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Autore: Roberto Turati    19/08/2020    1 recensioni
Laura, Sam, Chloe e Jack sono quattro neo-laureati di Sidney che, dopo aver trovato un libro segreto firmato Charles Darwin che parla di ARK, un'isola preistorica abitata da creature ritenute estinte da milioni di anni, da un intrigante popolo, protetta da una barriera che altera lo spazio-tempo e che nasconde un "Tesoro" eccezionalmente importante, decidono di scoprire di più... andando su ARK. Ma le minacce sono tante, siccome l'arcipelago arkiano non è certo il più accogliente dei posti... però, per loro fortuna, non saranno soli nell'impresa. Fra creature preistoriche, mostri surreali, nemici che tenteranno di fermarli o di ucciderli per diversi motivi, rovine antiche, incontri da ogni luogo, da ogni epoca e da altri universi e gli indizi sul misterioso passato dimenticato di ARK, riusciranno a venire a capo di un luogo tanto surreale?
 
ATTENZIONE: oggi, il 30/06/2021, è iniziato un rifacimento radicale della storia usando l'esperienza che ho fatto con gli anni e la nuova mappa di ARK usata per l'isola del mio AU. Il contenuto della storia sta per cambiare in modo notevole.
Genere: Avventura, Mistero, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Un'Isola Unica al Mondo'
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Jack si svegliò con la mente annebbiata. Gli ci volle parecchio per ricordare cos’era successo prima che tutto diventasse buio e perché la tempia gli faceva così male. Gli parve di vedere la sagoma di Rockwell davanti a sé e, una volta che si concentrò, vide che era effettivamente così. Il medico inglese lo stava fissando, ma la sua espressione era molto arrabbiata e lo stava fissando con uno sguardo deluso. Scuotendo la testa, Jack fece per alzarsi, ma ricadde flaccidamente subito dopo. Provò a muoversi, ma non ci riuscì: con stupore, si accorse che il farmacista gli aveva legato i polsi e le caviglie con delle robustissime fibre vegetali che aveva ricavato dai cespugli. Rockwell lo stava fissando con le mani congiunte, seduto su una roccia.

«Dottor Rockwell…» mormorò il giovane.

«Tu mi devi delle spiegazioni, Jack. Parecchie spiegazioni» disse Edmund.

Jack capì quindi che Rockwell, dal confuso scambio di parole che avevano avuto prima dell’imboscata, aveva intuito che il ragazzo aveva tramato qualcosa con Ottosir ai suoi danni. Tutto era venuto a galla, alla fine. Andò nel panico:

«Mi dispiace! Davvero, io non volevo che le succedesse qualcosa di male, ma…»

«Non voglio delle scuse, voglio dei chiarimenti» lo interruppe Rockwell, serio.

Jack rimase interdetto per alcuni attimi, poi sospirò maliconicamente: era ora di dire la verità, una volta per tutte. Senza il coraggio di guardarlo, spiegò nei minimi dettagli come era rimasto coinvolto contro la sua volontà nella cospirazione di Ottosir. Gli raccontò che era stato minacciato di morte e che non aveva avuto altra scelta se non accettare, dopodiché non aveva più saputo rivelare tutto in tempo perché aveva troppa paura. Specialmente quando vedeva che i mesopitechi di Ottosir li avevano spiati per tutto il tempo. Alla fine della storia, Rockwell si poggiò una mano sul volto e scosse la testa, con un sospiro sconsolato. Si avvicinò a Jack e, con la punta della lancia, tagliò i lacci e il ragazzo fu libero. Prima di alzarsi, si strofinò i polsi e finalmente guardò Rockwell negli occhi, dispiaciuto.

«Sono deluso, giovanotto» disse il farmacista.

«Lo so»

«Non perché ti sei reso complice di una cospirazione contro di me, ma perché non mi hai detto niente»

«Ma Ottosir mi avrebbe…»

«Infatti! Tu hai dato ascolto alle tue paure! Cosa ti avevo detto quando siamo usciti da quel panificio? Che avrei fatto del mio meglio per farci uscire illesi da questa caccia alla coccatrice. Avresti potuto contare sul mio aiuto, ma non hai saputo fidarti di me!»

«E se me l’avesse fatta pagare?»

«Io l’avrei impedito! Ti avrei aiutato, Jack. Se mi avessi avvertito, avrei potuto prevenire quest’imboscata. Ma per colpa tua, ora gli eventi hanno preso questa svolta»

Jack rimase interdetto, poi si sentì in colpa come poche volte prima di allora, perché si rese conto che Rockwell aveva ragione: avrebbe dovuto avere fede nella sua promessa, quando il medico aveva preso coscienza dei suoi sbagli e del rischio a cui stava esponendo il biondino, ma lui non gli aveva dato la possibilità di dimostrare che voleva davvero mantenere quella promessa. Ora non solo aveva ferito Rockwell, ma aveva portato delle conseguenze incredibilmente svantaggiose su entrambi. Era stato un vero idiota… si sentiva un incapace.

«Ma adesso non pensiamo a questo: dobbiamo riprenderci ed elaborare un piano per occuparci sia di lui, che della coccatrice! Due problemi in una volta? Niente che sir Edmund Rockwell non sappia gestire, te lo posso garantire!» lo incoraggiò poi Edmund, tendendogli la mano.

Un po’ rincuorato da quelle parole, Jack annuì con rinnovata convinzione e si fece aiutare ad alzarsi. Era ora di passare al contrattacco, in un modo o nell’altro.

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Dopo aver osservato quello che era successo col binocolo, Diana imprecò a denti stretti: quando aveva iniziato a seguire da lontano Jack e Rockwell in attesa di eliminare di persona la coccatrice approfittando del fatto che loro due si fossero resi delle esche ambulanti, non si aspettava che sarebbe saltato fuori anche un Arkiano ostile. Era sul punto di intervenire, quando il dodo mutato era apparso di colpo e lei era rimasta impietrita. Dopo la fuga di Jack e del medico svenuto, i mesopitechi del loro assalitore avevano attaccato in massa la coccatrice e l’avevano costretta a scappare. Poco dopo, ferito e malconcio, anche l’Arkiano si era allontanato dall’area delle sorgenti sulfuree. Preoccupata, Diana volò con lo zaino a razzo sopra la zona e scandagliò la foresta con la visuale termica: per fortuna, Jack e Rockwell erano vivi e stavano più o meno bene. Per un secondo, ebbe l’impulso di scendere ad aiutarli, ma poi vide anche la sagoma della coccatrice che correva tra gli alberi. Allora, la tentazione di eliminare la contaminazione di Elemento corrotto si fece troppo forte: non potevano permettere che ARK si riducesse come la Terra. Dunque, accese la radio del casco e chiamò Santiago:

«Santiago, ho contatto visivo con il dodo contaminato, ingaggio un combattimento per eliminarlo»

«Che ne è di quei due?» chiese Santiago, all’altro capo.

«A loro penserò dopo, dobbiamo stroncare la diffusione di Elemento fluido»

«Ricevuto. Buona fortuna»

Diana ringraziò e chiuse la chiamata. Allora, con uno scatto, sfrecciò sopra le fronde degli alberi finché non superò il punto dove la coccatrice si trovava in quel momento. Allora, dopo aver calcolato la traiettoria, prese la rincorsa sollevando il pugno destro, inclinò il suo corpo verso il basso e accese la fiamma del razzo dorsale al massimo. La soldatessa dal futuro partì verso il terreno come un proiettile, spinta dalla propulsione. Appena fu vicina alla coccatrice, sferrò il pugno e la travolse con tutte le sue forze. Il dodo mutante non la vide nemmeno arrivare e fu scaraventato a svariati metri di distanza, mentre Diana si schiantò al suolo e lasciò un piccolo cratere nel sottobosco. Protetta dall’urto dall’armatura TEK, la rossa si riprese senza problemi e si sciolse i muscoli, comunque scossi dall’impatto. La coccatrice, invece, rantolò a terra.

«Presa» mormorò Diana.

Imbracciando il fucile TEK, tenne d’occhio la creatura: era conciata malissimo. Aveva un’ala slogata, tre costole che sporgevano dai fianchi feriti e il collo storto…Ma si rialzò come se stesse benissimo. Diana, spiazzata, fece un paio di passi indietro e si tenne pronta a sparare. La coccatrice la fissò, furiosa, ed emise il suo urlo a pieni polmoni. Si precipitò di corsa verso di lei ignorando le ferite e le fratture, quindi Diana diede inizio alla raffica di sfere di plasma. I globi esplosero in rapidissima successione contro l’uccello mostruoso, sfigurandolo ancora di più. Di solito, Diana cercava di restare misurata e non esagerare, perché se si sparava troppo il fucile si surriscaldava e diventava inutilizzabile per vari secondi. Questa volta, però, voleva andare sul sicuro: sparò finché l’arma non fu rovente e aprì le valvole per far uscire il fumo.

«Muori!» esclamò Diana.

La coccatrice, ridotta ad un’orrenda maschera di sangue e carne bruciata, si accasciò a terra e imbrattò il fogliame di budella. Tirando un profondo sospiro, Diana lasciò che il fucile si raffreddasse e se lo riagganciò alla schiena. Osservò la carcassa per alcuni secondi, poi fece per accendere la radio e avvisare il suo intero squadrone che l’uccisione era stata eseguita con successo… ma un movimento improvviso della coccatrice la fermò.

“Ma che cazzo…” pensò.

In pochi secondi, la coccatrice tornò in piedi e le sue ferite più gravi guarirono: le interiora cadute fuori tornarono dentro come per magia. Rimasero ancora alcuni squarci e fratture, ma quella guarigione era stata comunque stupefacente.

«Un fattore rigenerante, eh? Tu giochi sporco!» esclamò Diana, a denti stretti.

Più furiosa che mai, la coccatrice allargò il suo cappuccio e sibilò, facendo ondeggiare la lingua. Raschiò il terreno con una zampa e partì alla carica. Diana schivò prontamente accendendo il razzo e decollando in verticale prima di essere colpita, quindi la coccatrice sferrò un calcio a vuoto e inciampò. Mentre era ancora in alto, Diana prese una granata TEK dalla sua cintura, la innescò e la gettò vicino alla creatura. L’esplosione azzurra incendiò molte piante e travolse in pieno la coccatrice, devastando quasi tutto il suo fianco sinistro. Il mostro strillò, si rialzò come se niente fosse e si rifugiò nella boscaglia.

«Non puoi nasconderti!» esclamò la donna.

Attivò ancora la visione termica e vide che l’animale stava sfrecciando con l’agilità di un acrobata sulle fronde degli alberi intorno a lei, girando in cerchio per tentare di confonderla. Era talmente veloce a saltare di albero in albero, a tornare per un attimo a terra e poi tornare subito dopo tra i rami, senza mai esitare, che sembrava una scheggia. Appena si soffermò su una frasca, Diana riprese il fucile e prese la mira… ma la coccatrice le balzò addosso prima che premesse il grilletto. Il razzo non resse il peso e la soldatessa precipitò a terra. Il fucile le cadde. La coccatrice la sovrastò, bloccandola a terra con una zampa, e cominciò a beccare con furia il petto di Diana per bucare l’armatura e ferirla. La corazza in Elemento resisteva, ma la forza dell’animale riuscì a creare delle ammaccature profonde. Diana riuscì ad afferrare il collo dell’uccellaccio con una mano, quindi con l’altro sferrò un poderoso pugno che lo stordì. Quindi, con un calcio, lo spinse via e prese a correre in direzione del fucile… ma la coccatrice le saltò ancora addosso e la bloccò.

«Merda!» imprecò Diana.

Adesso era distesa sulla pancia, non poteva colpire la coccatrice per liberarsi… cominciò ad avvertire fortissimi colpi sulla schiena, dove c’era il razzo. Poi sentì uno strattone così forte che per poco non si sollevò da terra e… si sentì improvvisamente più leggera. E adesso era libera. Senza pensare a voltarsi, strisciò verso il fucile e lo riprese. Si alzò di scatto, si girò e rimase senza parole: la coccatrice era così presa dalla foga che le aveva staccato il razzo dalla schiena e ora ne stava letteralmente staccando dei pezzi di Elemento da esso, per poi ingoiarli. Era convinta che quello fosse un pezzo di lei e quindi lo mangiava, nonostante non avesse il sapore della carne.

“Oh no! No, no, no!” pensò Diana, sconvolta.

Una creatura mutata dall’Elemento stava ingerendo ulteriore Elemento. All’accademia, quando i professori di chimica avevano insegnato loro le meccaniche della Corruzione e della sua diffusione, non avevano mai menzionato uno scenario simile… forse perché era talmente estremo che non lo consideravano. Non sapeva se ciò avesse conseguenze, ma una cosa era certa: doveva uccidere la coccatrice, ora o mai più. Quindi urlò e cominciò una seconda raffica… ma questa volta la coccatrice era pronta e si mise a correre in giro, schivando tutte le palle di plasma, che invece incenerirono gli alberi lì intorno. Alla fine, le munizioni TEK finirono.

“Cazzo!” pensò Diana.

Aveva solo un’ultima risorsa: le altre granate TEK. Ne prese subito un’altra e la lanciò… ma la coccatrice, con dei riflessi che la soldatessa non si sarebbe mai aspettata da qualunque animale, eseguì una giravolta e colpì la bomba con la coda, rispedendola a pochi passi da lei. Diana fece appena in tempo a sbarrare gli occhi, prima che la granata scoppiasse. Si sentì investire da un’ondata di calore bollente, sentì la sua pelle bruciare sotto l’armatura, e fu sbalzata via come un sasso preso a calci. Atterrò malamente e pestò la testa contro un tronco. Anche se era protetta dal casco, lo schianto fu troppo violento. L’unica cosa che sentì fu l’urlo della coccatrice, poi la sua vista si annebbiò.

“L’ho sottovalutata…” si disse, stordita, prima di svenire.

La coccatrice, trionfante, afferrò i resti del razzo e li portò con sé nel fitto della foresta, in cerca di un posto dove terminare quell’insolito pasto che le aveva conferito un’immensa botta di energia e vigore.

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Jack e Rokwell, dopo che si furono chiariti, furono attratti dai lontani rombi di esplosioni che avevano sentito giungere dall’altro capo della foresta. Non avevano nessuna prova che fossero correlate alla coccatrice, ma decisero comunque di andare a controllare. Guardandosi bene dal ripassare tra le pozze sulfuree, iniziarono ad attraversare la foresta tenendo sempre gli occhi aperti. Rockwell, ovviamente, fabbricò nuove lance di legno e pietra prima che partissero. Jack seguiva il medico a ruota e metteva i piedi esattamente dove li poggiava il vecchio. Quella zona di foresta non sembrava particolarmente popolata, ma era comunque meglio essere cauti. Dopo mezz’ora di cammino silenzioso, però, il ragazzo non poté più fare a meno di porre una domanda che si faceva da quando era iniziato quel casino dentro il casino:

«Dottor Rockwell, posso farle una domanda?» chiese, a bassa voce.

«Certo»

«Ottosir ha detto che sua moglie e le sue figlie sono morte perché non le hai aiutate… cos’è questa storia? Non è riuscito a curarle da una malattia troppo grave?»

Edmund si fermò di scatto e così fece Jack, un po’ stupito. Non poteva vederlo, perché il medico gli stava dando le spalle, ma i suoi occhi erano sbarrati. Pensò e rimuginò per una manciata di secondi, poi si voltò verso Jack con uno sguardo che lasciava trasparire un certo disagio:

«Cosa? Uhm… ti ricordi il nome completo di quel farabutto incivile? O almeno il suo aspetto?»

«Come no! Una faccia come la sua si rivede negli incubi! Il cognome è Nopuorg»

Rocwell meditò grattandosi la barba:

«Nopuorg… Nopuorg… è un uomo tarchiato, in sovrappeso, mezzo cieco e con due arti amputati?»

«Esattamente»

«Ma certo… ora capisco tutto»

«Chi è Ottosir, dottore? Cosa gli ha fatto per farsi odiare così?»

«Niente, giovanotto. Non ho fatto assolutamente nulla»

Il farmacista si tolse gli occhiali con un triste sospiro e, mentre se li puliva e si asciugava del sudore dalla fronte, raccontò in breve:

«Due anni fa si presentò alla mia clinica con la moglie e le figlie e mi chiese di diagnosticare una serie di gravi malesseri che le affliggevano da mesi e che diventavano sempre peggiori. Io le esaminai e scoprii che avevano un tumore maligno ad uno stadio piuttosto avanzato, ciascuna ad un organo diverso»

«Capisco…» annuì Jack, iniziando a comprendere.

«Già c’era ben poco che un medico potesse fare nel diciottesimo secolo da cui provenivo, al di fuori di tentare di asportare i tumori con conseguenze fatali, quindi immaginati qui su ARK! Qui ho scoperto medicinali che hanno salvato gli Arkiani da temibili malattie infettive, ma come sai i tumori sono tutt’altra cosa»

«Già…»

«Quindi dissi solo che mi dispiaceva e che non potevo salvare quelle tre sfortunate. A quanto pare, siccome non è riuscito a superare il lutto e non sa su chi altri sfogarsi, Ottosir ha dato la colpa a me perché non ho agito. È una reazione molto tipica» concluse Edmund.

Adesso che conosceva tutta la storia che aveva portato a quella cospirazione, a Jack dispiaceva più di prima per essersi fatto convincere da Ottosir ad aiutarlo: si era immaginato che Rockwell, per superbia o egoismo, avesse rifiutato di aiutarlo pur potendolo fare, invece no: avea solo preso coscienza di avere di fronte un caso al di fuori della sua portata e si era tirato indietro, perché era l’unica cosa che c’era da fare. Ora Ottosir appariva ancora più bastardo e inquietante ai suoi occhi. Doveva assolutamente stare attento, la prossima volta che si sarebbe fatto vivo, specialmente perché non sarebbe stato per niente contento con loro due.

Ad un certo punto, cominciarono a sentire odore di legno bruciato e si scambiarono un’occhiata di intesa: si avvicinavano al posto da cui le esplosioni erano venute. Oltretutto, stavano andando verso una grande cortina di fumo, quindi non c’era nessun dubbio. Dopo che attraversarono un’ultima barriera di cespugli spinosi, i due rimasero a bocca aperta: sembrava che avessero bombardato a tappeto il bosco. Era tutto carbonizzato, tutto annerito. Alcune foglie, sugli alberi più grossi e alti, non avevano ancora finito di bruciare. Jack e Rocwell si coprirono la bocca coi gomiti per il fumo e cominciarono a dare un’occhiata in giro.

«Mio Dio, cos’è successo?» chiese Jack, incredulo.

«Ecco la risposta» rispose Edmund, indicando un tronco.

Il ragazzo guardò e vide una soldatessa dell’URE distesa per terra, immobile. Aveva l’armatura danneggiata e piena di fuliggine e il razzo sulla schiena mancava. A parte una sorta di granata futuristica legata alla sua cintura, era disarmata. Jack e Rockwell le si avvicinarono di corsa, accucciandosi su di lei e mettendola seduta. Jack era molto perplesso:

«Che ci faceva senza nessun compagno di squadra? Non sembra una cosa che farebbero…»

«Lo scopriremo solo chiedendoglielo, a seconda di come sta. Controllo il battito»

Per poterle appoggiare le dita sul collo, le sfilò il casco e sobbalzarono quando scoprirono chi era. A causa dell’impatto, aveva una ferita superficiale alla tempia da cui colava del sangue che si stava già seccando.

«Oddio! Che ci faceva qui? Perché non si stava occupando dei suoi soldati?» domandò Jack, sconvolto.

Rockwell si accertò che il battito di Diana fosse regolare, poi si guardò in giro e capì quando vide delle tracce familiari sul terreno:

«Era qui per lo stesso motivo per cui lo siamo noi»

Jack guardò nella direzione in cui il farmacista stava puntando gli occhi e vide delle impronte simili a quelle di un uccello. Anche lui comprese: aveva trovato la coccatrice e aveva cercato di ucciderla con le sue armi TEK, incredibilmente fallendo. Questo lo fece rabbrividire, perché se neppure una militare dal 2150 armata di tutto punto era riuscita ad avere la meglio su quella creatura, cosa potevano sperare di fare loro con le lance? La coccatrice si stava rivelando un problema gravissimo. Furono riscossi da alcuni colpi di tosse di Diana: si stava riprendedo. Si allontanarono per concederle dello spazio, mentre lei si portava con fatica una mano al viso per strofinarsi gli occhi. Era stordita, ma si riprese lentamente.

«Scappata… sfuggita di mano…» biascicò.

Alla fine si riscosse del tutto e, quando mise a fuoco le immagini dei loro volti, scosse la testa e sbuffò:

«Voi due… nessuno mi ha mai portato più guai di voi, dico sul serio!»

Rockwell strinse gli occhi e si sistemò gli occhiali, indignato:

«Ascolti, signorina Altaras, è vero che è stata la mia ostinazione a portare alla nascita della coccatrice. Ma se l’ha affrontata da sola con queste conseguenze, non è colpa nostra! Perché non si è organizzata a dovere? Devo dire che dopo tutta la professionalità che ci avete mostrato, sono colpito in negativo da questo suo errore di strategia»

A Jack dispiacque un po’ per Diana per quella critica, ma ragioandoci doveva ammettere che era vero: quello di Diana sembrava uno scivolone a tutti gli effetti. La tenente dell’URE rimase a labbra serrate per l’imbarazzo per qualche secondo, poi sospirò:

«Sì, avete ragione… sono stata ingenua all’inizio e troppo frettolosa adesso. Quando vi siete offerti per questa caccia suicida al soggetto mutato, ho deciso di seguirvi per intervenire al momento giusto perché mi dispiaceva per voi. Ho lasciato gli altri a lavorare alle catture per non rischiare di causare ritardi sulla tabella di marcia. Mi aspettavo qualcosa di rapido e facile, visto che la specie di partenza era pur sempre un dodo… ma si è evoluto in modo molto più complesso del previsto. Ed ecco perché doveva stare lontano dal TEK fluido, Rockwell!»

«Aspetti, lei ci ha osservati per tutto questo tempo?» sobbalzò Jack.

«Sì»

«Allora perché non ci ha aiutati contro quell’energumeno mutilato?!»

«Stavo arrivando, per chi mi avete presa? Poi, però, ho avvistato il bersaglio e voi siete scappati, così non ci ho visto più e sono andata alla cieca… scusatemi, davvero. La fretta è una cattiva consigliera»

Rockwell scosse la testa:

«Be’, ormai abbiamo capito che nessuno dei presenti è neanche lontamanente perfetto, quindi accettiamo le sue scuse senza rammarico»

«Grazie – sorrise lei – Ora, se non vi dispiace, rimedio alla cazzata che ho fatto e chiamo gli altri…»

Si rimise il casco, premette un tasto sulla tempia per accendere la radio e chiamò Santiago. Ma non le rispose nessuno. Terrorizzata, Diana provò ancora svariate volte, agitandosi sempre di più. Alla fine, impallidendo, si rese conto che tutte le apparecchiature del casco erano danneggiate: non poteva né chiamare gli altri, né usare le visuali speciali della visiera. Infatti, Jack notò che poteva vedere il viso della donna, che non era nascosto da uno schermo a cellette grigio come le volte precedenti. Era chiaro che fosse successo per lo schianto.

«Merda!» esclamò.

Ci sarebbero volute come minimo ore, prima che il suo squadrone si insospettisse per il suo silenzio radio più lungo del solito e venissero a prenderla. Rockwell provò a sollevare il morale generale:

«Abbiamo decisamente molti vantaggi in meno. Ma comunque più di quando non c’era lei!»

«Ah sì?» chiese Jack.

«Certo! Ora siamo in tre e lei ha a disposizione un’ottima protezione fisica, nonostante i danni che ha subìto. Abbiamo delle possibilità in più di sopraffare la coccatrice, in attesa dei suoi compagni»

«Certo, come no… pensate davvero di potercela fare? Io sono venuta qui con armi TEK e guardate cosa mi ha fatto!» esclamò lei.

«Escogiteremo un piano. Le mie spedizioni in India e a Sumatra, nella mia gioventù, mi hanno insegnato che qualunque bestia può essere abbattuta, con una strategia ben orchestrata!» rispose il medico.

Dunque, dopo un sospiro, Jack aiutò Diana ad alzarsi ed entrambi cominciarono a seguire il farmacista, che si era subito incamminato lungo la pista di impronte lasciate dalla coccatrice. La resa dei conti forse si avvicinava, ma chi ci avrebbe rimesso?

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Dopo che si furono ripresi a dovere dall’assalto di Gnul-Iat, i ragazzi e Acceber fecero scorte di cibo al mercato dei Lupi Bianchi, prima di imbarcarsi direttamente per l’isola vulcanica, sede dell’insediamento secondario dei Teschi Ridenti. Questa volta, Helena riuscì finalmente a trovare una nuova falsa identità per Nerva: dopo averlo fatto aspettare nella pineta fuori dal villaggio sul fiordo ghiacciato, comprò al mercato un mantello nero e una fascia per coprirsi il volto, così che potesse indossarli e nascondere del tutto la faccia quando entravano nei luoghi pubblici. Come pretesto, Chloe propose di raccontare a chiunque chiedesse che era terribilmente sfregiato,una scusa molto credibile visto che su ARK era facilissimo ottenere segni indelebili. Il centurione fu molto contento di poterli finalmente seguire di nuovo ovunque, senza sentirsi tagliato fuori. Acceber, invece, iniziava a sentirsi dispiaciuta per il suo continuo disagio e rimorso, anche se si sforzava di continuare ad odiarlo come un nemico della sua isola.

«Bene, si passa dal luogo più freddo dell’arcipelago a quello più scottante!» annunciò Helena, alla fila al porto.

«Evvai, sarà come la nostra escursione sul Mauna Kea, quella volta alle Hawaii! Vi ricordate?» chiese Sam.

Laura ridacchiò:

«Altroché! Ricordo che Jack era così stanco per la scalata che ci siamo fermati una decina di volte per lui, e quando abbiamo visto il cratere si è disidratato per il caldo!» raccontò.

Dopo le risate nostalgiche, Acceber pagò la tariffa della traversata al padrone del plesiosauro pubblico che li avrebbe portati all’isola dei due vulcani. Andarono a prendere posto a due file di posti a ridosso del bordo sinistro della sella-piattaforma, da cui vedevano la sponda opposta del fiordo. Mei, in lontananza, vide un metaorso che dava la caccia ad una colonia di kairuku e lo osservò in silenzio. Partirono pochi minuti dopo: il plesiosauro nuotava remando con le quattro pinne, fendendo la superficie dell’oceano come un siluro e tenendo il collo alzato per guardare dove andava. Nel frattempo, tutti i passeggeri parlavano o fissavano il mare senza dirsi nulla.

«Il traghetto più figo che abbia mai preso» commentò Sam.

In mezz’ora, il rettile marino fu lontano dalla zona polare e notava spedito verso quella infuocata. Helena e Acceber cominciarono una fitta conversazione in cui la biologa raccontava i suoi incontri coi Teschi Ridenti nel suo periodo su ARK due anni prima e la figlia di Drof spiegava con molti dettagli la vita della tribù e i tratti unici della loro isola. Sam e Chloe ascoltavano ammirati, mentre Mei-Yin e Nerva discutevano sottovoce sul pericolo di Gnul-Iat. Laura, invece, si ritrovò distratta con un pensiero che non si aspettava in quel momento:

“Come starà Jack in questo momento? Sarà in pericolo? Sarà ancora vivo con Rockwell?” si domandava.

Era sempre stata un po’ in pensiero per lui, da quando si era separato da loro per stare con Edmund nella base dell’URE. Ma, da quando Helena aveva riferito loro che sarebbero tornati ancora più tardi del previsto perché dovevano rimediare ad un “incidente di percorso” menzionato senza fare precisazioni dal farmacista, aveva iniziato a provare qualcosa che andava oltre la preoccupazione: aveva paura. Dentro di sé, era terrorizzata all’idea di perdere Jack. Tuttavia, al pensiero di perderlo, si sentiva come se qualcosa le fosse stato strappato. Era più del timore che la attanagliava quando temeva che gli altri morissero per colpa del suo desiderio di visitare ARK: quando pensava a Jack, lo figurava come se le morisse un parente… o una persona che era più di un amico. Non riusciva a spiegarselo, ma in un certo senso sapeva di cosa si trattava… fin dai primi anni dell’adolescenza, in certe occasioni, Laura aveva sentito un certo attaccamento a Jack che era più intenso dell’affetto quasi fraterno che la legava a Chloe e Sam. Era forse… e se anche lui provasse lo stesso per lei? Magari entrambi avevano qualcosa da dirsi, ma non lo ritenevano sensato. Oppure…

“Bah, ma cosa sto pensando!” scosse la testa, imbarazzata.

Jack sarebbe stato bene, qualunque fosse il problema che stava affrontando: doveva fidarsi del suo amico e di Rockwell, che aveva già esperienza su ARK. Anche se per lei era difficile, cercò di non pensarci più fissando il mare o aggregandosi alle interessanti conversazioni tra Helena e Acceber, visto che l’argomento le pareva molto affascinante.

«E quindi coltivano la miglior frutta dell’arcipelago, grazie al terreno vulcanico» stava dicendo Acceber.

«Scusate, ero distratta, di cosa state parlando?» chiese Laura.

Chloe le fece un rapido riassunto:

«In due parole, hanno detto che l’isola ha due vulcani attivi che ogni tanto eruttano e buttano lapilli ovunque, però solo due terzi sono bruciati: il resto, che è dove c’è l’insediamento, non viene mai raggiuto dalle eruzioni ed è tutto rigoglioso, quindi ci coltivano un sacco di piante e viene tutto buonissimo»

«Giusto, perché il suolo dei vulcani è fertilissimo» annuì la bionda.

«Esatto! – sorrise Helena – Non vedo l’ora di rivedere l’isola infuocata… vi piacerà, vedrete!»

Mei-Yin, che come al solito si preoccupava prima di tutto di prepararsi agli eventuali rischi che la attendevano per affrontarli al meglio, smorzò l’aria allegra da escursione della loro chiacchierata:

«Ci sono creature aggressive? Animali contro cui i velociraptor avrebbero difficoltà?» domandò.

Helena ci rifletté bene, poi rispose:

«C’è un considerevole numero di predatori che si aggirano nella zona bruciata, di solito fanno pulizia dei resti degli animali che si lasciano sorprendere dalle eruzioni. Ci sono pulmonoscorpi, smilodonti, argentavis, più specie di teropodi…
sì, c’è sicuramente da stare attenti, ma niente che non si possa evitare o affrontare»

«Bene est, tum erimus parati» commentò Nerva.  

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Quando videro l’isola vulcanica, ai ragazzi fece un effetto particolare: ai lati e dietro il centro abitato era tutto piuttosto lussureggiante, con schiere di orti subito dopo la spiaggia, macchie di frutteti più all’interno e colli ricoperti da file di viti e ulivi coltivati a terrazza. Eppure, in lontananza, dall’orizzonte spiccavano due vette da cui saliva una grandissima voluta di fumo nero. Una era più bassa e più vicina, l’altra era più alta e appariva più distante. Sembrava quasi un paesaggio incantato.

«Che bella!» fischiò Chloe.

Quando raggiunsero la sponda, il padrone del plesiosauro fece scendere tutti i passeggeri, poi saltò sul pontile a sua volta e lasciò il suo animale libero di nuotare nei dintorni come gli pareva, per concedergli una pausa dal lavoro che lo costringeva a stare sempre in superficie. Il villaggio non era immediatamente dopo l’attracco: a separarlo dal mare, c’era un tratto di spiaggia che seguirono per un po’ con gli altri passeggeri, i ragazzi a piedi e gli autori dei diari in sella ai velociraptor, che erano ancora un tantino scossi per la traversata. Essendoci in zona due vulcani sempre attivi, la brezza marina trasportava un penetrante puzzo di zolfo. Chloe arricciò il naso ed emise un verso disgustato:

«Che schifo, l’odore di uovo marcio qui fa venire il capogiro!» esclamò, dopo aver preso una boccata d’aria.

«Naso delicato, eh?» la punzecchiò Sam.

«No, dopo quella palude piena di sanguisughe, serpentoni e altre schifezze, questo mi sembra chanel» gli ribatté lei.

Quando arrivarono ai portoni d’ingresso ed entrarono con tutta la comitiva, all’odore di zolfo si aggiunsero in un baleno svariati profumi di frutti e ortaggi vari, che venivano dal mercato. L’insediamento secondario della tribù dei Teschi Ridenti, stando alle parole di Acceber, era uno degli avamposti arkiani più vivaci e variopinti in assoluto e i ragazzi poterono constatare che aveva ragione: quel posto era pieno di colori. Questo perché le case erano tutte decorate con tinte naturali diverse e perché le bancarelle del mercato erano colme di prodotti della terra maturi e freschi di raccolto, tutto di stagione. Inoltre, il viavai di persone era notevole: notarono vari stranieri integrati nella società di ARK, in mezzo ai nativi di altre tribù venute lì in visita.

«Niente male davvero!» fischiò Laura.

«Che vi dicevo?» sorrisero Helena e Acceber.

Andarono alla stalla comune per lasciarci per qualche tempo i velociraptor, così sarebbero stati in forma quando si sarebbero rimessi in viaggio. Alla piazza centrale, che vantava un monumento in pietra scolpito a forma di teschio sorridente per simboleggiare la tribù, i ragazzi videro che anche l’insediamento sull’isola vulcanica era costruito in riva ad un lago, come il villaggio delle Frecce Dorate. Solo che quel lago non era usato per pescare, ma per irrigare: ne uscivano dozzine di intricatissimi tubi di pietra che uscivano oltre la palizzata in tutte le direzioni, per andare ad annaffiare costantemente le coltivazioni della facciata florida dell’isola. Uno spettacolo proprio affascinante.

«Bene, è ora di andare dal capo e chiedergli il Manufatto del Branco!» esclamò Helena, battendo le mani.

Dunque, si avvicinarono all’inconfondibile abitazione più importante delle altre, sul lato opposto della piazza. Gli autori dei diari rimasero indietro e lasciarono fare ai tre ragazzi. Quindi Laura bussò alla porta e sull’uscio apparve una giovane donna più o meno della loro età, forse con giusto un paio d’anni in più. Dopo averli squadrati, chiese se erano i giovani stranieri sulle tracce del Tesoro che ormai tutti i capivillaggio stavano aspettando, da quando Yasnet aveva sparso la voce. Laura annuì, con un sorriso, quindi la ragazza ricambiò e li accolse. Li accompagnò nella stanza del capovillaggio:

«Tludaf, ibutag vluditamjv edev izabimlup» disse in arkiano.

Allora entrarono e incontrarono Hsoorak Harrew, l’uomo a capo dell’avamposto sull’isola del fuoco. Chloe si fece sfuggire un sommesso fischio di ammirazione: era veramente un belloccio, in forma smagliante, uno sguardo acuto e ammiccante, un sorriso complice e un portamento da “fratello maggiore”. Le ricordava molto il giovane e ammaliante professore di greco che aveva avuto alle superiori, con cui aveva cercato di uscire a cena più volte, fallendo a causa di una serie di sabotaggi segreti da parte di un geloso Sam. Il tipo di uomo a cui avrebbe fatto un bel pensierino. Ora che ci pensava, Chloe si ricordò che da quando erano sull’isola non avevano mai avuto tempo per un certo tipo di “svago”... ma non era quello il motivo della visita, quindi la mora si ricompose.

«E così, siete venuti anche da me! – esclamò Hsoorak – Vi dirò, quando ho sentito di voi da Yasnet, ho creduto che sareste morti o che vi sareste solo arresi dopo due manufatti…»

«Ah, grazie tante per la fiducia, eh?» reagì sarcasticamente Sam, facendo l’offeso.

«Eppure siete arrivati fino a me, facendo un giro piuttosto largo dell’arcipelago prima. Devo ammettere che sono ammirato!»

Laura arrossì un po’ e si sistemò delle ciocche di capelli:

«Grazie. Anche noi, soprattutto me, siamo veramente colpiti di avercela fatta finora. Non che non abbiamo avuti difficoltà, anzi... merito delle nostre fantastiche guide»

Sam e Chloe annuirono a conferma delle sue parole. Hsorrak sembrava comprenderli:

«Non ne dubito. Ecco perché vi affido senza esitazione il Manufatto del Branco: Yasnet ha detto a tutti noi di avervi messi alla prova e che avete dimostrato sia di avere determinazione, sia di essere onesti nelle intenzioni e che non volete usare il Tesoro di ARK per scopi egoistici. A me basta sapere questo»

Andò ad un muro della stanza, rimosse un ritratto dei due vucani nel mezzo di un’eruzione e rivelò un buco nei blocchi di tufo da cui la casa era composta. Ne estrasse l’artefatto pre-arkiano, inconfondibile nel suo stile unico come tutti gli altri. Lo porse a Laura e spiegò che il suo piedistallo si trovava all’estremo opposto dell’isola, sulla spiaggia dell’area carbonizzata. Disse che avrebbero capito qual era il luogo giusto, perché lì c’era una città in rovina seppellita dalle eruzioni.

«Sulla spiaggia, eh? Io avrei scommesso che fosse in cima ad uno dei vulcani…» disse Chloe.

«Be’, immagino che nemmeno i nostri predecessori volessero correre il rischio che il manufatto cadesse nella lava» commentò Hsoorak.

I ragazzi si trovavano d’accordo: almeno, avrebbero evitato una scalata pericolosa in mezzo ai fiumi di magma, avrebbero solo dovuto seguire la linea costiera fino all’altro lato. Quindi ringraziarono cordialmente e uscirono. Lì fuori trovarono solo Helena. Quando chiesero dov’erano Mei e Gaius, la biologa spiegò che avevano voluto comprare frecce e lance in quantità, in vista del tragitto. Poi invitò Chloe e Sam a raggiungere Acceber alla locanda, dove la figlia di Drof stava prenotando delle camere per tutti loro. I due obbedirono volentieri e allora, rimasta sola con la bionda, Helena le si avvicinò e le suggerì:

«Laura, mentre ci sistemiamo e ci prepariamo, che ne dici se ci facciamo due passi qui in zona? Così possiamo discutere con calma delle scoperte sui Pre-Arkiani e ci godiamo anche il paesaggio! Sento che ne abbiamo bisogno, dopo le ultime svolte»

Laura reagì con un ampio sorriso:

«Oh! Molto volentieri, Helena!»

«Ottimo! Andiamo, allora!»

Dunque, le due donne si diressero verso il cancello a Nord della palizzata, da cui si andava verso le colline piene di vigneti, uliveti e frutteti.

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«Ah, che bella vista…» mormorò Laura, meravigliata.

Lei ed Helena stavano passeggiando lungo un sentiero che attraversava i frutteti, da cui si vedeva il mare da un lato e il confine dell’area carbonizzata dall’altro. Il contrasto con quella porzione florida era quasi surreale. Intanto, riflettevano per bene su tutte le informazioni che avevano a loro disposizione fino a quel momento sui Pre-Arkiani:

«Che dire… se due anni fa ero affascinata, ora sono incredula» disse Helena.

«Io sono sicura al cento per cento che, qualunque cosa li rendesse molto più avanzati di noi decine di millenni fa, è in qualche modo collegata al Tesoro, altrimenti Darwin non avrebbe scritto che si tratta di una cosa che cambierebbe il mondo» rimuginò Laura.

La biologa annuì, seria:

«Sono assolutamente d’accordo. Scoperte come il teletrasporto e il viaggio attraverso altre dimensioni sono qualcosa di a dir poco rivoluzionario… già solo il fatto di sapere che ci sono altre dimensioni mi ha fatta quasi impazzire, a dire il vero»

«Già. Ma perché le loro rovine hanno lo stile architettonico delle civiltà antiche? Le invitavano su ARK e hanno lasciato che costruissero edifici nei punti in cui vanno posati i manufatti e in cui ci sono quei portali? Li invitavano qui?»

Helena parve perplessa:

«È plausibile, ma io mi chiedo perché le testimonianze non siano mai state ricordate: mi sembra qualcosa di gigantesco. Eppure le civiltà hanno lasciato rappresentazioni di questo contatto in giro per il mondo, non è così che l’uomo con la bombetta ti ha detto?»

«Esatto»

«Ecco, ricordavo bene»

«Magari gli hanno ordinato o chiesto di non ricordare di loro alle generazioni future?»

«Considerando che poi sono scomparsi anche dalla loro patria, potrebbe essere: forse volevano a tutti i costi che il mondo li dimenticasse, o che dimenticasse qualcosa in particolare che hanno fatto… qualcosa come il Tesoro, forse?»

Laura fu della stessa opinione per un attimo, ma poi si ricordò di un importante rovescio della medaglia:

«Aspetta… questa è una contraddizione! Se volevano cancellarsi, perché hanno lasciato tutta questa scia di indizi per guidare gli interessati fino al Tesoro? Le rovine, le incisioni, i manufatti… e, guarda caso, i manufatti sono sia un modo per raggiungerlo, sia per uscire dall’isola! Cosa volevano ottenere?»

«Hai ragione! Come ho fatto a non pensarci? Sembra quasi che avessero due scopi opposti allo stesso tempo, senza un motivo chiaro… e c’è anche un’altra cosa che non riesco a spiegare»

«Cosa?»

«Le incisioni che io e gli altri abbiamo visto mentre tu non c’eri, a forma di fungo atomico. Così come i segni di una devastante guerra che io e Rockwell abbiamo scoperto due anni fa e con cui spiegammo la loro estinzione. Sono tutti avvenimenti che non dimostrano l’uso della tecnologia dei sotterranei delle rovine, dove ci sono i portali… perché? Di solito, ci si combatte coi migliori strumenti a disposizione»

«E se fosse semplicemente una guerra degli Arkiani attuali? Voglio dire, sono qui da sessantamila anni, non credo che ci siano stati solo tempi di pace» suggerì Laura.

Helena si morse le labbra:

«A questo punto, comincio a pensarlo anch’io, perché altrimenti non avrebbe senso. I Pre-Arkiani ci stanno nascondendo qualcosa… o forse ce la stanno suggerendo, ma in un modo molto distorto per confonderci»

«Immagino che lo scopriremo solo alla fine del viaggio» sospirò Laura.

«Molto probabile. Be’, anche questo fa parte del mondo della ricerca, in fondo»

A quel punto, si resero conto che la loro passeggiata le aveva portate fino ad una casupola di legno costruita in un crocevia tra quattro orti, due di patate e due di carote. Il padrone di casa, un Arkiano sulla cinquantina con ben cinque borse di cuoio piene di tutto appese alla cintura o a tracolla, stava portando una cassa piena di pezzi di carne al suo argentavis. Il rapace, placidamente appollaiato nel nido che aveva costruito sul tetto della casupola, stridé contento e scese con una planata per mangiare. Il padrone ridacchiò e gli diede una pacca sul collo, prima di lasciarlo mangiare. Le due ragazze sorrisero, a quella scena. L’Arkiano si voltò e le vide. Avendole sentite parlare, tradusse subito quando chiese se volevano che spedisse qualcosa. Disse, infatti, di essere un fattorino.

«Cosa? No, no, stiamo solo camminando. Tra poco andremo nella zona bruciata» rispose Laura.

«Capito. Buona fortuna, senza volatili sarà dura!»

«Ce la caveremo – lo rassicurò Helena – Bell’esemplare, comunque!»

«Sì… l’ho incontrata due anni fa, sola e spaventata, nei dintorni delle rovine vicino all’avamposto delle Frecce Dorate. Quando mi ha visto è stata molto docile, così ho deciso di adottarla»

“Si riferisce al Partenone” capì Laura.

«Se era docile, doveva aver perso il suo padrone…» ipotizzò Helena, interessata.

Il fattorino annuì:

«Infatti era sellata. C’era scritto il suo nome, così ho tenuto da parte la vecchia sella, ma in due anni nessuno l’ha mai cercata… - a quel punto, si rivolse all’argentavis – Sei stata proprio fortunata ad incontrarmi, eh, Atena? Con me voli tanto e mangi tanto. Doppia fortuna, ehehe!»

Laura era sopresa: Atena non era forse il nome di… e, infatti, quando si voltò vide che Helena aveva fatto dei passi indietro e si stava coprendo la bocca con le mani per lo stupore. I suoi occhi brillavano come stelle. La biologa da Sidney si sarebbe mai aspettata che quel momento fosse arrivato, anche se ci aveva sperato in parte quando era tornata su ARK. E adesso…

«Mio Dio… Atena… Atena!» esclamò.

Cominciò a singhiozzare: si stava commuovendo, nel ritrovare la sua fedelissima compagna di viaggi che Rockwell le aveva regalato per viaggiare sull’isola, due anni prima. Anche l’argentavis sollevò di scatto la testa dalla mangiatoia, quando si sentì chiamare da una voce che ricordava ancora, ma che non sentiva più da molto. Girò il capo di novanta gradi e vide il volto della sua vecchia padrona con l’occhio sinistro. In men che non si dica, iniziò a stridere e a sbattere le ali, gettando polvere dovunque, e le corse incontro. Helena fu quasi investita, ma era così felice e così emozionata che non poté fare altro che ridere e asciugarsi la lacrimuccia nostalgica. L’argentavis cominciò ad arruffarle affettuosamente i capelli col becco e a sfregare il muso contro di lei.

«Anche tu mi sei mancata, vecchia mia! Mi dispiace tanto se ci siamo divise senza un addio decente… eravamo tutti nel panico, il Megapiteco stava spaccando tutto…»

«Ah, allora eri tu la sua padrona? Che colpo di fortuna» commentò il fattorino arkiano.

«Oh, non sai quanto! Non sai quanto!»

Laura non diceva niente: si limitava ad osservare e sorridere, molto contenta per quel momento di gioia di cui la donna stava godendo. Anche lei si sarebbe commossa, se avesse avuto l’occasione di rivedere un amico che non incontrava da anni senza averlo potuto salutare a dovere. Quando, finalmente, Helena riuscì a far staccare l’argentavis, provò ad invitarla a seguirla per vedere se voleva tornare a stare con lei. Ma il suo sorriso si spense quando vide che il rapace preistorico non le veniva dietro: stava ferma dov’era.

«Oh…» sospirò, capendo la situazione.

«Sembra che ormai si sia abituata alla sua nuova routine. Be’, sono passati due anni» disse Laura, malinconica.

Il fattorino, profondamente imbarazzato, si grattò il collo con un’espressione colma di disagio:

«Ah, dannazione, adesso mi sento in colpa… che ne potevo sapere, io?»

Helena si fece passare meglio che poté il dispiacere e lo rassicurò con un cenno:

«No, figurati. Anzi, voglio davvero ringraziarti: grazie infinite per esserti preso cura di lei, ora mi sono tolta dalla coscienza un peso che mi rimaneva addosso da due anni! Sono contenta che abbia trovato un altro padrone che la sa gestire anche meglio di me»

Il fattorino si sentì sollevato:

«Ah, allora non c’è di che, alutidamjv

«E poi, dopo questo viaggio dovrò comunque lasciare ARK, quindi avrei dovuto dirle addio lo stesso. Continua a trattarla bene, per piacere! Sono molto affezionata ad Atena!»

«Ma certo, vedo molto bene che vi siete mancate. Farò del mio meglio»

«Grazie. Davvero, non so cos’altro dire… sono proprio contenta»

Dopo aver dato delle ultime carezze ad Atena e dopo averle concesso ancora di arruffarle la chioma, Helena tornò da Laura col viso di una persona in pace con se stessa e le disse che era il caso di tornare indietro, visto che ormai gli altri dovevano aver finito di organizzarsi ed erano pronti per cominciare il nuovo viaggio. Laura annuì sorridendo a sua volta, senza dire niente perché non voleva rovinarle il momento. Quindi si riavviarono verso l’avamposto osservate dal fattorino e dall’argentavis, ancora allegro per la visita a sorpresa di Helena.

«Oh, Atena… quanti ricordi, quanti voli che abbiamo fatto insieme…» mormorò lei, lungo la strada.

Nel frattempo, ritornando a pensare alla loro avventura, Laura gettò un rapido sguardo all’orizzonte annerito e incenerito dell’isola dei due vulcani: la loro prossima tappa era sicuramente ostica, da non sottovalutare. Come tutto l’arcipelago di ARK, in fondo. Erano pronti per tornare a rischiare la vita, per arrivare alla loro destinazione ultima…

“A noi, vulcano!” pensò Laura, per farsi coraggio.

   
 
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