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Autore: MaxB    17/08/2020    7 recensioni
Ossessionata dalla saga de La Passe-Miroir, non riesco a pensare ad altro da settimane.
E ho bisogno di approfondire alcune scene dei primi tre (e spoiler del quarto) volumi.
Ci saranno missing moments, scene descrittive relative a Thorn, soprattutto alla sua infanzia, e immersioni nei dialoghi tra Ofelia e Thorn, per come me li immagino io. Ed eventuali scene mancanti che ci starebbero bene.
Per possibili spoiler sul quarto volume verranno dati avvisi in cima alla pagina.
Aggiornamento irregolare.
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Non voglio nemmeno contare quanto sono in ritardo, ma vi dico che per farmi perdonare il capitolo è il più lungo che abbia mai scritto. Quindi... è come se fossero due *faccia da angioletto*
Volevo ringraziare tantissimo Hope Valentine per le bellissime chiacchierate approfondite che facciamo, da vere fangirl ossessive, e che ogni tanto mi fanno venire un CASINO DI DUBBI. Spero che il capitolo ti piaccia e ovviamente sono pronta a discuterne quando vuoi♥ E ringrazio tanto anche SaphiraLupin per il messaggio breve e conciso di qualche giorno fa che mi ha fatta ridere un sacco e anche commuovere, perché mi ha fatto capire che le interessa davvero quello che scrivo e non potrei provare gioia più grande.
Detto questo, sono in montagna, quindi non ho il terzo  libro dietro e non posso specificarvi che pagine del terzo libro sono trattate. Lo aggiungerò appena torno. Le parti sono 3 comunque: la prima riprende il capitolo scorso, con Ofelia che se ne va dalla sala dell'Ordinatore dopo il bacio e Thorn che la raggiunge; la seconda riguarda la camminata che fanno dal trenuccello fino alla casa di Lazarus, con Thorn che le dice che dovranno parlare quando tutto sarà finito; la terza è la rivisitazione della prima volta insieme dal punto di vista di Thorn.
Ho sentito il bisogno di ritrattare questa scena per diversi motivi. Intanto, ho sempre avuto più versioni, non solo una, e riprenderlo mi ha aiutata a soddisfare questo mio bisogno xD Ad esempio, la prima volta che l'ho scritto ho messo due parole in croce di conversazione, per la classica frase della Dabos che "il mondo smise di essere parola". Però, insomma, che non avessero proprio parlato mi pareva strano. Quindi qui ho aggiunto qualcosa. Inoltre, il punto di vista di Thorn mi è divenuto più congeniale mano a mano che ho scritto, quindi ci tenevo a descriverlo dal suo punto di vista. E l'effetto delle mani di Ofelia su di sé... non potevo resistere. Infine, per farla breve, ho modificato il post... ehm... il post, ecco, perché leggendo le prime pagine del 4 risulta evidente che hanno parlato a letto, dopo averlo fatto, prima di essere svegliati dalle sirene. E non per ultimo hanno parlato di Archibald, quindi mi sono divertita ad immaginare le vicissitudini che li hanno portati a quelle conversazioni.
Spero che possa piacervi anche questa interpretazione e chiudo. Mi farò sentire presto, spero, ho tante altre cose che mi piacerebbe approfondire e spero siate sempre disposti a leggermi♥
L’Attraversaspecchi III, La Memoria di Babel, L'Altro, pagine 474-482


15. Cinquante-six

Ofelia si chiuse la porta alle spalle con una certa solennità, lasciandolo solo.
Ancora non si capacitava di ciò che era appena successo. Non tanto per la riuscita della sua impresa, perché Ofelia aveva trovato il libro che cercava da così tanto tempo, quanto per il bacio… la confessione. Thorn non poteva fare a meno di indugiare in quei pensieri mentre armeggiava con l’armatura che aveva sulla gamba. Si era completamente slegata, sarebbero serviti all’incirca ventidue minuti per rimettere insieme le otto assi metalliche che la componevano, legare i tre lacci che la tenevano insieme e avvitare i diciotto bulloni che le permettevano di muoversi, adattandosi alla sua gamba come uno stivale un po’ rigido ma efficace per camminare senza zoppicare. Se l’avesse rimessa insieme in modo raffazzonato, invece, quel tanto che bastava per permettergli di usarla senza sprecare altro tempo, avrebbe impiegato nove minuti. E quaranta secondi. L’idea di iniziare un lavoro senza concluderlo con precisione avrebbe dovuto urtare i nervi della sua pignoleria, indisponendolo, ma non in quel caso. Il pensiero di Ofelia che usciva dal Memoriale da sola, che passava di fronte a quella marea umana di corpi di precorritori pericolosi e dei Genealogisti, per poi attenderlo da sola all’ingresso dell’edificio…
Thorn impiegò sette minuti e trentasei secondi per concludere l’opera. Ofelia in sette minuti era in grado di farsi catturare dalle guardie e imprigionare. Era capace di farsi rapire, o sparare. Non che a Babel ci fosse il rischio di una simile eventualità, dato che lo stesso verbo, “sparare”, era vietato, ma con lei in giro non si sarebbe sorpreso se fosse venuto fuori che tutti i cittadini di Babel in realtà possedevano una rivoltella. No, troppe variabili impazzite c’erano in quel disegno. Era prioritario raggiungerla in modo tale che non commettesse delle sciocchezze.
Il fatto che desiderasse ardentemente stare ancora accanto a lei non era assolutamente la ragione della sua fretta. Il desiderio di essere di nuovo guardato in quel modo…
Thorn si alzò, allungando i lunghi arti ossuti, facendo scricchiolare l’armatura e le giunture. Valutò il suo operato, mediocre, ma almeno l’esoscheletro avrebbe retto, ottemperando alle sue funzioni. Si infilò velocemente l’uniforme di LUX e prese il bastone, con disappunto. Sarebbe stato peggio rischiare un nuovo cedimento dell’armatura, soprattutto di fronte ad Ofelia: non voleva che notasse la gravità della sua zoppia. Passò per la sala dell’Ordinatore ancora gremita di documenti sparsi, scatole rovesciate che vomitavano il loro contenuto ovunque e pezzi non identificati di metallo e vetro: il visore di microfilm si era distrutto spargendosi ovunque.
Appena si chiuse la porta alle spalle, Thorn estrasse una boccetta di alcol farmaceutico dalla tasca dell’uniforme, vicino a dove aveva riposto l’orologio da taschino. Si disinfettò con cura le mani mentre percorreva i centosettantadue metri di corridoi e trascendium che lo avrebbero portato all’esterno, sentendosi terribilmente contaminato dal disordine che si era lasciato alle spalle. Sinceramente, gli interessava poco in quel momento: una volta riportata ai Genealogisti la sua riuscita, loro gli avrebbero assegnato un altro incarico. Il suo ruolo da archivista era finito.
Rimise a posto la boccetta poco prima di uscire nell’asfissiante caldo babeliano, non molto certo di essersi pulito a dovere. Ma lo sporco che sentiva sulla pelle era in realtà intimo, e non sarebbe mai riuscito a lavarlo via del tutto.
Individuò subito la chioma arruffata di Ofelia, seduta sugli scalini del Memoriale accanto a Polluce. Ovviamente. In quei tredici minuti di lontananza era riuscita ad avvicinarsi allo spirito di famiglia. Thorn cercò di non aggrottare le sopracciglia, ringraziando l’innocuità di Polluce; trovarla con i Genealogisti gli avrebbe fatto gelare il sangue nelle vene e scattare gli artigli con ferocia.
Non diede segno di averla vista, fu discreto nel guardarla, ma non gli sfuggì l’espressione sollevata di Ofelia quando lo vide. Si alzò e, cercando di essere naturale, lo seguì a distanza. Thorn si concentrò sulla sua andatura, cercando di camminare in modo dritto, facendosi forza per non girarsi a guardare Ofelia. La curiosità per una volta stava uccidendo lui e non lei: aveva ancora in viso quell’espressione… quasi contenta, all’idea di vederlo?
Saliti sul trenuccello, Thorn si posizionò in modo da essere isolato completamente per non rischiare un colpo di artigli involontario, e fortunatamente, eppure con suo dispiacere, Ofelia si sedette distante, alle sue spalle. La visuale di Ofelia era buona, mentre lui non poteva guardarla, non senza girarsi verso di lei in modo evidente; nonostante tutto, sentì i suoi occhi su di sé per tutto il tragitto. Non aveva dubbi al riguardo.
Quando sbarcarono dal trenuccello, finalmente in grado di poter stare uno accanto all’altra, Thorn si rese conto che quella situazione era infinitamente peggiore. Infinitamente. Le parole di Ofelia, il suo discorso circa il far parte della sua vita, la sua dichiarazione, la sua evidente reticenza ad allontanarsi da lui gli avevano fatto scattare qualcosa dentro. Il cammino fino a casa di Lazarus era lungo, e Thorn maledisse ogni passo che fece al fianco di Ofelia… senza poterla toccare. Impresse tutta la sua frustrazione nel bastone con cui si sosteneva, facendolo risuonare nel buio più di quanto fosse necessario; quanto meno, la cadenza ritmica dei loro passi lo aiutò a rimanere lucido, a concentrarsi. Ofelia si agitava di fianco a lui, controllandosi le spalle come per assicurarsi che fossero soli. La sua inquietudine lo avrebbe messo sulle spine, se non fosse stato troppo distratto da altri pensieri. Immagini su cui non si era mai soffermato, fantasie che aveva considerato irrealizzabili, ma che quel giorno erano diventante delle possibilità, cambiando il risultato delle equazioni di cui lui e Ofelia facevano parte.
Ofelia non si era ritratta al bacio. Si sarebbe ritratta di fronte a… qualcosa di più?
Si immaginò mentre si chinava per baciarla di nuovo, facendo scorrere le mani sulla sua vita, sulle sue braccia. Non andò oltre, non era il caso in quel momento, ma si rese conto che l’idea di toccare Ofelia aveva su di lui un effetto diametralmente opposto rispetto a ciò che gli suscitava il pensiero di toccare qualcun altro: invece che ribrezzo e nausea, si sentiva ribollire il sangue nelle vene e attorcigliare piacevolmente l’intestino, il cuore fibrillava.
Era quello, il desiderio? Sì, dato che lui desiderava Ofelia. Al di là di ogni ragionevole dubbio.
Si stizzì ancora di più. Quella non era decisamente una priorità, non lo era mai stata.
- Siete contrariato?
La voce di Ofelia lo strappò alle sue elucubrazioni.
Sì, era contrariato. Anche un po’ di più.
- Sto pensando – rispose a denti stretti, come se la cosa non fosse ovvia.
Sperava che Ofelia non gli chiedesse a cosa stava pensando, perché non era sicuro di poterle mentire.
- Siete stato tutto questo tempo a cercare un libro che io avevo rubato. Avete tutti i diritti di avercela con me.
Thorn si girò verso di lei, verso il suo viso in apprensione. Lei temeva che lui la odiasse per un motivo del genere? Certo, una parte della sua mente si stava ancora interrogando su come fosse possibile che lei avesse accidentalmente preso proprio il libro che gli serviva non appena aveva messo piede al Memoriale. Ma il suo cervello e il suo corpo erano concentrati su altro in quel momento, purtroppo.
E i motivi per cui ce l’aveva con lei non erano riconducibili al libro, ma a ciò che lei suscitava in lui. La sua presenza era come una scintilla. Lui era solo paglia. Eppure, le sue parole ebbero la forza di distrarlo. Era vero che lui era stato tutto quel tempo a cercare un libro che lei aveva rubato.
In che razza di mondo sregolato lo aveva catapultato Ofelia? Con lei, persino l’aritmetica diventava opinabile.
- Se non l’aveste fatto uscire dal Memoriale miss Silence l’avrebbe distrutto, e insieme a lui avrebbe distrutto la mia unica possibilità di sopravvivenza. No, l’aspetto della vostra storia che mi infastidisce è di natura strettamente matematica.
- Matematica? – chiese lei, con un tono di voce così basso che lo spinse indietro nel tempo, su Anima, la prima volta che l’aveva vista.
- Ho impiegato più di due anni a mettere insieme gruppi di lettura qualificati per passare al setaccio tutte le collezioni, e il primo libro che prendete distrattamente è quello giusto. La vostra tendenza a demolire le statistiche fa paura.
Ofelia aggrottò le sopracciglia e si fermò. Si chinò per allacciarsi una stringa che minava il suo già precario equilibrio. – Non l’ho fatto proprio distrattamente. Voglio dire, una parte di me non ha scelto quel libro per caso. Una parte di me l’ha riconosciuto. Una parte di me ha voluto impossessarsene.
Quello era un risvolto interessante nel quadro generale delle sue ricerche. Interessante, privo di logica e buonsenso, e ancor più privo di spiegazione. – La vostra altra memoria.
- Mi sto davvero sforzando di capire da dove venga e cosa voglia dirmi. Mi sarebbe piaciuto che almeno di fosse presa la briga di spiegarmi cosa sappia di Dio quel libro per bambini. Ma questo lo scopriremo da soli.
Al di là degli innumerevoli interrogativi che le asserzioni di Ofelia facevano sorgere, nuove incognite in quella complessa equazione, o sistema di equazioni, data la difficoltà del caso, Thorn non poté fare a meno di osservarla con un’intensità quasi maniacale.
Le sue ultime parole, “lo scopriremo da soli”, gli rimbombarono nella mente come un’eco mentre lei finiva di fare il nodo al laccio e si rialzava, incontrando il suo sguardo. La sua pelle abbronzata e accaldata aveva una strana luminescenza sotto le luci pallide dei lampioni, come se in realtà non scintillasse di luce riflessa, ma propria. In quel momento si odiò, disprezzò se stesso con tutte le sue forze, ma nulla poté impedirgli di mantenere in alto nella sua lista di priorità il bisogno che aveva di lei.
Avrebbe commesso qualche sciocchezza, fregandosene dei Genealogisti, di Dio e del resto, se Ofelia glielo avesse permesso. Se avesse voluto compierla con lui… insieme.
- Quando questa faccenda sarà sistemata dobbiamo parlare, noi due.
Lei apparve perplessa. Aveva intuito che il discorso da intavolare non aveva nulla a che fare con la loro missione. Nulla.
- Parlare di che?
- Quando la faccenda sarà sistemata – ripeté, lapidario.
Ofelia non si era nemmeno resa conto che erano arrivati, così lui le indicò il portico della casa di Lazarus con la puta del bastone.
Era tempo di concentrarsi. Se tutto fosse andato secondo i piani, avrebbero avuto tempo per quello dopo aver risolto la faccenda.
Tempo per parlare. Solo per parlare. Anche se Thorn, in realtà, nutriva il desiderio di andare oltre alle parole.
Anche un po’ di più.
 
Il pensiero di Ofelia lo aggredì prepotentemente mentre si lasciava i Genealogisti alle spalle, insieme al senso di disgusto che provava non solo per le loro effusioni, ma per loro stessi. Erano stati contenti del libro, così contenti che dubitava che si sarebbero trattenuti dal copulare di fronte a lui. Lo avevano congedato informandolo che presto gli avrebbero recapitato nuovi ordini mentre le loro mani stavano già invadendo lascivamente i rispettivi corpi. Fortunatamente la femmina non lo aveva toccato; non lo avrebbe sopportato quel giorno. Non quando agognava in modo così viscerale il tocco di Ofelia.
Sentiva ancora sotto le dita il calore della sua serica pelle, il dorso liscio e morbido delle sue mani. Si disinfettò due volte mentre tornava a casa di Lazarus, accompagnato solo dai suoi pensieri, dallo scricchiolio dell’armatura e dal ticchettio ritmico del bastone e della pioggia sull’ombrello. Era fondamentale sistemare l’esoscheletro come si conveniva quanto prima, per evitare di trovarselo distrutto per terra. Mentre si frizionava le dita si trovò a riflettere sulla sensazione che poteva dare il suo tocco a qualcuno. A Ofelia. Erano mani ossute, affusolate… Ofelia ne sarebbe stata ripugnata? Avrebbe provato le stesse cose che provava lui, se si fosse azzardato a toccarla? Come avrebbe reagito?
Non si sarebbe mai soffermato su simili pensieri se in cuor suo non avesse preso una decisione. Era ormai oltre il punto di non ritorno. Ofelia aveva scatenato in lui desideri umani che non credeva nemmeno di possedere. La voleva e, anche se non si illudeva che lei lo volesse allo stesso modo, memore di ciò che gli aveva detto anni addietro, alla stazione ghiacciata, sperava che almeno non si dimostrasse disgustata di fronte alle sue attenzioni. Lui era un po’ a disagio con se stesso per via di quel nuovo bisogno. Anche un po’ di più. Ma mai in vita sua aveva sperimentato una simile brama per qualcosa. Era una cosa che facevano tutti, che non aveva mai capito, aveva sempre rifuggito, ma a cui in quel momento anelava.
Arrivò a casa senza quasi rendersene conto, senza aver nemmeno riflettuto per un istante sul dialogo intercorso tra lui e i Genealogisti. Lo avrebbero lasciato in vita nei panni di sir Henry, e tanto gli bastava al momento. Aveva un solo obiettivo in mente.
Un automa gli aprì la porta di casa, inducendolo a chiedersi come mai non fosse andato ad accoglierlo Ambroise, il bislacco figlio di Lazarus, ma la cosa aveva poca rilevanza. Lasciò l’ombrello fuori dalla porta e si diresse verso la porta della stanza di Ofelia prima di bloccarsi lungo il corridoio.
Non aveva un piano. Lui, che programmava la giornata al secondo, che dietro ad ogni parola pronunciata celava un intero sistema di pensieri organizzati e inespressi, che sapeva sempre cosa dire e come, non aveva un piano. Si rifugiò in camera sua invece di proseguire verso la camera di… sua moglie.
Mise giù il bastone. Doveva riparare l’armatura. No, prima doveva radersi. Dopo il loro ultimo bacio, aveva visto Ofelia passarsi distrattamente la mano sul mento, accarezzandolo come per scacciare un dolore: non era sbarbato quando l’aveva baciata, forse le aveva dato fastidio il contatto con quella peluria incolta.
Alla fine decise di farsi una doccia per eliminare ogni traccia di sudore o impurità. Non sapeva cosa sarebbe successo con Ofelia, ma le aveva detto che avrebbero parlato, e i suoi intenti erano chiari. Se poi lei, in qualche modo, avesse voluto andare oltre… non poteva essere impreparato. Per la prima volta fece caso alla sensazione che generava toccare il suo stesso corpo, mentre si detergeva accuratamente ogni parte del suo fisico. Non era solito guardarsi allo specchio, e a dire il vero erano rare le volte in cui aveva osservato il suo corpo nudo riflesso da qualche parte. Non gli piaceva. Non si piaceva. Ovunque le sue mani andassero, sentiva ossa. Le costole, il bacino, i gomiti, le spalle, le nocche, le ginocchia. Era tonico, asciutto, con una muscolatura abbozzata… di sicuro non era attraente. Si fissò le lunghe braccia e le gambe magre. Poi chiuse gli occhi e si rilavò i capelli.
Se lui stesso si disgustava e non sopportava la sua vista, come poteva illudersi che per Ofelia sarebbe stato diverso?
Eppure non desistette. Non ne aveva la forza. Si rase, si pettinò e si rivestì. Si prese il suo tempo per sistemare l’armatura correttamente, finché fu soddisfatto del risultato. Cigolava ancora, ma in modo sensibilmente meno sinistro, e il contatto stesso con la sua gamba appariva più solido.
Si disinfettò le mani tre volte, come per lavare via la sua insicurezza insieme alla sporcizia che lo ricopriva.
Quando uscì dalla stanza, esitò di nuovo.
Tornò fuori casa e, aperto l’ombrello, fece un giro del giardino, accertandosi che non ci fosse nessuno. Una cosa che aveva imparato nel corso degli anni era che non si era mai troppo prudenti. Mai. Con l’ombrello ormai fradicio tornò in casa e percorse con decisione il corridoio, questa volta indirizzato senza ripensamenti alla camera di Ofelia. Prese distrattamente l’orologio dal taschino, rendendosi conto che per la prima volta nella sua vita aveva perso la cognizione del tempo: era più tardi di quanto pensasse. Ignorò completamente gli automi e i loro sproloqui, ma uno di loro si dimostrò estremamente ospitale e lo seguì per accompagnarlo nel suo tragitto.
Quando passò di fronte alla stanza di Ambroise, però, quasi perse l’equilibrio: qualcosa lo aveva intralciato e si era avvinghiato alla sua gamba storpia. Ci mise tre secondi esatti a capire che la stoffa che si attorcigliava all’armatura altro non era se non la sciarpa di Ofelia. Le maglie tricolore sembravano quasi possessive con la sua gamba, e Thorn, confuso, rimase indeciso sul da farsi. Allungò la mano che non reggeva l’ombrello e cercò di levarsela di dosso, ma la sciarpa, oltre che combattiva, si impigliò lungo i bulloni e le giunture metalliche dell’armatura; ovvio che metallo e lana non fossero compatibili. Esasperato, Thorn tirò, rinunciando subito quando si rese conto che poteva danneggiare quel capo di abbigliamento indisciplinato. Non nutriva simpatia verso la sciarpa, e di sicuro non era comprensivo con gli oggetti sregolati e caotici, o troppo libertini, ma sapeva che Ofelia e quel pezzo di stoffa erano inseparabili. Non voleva rovinarla, rischiando di farle un torto.
Giunto ad un punto morto, Thorn sospirò appena. Aveva sperato di fare un’entrata migliore di quella, invece si ritrovava con in mano una sciarpa irrequieta per metà incastrata nel suo esoscheletro posticcio, e con un ombrello fradicio nell’altra mano, dato che si era dimenticato di lasciarlo fuori casa.
Il fatto stesso che si fosse scordato qualcosa la diceva lunga sul suo stato psichico. Avanzò verso il suo obiettivo con la sensazione di essere già sconfitto in partenza.
La sua trepidazione, l’aspettativa, erano ormai sfumate, e bussò alla porta di Ofelia con due colpi evidentemente irritati. Si appoggiò allo stipite per reggersi.
Appena vide l’uscio aprirsi non aspettò nemmeno un secondo: - Vi dispiacerebbe sbarazzarmi da questa cosa?
Solo quando Ofelia si chinò per liberarlo si permise di osservarla, e il suo cuore irrequieto mancò un battito. Aveva un leggero sorriso sulle labbra, come se la situazione la divertisse. Indossava una vestaglia a copertura di un morbido pigiama formato da pantaloni larghi e una specie di tunica lunga che le arrivava quasi a metà coscia. Nonostante il caldo di Babel, il tessuto sembrava fresco e Thorn intuì che solo la vestaglia doveva essere a maniche lunghe. Ofelia sembrava comunque un po’ accaldata e, a giudicare dal disordine esplosivo dei suoi ricci castani e del calore latente che emanavano, doveva aver finito da poco di asciugarseli.
Deglutì a vuoto, con la gola improvvisamente secca, mentre registrava tutti quei particolari inutili. O più che utili, dipendeva dal punto di vista.
- Mi stavo chiedendo dove fosse finita – rispose lei, riappropriandosi della sciarpa, che lo liberò e si trasferì senza indugio tra le mani della legittima proprietaria. Come un bambino che allunga le braccia verso la propria mamma. – Temo che abbia preso gusto all’indipendenza.
A giudicare dal carattere della padrona, non era strano che la sciarpa volesse la propria libertà. Era strano che avesse passato tutti quegli anni docilmente legata ad Ofelia, invece. Se era verso che gli Animisti insufflavano le loro emozioni, abitudini, sensazioni e desideri negli oggetti, la sciarpa avrebbe dovuto rendersi autonoma già da molto tempo.
Thorn, finalmente libero da impedimenti di lana, si sbarazzò anche dell’ombrello, completamente fuori contesto, dandolo all’automa dietro di lui, a cui poi sbatté la porta contro. Ci mancava solo che un marchingegno spione di Lazarus si infilasse in camera con loro.
Erano rimasti soli.
Thorn non perse tempo. Non poteva più tornare indietro, metaforicamente parlando, e non era andato lì per salutarla e fare dietrofront. – Dov’è il figlio di Lazarus? – chiese scandagliando la stanza.
Sembrava una normalissima camera, con un letto troppo grande per una sola persona, una grossa finestra che dava sul giardino, un armadio, due comodini, una scrivania su cui una radio gracchiava i suoi annunci molesti e una porta che con ogni probabilità dava sul bagno. Calcolò automaticamente l’area della stanza e le misure di ogni singolo mobile, stranamente più simmetrici del normale. Il letto era lungo cinque centimetri più di lui, fatto ancora più strano: solitamente le dimensioni standard dei letti lo costringevano a dormire con i piedi fuori dal materasso, quelle rare volte in cui dormiva su un letto vero. Al Polo la sua camera presso il palazzo di Berenilde conteneva un letto ordinato su misura, che la zia aveva insistito per far realizzare sulla base della sua altezza anomala. Il fatto che ad Ofelia, così piccola, fosse stata destinata una camera con un simile giaciglio era bizzarro.
- Starà fuori tutta la giornata.
Tutta la giornata. Era ancora relativamente presto, e tutta la giornata era un ammontare di tempo molto lungo. Il suo cervello iniziò a calcolare ore, minuti e secondi in base all’ora in cui Ofelia avrebbe voluto cenare o dormire, ed era una quantità di tempo spropositata. Le variabili erano troppe, però, così continuò a calcolare con un solo angolo di cervello. Sentì un barlume di speranza e sollievo accendersi in lui. – Meglio così. Non saremo disturbati.
Non importava cosa avrebbero o non avrebbero fatto: sarebbero stati soli, e già quello gli bastava. Oltrepassò Ofelia, immobile di fianco a lui, dirigendosi verso la finestra. Misurava novantaquattro centimetri per sessantanove e mezzo, con un’evidente imperfezioni di mezzo centimetro. Però era incassata nel muro precisamente a metà e questo lo rassicurò. Osservò l’esterno, alla ricerca di qualche automa guardone o, peggio, qualche spia umana o qualunque altro elemento di disturbo. Il fatto che Ambroise fosse fuori non significava che fossero al sicuro. Sentiva degli occhi puntati contro, ma con ogni probabilità, e ci sperava, erano quelli di Ofelia. Anche se non poteva dedurne il motivo.
- Che vi hanno detto i Genealogisti? Ci sono rimasti male?
Thorn voleva parlare di tutt’altro, ma era naturale che Ofelia volesse sapere del colloquio. Non che lui non volesse parlarne, certo che no, ma ormai la sua attenzione era calamitata con imperiosità da tutt’altro e, per una volta nella sua vita, si sentiva distratto. Avrebbero avuto tutto il tempo per parlare, dopo
Ma dopo cosa? L’ambiguità, l’indecisione lo mandava fuori di senno, e desiderava porvi fine quanto prima.
Invece tirò le tende con stizza, immergendo la stanza in una pesante penombra. Gli sembrò di aver isolato la camera in quel modo, escludendo persino la pioggia. Potevano essere sospesi sul mare di nuvole e lo avrebbe trovato perfettamente coerente. Quell’atmosfera scura lo metteva più a suo agio, in un certo senso. Le luci forti lo avrebbero disturbato, e forse ostacolato. L’oscurità, in quel frangente, gli dava coraggio.
- Sono stati contenti – rispose alla fine, sperando che la risposta bastasse ad Ofelia. – Anche un po’ di più.
Anche tanto un po’ di più.
- Ma? – lo incalzò Ofelia.
Se non fosse stato così teso, se fosse stato in un altro ambiente, in un altro ruolo, forse avrebbe sorriso. Ofelia lo avrebbe deluso, se non lo avesse spronato a continuare. Se non avesse insistito per farsi raccontare tutto. Ormai la conosceva bene. Il suo proposito doveva aspettare ancora. Aveva atteso per mesi, anni, un tempo che il suo cervello, in un piccolo cantuccio della sua mente, calcolò con precisione facendogli balenare la cifra decisamente troppo grande davanti agli occhi. Aveva aspettato troppo.
Avrebbe potuto rimandare ancora qualche minuto. E la verità era che per Ofelia avrebbe aspettato una quantità di tempo incalcolabile. Quello che definivano “per sempre”. Ma si augurava di no.
- Nessun ma. Il libro ha risposto pienamente alle loro attese. Sono pronti ad affidarmi una nuova missione – le rivelò con voce greve, appesantita dalla trepidazione.
- Che missione?
- Ancora non lo so.
Thorn si preparò a parlare. Cercò di respirare regolarmente e racimolò la determinazione, ma ancora una volta Ofelia lo precedette.
- E voi? Ci siete rimasto male?
Lei faceva tutto di getto, mentre lui pianificava ogni singolo battito di ciglia. Forse, in quel frangente, avrebbe dovuto imparare da lei. Non era una cosa che si potesse organizzare, quella. Ne era consapevole. Teso, con lo sguardo reso duro dall’impazienza, la osservò con attenzione. Sperava che in qualche modo capisse dal suo sguardo che la stava guardando in modo diverso, che voleva qualcosa di diverso dal solito da lei. Qualcosa di più. Tutto.
Invece lei sembrò perplessa, forse leggermente a disagio, e, con effetto contrario a quello che aveva sperato, si chiuse la vestaglia sulla tunica e i pantaloni chiari che indossava. Si stava difendendo con gli abiti. Si stava coprendo. Nel linguaggio del corpo quello era palesemente una barriera eretta contro di lui.
Perché?
Sembrava delusa.
La sua risposta tardò ad arrivare. A dire il vero, non ricordava nemmeno quale fosse la domanda, per la prima volta in vita sua. Dovette concentrarsi per riportarla a galla, e non pensare più al perché lei reagisse così. Al perché delle sue reazioni. In ogni caso, non cambiava nulla. L’incertezza era una delle cose che odiava di più al mondo, e dopo il bacio e la sua confessione, ammantava tutto quello che li riguardava. Vi avrebbe posto fine, se con esito negativo o positivo non era dato saperlo. Ma vi avrebbe posto fine.
- No – riuscì a rispondere, senza muoversi di un millimetro. Aveva il corpo congelato. – Non mi aspettavo di rovesciare Dio al primo colpo.
Lanciò di riflesso un’occhiata alla porta, ma nessun automa assassino sembrò sbattere contro di essa. Erano isolati anche dal punto di vista uditivo, allora. Si mosse, a disagio nelle sue ossa troppo lunghe. Si allungò rigidamente per versarsi un bicchiere d’acqua dalla caraffa sul comodino, che poi annusò con aria diffidente. Non sembrava esserci nulla di inconsueto nel liquido trasparente. Aveva la gola talmente secca che accolse quell’evidenza con sollievo. Era imperativo arrivare al nocciolo della questione, che non era un discorso sui Genealogisti. Si sedette sul bordo del letto con movimenti relativamente fluidi: l’armatura reggeva. Sperava che Ofelia capisse l’antifona, o che magari si avvicinasse. Del resto, lui non si era mai permesso di muoversi liberamente in uno spazio che non fosse suo, e quella stanza era di Ofelia. Lei sì, spadroneggiava in qualsiasi luogo. Ricordava bene come nel suo ufficio, all’intendenza, si fosse seduta sulla sedia, fosse salita sul divanetto logoro per osservare l’esterno, avesse rovesciato l’inchiostro sulla sua scrivania e addirittura avesse chiesto il suo caffè. Mentre lui fumava la pipa. Gli avrebbe fatto comodo la pipa in quel momento, per rilassare i nervi e gli artigli, ma non l’aveva portata con sé durante la fuga. Non era mai stata una priorità, del resto.
In ogni caso, dal momento che Ofelia rimaneva in piedi, immobile, senza accennare a raggiungerlo o a fare altro, qualsiasi altra cosa, Thorn dovette cedere. Ofelia parlava. Chiedeva. Discuteva. Lui no. Ma lo avrebbe fatto, per lei.
- E voi? – chiese infatti.
- Sono un po’ scombussolata – rispose sinceramente, a suo agio in quel campo. Nel campo delle parole. – Più ho a che fare col passato di Eulalia Diyoh, più ho l’impressione di conoscerla, eppure fra noi c’è una distanza di vari secoli. Il potere familiare che mi avete trasmesso non consente una cosa del genere, vero? O sì?
La domanda era complessa, da un certo punto di vista. Thorn si bagnò le labbra nel bicchiere, sorbendone una piccola quantità, prima di rispondere: - E’ stata punita.
- Punita? Non capisco.
Quello che ne seguì fu uno scambio di battute che Thorn non avrebbe mai immaginato di poter avere con qualcuno. Con Ofelia, si rese conto, non c’erano segreti. Non più. E non solo perché erano sposati, perché avevano condiviso i loro poteri familiari, o perché avevano affrontato diversi problemi insieme, e ormai la risoluzione del mistero riguardava entrambi. C’era di più. Thorn voleva essere sincero con lei. Trasparente. Non aveva più nulla da nascondere. Si fidava di lei come non si era mai fidato di nessuno, e la voleva attorno. A guardargli le spalle. A dargli suggerimenti. La voleva ad un livello talmente profondo, una mescolanza psicologica, fisica, sentimentale, emotiva, intima, impellente, che si sentiva solo e unicamente destabilizzato.
Trascinato da questi pensieri, non riuscì più a trattenersi quando le disse: - Questo starà a noi scoprirlo. Sempre, naturalmente, che siate disposta ad indagare insieme a me.
Sempre, naturalmente, che lei volesse stare davvero con lui. Sotto ogni aspetto. Guardò il fondo del bicchiere per non incrociare, codardamente, il suo sguardo. Non voleva leggerci ancora disagio o, peggio, un ripensamento. Un ripensamento su tutto. Voleva che lei scegliesse di indagare, no, di stare con lui, sotto tutti i punti di vista. Voleva che per una volta qualcuno lo desiderasse.
Che qualcuno lo volesse.
- Ne dubitate?
Quella domanda, che gli giunse con una punta di sfida, non riuscì a dargli la forza di guardarla. L’instradamento era quello giusto. Ora doveva continuare, essere certo che Ofelia comprendesse quello che lui voleva, ed essere certo che Ofelia fosse certa di volerlo.
Certezze. Voleva certezze, fatti. Non parole. Era stanco delle parole.
- Per quanto forte sia la tentazione e profonda la solitudine, finché rimarrete a Babel non dovrete avere contatti con la vostra famiglia.
Era giusto che Ofelia capisse la gravità della decisione che si apprestava a prendere, che ne cogliesse ogni implicazione. E lui voleva che lei lo scegliesse con coscienza, e non perché aveva omesso gli ostacoli che avrebbero incontrato sul loro cammino. Doveva decidere dopo aver vagliato ogni prospettiva. Lei avrebbe sempre avuto la possibilità di decidere. Sempre.
- Lo so.
Il tono non era più sicuro, ma stentoreo. Fermo.
- Più vi avvicinerete alla verità e più sarete in pericolo.
- Lo so.
Esasperato, forse.
- È possibile che in caso di difficoltà non possiate contare su di me. Sono legato mani e piedi ai Genealogisti.
Il fondo del bicchiere e l’acqua distorcevano ciò che stava sotto ad essi, rendendo tutto impalpabile e decisamente asimmetrico. Quella prospettiva lo turbava, era poco chiara e dava adito ad incongruenze e incomprensioni. Ma temeva di più l’espressione sul volto di Ofelia, per quanto le sue risposte fossero positive.
- So anche questo – rispose lei, con un tono di voce basso. Gli venne in mente l’inizio, quando ancora non si conoscevano granché, e lei parlava con una voce talmente sottile da rendergli difficile la distinzione delle sue parole. Questa volta, però, sembrava impaziente. – Era quello di cui ieri volevate che parlassimo?
Era giunto il momento. Aveva dirottato la discussione dove voleva lui, sull’argomento che gli premeva. Stava per chiarire la sua posizione. Le sue intenzioni. Quello che avrebbe desiderato fare, se lei fosse stata d’accordo.
Smise di osservare il bicchiere e finalmente puntò gli occhi su di lei. Aveva un tale tumulto interiore, un misto di aspettativa, terrore cieco, speranza e desiderio che non era sicuro di come potesse apparire il suo volto. Non poteva più attendere o esitare.
- Ricordate quel che vi ho detto l’altra sera fuori dal Memoriale, che non sapevo che farmene dei vostri buoni sentimenti?
Non voleva propriamente ricordare quella sera, a dire il vero. Non era stato uno dei loro migliori diverbi, e la stizza e il senso di colpa, mischiati, ancora lo colpivano a ondate. Ma doveva pur trovare un appiglio a cui ancorarsi per cominciare a parlare. Non era bravo in quelle cose… sentimentali.
Ofelia annuì senza fiatare, in attesa.
- Ero sincero. Non so che farmene.
Si era impantanato. Non riuscì a trattenere una smorfia e aggrottò le sopracciglia. Come si poteva gestire un discorso del genere? Nella sua mente le argomentazioni erano apparse più valide, quando le aveva formulate. Aveva ipotizzato e programmato dodici diversi modi di dire ciò che voleva, ma in quel momento si rese conto di aver imboccato la tredicesima strada, quella dell’improvvisazione. Lui non improvvisava quasi mai.
Si passò il bicchiere da una mano all’altra, cercando qualcosa di chiarificante da aggiungere. Non sapeva che farsene delle buone intenzioni di Ofelia, era vero. Era piena di buoni sentimenti, sentimenti che elargiva a tutti indistintamente, che dispensava gratuitamente. Attirava le persone, e aveva attirato irreversibilmente lui, ma finché la situazione era quella, i suoi sentimenti erano un’arma, non un dono.
Erano un’arma fintanto che… non li metteva a sua disposizione.
Posò il bicchiere. Non poteva più rimangiarsi nulla.
- Almeno, non solo – cercò di chiarire.
Lui voleva i suoi buoni sentimenti e lei. Non gli servivano solo i primi. Non se non poteva avere lei.
Thorn la vide inumidirsi le labbra, e fu colto dall’irrefrenabile bisogno di baciarla, di toccarla. Di stringerla. Sembrava che stesse per avere un mancamento. O forse no.
- Voi non…
- Niente mezze misure – la interruppe. Era inutile andare tanto per il sottile. Lui era diretto, non lasciava mai posto a incomprensioni e non pronunciava frasi interpretabili. Quello che diceva aveva un solo significato. – Non sono e non voglio essere vostro amico.
La radio gracchiò, con un tempismo decisamente pessimo, un annuncio di scarsissima importanza. Ofelia si precipitò ad abbassare il volume, ma questo gli impedì di cogliere la sua espressione. Si stava facendo capire? Ofelia aveva… compreso dove lui voleva arrivare? E in caso affermativo, cosa ne pensava?
Tutto quel trambusto lo distrasse, facendogli perdere il filo del discorso. Non gli era mai, mai capitato. Proprio in quel momento doveva accadere?
Non voleva essere suo amico… No. – Mi rifiuto di vivere con la sensazione continua di mettervi a disagio. Se sono i miei artigli a disgustarvi… - balbettò. C’erano così tante cose che potevano allontanare Ofelia. Come avrebbe potuto capire quale fosse la caratteristica che la ripugnava più di tutte? O era il suo aspetto? - …sono consapevole di non essere molto attraente… la gamba non mi impedirà di…
Era il discorso più sconclusionato e imbarazzante che avesse mai fatto. Come facevano le persone ad intrattenere dei rapporti fisici se già solo il preambolo era una simile agonia? Non li aveva mai capiti, e in quel momento li capiva ancora meno.
E se Ofelia non avesse nemmeno intuito le sue intenzioni? Era stato abbastanza chiaro, no? Cosa avrebbe dovuto dire, che voleva… avere un rappo…
Si passò una mano sulla fronte, in preda all’esasperazione. Il bisogno impellente che aveva sentito fino a quel momento si era spento, come se avessero gettato dell’acqua gelida su un fuocherello appena nato, ancora fragile. Si sentiva svuotato.
Non si accorse che Ofelia si era tolta i guanti. Tornò a ragionare lucidamente solo quando la vide avvicinarsi con cautela. Aveva intenzione di dargli uno schiaffo, di nuovo? Era stata una proposta troppo indecente? Be’, non che non ne avesse il diritto, dato che erano sposati. Lei gli aveva detto che non aveva intenzione di… consumare un vero e proprio matrimonio, certo, ma era stato prima che si innamorasse di lui. Perché lei lo amava, glielo aveva detto. E quando ci si ama non si dovrebbe anche… dimostrarlo?
Sussultò quando sentì le sue dita sul viso. Per fortuna l’aveva mantenuta nel suo campo visivo, altrimenti il suo contatto avrebbe scatenato un meccanismo di difesa violento e non richiesto.
Non era uno schiaffo. Era una carezza. E Ofelia lo stava toccando senza guanti. Lo guardò negli occhi senza timore o imbarazzo, non come lui. Ma in quel momento, più che l’espressione decisa sul suo viso, a Thorn faceva più impressione il calore che irradiava dalle sue mani. A lui era già capitato di toccarla. Di toccarle la pelle, intendeva. Solo due volte, a dire il vero, e nessuna delle due piacevoli. La prima era stata quando si era rotta il gomito cadendo nella fabbrica di Madre Ildegarda. Lui le aveva tastato il braccio alla ricerca di fratture, trattenendosi più del necessario. E la seconda era stata dopo la morte di Melchior, quando Ofelia rischiava di morire; le aveva toccato il viso per cercare di capire come fosse la situazione, se fosse in via di ripresa.
Quella volta, invece, era del tutto diverso. Ofelia lo stava toccando senza guanti, senza barriere, per la prima volta nella sua vita. E il contatto era… piacevole. Sentì quella carezza arrivargli dritto nel petto, incendiandolo. Aveva gettato alcol sul fuoco, non più acqua. Era del tutto diverso dal disgusto, quello che provava. Del tutto diverso.
Inaspettatamente, Ofelia si chinò per baciargli la cicatrice sul sopracciglio, poi quella sulla gota e infine quella sulla tempia. Thorn sgranò gli occhi. Ofelia aveva le labbra morbide e i baci gli lasciarono la pelle bollente, sensibile. Il suo corpo si contrasse. Era il primo bacio che riceveva in vita sua. I primi tre baci. Si augurava che non fossero gli ultimi, perché… erano belli. Erano davvero edenici.
Era teso come una tavoletta di legno, o come un automa di Lazarus. Così si sentiva. Con le membra rigide e i muscoli molli, incapaci di sostenerlo.
Perché Ofelia gli aveva baciato proprio le cicatrici? Per dimostrargli che non la disgustavano? Che le accettava? In quel caso…
- Cinquantasei – ammise schiarendosi la voce.
Era in imbarazzo, inutile negarlo. La sua volontà era ferrea, ma la messa a punto era fallace. Quel numero era una verità ineluttabile di cui nessuno, nemmeno sua zia, era a conoscenza. Ofelia doveva sapere. Non voleva vedere l’orrore o, peggio, la pietà sul suo volto, quando si fosse spogliato. Perché aveva tutta l’intenzione di spogliarsi. E di spogliarla. La poca pelle che avevano a contatto era diventata così infima da non bastargli più. Per niente.
Ofelia continuava a guardarlo con un’intensità nuova, per nulla a disagio, al contrario suo. Sembrava che le sue mani fossero state fatte apposta per rimanere posate sul suo viso. Se solo avesse potuto leggerloleggere la sua pelle, cosa avrebbe pensato? Avrebbe paventato quel turbine travolgente di emozioni?
Tirò fuori le parole a forza: - È il numero delle mie cicatrici.
Ofelia chiuse gli occhi, e Thorn morì in quell’istante sospeso, sentendosi le viscere torcersi nel terrore. Avrebbe potuto dirgli qualsiasi cosa, imprecare addirittura, fare domande come suo solito, chiedergli come se le fosse procurate, o scostarsi, andarsene, dimostrarsi schifata e inorridita.
Invece aprì gli occhi, che contenevano una strana luce. Determinata.
- Fammele vedere.
L’utilizzo del tu lo colpì più dell’imperiosità autorevole di quelle parole, e del loro significato retorico. Ofelia non aveva esitato. Gli aveva ordinato di fargliele vedere. Tutte e cinquantasei.
Thorn si sentì pervadere dall’eccitazione, dalla frenesia, come un’onda impetuosa che crebbe in lui senza avvisaglie. Un terremoto che lo scosse nel profondo, a partire dal cuore fino al sangue e alla punta delle dita. Stava per unirsi ad Ofelia, stava per… fondersi con lei, la prima persona che lo avesse davvero desiderato. La persona che lo aveva scelto a dispetto di tutto. Che lo amava. Che lo accettava con tutti i suoi difetti e manierismi, i disturbi e le ossessioni.
Cercò di non mostrare troppo il tremore che si era impossessato delle sue mani. Aveva bisogno che fossero precise in quel frangente, non poteva permettersi errori.
Fammele vedere. Le persone che gli davano del tu si potevano contare sulle dita di una mano, e tra queste ne figuravano alcune che proprio non avrebbe voluto si prendessero certe libertà. Il fatto che Ofelia avesse rotto quella barriera, invece, gli fece provare un senso di intimità che superava persino quello del contatto delle sue mani sul viso. Erano pari. Erano sullo stesso livello. Erano una coppia.
Erano insieme.
Le sue dita fortunatamente si ripresero subito, e Thorn si sbottonò agilmente metà camicia sotto lo sguardo intenso di Ofelia. Era sicuro di ricambiarla con la stessa profondità. Lei gli posò improvvisamente le labbra sulla fronte, dandogli un lungo e tenero bacio rassicurante; forse si era accorta del suo nervosismo. La tensione comunque andava calando di secondo in secondo: era sempre stato un uomo d’azione più che di parole. Rendere a gesti le sue intenzioni gli era molto più confacente che cercare di esprimerle a voce, specialmente se implicavano un tale livello di schiettezza.
Nonostante Ofelia gli sembrasse tutt’altro che intimorita, Thorn esitò quando le sue mani sciolsero l’ultimo bottone. Sentì l’aria tiepida sul petto, e intuì che anche Ofelia era pronta per svelare cosa ci fosse sotto gli indumenti. Ma una piccola parte di lui non lo era, e quella parte prevalse. Ofelia gli fece scivolare le mani sulle spalle mentre lui lasciava cadere la camicia dietro di sé, facendosela scorrere sul corpo senza fatica. Ofelia provò a scostarsi e abbassare la testa per osservarlo, senza vergogna, ma lui non se la sentì. Libero dalla stoffa opprimente, allungò le braccia e infilò le mani tra i capelli disordinati da Ofelia, mentre i suoi ricci gli si avviluppavano alle dita come alghe, possessivi. Si appropriò della sua bocca quasi con brutalità, come aveva sempre fatto, del resto. Avrebbe dovuto migliorare quell’approccio, sapeva di non essere un esperto baciatore e, anzi, forse proprio il fatto che non si fosse mai soffermato su come sarebbe stato baciare qualcuno lo aveva reso più goffo ancora. Ofelia però non si lamentò, ma schiuse le labbra e si adeguò al suo ritmo, per la prima volta senza cercare di ritrarsi. Forse l’aveva colta alla sprovvista, però non ne sembrava dispiaciuta. Mentre si baciavano, Ofelia gli si avvicinò ancora di più, premendosi leggermente contro il suo corpo mentre le sue mani risalivano dalle spalle al collo, gli accarezzavano il volto e i capelli e alla fine le sue braccia lo strinsero a sé. Si sedette sulla sua gamba sana, abbandonando le sue labbra per tracciargli una scia di baci sulla mascella e sul collo, facendolo irrigidire ancora di più. Se i baci sulle cicatrici erano stati piacevoli, quelli sul collo erano decisamente afrodisiaci. Thorn contrasse la mascella per non lasciarsi sfuggire alcun suono, e chiuse gli occhi per sentire meglio il contatto tra le loro pelli. Ofelia era di nuovo più bassa di lui, così appollaiata sulla sua gamba, all’altezza giusta per osservargli il busto. Thorn fece scivolare le mani verso la sua schiena; ne passò una attorno alla sua vita sottile per stabilizzarla meglio sulla sua gamba, e posò audacemente l’altra sulla sua coscia. Lei non ne sembrò dispiaciuta, e la cosa lo fece rilassare.
Era incredibile quali sensazioni suscitasse in lui un corpo estraneo premuto contro il suo. Ofelia era… morbida. E calda. Non gli dava alcun fastidio il suo peso sulla sua gamba, e il suo busto premuto contro il suo, il suo respiro bollente sul collo, erano tutt’altro che fastidiosi.
La voleva sentire ancora più vicina.
Quando lei si ritrasse, invece di avvicinarsi, Thorn riaprì gli occhi; incontrò quelli languidi di Ofelia, brillanti dietro le lenti stranamente trasparenti degli occhiali, e se ne sentì incoraggiato. L’avrebbe lasciata fare, questa volta. Non poteva più nasconderle la verità. Le sue azioni di poco prima, comunque, gli fecero cambiare completamente idea riguardo alla reazione di Ofelia: invece di esserne intimorito, si sentiva quasi pervaso da una frenesia elettrica. I suoi artigli si agitavano convulsamente, bramosi, ma di qualcosa di diverso dal sangue, per una volta. Gli rendevano sensibile la pelle, gli facevano contrarre i muscoli nel tentativo di domarli, ma allo stesso tempo erano più calmi del solito… erano lascivi, in attesa di appagamento. La cosa lo avrebbe nauseato se non fosse stato sollevato all’idea di non doversi preoccupare troppo di non ferire Ofelia: nessuna parte di se stesso l’avrebbe percepita come una minaccia, in quel momento.
Ofelia gli passò una mano sul petto lentamente, con dita leggere come piume e carezzevoli. Thorn, perso nei suoi troppi pensieri, rischiò di sussultare. Si impose di concentrarsi; non poteva perdere nemmeno un singolo gesto di Ofelia, voleva imprimerseli nella memoria, come se la cosa non fosse già automatica. Per la prima volta nella sua vita, era lui che voleva marchiarsi qualcosa a fuoco nel cervello, e per la prima volta fu contento di avere un simile dono. Le labbra umide di Ofelia, il suo sguardo attento, incuriosito e amorevole insieme, i suoi ricci scarmigliati, la curva del collo, del seno, dei fianchi…
Thorn deglutì. Non avrebbe dimenticato nulla. Doveva calmarsi.
Ofelia gli passò in silenzio le dita sulle cicatrici, sgranando gli occhi sempre di più quando si rese conto di quanto profonde fossero alcune. Come quella sul fianco, la numero trentasette, che gli tracciò con il pollice, e che era in effetti spessa quanto esso; o quella sulla spalla, la quindicesima, che si intersecava ad un’altra che gli attraversava obliquamente lo sterno, la ventesima. Quelle più grosse erano le più recenti, quelle più piccole erano state inferte al suo corpo quando era ancora relativamente giovane. Come una cicatrice sul braccio su cui Ofelia si stava appoggiando, più arcuata rispetto alle altre, la numero quattro, che Godefroy si era divertito ad infliggergli quando ancora non aveva il completo controllo degli artigli; o la numero undici, dritta come un fuso e sottile, che andava dall’osso del bacino verso giù, e si perdeva nella biancheria fino all’altezza dell’inguine. Anche quello era un tentativo di esercitazione di Godefroy, che aveva imparato a padroneggiarsi. Dalla quattordicesima in poi erano aumentate in lunghezza e spessore, di pari passo con la stazza del fratellastro.
Ofelia gliele tracciò tutte, risvegliando in lui i singoli ricordi legati ad ognuna di esse e archiviandoli dove non lo avrebbero più ferito. Sovrascrivendoli. Ora erano le loro cicatrici, e appartenevano a lei quanto a lui, perché il suo corpo non era di altri che di Ofelia. I suoi occhi erano umidi e allo stesso tempo sembravano intrigati. Thorn poteva quasi vedere il suo cervello lavorare alacremente formulando supposizioni, sollevando quesiti e interrogandosi su come, quando e perché. Ma non gli chiese nulla, né quando gli accarezzò l’addome pieno di solchi, né quando si resse alle sue braccia per sistemarsi meglio in braccio a lui, né quando fece leva sulle sue spalle per posargli un bacio all’angolo della bocca. Non gli domandò la storia di quei ricordi orribili e intrisi di sangue. Non era il momento. Nessuno, né sadici parenti né memorie di sofferenza dovevano insinuarsi in quegli attimi che erano solo loro.
Sapeva che Ofelia prima o poi gli avrebbe chiesto la storia di ognuna di quelle cinquantasei cicatrici. Gliel’avrebbe raccontata, un giorno. Ma non in quel momento, quando le sue labbra sulla pelle lo destabilizzavano, rendendolo incapace di pensare lucidamente. Incapace di lottare contro se stesso.
Thorn si voltò leggermente per baciarla a sua volta, inspirando il profumo del suo collo liscio, sentendo scorrere nelle sue vene il fuoco. Si chiese con un angolo della mente se l’odore di disinfettante le desse fastidio, perché a lui avrebbe dato fastidio non poter annusare il vero sentore della sua pelle. Una fragranza che era unicamente Ofelia, che non avrebbe potuto definire in altro modo.
La mano che era rimasta posata dolcemente sulla sua coscia si sollevò, e Thorn le scostò leggermente la vestaglia per poterle baciare la clavicola sporgente, facendole trattenere il fiato. La sua reazione gli piacque. Decisamente. Fece scendere la mano di nuovo, mentre l’altro braccio l’attirava ancora di più a sé, busto contro busto, per impedirle di muoversi, anche se lei non sembrava averne l’intenzione. Si era aggrappata ai suoi capelli e al suo braccio, assecondandolo nei movimenti. Aveva gli occhi chiusi, il volto accaldato.
Mentre Thorn le slacciava la vestaglia, facendola scivolare silenziosamente dalle sue spalle, lasciandola con le braccia nude e il corpo coperto solo da quella tunica-pigiama, le curiose dita di Ofelia si imbatterono nella cicatrice più nascosta che aveva. Quella sulla nuca, coperta dai capelli. La numero quarantuno. Lunga quattro centimetri e tre.
Si ritrasse, con gli occhi non più languidi, ma intimoriti.
- Sulla testa? – chiese, con la voce flebile.
- Solo una – rispose lui, dispiaciuto da quell’interruzione.
Le accarezzò il braccio, posato sul suo, dal polso alla spalla, sotto la tunica. Ofelia aveva il braccio sottile, ma non spigoloso e tonico quanto il suo. Aveva già avuto modo di toccarlo, quando aveva cercato di capire se fosse fratturato o quando l’aveva afferrata, più volte, per impedirle di cadere, ma accarezzarlo, testarne la morbidezza, era un altro discorso. Lei però sembrava distratta, e prestava poca attenzione al lavoro delle sue mani.
- Una in testa. E quante ne hai sul busto?
Di nuovo il tu.
Thorn aggrottò le sopracciglia, mentre Ofelia gli accarezzava delicatamente il vecchio taglio sulla nuca. Era vero che gli aveva chiesto, anzi, ordinato, di farle vedere le cicatrici, ma… aveva anche intenzione di proseguire oltre? A Thorn sorse il dubbio per un solo secondo, perché quando Ofelia gli accarezzò la gota e gli diede un bacio sullo sterno, proprio sulla cicatrice, il suo indugiare si sciolse come la neve sulle spiagge di Asgard durante la bella stagione.
- Dieci.
Ofelia gliele tracciò tutte, contandole senza emettere un suono, muovendo solo le labbra. Poi passò al braccio che lui teneva aggrappato al suo gomito.
- Cinque?
- Sette sull’altro – l’anticipò lui.
- Ne hai anche sulle gambe?
Thorn increspò ancora di più le sopracciglia. Ogni volta che si rivolgeva a lui informalmente si sentiva vibrare il corpo. Distratti, sentiva gli artigli agitarsi, svegliandosi dal torpore che li aveva avviluppati pochi secondi prima. Erano passati ventitrè minuti e cinque secondi da quando aveva messo piede nella stanza, milletrecentottantacinque secondi. I più lunghi e incredibili della sua vita. Non sapeva se fosse normale impiegarci tanto per… cominciare qualcosa, ma per una volta non gli interessava del tempo. Intuendo il suo stato d’animo, sentì l’orologio da taschino che cercava di aprirsi nella camicia. Nessuno però, in quel momento, avrebbe cercato di verificare l’ora. Lui e Ofelia erano in uno spazio fuori del tempo, un anfratto solo loro.
- Thorn? – mormorò Ofelia, accarezzandogli il collo.
- Quindici – rispose lui, riscuotendosi.
Ofelia lo osservò a lungo, in silenzio, con insistenza. Alla fine si alzò, liberandosi dall’intrico di braccia in cui Thorn l’aveva rinchiusa, facendogli sentire un incolmabile senso di vuoto nell’anima.
Di nuovo alla sua altezza, Ofelia lo guardò negli occhi, alzando le sopracciglia. Cogliendo l’antifona, Thorn la seguì, sperando di aver capito il messaggio silenzioso di Ofelia. Si sarebbe sentito a disagio nella sua pelle come mai prima di allora se solo Ofelia non lo avesse guardato con aria così incoraggiante. Inclinò la testa, scrutandolo con aspettativa.
Distogliendo lo sguardo, Thorn si chinò per levarsi l’armatura, che produsse alcuni scatti metallici più blandi del solito mentre l’appoggiava a lato del letto. Ora che non aveva più il cuore a battere furiosamente nelle sue orecchie o il respiro di Ofelia a coprire ogni altro rumore, Thorn colse lo scrosciare della pioggia all’esterno, e il chiacchiericcio di fondo della radio. Gli sembravano suoni di poca importanza, talmente insignificanti in quel frangente da escluderli automaticamente dalla sua percezione. Quando raddrizzò la lunga colonna vertebrale, sentendo ogni giuntura che si stendeva e allungava, li aveva già esclusi nuovamente dalla sua attenzione.
Portò le mani alla cintura guardando di sottecchi Ofelia, che mostrava finalmente un leggero rossore sulle guance e sugli occhiali. Aveva pensato che fosse sprovvista di senso del pudore, vista la sua audacia e sicurezza. Lo fece sentire più… umano, sapere che alla fine in quella situazione erano principianti entrambi. Non che Ofelia lo avrebbe giudicato, in caso contrario, ma lo rassicurava che fossero in territorio sconosciuto insieme. Che fossero insieme.
Si slacciò i pantaloni perso in quei pensieri, eseguendo l’azione con gesto automatico. Solo quando gli scivolarono sulle caviglie inarcò le sopracciglia, sorpreso dalla semplicità con cui si era spogliato di fronte ad Ofelia. Senza nemmeno lasciargli il tempo di finire di toglierseli dai piedi, Ofelia si inginocchiò, facendogli sgranare gli occhi. Thorn percepì il suo imbarazzo mentre gli toccava con esitazione la gamba, tracciando i segni dei tagli, scuotendo la testa leggermente. Ma bastarono pochi secondi, quarantadue per l’esattezza, perché entrambi si rilassassero. Le mani di Ofelia lo accarezzarono con più decisione, prendendo confidenza con le sue gambe lunghe da ragno. Thorn cercava di non guardarla, considerando troppo conturbante la vista di lei accovacciata tra le sue gambe. Così chiuse gli occhi, concentrandosi sulla sensazione delle sue dita sulla pelle. Le sentì indugiare sulla gamba storpia, tracciando il profilo deformato del polpaccio e del ginocchio. Sapeva che non ne era inorridita senza bisogno di guardarla. Non riuscì a trattenere un sospiro impercettibile quando lei lo baciò anche lì, come a voler guarire un osso con un solo amorevole contatto.
Gli artigli erano tornati quieti, ipnotizzati dalle carezze di Ofelia. Mai Thorn avrebbe creduto di poter provare un tale senso di… rilassamento. Si sentiva fuori dal suo corpo, senza confini, in uno spazio in cui esisteva solo Ofelia che gli accudiva l’anima.
L’eccitazione, in ogni caso, non se n’era andata, e si fece sentire di nuovo prepotentemente quando lei si rialzò, accarezzandogli il petto mentre le sue mani raggiungevano le sue spalle e il collo per avvicinarlo a sé. Thorn la assecondò volentieri, senza nemmeno aprire gli occhi, perdendosi in quel bacio profondo e umido. Non sapeva nemmeno che ogni bacio potesse essere così diverso dal precedente, una specie di scoperta continua. Il respiro divenne erratico in breve tempo, mentre Ofelia si aggrappava a lui e lui si accartocciava sempre di più per starle vicino, più vicino. Alla fine si ritrovò seduto con Ofelia premuta addosso, tra le sue gambe, mentre lei gli stringeva i capelli con forza. Gli avevano già tirato i capelli, più volte, i suoi fratellastri, ma con Ofelia non provava dolore, anzi. Desiderava che stringesse più forte, che fosse più possessiva. Che gli facesse capire che lui le apparteneva. Lui era possessivo e geloso, ma l’idea che anche Ofelia potesse dimostrarsi tale lo attizzò come un ferro incandescente.
Le fece scorrere le mani sulla schiena e sui fianchi, tirandosela addosso. Ofelia si ritrovò seduta a cavalcioni su di lui, per nulla a disagio in quella posa così intima. Così vicina…
Le infilò le mani sotto la tunica, lentamente, dandole il tempo di ritrarsi se non avesse voluto, posandogliele sulla pelle calda. Aveva le dita fredde nonostante il calore che gli bruciava in petto, e Ofelia gemette quando gliele posò addosso. Gemette, riprese fiato, e alzò le braccia.
Voleva che la spogliasse.
Thorn non si fece attendere, afferrandole l’orlo della tunica e sollevandoglielo in un unico movimento fluido. Completamente assorbito dalle dita, dalla pelle, dalle labbra di Ofelia, dal suo respiro, non si curò nemmeno di sistemare l’indumento. Contrariamente al suo costante e intrinseco bisogno di simmetria, lo abbandonò a terra scompostamente. Il disordine al momento non lo tangeva; non quando aveva le braccia avvinghiate al corpo di Ofelia. Riuscì a notare di sfuggita che sotto la tunica Ofelia era nuda, esposta, prima che lei si premesse di nuovo contro di lui, mozzandogli il respiro, riprendendo a baciarlo con impeto. Muovendosi su di lui.
Da quando era entrato in camera, l’aveva baciata per un totale di trecentosettantaquattro secondi, e ancora non era abbastanza. Ma fattori come il bacio approfondito, i gemiti sommessi che Ofelia non riusciva più a trattenere, il suo movimento involontario su di lui e il suo seno nudo premuto contro gli stavano facendo perdere definitivamente il controllo di sé. E non poteva accettarlo.
Si staccò bruscamente, posandole la testa sulla spalla, respirando affannosamente.
Era troppo vicina.
Era troppo poco vicina.
- Tutto bene? – gli chiese lei, con le mani ancora tra i suoi capelli. Dovevano essere sparati da tutte le parti, sudati e ritti, ma anche quello al momento non gli interessava. Se era Ofelia a renderlo disordinato, andava bene. Se lo tollerava lei, per lui non sarebbe stata che un’inezia.
- Rallenta – mormorò con voce roca, a denti stretti.
- Oh – disse lei, in un sospiro.
Si alzò da lui aggrappandosi alle sue spalle, cercando di non cadere, e subito Thorn si pentì di ciò che aveva detto. Non voleva che si allontanasse.
L’afferrò per il polso, piano, per farle capire che non voleva che se ne andasse. Lei lo capì al volo.
- Sono qui – sussurrò infatti, aprendo i palmi in segno di resa.
Gli indicò il letto alle sue spalle, aggirandolo per salirci. Rimase in piedi sopra il materasso, in equilibrio precario data la sua goffaggine, e Thorn fece in modo di non perdersi nessun suo movimento, stando attento a non darle mai le spalle. Ancora non si sentiva pronto a mostrarle la schiena, e fortunatamente lei non aveva fatto domande.
Di comune accordo, in silenzio, Thorn si alzò in piedi togliendosi i pantaloni che aveva ancora alle caviglie e lei si avvicinò. In piedi sul letto raggiungeva a malapena la sua altezza, ma erano già più in scala rispetto a quando lei era a terra. La differenza era di soli cinque centimetri. E mezzo. Ofelia gli guidò le mani affinché si posassero sui pantaloni della tunica-pigiama, e Thorn glieli tolse senza attendere ordini. Era incredibile come, in quel frangente, si capissero al volo, con un solo sguardo, un battito di ciglia, un increspamento di fronte o un leggero rossore. In tutte le altre occasioni avevano sempre bisogno di parlare per comprendersi, e anche in quei casi non avevano mai il quadro completo di cosa l’altro intendesse dire, ma in quell’ambito… pensavano le stesse cose, si intendevano come se usassero la stessa testa.
Era un gran facilitazione, dal momento che chiedere il permesso o indicazioni sarebbe stato decisamente imbarazzante, causa di rigidità ed esitazione. Invece i pantaloni di Ofelia scivolarono ai suoi piedi come una seconda pelle, e quando lei ripremette le sue mani contro i propri fianchi, in un muto invito, la liberò anche dell’ultimo indumento che la copriva.
Con un solo sguardo Thorn si impresse ogni dettaglio di Ofelia nella memoria, grato di non potersene mai dimenticare. La misura del seno, la circonferenza di vita, collo e cosce, la lunghezza di gambe e braccia, il peso addirittura. Non aveva mai fatto caso alle donne in generale, tanto meno al loro corpo; sapeva che c’erano alcune proporzioni che nella mente comune venivano associate alla perfezione, e Ofelia non le rispettava completamente, ma non gli importava. Nessun’altra misura gli avrebbe fatto girare la testa come quelle che aveva davanti, perché nessun’altra misura apparteneva ad Ofelia. Lei era quello. Era quei centimetri, quel peso, quel neo, quel graffio, quella scottatura. E dal momento che amava l’anima che quel corpo racchiudeva, amava di conseguenza anche quel corpo. E lo avrebbe amato sotto qualsiasi forma.
Ofelia calciò via pantaloni e biancheria in un attimo, evitando di guardarlo, leggermente rossa in viso, e si sedette al centro del letto a gambe chiuse stando attenta a non toccare nulla.
Il modo in cui sollevò lo sguardo timidamente, con gli occhiali posati sulla punta del naso, lo fece rabbrividire. Impiegò tre secondi per denudarsi completamente come lei e raggiungerla muovendosi lentamente, cercando di posare la gamba storpia in modo che non assumesse angolazioni troppo irregolari o in modo che non gli facesse male. Era talmente tanto abituato ai dolori del proprio corpo, tra vecchie e nuove ferite e articolazioni che rimanevano troppo spesso bloccate a lungo in una posizione scomoda, che aveva imparato ad ignorare il fastidio. Ma in quell’occasione non voleva essere distratto da fitte di dolore. Voleva concentrarsi su Ofelia.
Ofelia, che lo fissava. Intimorita. La cosa che lo sorprese fu scorgere non il disgusto sul suo viso, alla vista del suo corpo nudo, martoriato e ossuto, poco invitante, ma la paura. Paventava quello che si apprestavano finalmente a fare? Non lo avrebbe permesso.
Aveva letto enciclopedie mediche e biologiche, saggi di dottori e ogni materiale utile sul corpo umano quando aveva quattordici anni. Primo, perché aveva capito che il modo migliore per non far notare la sua sofferenza fisica, nemmeno a sua zia Berenilde, era imparare a guarirsi da solo le ferite; ecco perché se ne intendeva di come curare lussazione, fratture, tagli e svariate altre contusioni o contratture. Secondo, perché il suo corpo stava cambiando, crescendo, e lui non capiva cosa gli stesse succedendo; non poteva chiedere a sua zia, perché si trovava in imbarazzo, non aveva un fratello maggiore con cui parlare di quelle cose, tantomeno un padre, e lo zio era fuori discussione. Si era dovuto arrangiare, e lo aveva fatto. Era inevitabile imbattersi poi in argomenti come la riproduzione o il funzionamento del corpo maschile e femminile, ma quegli argomenti lo avevano solo inorridito, specialmente il primo. L’idea che un maschio e una femmina dovessero fare certe cose per dare alla luce un bambino… Thorn era stato assalito da attacchi di nausea feroci per giorni, e quando aveva colto in flagrante Archibald in diverse occasioni, anni dopo, non aveva potuto fare a meno di sentire lo stesso disagio.
Ofelia aveva cambiato persino quello in lui, aveva sovvertito quella concezione. Ed ora, invece di sentirsi respinto da quello che si accingeva a fare, si sentiva inebriato, impaziente, eccitato. Ringraziò di essersi imbattuto in quei libri di biologia e anatomia, perché altrimenti non avrebbe saputo cosa fare. In quel campo, al contrario della matematica, la teoria era diversa dalla pratica, se ne rendeva conto, ma almeno qualche base ce l’aveva. Non avrebbe rischiato di essere più inopportuno del necessario.
Aveva anche appreso che per una donna poteva essere doloroso all’inizio, se l’atto non veniva compiuto nel modo corretto, e quella era l’unica vera paura che lo attanagliava. Gli artigli si agitavano in lui, famelici, risvegliati da un istinto predatorio di cui non sapeva nemmeno l’esistenza, che lo aizzava affinché si prendesse ciò che voleva, ma la sua coscienza lo teneva a bada, in modo da pensare prima ad Ofelia che a sé. Non sarebbe servito a nulla se lei ne fosse rimasta scottata. Era l’ultima persona al mondo che voleva ferire, in tutti i sensi possibili.
Quando finalmente, mentre lui incedeva lentamente carponi, Ofelia incontrò il suo sguardo, chiuse la bocca e prese un profondo respiro, rilassandosi poco a poco.
Aprì lentamente le gambe quando lui fu così vicino da torreggiare su di lei, e si sdraiò, accogliendolo su di sé. L’immagine di Ofelia così accaldata e senza fiato con i capelli sparsi sul cuscino era una delle più belle cose che avesse mai visto. Mentre cercava di non pesare su di lei sentì tutta la gravità della loro differenza di altezza, e si dovette arcuare per poter tenere il viso accanto al suo. Si chinò lentamente su di lei, ricominciando a baciarla, questa volta lentamente, pigramente; riempirono l’aria di sospiri spezzati e gemiti sommessi, mormorii vibranti, schiocchi di languidi baci umidi e profondi, lunghi e senza fretta.
Ofelia lo strinse a sé, posandogli le mani sulla schiena, e si irrigidirono entrambi. Le dita di Ofelia erano scivolate in uno dei tanti solchi che gli deturpavano il retro del corpo. Lei lo guardò con aria interrogativa, indagando timidamente con la mano, e quando la consapevolezza di ciò che stava toccando si fece largo in lei, sgranò gli occhi.
Thorn non voleva ancora mostrarle quella parte di sé. Egoisticamente perché voleva unirsi a lei, era impaziente e si sentiva andare a fuoco; codardamente perché voleva nasconderle la parte peggiore del suo passato, e di se stesso. Temeva la sua reazione, nonostante prima fosse andata bene.
Per distrarla decise di farsi audace. Le posò una mano sul fianco, reggendosi al materasso solo con l’avambraccio, e cominciò a farla scendere lentamente, accarezzandola voluttuosamente. Non era un contatto in punta di dita, la sua mano era aperta, posata con pesantezza sulla sua carne, per poterne toccare il più possibile. Voleva che sentisse bene quel tocco, non come il solleticante scivolamento di una piuma, ma come un marcaggio di ciò che era suo. Ofelia chiuse gli occhi in risposta, aggrappandosi con delicatezza alle sue spalle.
Thorn fece scivolare la mano verso il basso, passando sopra l’osso del bacino, decisamente meno sporgente rispetto al suo, e poi sulla coscia, calda e piena, non ossuta. Aveva ben presente quale sensazione desse toccare un corpo troppo magro; quando si strofinava mentre si lavava sentiva durezza ovunque toccasse, e lo odiava. Si rese conto in quel momento che gli sarebbe dispiaciuto enormemente se Ofelia fosse stata più magra. Era calda e morbida, viva sotto di lui, e quella sensazione era inebriante. Chiuse gli occhi anche lui per godersi meglio la sensazione delle loro pelli a contatto, di quell’esplorazione nuova per entrambi, concentrando tutta la sua attenzione lì. La mano corse giù fino al ginocchio, che solleticò con il pollice, e giù sul polpaccio, su cui si fermò. Non rifletteva nemmeno, si faceva trasportare mentre l’urlo degli artigli, o forse dell’eccitazione?, gli ululava nella mente soffocando momentaneamente ogni altra percezione e suono. Le sollevò senza fatica il polpaccio, guidandoselo sulla schiena. Ofelia lo assecondò, alzando di sua spontanea volontà anche l’altra gamba, circondandogli la vita con le cosce e intrecciando le caviglie sopra i suoi glutei. Quando si scontrarono, più vicini di quanto fossero mai stati, Thorn non riuscì a trattenere un gemito cavernoso che gli sgorgò direttamente dall’intestino. Spalancò gli occhi, vergognandosi, ma Ofelia lo osservava con una luce divertita negli occhi e un piccolo sorriso accattivante. Nonostante l’aria spavalda, era arrossita anche lei, ma non fece nulla per ritrarsi.
Thorn fece risalire la mano seguendo il percorso contrario, dalla coscia fino al fianco, spostando la mano nel tragitto per accarezzarle una natica. Era talmente morbida, talmente perfetta per la sua mano, che dovette trattenersi a forza per non stringergliela. Si fermò sulla sua vita, incerto su come procedere oltre quel punto, ma Ofelia gli venne in aiuto. Spostando la mano dalla sua spalla, afferrò la sua e sa la portò alla bocca. Gli baciò ogni polpastrello della mano, dolcemente, e Thorn ebbe la sensazione che gli stesse baciando il cuore. Era così strano e… intimo che, al di là della frenesia del momento, si sentì anche commosso. Ofelia gli piegò la mano, baciandogli anche le nocche, e poi il palmo, e il polso.
Inaspettatamente, guardandolo negli occhi con sicurezza, usò entrambe le mani per guidare la sua verso il suo petto. Gliela fece appoggiare sul seno senza un briciolo di tentennamento, incoraggiandolo mutamente a proseguire. Gli aveva dato un’imbeccata, ora doveva essere lui a continuare.
Se aveva faticato a trattenersi quando le aveva sfiorato la natica, pensò che sarebbe stato impossibile non godersi quella parte del corpo così… piena e… adattabile e…
Smise di ragionare completamente mentre scopriva sempre di più il corpo di Ofelia, imparando se una cosa fosse piacevole o meno guardando le sue reazioni. A volte chiudeva gli occhi sospirando, altre si inumidiva le labbra; nei casi migliori emetteva dei mormorii di apprezzamento e nei peggiori le si mozzava il respiro. Ma la verità era che Thorn era sicuro che ciò che le faceva non le dispiacesse. Sembrava che Ofelia si protendesse verso di lui, verso le sue mani, che lo desiderasse tanto quanto lui desiderava lei. Quando gli stringeva il braccio, quando si aggrappava alle sue spalle… quando inarcava la schiena, senza fiato, gemendo, premendosi contro di lui.
Erano troppo vicini, eppure non abbastanza. Erano trascorsi settecentonovantaquattro secondi da quando si erano sdraiati a letto, ognuno dei quali era stato così intenso che Thorn era sicuro che avrebbe riprovato le stesse sensazioni evocando quel ricordo in un secondo momento. Quindi, per quanto lo avesse voluto, non avrebbe potuto ripensarci e analizzarlo troppo spesso. Non poteva permettersi di trovarsi in una situazione del genere… da solo.
Centonovantadue secondi dopo, Ofelia emise un gemito particolarmente penetrante, che non gli entrò nelle orecchie, ma nel basso ventre. A quanto pareva, oltre a sovvertire le empiriche ed immutabili leggi matematiche, Ofelia riusciva anche a scombussolare completamente il funzionamento del suo corpo: lo aveva ridotto ad un cumulo di percezioni, spegnendogli il cervello e incrementando l’efficienza dei suoi cinque sensi. Risalì con la bocca dal suo ventre, sullo sterno, le depositò un bacio sull’incavo della gola e la baciò, spostandosi leggermente per sistemarsi meglio.
Nel libro di biologia che aveva letto si era accennato a questa fase transitoria del rapporto, i “preliminari”, in modo vago e poco dettagliato. Thorn aveva appreso crescendo in cosa consistessero, per lo più con disgusto e in modo non richiesto o volontario. Certi discorsi, però, erano impossibili da ignorare, specie nell’ambiente politico; specie con un ambasciatore libertino. In ogni caso, non sapeva quanto di preciso dovessero durare, se i loro erano durati troppo o troppo poco.
Non gli importava. L’attesa lo stava torturando lentamente, e gli sembrava quasi che i suoi artigli avessero rivolto la loro violenza contro lui stesso: non percepivano Ofelia come una minaccia, ma la fonte della loro agonia era il loro stesso proprietario. Il sistema nervoso di Thorn era più in sovraccarico del solito.
Lui era pronto da troppo tempo ormai, e anche Ofelia sembrava… disposta a concludere.
Come a volerglielo dimostrare silenziosamente, mentre lui si apprestava ad unirsi definitivamente a lei, Ofelia lo strinse in un abbraccio, gettandogli le braccia al collo. Thorn cominciò e serrò la mascella: i loro corpi aderivano uno all’altro come se fossero un unico organismo, e Ofelia, che d’un tratto sembrava impaziente quanto lui, non lo aiutava di certo.
- Thorn… - sussurrò, supplichevole, appoggiandogli le labbra all’orecchio.
Lui rantolò. Se per via di quel sussurro roco dopo minuti interminabili di suoni inarticolati o perché si stava unendo definitivamente a lei, nemmeno lui riusciva a capirlo.
Si spinse più a fondo, con lentezza moderata, stringendo i denti per non essere brusco. Per non essere egoista.
- Thorn – gemette questa volta lei, con più decisione, accompagnando il suo nome con un sospiro di piacere.
Thorn si fermò, appoggiando la testa alla sua spalla, inalando a pieni polmoni il profumo della sua pelle. Rispetto all’inizio, oltre a quel sentore indefinibile che aveva classificato come l’essenza di Ofelia, sentiva anche il vago strascico di alcol disinfettante con cui si era pulito le mani, e una traccia riconducibile a lui. Persino i loro odori si erano mischiati.
Ofelia si mosse sotto di lui, facendolo impazzire. Corrugò la fronte al punto da sentire un solco scavarsi tra le sopracciglia. Lui cercava di trattenersi e lei… lo incitava? Lo provocava? Tipico di Ofelia.
Quando alzò la testa, la vide con il fiato corto, le guance arrossate, gli occhi umidi e languidi, le labbra gonfie di baci. Lei fece aderire i loro busti, eliminando tutte le distanze, strusciandosi contro di lui. Aprì la bocca per dire, Thorn lo sapeva senza bisogno di sentirle pronunciare la parola, “continua”, ma la prevenne. La baciò e si spinse in lei con un po’ più di decisione, ottenendo una reazione che di per sé sarebbe bastata a mandargli a pezzi nervi e autocontrollo, riducendo la sua coscienza ad un brandello bruciato, polvere al vento, puro istinto.
Non contò i secondi. Uscì dal proprio corpo, entrò in quello di Ofelia, nella sua anima, e lei si impossessò di lui, controllandolo, rendendolo il suo schiavo.
Era tutto nero, poi fu tutto bianco, in un turbinio di confusione obnubilante ed estrema consapevolezza.
I loro corpi vennero scossi da onde che sgorgavano dritte dal centro di loro stessi, accarezzandoli, non annegandoli. E si infransero uno contro l’altra, come due fiumi che si riversano in mare. Tremò fin nel midollo, mentre ogni cellula di sé si elettrizzava, facendo scorrere una scarica lungo vene e nervi, muscoli e tendini, organi, giunture, legamenti…
Gli ronzavano persino le orecchie.
Crollò sopra Ofelia, ma quello che lei emise non era un gemito di dolore per il peso che le gravava addosso, quanto di piacere, di appagamento. Così sdraiato, rilassato dalla punta dei piedi fino alla radice dei capelli, si sentì privo di ossa e muscoli. Non era più rigido, non era più costretto in quel corpo ossuto e costantemente in tensione. Si era allungato e, ora che non era più arcuato per poter riuscire a guardare il viso di Ofelia, sentiva il suo fiato contro il petto, i piedi, non più allacciati alla sua vita, che gli solleticavano i polpacci.
Rimase immobile per ventisette secondi, ma furono così lunghi che si chiese se in realtà, per una volta nella vita, non avesse sbagliato a contarli. Con le dita di Ofelia che gli accarezzavano la nuca lì dove i capelli erano più morbidi, aveva qualche difficoltà a concentrarsi. Alla fine scivolò via da sopra di lei, sdraiandosi supino al suo fianco, con il braccio premuto contro il suo. Nonostante la temperatura elevata nella stanza, sentì quasi freddo senza il corpo di Ofelia a stretto contatto con il suo. Un freddo che gli penetrava nelle ossa. Gli artigli, lenti e intorpiditi come se fossero sott’acqua, per una volta non lo torturavano.
Ofelia sembra impigrita quanto loro, così ci mise un po’ di tempo a riscuotersi, girandosi sul fianco, premendosi contro di lui. Lo circondò con un braccio, accoccolandosi, tracciandogli poi disegni immaginari sul petto con la punta delle dita. Thorn non poté fare a meno di trattenere un mormorio di godimento, rilassato come non avrebbe mai creduto possibile. Le persone stavano sempre così dopo…? In qualche modo, allora, forse riusciva a comprendere perché si lasciassero così tanto andare all’istinto. Anche se l’idea di fare una cosa del genere con chiunque lo disgustava al punto che, nonostante la presenza serafica e calmante di Ofelia al fianco, sentì comunque lo stomaco contrarsi, nauseato.
Ofelia si alzò sul gomito, solleticandogli il volto con i capelli. Gli baciò nuovamente la guancia, quella senza cicatrice, questa volta. E non si scostò da lì.
- Fammi vedere la schiena.
Ancora quel tono imperioso, un ordine invece che una richiesta. Se fosse stato qualcun altro, Thorn avrebbe direttamente ignorato non la domanda, ma la persona stessa. Con Ofelia, invece, si sentiva in dovere di obbedire senza porsi interrogativi, senza limitazioni. Anche un po’ di più, se gli dava del tu.
Ormai, dopo tutto quello che avevano fatto, non aveva altro da nasconderle. Non aveva più paura. O forse era colpa dello stato catatonico in cui era caduto? Per quanto fosse piacevole, sperava non durasse in eterno. Faceva a fatica a ragionare, e lui aveva bisogno che il suo cervello fosse pienamente sveglio e operativo. Quelle sensazioni contraddittorie lo risvegliarono, inducendolo a girarsi sulla pancia senza fiatare. Odiava le contraddizioni, e Ofelia lo aveva reso talmente dicotomico da darsi fastidio da solo.
In ogni caso, il velo che gli annebbiava la mente si dissipò quando sentì Ofelia trattenere il respiro, rigida di fianco a lui.
- Thorn… - mormorò solo, con la voce sommessa e spezzata.
- Diciotto.
La schiena era la parte del corpo su cui i suoi cosiddetti familiari si erano accaniti maggiormente, impietosi come se fosse un pezzo di carne da macello. Non l’aveva più guardata per otto anni, tre mesi e quattro giorni, ma non gli serviva guardarla per rievocare l’immagine di quanto malamente fosse deturpata. Diciotto cicatrici, diciotto solchi, crateri, che l’attraversavano senza logica alcuna, un chiaro segno che chi si era scagliato contro di essa lo aveva fatto in preda ad una rabbia cieca o con noncuranza. Con indifferenza. Avevano forme e dimensioni diverse, la più lunga era leggermente storta e misurava quaranta centimetri, larga due e mezzo, la più piccola ne misurava dieci ed era un cerchio imperfetto. Quest’ultima era proprio al centro della schiena, un altro tentativo artistico di Godefroy. Un altro allenamento per testare la precisione dei suoi artigli.
Ofelia aveva le mani che tremavano quando gliele toccò tutte, a volte con due dita, per riuscire a coprirne lo spessore. Thorn fu contento di non poter vedere il suo volto, girato com’era dall’altra parte. Ofelia non disse nulla. Non ce n’era bisogno. Non c’erano domande che potessero spiegare, non c’erano parole di conforto che potessero lenire un dolore del genere, o metodi per cancellarne le tracce. Eppure, Thorn si sentì pulito quando le mani di Ofelia passarono sulla sua pelle, si sentì integro. Nuovo.
Se Ofelia poteva convivere con esse, lui le avrebbe accettate.
- Cinquantasei – mormorò lei, dopo centottantanove secondi terribilmente dilatati.
Thorn non sapeva cosa sottintendesse il suo tono, né cosa volesse davvero esprimere pronunciando quel numero ad alta voce. In ogni caso Ofelia non proseguì, e lui prese la parola.
- Tu ne hai settantotto.
Usare il tu a sua volta lo fece rabbrividire impercettibilmente, riaccendendo il calore nel suo ventre. Sperò che Ofelia non se ne accorgesse, ma lei era distratta più dalle sue parole che dalle sue reazioni. Le sue dita, infatti, si bloccarono, sospese sopra la sua colonna vertebrale.
- Settantotto?
- Cicatrici – chiarì lui, voltandosi sul fianco lentamente, muovendo un osso alla volta. Non era sicuro di aver già riacquistato il controllo del proprio corpo. Alla fine la fronteggiò, guardandola negli occhi. Le raddrizzò gli occhiali, che pendevano a sinistra di due millimetri. – Ne hai settantotto. Recenti, oserei dire. Chi te le ha procurate? Come?
Usare il tu per la seconda volta glielo fece diventare facile. E dopo quello che avevano condiviso, non sarebbe davvero stato opportuno parlarle tenendola ancora a distanza con la formalità. Thorn vide un lampo di divertimento rassegnato passarle sul volto, di cui però non colse l’origine. Sorprendendolo, Ofelia si avvicinò ancora, abbarbicandosi contro di lui. Gli passò un braccio attorno alla vita e sulla schiena, che continuò ad accarezzargli. Thorn si era irrigidito di fronte a quel bisogno di intimità che Ofelia mostrava senza vergogna, come se fosse la cosa più naturale del mondo, e oltre ad assecondarla, decise di soddisfare anche il proprio. Mosse le gambe per intrecciarle alle sue, udendola sospirare impercettibilmente, e le posò una mano sul fianco. Sembrava che toccarla fosse divenuto imperioso quanto respirare, altrettanto basilare. E sembrava non averne mai abbastanza.
- Non ero nelle grazie dei miei compagni precorritori – disse semplicemente, la sua voce che vibrava vicino al suo orecchio.
Mano a mano che il mondo riprendeva i suoi contorni naturali e che lui rientrava in possesso di tutte le sue facoltà, ridivenne consapevole dello scrosciare violento della pioggia contro il vetro, e della radio che continuava a brontolare in sottofondo, scossa da echi e notizie che in quel momento non aveva la minima intenzione di ascoltare.
- Mi reputavano in qualche modo colpevole dell’incidente successo a Mediana, e dal momento che a lei non ero esattamente simpatica, loro si erano adeguati di conseguenza.
Thorn chiuse gli occhi, mentre la rabbia si faceva largo in lui. Sentì gli artigli svegliarsi, e lottò contro quel sentimento iracondo; non aveva alcuna intenzione di fronteggiarli, in quel momento, quindi doveva controllarsi per poterli tenere ancora sopiti.
- Come?
- Mi hanno rovesciato addosso dei vetri mentre ero nella doccia.
Thorn si irrigidì dalla testa ai piedi. Gli artigli gli esplosero nei nervi, attaccandoli e facendoli vibrare, dilaniandoli. Aggrottò le sopracciglia, contraendo il volto, mentre un desiderio smodato di violenza lo squassava fin nel ventre. L’immagine di Ofelia, nuda, indifesa, che veniva presa di mira da un branco di stupidi precorritori ambiziosi e incompetenti gli fece vedere tutto rosso, come se avesse indossato le lenti degli occhiali della moglie. Strinse un pugno contro la natica di Ofelia, quasi scostandosi da lei. Rischiava di farle male, o rischiavano di farlo i suoi artigli, e non voleva rovinare il momento che avevano appena trascorso macchiandolo di furia e ferocia.
Lo riportò lei all’ordine, accarezzandogli il viso e baciandogli il collo dolcemente, senza lascività, con il chiaro intento di calmarlo. Gli tracciò il contorno delle sopracciglia con il pollice, cercando di distendere il solco sulla sua fronte.
Quando si sentì abbastanza padrone della sua voce, che gli uscì comunque roca e tetra dalla gola, chiese: - Mi hai chiesto di poter lasciare la Buona Famiglia per questo motivo? Ti ho detto che saresti stata al sicuro, lì.
Ofelia esitò, ma sapeva che non gli avrebbe mentito.
- Anche per questo. Mi avevano appena attaccata quando te l’ho domandato. In parte, però, speravo anche di poter stare al tuo fianco, aiutarti in modo occulto stando con te. Non me ne rendevo ancora conto, ma… avevo bisogno di starti vicino.
Il suo livore non si ritrasse del tutto, ma calò sensibilmente. Ofelia sapeva come placarlo, le cose giuste da dire. O forse era merito delle sue mani, che dal suo viso si erano spostate sul suo petto, solleticanti e ipnotiche?
Aveva ancora diverse cose da chiederle circa quell’episodio di violenza, ma la sua ultima ammissione aveva fatto prendere ai suoi pensieri un altro corso, più impellente.
- Come sei arrivata a Babel?
Ofelia ci mise un po’ a rispondere, mentre gli accarezzava la nuca e tirava dolcemente i suoi capelli. Lui non si sentiva ancora così… a suo agio a perpetrare quelle tenerezze, ma le sue mani erano possessive sul corpo di Ofelia, e sperava che lei recepisse il messaggio. Thorn chiuse gli occhi, distendendo la fronte.
Ofelia gli raccontò a grandi linee del periodo trascorso a casa con i suoi genitori, sorvolando su come l’avesse trascorso, narrando solo i fatti principali. Thorn intuì dal suo tono reticente che non dovevano essere stati i più begli anni della sua vita, e in parte si augurava che fosse anche a causa della sua mancanza. Cominciò ad essere più dettagliata quando gli raccontò della Festa dei Rintocchi, di cui non capiva bene il senso. Il suo prozio le aveva passato una cartolina che aveva rievocato i ricordi contenuti in quella seconda memoria che ogni tanto si impossessava di lei. Con una puntualità ineccepibile eppure inquietante era comparso Archibald, che aveva aperto un corridoio fino alla Rosa dei Venti. La zia Roseline l’aveva seguita per stare con Berenilde, cosa che aveva stupito Thorn, mentre Ofelia aveva deciso di cercare lui a Babel, grazie a quella cartolina, fintanto che Archibald, Gaela e Renard cercavano Terra d’Arco.
Alla fine del racconto, Ofelia sembrava più leggera, come se se avesse confessato un peccato e lui l’avesse perdonata, e lui invece si sentiva più dubbioso che altro. Il fatto che Ofelia avesse fatto tutto quello che aveva fatto per trovarlo, da sola su un’arca sconosciuta, senza indizi per ritrovarlo se non la sua ferrea determinazione avrebbe dovuto fargli battere più forte il cuore, spazzare via ogni dubbio circa le motivazioni, la fedeltà e l’amore di Ofelia. Ma per quanto non nutrisse nessuna incertezza al riguardo, ed averla lì tra le braccia, calda e morbida contro di lui, fusi in un’unica entità, fosse appagante e quanto di più vicino alla felicità avesse mai sperimentato, la presenza di Archibald tingeva sempre di nero ogni scenario.
Thorn aggrottò le sopracciglia, aumentando di conseguenza anche la presa sulla pelle di Ofelia. Lei gli strofinò il viso contro il petto, intuendo il suo disagio.
- Diffida di quell’individuo. Non risponde ad altri che a se stessi e non è mosso da alcun impeto altruistico. Quello che fa, lo fa sempre per il proprio tornaconto, questa è una certezza. Assodata.
Ofelia si scostò per guardarlo in volto. – Lo so che non nutri grande fiducia in lui, e nemmeno io riesco a capire bene quali motivi lo muovano, però mi ha aiutata. Anche in passato, alla fine, ci ha aiutati, tutti e due. Non dico che mi fidi di lui, ma credo che possiamo collaborare. E poi, con lui ci sono Gaela e Renard, e di loro non dubiterei mai.
Il cipiglio di Thorn non si ammorbidì. Anzi.
- Hai la tendenza ad elargire la tua lealtà a chiunque, o a credere che chiunque sia sincero quando te la accorda.
Ofelia imitò la sua espressione. – Tu hai la tendenza a non fidarti di nessuno, invece, nemmeno quando ne vale la pena.
- Con le dovute eccezioni – la corresse lui, accarezzandole la schiena.
Ofelia annuì con il mento. – Una sola eccezione conferma la regola, però.
- Una sola eccezione dimostra che bisogna sempre procedere con attenzione, quando si tratta di includere altri nei propri piani, o metterli a parte dei propri segreti.
Tacquero per un po’ di tempo. Nessuno dei due voleva guastare quello che avevano appena condiviso mettendosi a discutere su chi fosse o meno degno della loro fiducia, tanto più se quel chi era Archibald.
Alla fine, dopo due minuti netti, Ofelia sospirò. – A proposito di piani… ora come dobbiamo procedere? Tu devi ricevere un altro incarico dai Genealogisti mentre io non diventerò mai virtuosa. Sono estromessa dalla Buona Famiglia.
Thorn ci rifletté. Era vero, non voleva allontanarsi da quel luogo, da quel momento, da quella sensazione, ma non poteva più ignorare le incombenze che gravavano su di loro. Se dovevano parlare, e sembrava proprio che fosse il caso, allora tanto valeva anche rimarcare la questione Archibald.
Thorn stava per aprire bocca quando una sirena risuonò fuori dalla casa, così forte che chiunque, nell’intera arca, l’avrebbe sentita. Conosceva quell’allarme, e il suo significato. Non prometteva nulla di buono. Ofelia sussultò, distaccandosi da lui.
- Cosa succede? – chiese, mentre cercava di scendere dal letto senza toccare nulla che potesse leggere inavvertitamente.
- Minaccia alla pubblica sicurezza. Minaccia seria – chiarì lui, lapidario, osservandola allontanarsi. Era già in piedi e, per quanto gli dispiacesse, si stava già per rivestire.
Il suo momento senza tempo era concluso.
Mentre si chinava sulla camicia, muovendo a fatica la gamba malandata, tenne Ofelia nel suo campo visivo. Trafelata, come se fosse lei la causa dell’allarme, si diresse verso la radio.
- I guanti – l’avvertì lui, notando che nella fretta se li stava dimenticando.
Ofelia li prese dal tavolino e se li infilò fluidamente. Era talmente abituata ad indossarli che le sue mani, quando compiva quel gesto, erano dirette e precise, non goffe come suo solito. Era quasi ammaliante, vedere quelle dita così potenti sparire sotto la pelle speciale dei guanti, nascondendosi. Erano quasi sempre coperte, eppure gliele aveva fatte scorrere sul corpo senza riserve. Lo considerava un privilegio, e una parte della sua mente si chiese quando sarebbe potuto accadere di nuovo.
Ofelia alzò il volume della radio, intelligentemente, mettendosi in ascolto.
L’orologio da taschino si mise ad aprirsi e chiudersi freneticamente mentre lui prendeva in mano la camicia e lo afferrava, osservando l’ora che già conosceva. La sciarpa, che era stranamente rimasta buona dove Ofelia l’aveva posata per tutto quel tempo, si avvinghiò al busto della padrona. Thorn avrebbe voluto passarle un braccio in vita e stringerla a sé, come la sciarpa, ma si trattenne.
Non poteva indulgere in simili fantasie mentre l’annunciatore radiofonico, tra echi fastidiosi e notizie comunicate a spizzichi e bocconi mano a mano che si capiva cosa fosse successo di preciso, annunciava che buona parte di Babel era… sparita.
In ogni caso, Thorn le si avvicinò, vestendosi nel frattempo.
La luna di miele era finita, e di quello che dovevano fare stavano per discutere quasi nell’immediato. Non avevano nemmeno dovuto pianificarlo: era piombato loro addosso.
  
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