non che non ci si potesse includere pure lei. Matteo loro era Matteo Moliterni, il figlio ormai ultraventenne che da qualche anno studiava e viveva negli Stati Uniti, in qualche università di cui aveva scordato il nome ed il luogo. In effetti era moro - come il padre una volta - e con gli occhi chiari - come la madre - ma a suo avviso come bellezza con Calogiuri non c’era proprio paragone. Era un ragazzo normale, come tanti.

 

“No, Giusy, questo non è nostro figlio,” spiegò la Moliterni, con l’aria di chi avrebbe voluto uccidere la cara amica per la sola insinuazione di poter avere prole dell’età di Calogiuri, prima di procedere nuovamente con le presentazioni.

 

“Ecco perché mi pareva familiare!” esclamò la signora, dopo la spiegazione, con l’aria che definire curiosa sarebbe stato come definire Diana un poco logorroica, “voi due siete quelli che stavate sui giornali ed in televisione, vero?”

 

E te pareva!

 

“Sì, per il maxiprocesso, soprattutto, sa, abbiamo dato una bella ripulita a Matera. E voi, che mestiere fate, esattamente?” chiese Imma, con un sorriso volutamente fintissimo, tanto per assicurarsi non solo il silenzio da altre battute, ma anche che Maria ci avrebbe pensato mille volte prima di invitarla nuovamente da qualche parte.

 

“I- imprenditore edile,” balbettò l’uomo, che chiaramente qualche scheletruccio nell’armadio ce lo doveva avere, da come si agitava, “va bene, allora… vi lasciamo al golf, noi ora ci andiamo a rilassare un poco, no, cara?”

 

E sparirono alla velocità della luce, mentre Diana pareva mortificata, Calogiuri stava trattenendosi dal ridere e la Moliterni pure. Vitolo, chissà mai perché, sembrava quasi pronto all’omicidio.

 

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“L’obiettivo è tirare la palla, Imma, non arare il campo.”

 

Fece una risata forzata e sarcastica alla battuta di Maria. Ce l’aveva invitata lei a golf e mica era colpa sua se non era capace.

 

Erano alla quarta buca soltanto ma già aveva szollato mezzo campo ancora un po’. Sperava che non le facessero pagare un extra per la manutenzione.

 

Si consolava solamente perché Diana e Capozza pure erano messi malissimo. Calogiuri invece, sportivo come al suo solito, dopo un paio di tiri a vuoto all’inizio, pareva aver capito come si faceva e non solo riusciva a centrare la pallina, ma pure a direzionarla più che discretamente.

 

“Aspetti, le mostro di nuovo come si fa,” si offrì il caddy, piazzandosi stavolta dietro di lei e prendendole le mani, per guidare il movimento.

 

Magari era paranoica, forse era la sua impressione, ma lo sentiva fin troppo vicino, il petto che le toccava la schiena.

 

Ma del resto, se doveva guidarle le mani, non è che potesse stare a chilometri di distanza, salvo avere le braccia telescopiche.

 

Si avvide, con la coda dell’occhio, che Calogiuri guardava l’istruttore non solo in cagnesco, ma da fare invidia al suo di zoo.

 

Le venne da sorridere di fronte a tanta gelosia ma, proprio in quel momento, l’istruttore infine completò il movimento e la sua pallina schizzò dritta dritta verso la buca.

 

“Ovviamente questo tiro non vale,” precisò il prefetto, che prendeva quella specie di gara molto seriamente, anche se gli piaceva decisamente il vincere facile,

 

“Ovviamente…” rispose Imma, ringraziando il caddy e riprovando da sola ad imitare il movimento.

 

Quantomeno non centrò il terreno stavolta, ma la pallina fece una parabola ridicola, che giusto giusto per il cucchiaio poteva andare bene, o al minigolf, ed atterrò a pochi metri da loro, lontanissima dalla buca.

 

Toccava poi a Calogiuri ma, forse per nervosismo, forse per distrazione, se nelle buche precedenti aveva tenuto abbastanza testa al prefetto, sbagliò clamorosamente, facendo finire la pallina in un laghetto lì vicino.

 

Vitolo sembrò molto soddisfatto, ovviamente, pure mentre l’istruttore rispiegava anche a Diana e Capozza come tirare. Imma si convinse di essersi immaginata l’eccessiva vicinanza del ragazzo, visto che, d’accordo, Capozza non faceva testo, ma con Diana manteneva comunque una distanza assolutamente professionale.

 

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“Vino?”

 

Si erano fermati per pranzo dopo la nona buca, che già erano quasi le due del pomeriggio, a causa della loro lentezza.

 

Il ristorante del club, sorprendentemente, proponeva piatti tipici lucani e pugliesi con dosi non da fame, anzi.

 

Ma il prefetto continuava a versare vino a Calogiuri, che ormai cercava di berne il meno possibile, visto che non poteva rifiutare.

 

Alla nona buca Calogiuri era in netta rimonta e a poca distanza dal prefetto che, essendo oltretutto Calogiuri alle prime armi, evidentemente non l’aveva presa bene.

 

“Fallo vincere, Calogiù, prima che ti mandi in coma etilico,” gli aveva sussurrato in un orecchio, non appena il prefetto fu distratto da una conversazione con altre due coppie, elegantissime, di amici suoi e della Moliterni che si erano unite a loro per il pranzo.

 

Calogiuri si coprì la bocca con la mano per mascherare una risata, almeno fino a quando una delle signore, una certa Mariagrazia, saltò su e, rivolta a lei, le chiese, “se eri nella stessa scuola di Maria, hai fatto anche tu il liceo classico, giusto?”

 

“Sì, certo, e pure Diana. Noi due eravamo in classe insieme, Maria credo fosse già diplomata quando noi abbiamo iniziato la prima ginnasio,” rispose con un sorriso, divertendosi un mondo a lanciare frecciatine alla Moliterni, nella speranza che un’idea così malsana non le tornasse mai più.

 

Maria tossì ma poi il prefetto si inserì con un, “la dottoressa è un’esperta di citazioni dal latino. Quasi imbattibile. Vediamo se riesce a completare questa, dottoressa. Homines nihil agendo…”

 

Agere consuescunt male,” concluse con un sospiro, perché già aveva detestato quel giochetto la prima volta, “gli uomini, non facendo nulla, si abituano a fare malamente. Molto adatto per la procura, che ne dici, Maria?”

 

Maria continuò con l’attacco di tosse, prima di ribattere con, “a proposito di procura, com’era, diligite iustitiam….”

 

Qui iudicatis terram?” intervenì Diana, evidentemente felicissima quando la citazione risultò corretta.

 

Continuarono ancora per un poco, mentre lei stava seriamente rimpiangendo persino la giornata trascorsa dalla gattamorta con l’afternoon tea - almeno Bianca era simpatica!

 

“E lei, maresciallo, perché non la propone lei una citazione?” chiese il prefetto con un gran sorriso, che Imma gli avrebbe voluto levare con una piattata in faccia.

 

Sicuramente sapeva che cosa avesse studiato e non studiato Calogiuri, visto che era arrivato a Matera come appuntato e non era quindi evidentemente laureato, nonostante la sua intelligenza.

 

“Veramente… purtroppo ho fatto le scuole tecniche, non ho mai studiato il latino,” ammise Calogiuri, parendo un poco mortificato, di fronte agli sguardi di superiorità degli astanti, tranne del povero Capozza e di Diana, ovviamente.

 

“Ah, beh, capisco, del resto bravi nello sport, un po’ ciucci a scuola,” intervenne con una risata uno dei due uomini presenti, un commercialista.


“E poi, come si suol dire, gli opposti si attraggono,” rimarcò l’altro maschietto, un architetto dai capelli palesemente tinti e che parevano leccati da una mucca.

 

Imma allungò una mano per stringere le dita di Calogiuri sotto al tavolo, furiosa come raramente si era mai sentita: se alcune donne ce l’avevano su con lei, manco avesse tradito tutta la morale, cattolica e pure laica, gli uomini sposati oltre ad una certa età parevano avere una specie di risentimento intrinseco verso Calogiuri, nemmeno avesse portato via la loro di moglie. Che poi erano di solito gli stessi che, una volta soli e senza consorte, se ne lamentavano, dipingendo la moglie come l’origine di tutti i mali della loro vita. Magari la cornificavano pure, ma non l’avrebbero lasciata manco sotto tortura e guai se l’avesse fatto lei.

 

“Ne ho una io per voi, di citazione,” sibilò Imma, fulminandoli tutti con lo sguardo, “anche se è troppo breve per poter essere inclusa in questa... gara. Asinus asinum fricat.”

 

Un asino gratta - cioè loda - un altro asino,” proclamò il prefetto con un sorriso, prima che si rendesse conto di cosa aveva appena tradotto e che sulla tavola scendesse un silenzio a dir poco tombale.



 

Nota dell’autrice: Ed eccoci qua alla fine di questo capitolo molto materano, invece che milanese ;), leggermente più lungo del solito, per compensare le due settimane tra un capitolo e l’altro. Spero che “i ritorni” e l’anniversario vi siano piaciuti, nel prossimo capitolo vedremo sia come si concluderà il viaggio a Matera, sia come proseguiranno i gialli ancora aperti, sia magari una certa trasferta in Lombardia, con buona pace di Imma.

Una piccola nota per i materani e lucani che fossero alla lettura: le frasi in dialetto ho cercato di costruirle con l’aiuto di un vocabolario, con parecchie licenze personali specialmente sulle coniugazioni verbali, quindi mi scuso per gli errori che inevitabilmente ci saranno.

Grazie di cuore per aver seguito la mia storia fino a qua, spero che continui a mantenersi interessante. Le vostre recensioni sono davvero un’enorme motivazione per me, oltre ad aiutarmi a capire cosa mi riesce meglio e cosa è da rivedere, quindi se vorrete farmi sapere che ne pensate ve ne sarò grata fin d’ora.

A causa delle vacanze, il prossimo capitolo arriverà esattamente tra due settimane, domenica 30 agosto.

Grazie mille ancora, buona seconda metà di agosto e buone vacanze per chi le farà!

 
   
 
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