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Autore: beavlar    23/08/2020    2 recensioni
Fili e Kili sono morti, hanno sacrificato tutto per il loro re, per la loro gente, ora anche Thorin dovrà rinunciare a tutto, ai suoi pregiudizi, alle sue idee, alle sue alleanze, per il suo "tesoro" e il suo popolo.
Dall'altra parte una mezz'elfa divisa tra due razze, dovrà invece fare i conti con il suo oscuro passato, accettando se stessa e accettando accanto a se il re di Erebor.
Due animi carichi di dolore e rimorsi, in cerca del loro posto al di sotto della Montagna e al di sopra delle stelle.
Genere: Fantasy, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Thorin Scudodiquercia
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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Il fabbro



 
 







 
 
 
 
Nella notte oscura un fabbro silenzioso coperto dalle tenebre si dirigeva verso la sua fucina; la calma che lo circondava era in contrasto con i nefasti pensieri che gli adombravano la mente già prima dell’inizio del suo lavoro al chiaro di una luna calante del freddo inverno.
 
Si sentiva stanco e vecchio, terribilmente, ma il sonno non l’avrebbe ghermito quella notte né nelle notti che sarebbero seguite, o quelle ancora a venire, fino a che nell’oscurità delle forge non avrebbe completato l’arduo lavoro che si era preposto.
Scalando montagne di roccia, imboccando gallerie, restando in equilibrio su fili di marmo, arrivò a quella che poteva esser definita una modesta bottega nelle quasi profondità della terra.
 
Il cuore infestato da dolci ricordi sanguinanti gli mossero le mani che accesero con pochi colpi esperti il fuoco nella forgia facendola ben presto ravvivare come le fiamme che bruciandolo da dentro aumentavano solo la sua determinazione.
Le mani divennero presto nere, come il carbone che usò per tracciare su un frammento di pergamena dei disegni fugaci che lo avrebbero aiutato a tenere in testa le forme che avrebbe dovuto riprodurre; il tozzo strideva sulla carta mentre le  dita nei suoi ripercorrevano un profilo ben più delicato e vivo di quello che avrebbe dovuto lavorare.
 
Si spogliò della sue vesti appendendole ai ganci affiliati che gli pendevano sulla testa colmi di ricchi utensili da lavoro, nel frattempo che le fiamme cominciarono a la scaldare l’aria rendendola pesante; avanzò verso le carrucole colme alla fine del muro e le studiò una aduna ripassando ogni pepita, ogni lastra, gettandole e cambiandole più volte non trovandone mai una adatta, fino a che uno scintillio non gli illuminò gli occhi e decreto l’inizio di quella lunga notte.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Non le fu facile togliersi di dosso il pensate vestito e la pelliccia calda che lo ricopriva lasciandoli cadere entrambi a terra, nel frattempo che il freddo intorno a lei le fece venire una leggera pelle d’oca e gli occhi lentamente le si abituavano all’oscurità che la circondava; non le fu facile così come non era stato facile scomparire tra le alte colonne del palazzo evitando di essere notata scendendo le ripide scale che l’avevano portata di nuovo dentro quella caverna.
 
Ormai anche in assenza di luce ne conosceva ogni singolo tratto, l’avrebbe potuta disegnare ad occhi chiusi se glielo avessero chiesto: sapeva quali gradini scendere, quali evitare, quando aggrapparsi alla roccia per non scivolare, quante stalattiti le pendevano sopra la testa quando raggiungeva il piazzale liscio e scivoloso infondo ad essa o quanto l’acqua potesse essere gelata sulla pelle e quanto potesse spingersi a largo senza avere la sensazione di esserne inghiottita.
Un luogo così familiare e cosi proprio che odio sentirsene così estranea in quel momento: ci si era rintanata così tante volte in quei mesi, a rimuginare, a schiarire i pensieri o anche a guardare quello spettacolo di luci che dopo tutti quei mesi riusciva ancora a toglierle il fiato, riportandola a leghe di distanza da quella montagna.
 
Si srotolò l’ultima treccia e con cautela posò l’ennesimo pendaglio argentato in cima al mucchio formato dal vestito e dal mantello adagiati accanto al muro roccioso lontani dall’acqua; rabbrividendo di un poco al contatto della pietra umida sotto i suoi pedi, avanzò a piccoli e incerti passi verso lo specchio d’acqua scura. Vi ci immerse dapprima la punta del piede rabbrividendo alla sensazione fredda e infine, stringendo i pugni fianchi e socchiudendo gli occhi, e cominciò lentamente a camminare: l’acqua le lambì velocemente i fianchi e lo stomaco salendo sempre di più’ fino alle spalle. La bocca le si trasmutò in una smorfia non appena l’acqua le bagnò la base del collo e chiudendo gli occhi gettò la testa all’indietro lasciandosi andare del tutto nell’acqua fredda della fonte di Erebor.
 
Il silenzio che la circondava divenne ancora più’ percettibile; riusciva a sentire solo il rumore dei suoi movimenti nell’acqua sempre più’ ovattati, così come il battito del cuore nelle orecchie sempre più’ lento; trattenne il fiato sott’acqua rimanendo immobile per un tempo esternamente lungo per qualunque altro nano ma non per lei: un tempo che negli anni in cui si era gettata tra le onde del oceano anche per ore, era riuscita ad  allungare sempre di più sulle rive o nelle grotte sotterranee delle miniere.
Ghìda aprì gli occhi osservando la cima della grotta da sotto l’acqua a malapena visibile e appena sentì l’aria mancarle riemerse con un piccolo saltello coprendosi il viso con le mani e allargando la bocca riprendendo rumorosamente aria di nuovo.
Si portò indietro i capelli con entrambe le mani e socchiudendo gli occhi si beò del silenzio che la circondava scandito solo delle singole gocce d’acqua che cadendo dalle stalattiti sopra di lei andavo increspavano la superficie  e lasciandosi cullare dall’acqua nella quale era immersa, tirandosi su sulle punte dei piedi che a malapena riuscivano a toccare la roccia sotto di lei.
 
Passò lo sguardo  maniera sfuggevole sul pelo dell’acqua fino a che non guardò sotto di se osservando il suo riflesso, illuminato solo dalla luce dell’unica torcia accesa nella caverna:  i capelli ora portati all’indietro le diedero la perfetta visione di ciò che indelebile le infestava la pelle del collo.
Con stizza mosse la mano alzandola da sotto l’acqua e andò a coprire il cerchio violaceo che dal giorno prima le marchiava, vergognandosi come una ladra, lasciando un’imprecazione sfuggirle dalle labbra, intimorita qualcuno l’avesse potuto vedere oltre lei.
Non era in grado di vederlo chiaramente ma dopo che si era ritrovata per lunghi minuti a osservarlo scioccata allo specchio la mattina ne conosceva il punto esatto e il colore, la forma, i denti che avevano lasciato piccoli segni rossi intorno ad esso. Lasciò scorrere la punta delle dita sul marchio scuro sentendolo bruciare e le passarono davanti delle emozioni così reali che le mozzarono il respiro: delle labbra che le baciavano il collo, una lingua che leccava la pelle, dei denti che la mordevano e la marchiavano, lacrime calde che le scendevano sul collo, un odore che aveva invaso le narici inebriandola; poi un bacio tanto appassionato da strapparle quel minimo di lucidità che le era rimasta e infine quello sguardo, la fronte del re sulla sua e un silenzio fatto di due parole non dette che l’avevano uccisa.
 
Thorin le aveva fatto ben capire che, lei non avrebbe avuto altro da lui se non quello e solo quello, un bacio e basta niente di più; lui non era capace a darle niente di più. Eppure quel marchio indelebile sul collo che da due giorni portava sulla propria la pelle riusciva attorcigliarle lo stomaco e renderla più sua di quanto non lo sia mai stata.
Socchiuse gli occhi al sol pensiero e lasciò un sospiro attraversarle le labbra vergognandosi  a morte per ciò che aveva detto. Lo aveva odiato ferocemente, era vero e questo non poteva negarlo, lo aveva disprezzato a tal punto in quel momento che le parole le erano uscite dalla bocca senza che ne avesse il controllo, era successo tutto troppo in fretta, e quelle parole le avevan ustionato la bocca non appena le aveva pronunciate.
Non era vero che non avrebbe mai voluto incontrarlo: lui, l’aveva resa libera, si sentiva libera seppur imprigionata in un patto, eppure lui le aveva dato la possibilità di scegliere, glielo aveva chiesto e lei non era stata in grado di rispondere, come non lo era adesso. La libertà che aveva sempre agognato, il poter fuggire, l’erba sotto i piedi, i bagni nei ruscelli cristallini, l’osservare la lune scendere e salire nel mezzo delle foreste silvane era stata solo un illusione: lei era stata resa libera di scegliere. Scegliere chi essere, cosa essere, lui le aveva fatto capire che aveva una scelta. In tutti quei mesi, lui le aveva dato una cosa che mai nessuno le aveva dato: una possibilità o le aveva dato così tanta sicurezza da poter crearsela la possibilità. E quella menzogna spinta dall’ira non aveva fatto altro che far crescere il suo senso di colpa. In pochi minuti era passata da urlargli addosso a supplicarlo di dirle la verità, di dimostrarle che lui non provasse nulla per lei, a desiderare di avere la pace e di mettere un pietra sopra ai suoi sogni, ma alla fine aveva solo avuto la certezza che Thorin era stato un bugiardo quanto lo era stata lei.
Quando si era chiesta se ci potesse essere di peggio rispetto al non essere amata a sua volta dal re di Erebor, la risposta gli era arrivata dolorosamente addosso: si c’era, c’era molto di peggio, sapere che quel sentimento appartenesse anche a lui, ma che non sarebbe mai riuscito a ricambiarla.
 
Alle sue spalle cominciarono a spuntare i primi raggi del tramonto che oltrepassando il piccolo foro sulla parete della grotta si infransero sulla superficie dell’acqua ripetendo lo stesso gioco di luci che accadeva ad ogni tramonto: centinaia di piccoli rivoli d’oro si illuminarono tutto intorno a lei, riflettendosi l’uno sull’altro e sul pelo dell’acqua rendendolo un meraviglioso universo stellato.
 
“Non ho il diritto di pretendere che voi mi rispondiate che la vostra casa sia Erebor, ne posso pretendere che lo diventi ma vorrei che la sentiate tale, per quanto sia in mio potere.”
 
 
Profonda come l’acqua in cui si trovava la voce di Thorin le tornò alle orecchie facendole mordere il labbro dal dolore che il solo ricordo le provocò e deturpando il suo riflesso con un’espressione talmente misera e dolorante che provò ribrezzò per se stessa e per ciò che provava.
 
“Maledetto.” Sussurrò sommessamente con voce spezzata sotto il peso di quei momenti.
 
Due piccoli cerchi concentrici tramutarono il suo riflesso e incresparono l’acqua ferma sotto il suo volto: disgustata da quelle lacrime con foga le raccolse strisciando i palmi sugli occhi e cercando di rimanere in se, anche se le risultò particolarmente difficile, soprattutto in quel posto e dopo aver sentito quelle parole nella testa.
 
Doveva andarsene, non poteva abbandonarsi di nuovo ai ricordi, e l’unico posto nella montagna che poteva portarla lontano da lui ora era diventato l’ennesimo posto che infestava: lui era la montagna stessa ormai e per quanto avesse provato a sfuggirgli, lui era ovunque, anche nel suo petto.
 
Ebbe bisogno di cancellare il proprio riflesso con un movimento rapido della mano prima che potesse ricomparirle davanti e fermarla nei suoi intendi e spinta da una paura irrazionale cominciò a nuotare di nuovo verso la riva; mosse le braccia di poco dandosi una leggera spinta con i piedi per allontanarsi da quel cielo stellato, ma appena ci provò accadde una cosa che non era mai successa, a cui lei non aveva ai fatto caso, oppure volutamente non vi aveva ai fatto caso: il suo sguardo venne attratto da un fascio di luce rossastra che singolarmente andò a illuminare un punto talmente remoto della caverna che sembrò trovarsi a leghe da lei.
Un breve luccichio più’ lontano degli altri, così immerso nel profondo della grotta e nell’oscurità della caverna che dovette assottigliare lo sguardo e muoversi di un paio di bracciate in avanti per rendersi conto che non era lo scintillio di una vena d’oro, o di una stalattite: le parve una lastra, così ben nascosta e così ben posta in profondità che seppur assottigliando lo sguardo più che potè riuscì  a malapena a scorgere i contorni illuminati.
Confusa e incuriosita mosse le gambe nella direzione opposta rispetto alla meta che si era prefissata dandosi una spinta per poter essere certa di ciò che aveva notato; si avvicinò di poco scostandosi sempre più’ il centro della fonte e muovendosi in avanti, ma appena lo fece il brillare svanì facendola bloccar in mezzo all’acqua interdetta.
 
Non poteva essersi volatilizzata così nel nulla, il fascio c’era, come tutti brillavano ancora, ma quello scintillio era svanito in un attimo.
Succedeva così anche a Elcar: appena vedeva qualcosa brillare sotto il pelo dell’acqua ne veniva irrimediabilmente  attirata spingendosi così in profondità da non avere quasi più fiato, e infine tutta la sua fatica si vanificava in un nonnulla o nel migliore dei casi in una conchiglia più grande delle altre.
 
Per un attimo l’idea che avesse preso un abbaglio, che si fosse confusa a causa del freddo la fece dubitare della veridicità di ciò che aveva visto e indietreggiò nuovamente nell’acqua ma un secondo scintillio la bloccò di nuovo e presa da un moto di curiosità sempre più’ crescente cominciò a nuotare in avanti tenendolo sguardo sempre fisso sulla lastra dorata: non voleva piu’ perderla di vista.
L’oscurità di fronte a lei cominciò pian piano a dilatarsi grazie ai raggi dorati che ormai al pieno del loro picco illuminavano la fonte e tutto d’un tratto dal profondo dell’oscurità nacque un enorme colonna di pietra, che come il tronco di un albero si innalzava verso il soffitto della grotta sorreggendo la montagna stessa, aprendosi poi verso il basso creando un piccolo isolotto informe in mezzo all’acqua.
 
Un’improvvisa stretta al petto la fece sobbalzare così come i piedi sotto di lei che non trovarono nulla a cui appoggiarsi seppur li mosse più che poté verso il basso; si voltò ed era come sospettava: si era allontanata e di molto, non avrebbe dovuto. Di poco riusciva a vedere la torcia in fondo alla parete e a malapena i vestiti ammucchiati sulla riva, se l’oscurità fosse a alta di nuovo sarebbe stato difficile e tremendamente faticoso tonare indietro. Si girò nuovamente nell’acqua fredda e lo scintillò sempre più nitido brillò più forte di prima invitandola proseguire ancora; sospirò profondamente, ormai anche il freddo pungente dell’acqua le rendeva diffide nuotare e, seppur avendo la sensazione che sarebbe stat un’idea che l’avrebbe fatta pentire amaramente, si mosse di un paio di bracciate continuando ad avanzare cauta nelle profondità della caverna.
Nuotò mantenendo la testa alta e fuori dall’acqua ma tenendo lo sguardo fisso di fronte a lei, fino a che non riuscì a dare una forma a quel luccichio e con suo stupore si accorse che quella che aveva davanti non era affatto una colonna.
 
Spalancò gli occhi incredula, le labbra seppur secche come la una gola diventarono bollenti tanto da farle diminuire il ritmo delle gambe che la tenevano a galla: un’immensa scultura nella roccia rappresentante un fabbro all’opera si mostrò davanti ai suoi occhi. Una mano alzata che tratteneva un gigantesco martello dorato pronto a colpire, l’altra mano che stringeva, sull’incudine di fronte a lui, una lastra d’oro grande almeno sei volte un nano adulto.
Dalle sue spalle nasceva la roccia stessa che sosteneva l’intera montagna, e così come quella di cui era fatta Erebor era di un verde quasi simile al blu: piccole linee dorate e bianche lo attraversavano da cima a fondo andando a fondersi un venature più ampie verso i muscoli delle braccia.
Di fronte a lui sette forme rocciose informi si alzavano dalla roccia, tutte rivolte verso a scultura del possente dio, verso il padre, verso il fabbro, verso Mahal, che con i suoi occhi di pietra le scrutava in maniera talmente austera che fremette quando passò lo sguardo sul suo viso scolpito con una tale precisione che le sembrò vivo.
Mai aveva visto una cosa del genere e mai si sarebbe aspettata di poterla vedere li, non dopo tutte le volte che vi aveva trovato rifugio e mai l’aveva notata. L’abilità dei nani aveva davvero superato qualsiasi cosa mai creata, eppure era stat posta là sotto, nascosta da qualsiasi occhio.
Anche se intimorita e sempre più’ infreddolita dall’acqua ghiacciata  si mosse ancora più vicino non riuscendo a staccare gli occhi dalla scultura imponente che la sovrastava almeno duecento volte; alzò le mani da sotto l’acqua e si avvinghiò con le dita alla roccia.
 
 
Con uno sforzò immane, si diede una spinta vero l’alto con le mani sulla pietra fredda e con un unico movimento riuscì a poggiare un ginocchio e da lì le fu facile fare leva e uscire dall’acqua salendo sul piccolo isolotto di roccia; si tenne in piedi riuscendo a mantenersi a malapena in equilibrio sulla pietra liscia e umida sotto di lei ciondolando per pochi attimi da una parte all’altra prima di riuscire a stare in piedi correttamente.
Per sorreggersi fu obbligata ad avvinghiarsi con entrambe le mani a una delle rocce che aveva visto da lontano; strinse i denti guardando verso il basso e seppur dopo i primi passi il terreno le sembrò essere piu’ stabile e si sentì abbastanza sicura da lasciarsi andare e cominciare a camminare tenendo le braccia larghe o a sfiorare le rocce intorno a lei con le dita già pronta se l’equilibrio l’avesse lasciata.
Alzò lo sguardo verso l’alto puntandolo di nuovo verso il fabbro che immenso non si era mosso; avanzò silenziosa sorpassando e girando intorno alle numerose rocce alte quanto lei avanzando verso l’immenso incudine scolpito infondo al piccolo isolotto e più camminava più lo stomaco le si attorcigliava su se stesso: il tutto era così strano.
Si mosse silenziosa verso l’incudine che la sovrastava: diverse rune vi ci giravano nutrono e le più importanti furono sette nomi ben distinti; non essendo neanche abbastanza alta da poterne toccare la sommità avanzò arrivata sotto di essa salendo pochi gradini scivolosi, in religioso silenzio, poggiò una mano sulla pietra fredda guardando Mahal dritto in volto.
Gli occhi di pietra che parevano scrutarle l’animo, tanto da farla rabbrividire di timore e abbassare ancora più il capo in riverenza decidendo di rimanere in silenzio non riuscendo neanche da far uscire dalla sua bocca una singola preghiera che in altri momenti le sarebbero uscite fuori a frotte.
Che senso avrebbe avuto, ne aveva gettate coì tanto che ormai se alcuno l’ avesse mai ascoltata ne poteva conoscere a memoria ogni frase: non erano mai cambiate, erano sempre le stesse, e anche se in quei mesi si era ritrovata ad aggiungerne altre e per altri oltre che per se stessa.
 
Aprì gli occhi e sfiorò a poco a poco la roccia fredda accarezzandola fino ad arrivare alla sua altezza dove alzando di poco lo sguardo poté riconoscere le rune del proprio clan: nervosamente si morse il labbro sfiorando le rune intrise di muschio viscido una ad una, e sussurrando tra le labbra il motto in nanico poggiò la mano sopra di esse coprendole del tutto prima di poggiarci la fronte in un gesto di riverenza che spesso. Troppo spesso le era stato negato, se non in modo esplicito a parole, suo padre le sottolineava sempre in ogni festa, in ogni occasione che quello non era il suo posto, con occhiate o sbuffi netti.
 
Sospirò profondamente facendo  un passo indietro aprendo di nuovo gli occhi allontanandosi e si voltò nuovamente verso la direzione verso cui era venuta e, nel voltasi, riuscì’ a vedere la parte esposta verso Mahal di tutte le rocce a cui si era aggrappata per arrivare fin lì e si rese conto che anche quelle non erano affatto delle rocce singole: incise nella pietra ruvida, i volti e i corpi di diversi nani nascevano dalla roccia grezza, i volti piegati i avanti in riverenza o tirati su in ammirazione, chi inchinato con l ginocchio, chi coperto di gemme scolpite o di armature da guerra
Scossa passò lo sguardo su tutte le sette sculture di fronte a se,, tutti volti diversi ma tutti estremamente simili l’uno all’altro, con al loro fianco scolpita e sfuggente nella roccia sempre una seconda figura femminile: chi la teneva sotto il proprio braccio, chi veniva invece sorretto da dietro, chi invece l’aveva addirittura stretta tra le braccia. Ma sempre ricavate da uno stesso pezzo di pietra: le madri era fuse con il nano a cui appartenevano, con cui erano state create, tutti risvegliati dopo che Mahal li aveva messi a dormire in attesa, ridestai ma mai separati.
Da sopra i pochi scalini riusciva a vederli tutti, riuscendo a scrutare i loro visi così come quelli delle sette madri uno per uno, tredici in tutto e di tutti e di dodici i nomi erano stati dimenticati, ma non di quello che in attesa era di fronte a tutti: guardava Mahal dritto in volto, i pugni stretti ai fianchi un ginocchio a malapena piegato in riverenza. Non dovette neanche pensare a chi appartenesse la scultura tanto spavalda da fronteggiare così Mahal, solo uno ne aveva diritto o il coraggio.
 
Il cuore le sprofondò nel petto appena posò lo guardo sul viso finemente intagliato, toppo preciso perfino per i nani, e il cuore cominciò a batterle così velocemente che trattenne il fiato; schiuse la bocca incredula avvicinandosi con lentezza verso la statua che avrebbe dovuto rappresentare il signore Durin, ma nella quale lei riuscì solo a vedere il volto del suo successore. Così simili nell’aspetto e nell’espressione che le medesime sensazioni che le avevano ghermito  la mente tornarono prepotenti verso i suoi occhi annebbiandogli.
I tratti austeri e rigidi come il suo sguardo puntato sempre verso l’alto, la barba ispida e quasi incolta che era raccolta al centro del mento che poi si fondeva con le trecce al lato della testa e del viso che si diramavano dai capelli lunghi e ribelli.
Avvicinò la mano al viso di pietra e le lacrime che per tanto aveva cercato di trattenere sembrarono ritornarle agli occhi piu’ violente di prima; sfiorò dapprima le labbra fredde e inespressive con la punta delle dita, impaurita che la statua potesse quasi muoversi o parlarle perfino, e poi eppur l’irrequietudine non l’abbandonava neanche per un attimo passò le dita sul viso, sfiorandogli la mascella, poi il naso e infine la poggio sulla sua guancia in un gesto che ormai le era diventato quasi naturale come respirare.
 
Come la storia voleva, lui non aveva nessuna nana accanto a e nessuna scultura che lo sosteneva o che lui steso sosteneva, era solo, e sarebbe sempre stato solo non era così?
 
Il cuore le sì gonfiò di tutte le parole che non era riuscita dire, dell’unica preghiera di cui pretendeva una risposta, gliela dovevano, tutti i Valar gliela dovevano, Thorin gliela doveva, una risposta la pretendeva anche se l’ultima che aveva avuto
L’intero corpo nudo le fremette dalla rabbia: se ne avesse avuto la forza avrebbe spaccato quella stessa roccia con e sue mani, frantumandola sotto le sue dita.
 
E infine la preghiera che non era riuscita a formulare guardando la scultura di Mahal o giacendo sotto di lui le investì la bocca e le labbra che si mossero da sole, non riuscendo a staccare gli occhi o la mano dal viso di Durin di fronte a se in cui non riuscì a vedere altro che non fosse Thorin: non seppe neanche a chi dei tre rivolse la sua preghiera ma uno dei tre doveva sentirla.
 
“Ci hai dato le gambe per camminare, la bocca per parlare, le mani per creare, gli occhi per vedere, e ci hai dato un cuore per amare, ma dimmi Mahal… perché fa così male?” La voce le vacillò e strette nella sua mano il volto di pietra gelata mordendosi il labbro tanto da sentire il sangue nella sua bocca.
“Perché hai lasciato che ci facesse così male?” Ripeté ancora alla  figura imponente a cui dava la schiena spostando le mani dalla mandibola verso il petto scoperto della statua all’altezza del cuore.
“Mi hai dato la vita, hai permesso che vivessi, hai instillato il sangue dei tuoi figli in me. Io sono stata zitta, ho aspettato anni, centinaia di anni in attesa che diventassi degna, degna di essere come tutti, è sempre stato il mio unico desiderio, la mia unica preghiera, che fossi guardata come una dei tuoi figli, che diventassi il capoclan che tutti volevano, che diventassi la nana che il mio clan voleva, e infine mi hai voluto dare la prova ed essere la loro regina, la regina del mio stesso popolo che mi guarda come un estranea, che diventassi la regina che loro volevano, che io volevo… e invece mi hai dato questo!” Scossa dalla rabbia batté il palmo che prima era fisso sul petto della statua con tale furia sulla roccia da farsi male e lasciare un gemito spezzato uscirle dalle labbra.
“Perché lui? Perché proprio lui?!” Urlò questa volta a pieni polmoni sbattendo nuovamente la mano sul petto di pietra fredda non versando alcuna lacrima ma riversando tutta la rabbia e l’angoscia che aveva trattenuto troppo a lungo.
“Perché? Perché? Perché?!” Ripete ancora e ancora sbattendo con sempre più’ forza la mano sulla pietra ferendosi i palmi tanto da farli sanguinare, aggiungendo a colpi ben scanditi anche l’altra mano ferendosela in egual misura stringendo gli occhi non volendo neanche vedere cosa stesse colpendo, non lo sapeva: nella sua testa stava colpendo il petto del nano che l’aveva portata in quell’oblio, in quello schifosissimo oblio.
 
Un colpo una domanda, un colpo un gemito di dolore, un colpo, una domanda, un colpo più forte un gemito ridondante nella grotta.
 
Sentì il tempo scorrere intorno a lei, e solo dopo lungo tempo si sentì stanca, incredibilmente e la frequenza dei suoi colpi andò irrimediabilmente a scemare, fino a che non li bloccò del tutto: sentì le mani bruciarle e farle improvvisamente male, sentì rivoli di sangue scenderle dai palmi macchiando la roccia di fronte a se e le rune all’inizio dei suoi polsi. Stremata fermò entrambe le mani doloranti e si lasciò andare svuotata con la fronte su quella della statua riaprendo lentamente gli occhi puntandoli in quelli di Durin che privi di vita continuavano a guardar Mahal dietro di lei.  
 
“Ti prego, padre… se me l’hai dato tu, ti prego, strappamelo, cavamelo dal petto o se proprio non puoi, ti prego… donamelo.” Supplicò con voce rotta dal dolore, inerme di fronte alla realtà che lei non poteva accettare, lei la decisione di Thorin non riusciva Ad accettarla , eppure doveva, doveva sottostare a quell’ordine, al suo volere, al suo re, perché prima di tutto Thorin era quello, il suo solo e unico, re.
 
Chiuse gli occhi, le mani scosse da spasmi dopo le ripetute botte che aveva assestato, eppure, ora che aveva bisogno di piangere, nessuna lacrima sembrò uscirle: erano finite. Si sforzò chiudendo gli occhi, strizzandoli, ma non uscì nulla, non riusciva neanche a versare una singola lacrima salata, benedetto il cielo, ora piangere era l’unica cosa che voleva fare, e ora che era sola e nessuno poteva sentirla non usciva neanche una goccia salata. Lo guardò negli occhi tentando un’ultima volta di lasciarsi andare, ma sentì solo un enorme vuoto: lui non era Thorin
 
I tratti della scultura di fronte a se cominciarono a diventare piu’ scuri: il suo tempo era scaduto, il tempo di lasciarsi andare a quelle emozioni contrastanti che avrebbe di nuovo seppellito, era finito: il tramonto stava calando e le stelle dorate che prima infestavano la grotta stavano diventando ben presto di nuovo semplici venature chiare nella pietra spegnendo la luce intorno a se facendo ricadere la grotta nel buio.
Seppur con riluttanza allontanò il viso dalla roccia, e le mani insanguinate dal suo petto, sfiorandolo ancora una volta lo sguardo prima di lanciare un’ultima occhiata dietro di lei carica di rammarico verso Mahal che ancora in silenzio la osservava, non donandole alcuna risposta.
 
Così infatti come ogni volta nessuno aveva risposto alle sue preghiere, nessun Valar vi avrebbe mai risposto probabilmente, nessuno la sentiva, perché sapeva che sempre e per sempre avrebbe occupato quel posto vuoto di fronte a Durin, lei sarebbe sempre stata quella forza invisibile che lo sorreggeva, ne nana ne elfa, una mezzosangue e questo Thorin era riuscito a farglielo dimenticare ma lo era sempre stata, lo sarebbe sempre stata. E come poteva una mezzosangue ambire a essere la regina dei nani, come aveva potuto un niente voler essere l’anima del figlio di Durin, come aveva potuto anche solo sperare di essere il capo del secondo clan più potente dei nani e regina della gente di Durin, come poteva avere la pretesa che Thorin potesse donare la metà di sé se già lei era a metà.
 
 
 
 
 
 
 


I colpi cadevano ritmati a una potenza sempre crescente, le piccole scintille rosse si andavano a infrangere sull’incudine e sulla pelle tirata delle mani; niente in quella forgia risuonava di piu’ del rumore del martello sull’incudine neanche i grugniti di fatica del fabbro che maneggiava con tale abilità quegli strumenti.
La lastra di ferro prima priva di vita cominciava ad averne una propria, venendo lavorata con una tale maestria che il grande Mahal nelle sue fucine sarebbe impallidito se avesse guardato nel fondo di quella montagna. Il ferro bollente venne rigirato piu’ volte tra le braci e altrettante volte immerso nel catino di acqua gelida per temprare l’acciaio sempre troppo delicato ma rigido come la costanza del nano che lo lavorava.
 
Le ore si susseguirono ininterrotte nel giallo calore delle forge, non prese neanche un attimo di riposo in quel lavoro meticoloso e preciso, ricco di forza, ricco di significato; gemette diverse volte di dolore a causa dei palmi feriti aperti per il troppo lavoro, o a causa delle nuove bruciature sulle braccia o sul petto scoperto.
I ganci degli attrezzi tintinnavano al suo passo rapido, il fuoco ardeva tutta l’aria intorno rendendola irrespirabile mentre i polmoni si tiravano sempre piu’ su in cerca d’aria al contrario degli occhi  che si abbassavano sempre di più verso il ferro argentato nelle sue mani.
Dalla forza sul metallo passò velocemente alla delicatezza del legno: ne ripassò tutte le rifiniture, il nero che si andava a intarsiare con le venature dorate; piccoli ricci e fiocchi invasero il pavimento e il tavolo da lavoro venendo poi gettati tra le fiamme della forgia pronta ad accogliere di nuovo in mezzo nel suo calore il lavoro ancora incompleto.
 
Il respiro del fabbro scemò ma la sua forza non diminuì: aumentò ogni istante dedito a quell’opera che gli sarebbe costato piu’ di quanto avesse mai immaginato e che gli avrebbe donato più di quanto si sarebbe mai immaginato.
 
 
 
 
 



“Lascia, me ne occupo io.”
 
La mano tatuata di Dìs fu veloce a interrompere il movimento di Dwalin che già pronto aveva afferrato le due tazze ormai vuote poste sul tavolo di fronte a loro iniziando già ad alzarsi per riporle a lavare: non era riuscito neanche a spostare la sedia indietro che la nana accanto a lui si era già prontamente alzata dalla sua anticipandolo ponendo le mani sulle sue già strette al bordo delle due stoviglie di legno e ferro.
 
Alzò un sopracciglio poco convinto ma un’occhiataccia severa e irremovibile proveniente da due pozzi azzurri e una stretta ferrea sulle sue dita artigliate alla coppia d’ oggetti gli spiegarono silenziosi che se avesse provato anche solo a dibattere gliele avrebbe strappate di mano: azione che sapevano entrambi sarebbe stata impossibile, ma che lei cocciuta avrebbe tentato comunque piuttosto che lasciar correre.
 
“Come volete principessa.” Sottolineo ironico sospirando.
 
Arrendendosi fu costretto ad annuire e a lasciare entrambe le tazze sfilando le dita da sotto le sue portandosi entrambe le braccia al petto sotto uno sguardo vincitore della nana che gli sorrise con il lato della bocca chinando la testa in avanti in un ringraziamento ironico.
 
“Meglio per te Dwalin figlio di Fundin.” Ribatté decisa sulla sua stessa scia di ironia utilizzando ironicamente quei titoli così abusati negli anni che ormai erano diventati solamente dei soprannomi ironici che usavano per il puro piacere di infastidirsi a vicenda.
 
Dwalin le fissò la schiena dritta e impostata mentre si allontanava dal tavolo e da lui facendo il giro del tavolo e dirigendosi verso il lavello della cucina incassato all’interno del muro di cui, da dove era seduto, ne aveva una perfetta visione; Dìs ruotò il piccolo rubinetto riempiendo la catinella sotto di sé prima di portare la treccia con un gesto della mano dalla spalla alla schiena e immergere quindi le due stoviglie che ancora teneva a penzoloni dai manici tra i tendini delle dita.
 
Un piccolo sospiro gli attraversò le labbra ripensando a quanto quei piccoli momenti con lei in quella manciata di giorni gli avessero dato una parvenza di normalità e un piccolo assaggio della quotidianità che in un'altra vita avrebbero potuto avere insieme. Non aveva mai preteso altro e non ne avrebbe mai preteso di piu’, quelle poche ore la mattina, in cui parlavano o si godevano il silenzio l’uno dell’latra seduti sul tavolaccio di legno della su cucina gli bastavano per colmare ogni anno nel quale non era riuscito a vivere in quel modo e quasi annullare l’anno in cui non l’aveva vista.
 
Da quella mattina, quando se l’era trovata sull’uscio della porta, l’inizio delle sue giornate era sempre quello: lei dava due botte sulla porta, lui si alzava dal letto e la lasciava entrare e poi passavo tutto il tempo che li divideva dagli obblighi del giorno a parlare di qualsiasi cosa, dal rimembrare vecchi momenti fino ad immaginarne dei nuovi. Alcune mattine Dìs aveva finito per piangergli sulla spalla lasciandosi andare a momenti che troppo vividi le tornavano alla mente e passavano lente come le lacrime che finivano per bagnargli tutta la cotta. Altre, come quella mattina, passavano in un battito di ciglia: entrava e prendeva pieno possesso della cucina, facendo a entrambi un thè caldo, senza neanche aspettare un suo assenso o un suo declino, neanche gli piaceva il thè, e poi finiva per discutere di tutto e di nulla, di quello che accadeva nel palazzo, di quello che scopriva ancora intatto dopo la venuta si Smaug, dei piccoli oggetti nella sua stanza che ritrovava e che era sicura di aver perduto.
 
Il colmo era stato per lui quando glia aveva confidato appena arrivata nei suoi appartamenti quella mattina di come avrebbe voluto partecipare ai preparativi per il banchetto della sera stessa, ma ormai era già tutto deciso: gli era sembrata perfino delusa.
Era da un paio di giorni che si comportava in quel modo, da quando da quello che gli aveva raccontato aveva discusso con Thorin evitando però di raccontagli i dettagli di ciò che fosse accaduto, così come il Re che però a differenza di sua sorella non aveva neanche minimamente accennato all’avvenimento: capì subito che quello che era accaduto era stato difficile da affrontare. Conosceva bene il carattere di entrambi e ciò che avevano passato tutti e due da sapere che sarebbe stato un segreto ben custodito che non gli sarebbe mai stato rivelato. Ma non gli interessava, non se il risultato era aver di aver riavuto, per quanto Durin gli avesse permesso, la parvenza della nana che amava liberandosi di quel involucro di distacco.
 
C’era infondo chi copriva il proprio dolore con un muro gelido, lei invece lo nascondeva con un sorriso e spesso si trovava a pensare quale fosse tra le due l’opzione peggiore.
 
Anche se i suoi sorrisi erano coperti da quella patina di tristezza perenne e venivano spesso deformati spegnandosi all’improvviso persa nei ricordi, e lui bastava che sapesse che ci sarebbe stato, sempre, nel suo dolore e nella sua gioia e che qualsiasi cosa la vita le avrebbe rivelato ancora, lui sarebbe rimasto lì ad aspettarla bussare alla sua porta.
 
Un tonfo nella bacinella gli fece alzare un sopracciglio incuriosito sporgendosi dallo schienale per osservare cosa lo avesse provocato e non riuscì a roteare gli occhi appena notò che oltre le due tazze Dìs aveva immerso dentro il catino anche le stoviglie abbandonate a se stesse sul ripiano accanto al lavello ancora sporche della cena che aveva consumato il giorno prima.
 
“Lo sai che posso farlo io piu’ tardi, non ho bisogno che tu lo faccia per me.” Appuntò con tono severo stringendo ancora di più le braccia al petto. “Non sono un ragazzino sperduto.”
 
Lei fu veloce ad azzittirlo alzando una delle mani dalla bacinella colma d’acqua calda.
 
 “Dwalin figlio di Fundin taci, sono stata servita abbastanza da quando sono qui sono ancora in grado di lavare qualche stoviglia.” Sottolineò con una punta d’acidità continuando imperterrita a lavare con cura il piatto sotto di se, per poi poggiarlo sul piccolo ripiano libero accanto ad asciugare.
 
Dwalin non riuscì a non trattenere una piccola risatina sicuro che se si fosse anche solo avvicinato per darle una mano gli avrebbe con molta probabilità rotto il piatto sulla nuca. “Decenni di abitudini sono difficili da cancellare.”
 
“Un secolo lo è ancor di piu’, non sono in grado di stare con le mani in mano, mi reca troppo malessere.” Specificò poggiando l’ultima stoviglia a scolare accanto a se per poi allungarsi verso l’alto in punta di piedi per afferrare uno dei vari tracci che pendeva dalla mensola sopra la sua testa.  “Soprattutto quando sono io ad arrecare disturbo in casa di qualcun’ altro.” Aggiunse con voce strozzata tirandosi con l’addome e allungando il braccio per afferrare il panno troppo in alto per lei ma che con un piccolo saltello riuscì ad afferrare immediatamente
 
“Non lo fai… non l’hai mai fatto.” Si lasciò sfuggire tra le labbra addolcendo lo sguardo non riuscendo a non imporsi di osservare ogni suo piccolo gesto: con gli anni aveva imparato che era del tutto inutile, per quanto ci provasse, i suoi occhi cercavano sempre i suoi e quando accadeva che si incontrassero si dimenticava di tutto e il corpo finiva sempre per agire per conto suo.
 
Dìs si girò so se stessa passandoci lo straccio tra le dita e intorno ai palmi e alzando un sopracciglio divertita dalla sua affermazione gli puntò un dito addosso. “Questo lo dici solo perché sei sempre stato tu l’ospite a casa nostra.” Tenne a sottolineargli prima di portarsi le mani ai fianchi. “Quale disturbo potevo arrecare nella mia stessa cucina o seduta di fronte al mio stesso camino.”
 
“O anche addormentandoti sul tuo stesso tappeto.” Le resse il gioco ridacchiando a sua volta verso la piega che stava prendo la discussione.
 
“Certamente anche quello!” Alzò gli occhi al cielo Dìs teatralmente sorpresa e battendosi una mano sulla fronte come se si fosse appena ricordata un’informazione di vitale importanza. “Perché dormire in un soffice letto in una stanza libera quando mi posso addormentare tra un boccale di birra e un re dei nani.”
 
Scosse la testa anche solo al ricordo di quell’avvenimento alquanto bizzarro abbassando poi lo sguardo quasi imbarazzato di fronte al ricordo che era riuscita a tirare fuori. “Ero riuscito a trasportare tuo fratello in una taverna e siamo tornati all’alba con Thorin che non riusciva neanche a mettere un piede di fronte all’altro imprecando contro se stesso per avere esagerato e io a malapena mi ero reso conto di aver rubato quel boccale e di essermelo trasportato fino a casa vostra.” La corresse portando una gamba sopra il tavolo e incrociandosi sopra l’altra lasciandosi andare ancora meglio allo schienale della sedia. “Ed è successo solo una volta.”
 
Dìs gli si avvinò con ancora le braccia sui fianchi lanciandogli un’occhiata omicida verso le gambe.
 
“Però è successo.” Appuntò e con la punta del dito gli spinse giù le gambe dal tavolo: piu’ che una spinta fu un leggero invito a cui dovette sottostare anche se lievemente spazientito.  Non aveva mai avuto nessuno che lo controllasse, soprattutto a casa sua, e soprattutto per cose di così poco conto ma l’accortezza di quel gesto gli scaldò il petto e distendere i muscoli delle braccia.
 
“E abbi un minimo di rispetto per i mobili, soprattutto quelli di casa tua dove mangi.” Gli sottolineò ancora passando velocemente lo straccio ancora tra le sua mani verso il tavolo ormai sgombro se non per la candela in mezzo a questo e passando il panno umido perfino sotto dove aveva poggiato i piedi lui sino a poco prima facendolo sbuffare irrequieto: era un principessa, aveva vissuto nel lusso per tutta la sua gioventù eppure delle volte non sembrava ricordarselo, forse perché più di tutti era consapevole che molte cose facevano parte di una vita che non le apparteneva più.
 
“A proposito…” Mormorò Dìs tra se e se continuando a fissare il tavolino finendo di passare lo straccio su tutta la superficie. “Ti devo ringraziare per non aver rivelato a Thorin delle mie visite qui.” Ammise bloccando per un istante le mani alzando il volto verso il suo riconoscente: le labbra rosate inclinate in un fugace sorriso. “Gli ho riferito che ho… parlato con te, ma non ha reagito come mi sarei immaginata.”
 
Dwalin scosse la testa per non farla preoccupare ulteriormente. ”Non c’era motivo di riferirglielo e sei comunque protetta in queste stanze e le tue decisioni vanno rispettate per quanto sia re…” La osservò di sottecchi.  “Ti ha detto qualcosa?” Le chiese non riuscendo a far trasparire un filo di preoccupazione nel tono della voce.
 
Non che Dwalin avesse paura di un suo rimprovero o che lei potesse essere in qualche modo rimproverata da Thorin ma la discussione tra loro due era capitata lo stesso giorno di quella assurda situazione all’interno della sala del consiglio in cui lo aveva visto comportarsi in quella maniera che ancora gli ottenebrava i pensieri.
Mai gli era capitato di vederlo in quello stato e mai si sarebbe immaginato che si sarebbe rivolto alla mezz’elfa in quel modo, non dopo quello che era riuscito a farsi rivelare, non dopo che aveva visto come le aveva baciato la fronte tenendola stretta sul suo ventre per alleviarle il dolore, e neanche dopo che aveva appreso che aveva passato tutte le notti a vegliare su di lei ancora priva di sensi. Da un giorno all’altro però tutto era finito, non la nominava piu’, non si recava piu’ da lei, la minima informazione che chiedeva erano mormorate a mezza bocca e non parevano interessarlo minimamente. E infine il giorno prima era avvenuta quella discussione e la cosa a turbarlo profondamente non fu il suo tono sprezzante, le sue risposte a malapena pronunciate, fu che di fronte a un evidenza palese che lei gli aveva sottoposto, lui fosse rimasto impassibile: sapeva che l’aveva ascoltata, sapeva che Thorin aveva capito ciò che gli aveva detto e sapeva che avrebbe reagito a quelle sue supposizioni, ma non l’aveva neanche mai una volta guardata in viso.
Ma infine quando tutti vi erano rientrati prendendo di nuovo i loro posti l’ordine era stato chiaro e netto, a dire la verità una serie di ordini arrivarono chiari e netti: Esgarot, i Colli Ferrosi, i restanti clan, Elcar, sarebbero tutti stati avvertiti della possibilità più che certa che gli orchi non erano venuti da Moria e Thorin pretese un ennesimo corvo sopra la foresta, e che ogni confine intorno ad essa fosse controllato a vista. Quello che accade lo stupì e non poco, così come il dubbio su ciò che fosse accaduto a porte chiuse  da far cambiare idea a Thorin così repentinamente, se mai avesse davvero cambiato idea.
 
La mezz’elfa era uscita tenendo lo sguardo basso ignorando perfino Bofur che assurdamente aveva tentato di fermarla, ma lei infine era schizzata su verso le stanze reali: i ciuffi e le trecce castane che le avevano coperto in maniera approssimativa il viso arrossato e scosso che fu però ben visibile a tutti, perfino a lui e in maniera incontrollabile quella volta se ne rattristò, più di quando avesse dovuto.
Quando Balin era uscito dalla stanza e aveva fatto a tutti cenno ad entrare di nuovo nella sala del consiglio, pareva che tutto fosse tornato alla normalità, Thorin era rimasto silenzioso ma era come se quello che fosse accaduto pochi minuti prima non fosse mai successo, eppure lo sguardo che suo fratello aveva lanciato di piu’ volte fino alla fine del consiglio verso Thorin, gli fece capire che Balin sapeva e quello che sapeva era talmente grave che non ne fece parole neanche con lui.
 
E se era quindi talmente grave, non avrebbe influito solo su Thorin stesso, ma anche su tutto quello che gli era intorno e sua sorella faceva inevitabilmente parte di quel tutto.
 
Dìs scosse la testa velocemente facendo oscillare il piccolo cristallo blu sulla sua fronte, bloccando qualsiasi supposizione alleggerendogli di poco il petto; la nana sospirò profondamente prima di sedersi di nuovo accanto a lui passandosi nervosamente il panno ancora umido tra le mani, mostrandosi profondamente irrequieta e questo però non fece che aumentare di nuovo le preoccupazioni da poco svanite.
 
“E’ quello che non mi ha detto che mi ha sorpreso.” Mormorò fissandosi le mani che non riuscivano a fermarsi, sempre più nervose.
 
Spiazzato dall’uso di quelle parole Dwalin tirò su leggermente la testa dalla sedia capendo di aver assunto un’aria confusa di fronte agli occhi di Dìs non appena quest’ultima quando sospirò pronta a spiegarsi in modo più specifico bloccando entrambe le mani.
 
“In altri tempi la prima cosa che mi avrebbe rinfacciato sarebbe stato il perché non ne avessi parlato prima con lui, sul perché ora sono qui e non nella sala del trono con lui.”
 
Dwalin annuì discostando lo sguardo da Dìs posandolo verso la fiamma della candela che li divideva, sapendo quanto fosse vero ciò che avesse detto: fin troppo vero e lei forse neanche ne era a conoscenza. “E’ cambiato, molto.”
 
La nana di fronte a lui scosse la testa sorridendo verso il basso con il lato della bocca, bloccando finalmente le mani che ora erano bagnate quanto il passo stretto nei suoi palmi. “No, non molto, siamo solo noi che lo conosciamo troppo bene. E’ quando nessuno lo guarda che è diverso.”
 
Dwalin si adombrò di colpo di fronte a una simile verità.  “Lo siamo tutti cambiati in qualche modo, dopo tutto quello che è successo, nessun nano sarebbe rimasto lo stesso, benché meno lui.” Le parole gli faticarono a uscire bloccandosi all’altezza della sua gola, fermate dalla paura di aver inavvertitamente riaperto una ferita sanguinante.
 
Alzò per conferma lo sguardo verso Dìs che invece continuava a tenere lo sguardo basso, sembrò essersi spenta di colpo. Il senso di colpa lo inghiottì, il cuor comincio a martellargli nel petto e avendo la certezza che fosse solo colpa sua aprì la bocca, ma alcune parole furono più’ veloci delle sue.
 
“Come è lei?” Mormorò la nana alzando lo sguardo verso il suo bloccandolo sul posto prima che potesse alzarsi.
 
Dwalin credette di aver capito male, infatti i suoi occhi in quelli cristallini di Dìs, che però non azzardavano neanche a una piega, anzi lo guardavano con un tale sicurezza che lo spaventò quasi: quella semplice domanda lo scosse profondamente facendolo rizzare involontariamente sulla sedia. La principessa non ebbe bisogno di specificare a chi si riferisse, lo sapevano bene entrambi eppur per un attimo Dwalin si ritrovò a sperare di aver seriamente compreso male le sue parole.
 
Dalla bocca di Dìs uscì un sospiro divertito di fronte al suo silenzio .“Sembri stupito dalla domanda.” Commentò con una punta di ironia osservandolo quasi divertita di fronte al suo viso crucciato.
 
Dwalin dovette ponderare le parole da usare, ma tutte le parole che non poté dirle si riversarono sul suo corpo, facendolo diventare più rigido di quanto già non fosse: scrollò le spalle scaricando la tensione che cominciava a percepire nei muscoli di fronte a quell’argomento ormai diventato spinoso da trattare per fino con altri che non fossero Thorin.
 
“Non mi hai mai chiesto della mezz’elfa, mai, neanche una volta.” Si morse interno della bocca nervoso quando pronuncio quel nomignolo: anche per lui infine era diventato difficile da proferire. “Sono solo incuriosito dalla domanda.”
 
“Vorrei che mi raccontassi di lei.” Ribatte asciutta, fin troppo forse.
 
“Non credo di dover essere io a raccontarti di lei, dovresti chiedere a tuo fratello.” Ribatté a sua volta, non riuscendo però a nascondere un leggero dubbio di fronte a quelle domande insistenti, difatti a quel punto accadde una cosa che Dwalin non si seppe spiegare: Dìs alzò le spalle noncurante, come se improvvisamente quel discorso non la riguardasse minimamente tirando su la schiena sulla sedia e alzando il mento regalmente.
 
 
“E’ la futura regina, non che futura moglie del Re Sotto la Montagna, dovrò pur essere informata su qualcosa sul suo conto.” Rispose con distacco celando per quanto più poté la verità su quella domanda è sul perché glie l’avesse posta, ma fu più arduo del previsto: Dwalin non le rendeva mai nulla semplice, la sapeva leggere come un libro aperto di cui conosceva a memoria ogni pagina.
 
Difatti i due occhi verdi la scrutarono attenti: le spalle di Dwalin si strinsero e seppur adagiato non curante sullo schienale della sedia, sapeva che aveva intuito qualcosa.
 
“Perché lo stai chiedendo a me?” Le chiese assottigliando leggermente lo sguardo oltre le sopracciglia nere.
 
“Lo sto chiedendo a te perché tu li hai visti entrambi per mesi, conosci Thorin, e non sei solo una voce in mezzo a un mercato nelle profondità della montagna o un canzone fuori da un taverna.” Rispose tentando di rimanere netta così come aveva cominciato il discorso, ma ancora una volta non fu facile.
 
Dwalin scosse la testa avvicinandosi verso il tavolo sciogliendo le braccia al petto e posandole entrambe sul tavolo chinandosi verso di lei cercando il suo sguardo giudicatore: si sentì quasi offesa da quello sguardo che solo lui dopo tutti quegli anni osava lanciarle ancora.
 
“No, tu lo stai chiedendo a me perché non ne hai parlato con Thorin e non hai parlato ancora con lei non è così?” Dìs poté percepire un leggero rimprovero nascosto sotto quelle parole e in parte senti di meritarlo, cento e cento volte; si sentì avvampare dalla vergogna e facendo cadere quella farsa abbassò lo sguardo verso le sue mani, incapace di reggere lo sguardo freddo del nano di fronte a lei venendo così maldestramente colta in flagrante.
 
Sentì un sospiro pesante e poi una mano tatuata due volte più’ grande della sua le si posò sul dorso della mano inghiottendola e fermando così il suo movimento nevoso intorno allo straccio lurido e umido. Si insinuò con le dita sotto il suo palmo calmando i battiti nervosi nel suo petto all’istante, ma non le sue domande che come tarli ormai le avevano scavato nella testa infestandola.
 
“Dìs?” Insistette il nano di fronte al suo silenzio e al suo sguardo schivo, stringendole  con ancora più’ decisione la mano tentando di spingere a parlare.
 
Arresa alzò di nuovo lo sguardo verso il suo ricambiando di poco la stratta poderosa, facendosi forza su di essa decise di dar sono ai suoi dubbi e alle sue incertezze. “Lei prova qualcosa per lui oltre la lealtà che si deve a un re?” Gli chiese senza indugio.
 
Dwalin sembrò scosso da quella domanda; gli occhi verdi sussultarono, distolse lo sguardo posandolo nuovamente verso il tavolo di legno sotto di loro.
 
Era il turno di Dwalin del sentirsi colpevole.
 
Come aveva poggiato la mano sopra quella fredda di Dìs la ritirò verso di se ormai incerto e deciso a non rivelare oltre, cosa gli avesse rivelato Thorin ormai fermamente convinto che Dìs fosse arrivata a quella conclusione per causa sua.
“Perché me lo chiedi?” Chiese portandosi sulla difensiva incrociando di nuovo le braccia al petto mentre le mani di Dìs si andarono a stringere di nuovo nervosamente verso il panno nelle sue mani.
 
“Perché lui tiene a lei, non è vero?”
 
“E’ la sua futura moglie e regina è normale che lui te-“
 
“Dwalin…” Lo bloccò velocemente rimproverandolo con lo sguardo “Sai a cosa mi riferisco, sai cosa intendo con le mie parole, sarò anche stata via per mesi da voi ma non sono una sciocca, non trattarmi come se lo fossi.” La bocca del nano di fronte a lei si chiuse in una linea dritta distogliendo lo sguardo severo dal suo verso il lato della cucina colpevole.
 
“Lui tiene veramente a lei?” Gli chiese ancora Dìs addolcendo il tono della voce tanto da far crollar tutte le sue difese e con esse anche la corazza che lei abile era capace di attraverso con uno sguardo più dolce del solito distruggendola.
 
Le lanciò un’occhiata fugace distogliendo lo sguardo dalla dispensa di legno scuro accanto a loro. “E’ attaccato a lei, questo è un fatto ormai conosciuto, non sto violando nessun giuramento a dirti questo, né da capitano, né da amico.” Replico velocemente osservandola di sfuggita non appena un sorriso triste le comparve sul viso e annuì con la testa rassegnata.
 
“Non lo avevo mai visto così, è stata la prima volta dopo decenni che l’ho sentito pregare a voce alta. L’ho visto tenere tra le braccia così tanti soldati, l’ho visto tornare a Dunland con Frerin tra le braccia, l’ho visto mentre…” Le parole le si bloccarono nella bocca ripensando a quei momenti sotto le cripte e una morsa ferrea le strinse il petto rendendole incapace perfino di continuare a parlare. Butto giù il groppo in gola e ricaccio indietro le lacrime che come tutte le volte minacciavano di uscirle, cercando per quanto più le fu possibile di continuare i suoi pensieri che ormai avevano preso pieno sfogo.
 
“Quello sguardo…non avrei mai creduto di poterlo vedere sul suo viso Dwalin, e non avrei  mai voluto vederlo sul suo viso.” Si libero infine da quel peso con un leggero mormorio sussurrato tra le labbra, osservandosi le mani tatuate, e infine con un gesto ormai involontario portò con lentezza una mano verso la collana che non si toglieva mai, stingendo il piccolo pendaglio che pesante le ricadeva in mezzo ai seni cercando un appiglio. “Ma quello che ha fatto lei, mi ha lasciato incredula. Lui si è aggrappato a lei per farla rimanere lei si è aggrappata a lui per non andarsene ma lo ha fatto con una tale devozione che…”
 
“Ti ha spaventato.” La anticipò Dwalin sospirando arreso: il suo sguardo fisso verso il suo petto e sulla sua mano appesa alla collana che distolse puntandolo di nuovo vero il tavolo  non appena una fitta gli oltrepasso lo stomaco incapace di reggere quel gesto verso quell’oggetto che Dìs teneva sempre addosso.
 
Dìs annuì abbassando lo sguardo verso la mano ben salda intorno al piccolo getto cilindrico inciso di rune quasi impercettibili alla vista. “Ho avuto paura, una paura tale che mai avrei voluto sentire ancora Dwalin, e la cosa assurda è che l’ho sentita io per lui. Dovrebbero esser i fratelli maggiori a raccogliere i pezzi, ma infine sono sempre io che lo faccio.”
 
Dwalin sgranò gli occhi non appena la voce le si incrinò di colpo in mezzo alla frase e lì capì davvero che c’era qualcosa che stava cercando di dirgli da lunghi minuti in quella discussione, ma ci stava girando intorno indugiando. Decise quindi di porle per l’ennesima volta quella domanda, in un ultimo disperato tentativo di tirarle fuori tutto quello che ancora tratteneva e non poté fare la scelta piu’ giusta perché la nana non aspettava altro che quello.
 
“Dìs” La richiamò facendole alzare lo sguardo dal tavolo ma non facendola muovere di un centimetro. “Perché non hai ancora parlato con lei?”
 
“Sai come ho scoperto del matrimonio?” Gli chiese spiazzandolo abbassando di nuovo lo sguardo verso il piccolo oggetto che si girò a rigirò tra le mani accarezzandone con le dita le incisioni. “Il corvo da Balin non ha fatto in tempo ad arrivare che già tutta Nogrod ne stava parlando: quando poi si sente la stessa voce da un centinaio di nani, diventa più’ di una voce, diventa verità io ho dubitato perfino che lo fosse, ho sperato fino all’ultimo che non fosse vero.” Esalò continuando a non guardarlo.
 
Colpevole Dwalin di fronte a quelle parole abbassò lo sguardo ancor di più’: i sentimenti di Dìs non erano diversi da quelli che aveva provato lui, e anzi lui lo aveva vissuto, lui era lì in quei giorni, durante quella decisione e per settimane aveva sperato che Thorin cambiasse idea, ciò che lei era, era sbagliato, tutte quelle sue assurde decisioni erano sbagliate. Ma dopo quello che aveva sentito nella Sala del Trono dalla bocca di Telkar e quello che aveva visto fare a Thorin, avevano cambiato tutto: perfino la stirpe della mezz’elfa era per lui passata in secondo piano.  
 
“Quello che lei è, quello che le scorre nelle vene, quando l’ho vist-“
 
“Non era per il suo sangue o per la sua discendenza, non è mai stato per quello.” Lo interruppe velocemente:  forse era l’unica nella Terra di Mezzo a non curarsene minimamente, seppur lo scandalo fosse ormai diventato palese. Molti nani non avevano neanche tentato di nascondere il loro malcontento e il loro disprezzo, perfino quelli più fedeli e più vicini a Thorin, ma non lei, a lei non interessava della su futura moglie. “Io non ho disprezzato lei, io ho disprezzato Thorin profondamente, come mai mi era capitato in vita mia.” Ammise interrompendo le sue mani intorno alla collana e prendendo un enorme respiro tremante alzando gli occhi verso Dwalin colpevole. “Lui stava per avere tutto quello che io avevo perso: un regno, una moglie, dei…” Si interruppe di colpo e gli occhi si cominciarono a inumidire di nuovo  di fronte a quella visione. “Dei figli, tutto con il sacrificio dei miei, tutto quando ancora il sangue di Fili e Kili bagnava il terreno, non riuscivo ad accettare la su decisione, neanche sapendo che sarebbe stata una cosa inevitabile, un suo dovere: non mi importava.” La voce consumata dalla vergogna le divenne via via sempre più’ flebile, ma Dwalin continuava ad ascoltarla con la bocca semi spalancata: mai si era mostrata a lui così, mai avrebbe voluto mostrargli quella parte di se che aveva scoperto di possedere in quei pochi mesi eppure, come aveva detto, tutti erano cambiati, anche lei.
 
“Mi chiedi perché non ho parlato con lei? Perché alla fine l’ho odiata, li ho odiati in una maniera che mi ha fatto vergognare di me stessa, ho perfino desiderato che lui perdesse tutto, tutto ciò che aveva ottenuto, l’Arkengemma,, il trono, la montagna… compresa lei.” Sussurrò le ultime parole, ma Dwalin le sentì comunque stringendo i denti in un misto di collera di fronte quelle frasi riversate verso il suo migliore amico, ma di profonda comprensione verso la donna che amava: una silenziosa battaglia che lo fece rimanere in silenzio ad ascoltare. “Ma poi li ho visti tra la neve intrinsechi di sangue, mi è bastato vedere Thorin che stringesse al petto una completa sconosciuta, come la cullasse tra le braccia, per sapere di chi si trattasse e mi ci è voluto ancora meno per sentirmi putrida e avvizzita.” Si fermò raccogliendo finalmente con la mano una singola lacrima che stava per sfuggirle dalle ciglia nere riprendendo fiato da quella terribile confessione. “Avevo così desiderato quel momento, che lui soffrisse in quel modo al mio stesso modo, che quando l’ho visto accadere di fronte ai miei occhi, avrei dato la vita per non fargli rivivere il mio stesso dolore. Quindi sì ho avuto paura.”
 
Quando, dopo giorni di fuga, aveva visto arrivare quella ragazza, come l’aveva vista agguerrita rischiare la vita per lei e quando poi aveva visto come suo fratello l’aveva raccolta dalla neve, come l’aveva guardata, come l’aveva tenuta tra le braccia, come l’aveva stretta al suo petto supplicando Durin come una nenia e come poi lei lo aveva stretto a se trasformò velocemente l’odio in una muta tristezza. Il vedere Thorin riverso in una corsa disperata e il sentire le voci su entrambi appena arrivata ad Erebor, l’avevano ancora più bloccata impedendole di voler sapere più di lei, perché per quanto sarebbe stato inevitabile, per quanto poi sarebbe stat costretta a guardarla in volto un’altra volta, lei ora aveva tra le mani lo spirito di Thorin e le era bastato guardarlo in volto per capirlo, un volto così diverso da come lo ricordava.  
 
“Lei lo ama non è vero?” Sussurrò infine.
 
Dwalin ancora scosso per le parole che aveva sentito aprì e chiuse la bocca più volte, non avendo la capacità di risponderle, non avendo mai avuto ulteriori conferme, ma la mezz’elfa a differenza di Thorin sembrava brillare quando era accanto a lui, non aveva occhi o gesti che non fossero per lui e anche se incerta la risposta gli parve palese.  
 
“Se hai osservato lui, hai osservato anche lei, non ti serve una mia risposta ce l’hai già.” Rispose arreso.
 
Dìs annuì verso il basso non avendo bisogno di ulteriori conferme, ma ora le serviva quella più’ importante, quella che in realtà più la spaventava e più voleva sapere.
 
“Thorin invece è innamorato di lei?” Sussurrò ma alle orecchie di Dwalin arrivò come un urlo.
 
Lui a quella domanda non aveva una risposta: immaginare che Thorin provasse un simile sentimento per la mezz’elfa era per lui quasi inconcepibile, eppure, nel modo in cui la guardava, nel modo in cui ne parlava, nel modo in cui vedeva come annebbiava i suoi pensieri quando Ghìda entrava nella stanza, gli sembrava di potersi vedere all’esterno. Gli passò sulla schiena un brivido freddo  al solo pensiero stringendo tra le mani il tavolo di legno e le immagini di Dìs e Vili gli tornarono alla mente, così come tutto quello che aveva sopportato lui, tutto quello che ancora stava sopportando lui e pensò a quello che quei pensieri gli riportavano alla mente riversato su Thorin e tutto cominciò ad avere un senso.
 
Spostò lo sguardo verso Dìs, ancora in attesa di una sua risposta: era febbrile ma anche preoccupata allo stesso tempo, gli occhi azzurri non riuscivano neanche a rimanere fermi sul suo viso studiando irrequieta tutto il suo volto. Il viso come quello che lo fissava quando era una ragazzina, ormai solcato dalle rughe, dagli anni passati, le ciocche bianche che le scendevano sulla fronte e sulla peluria della mandibola, il pendaglio che ormai slegato da anni dai capelli portava sul petto che ancora stringeva nella mano, gli anni che le avevano scavato il corpo e l’anima, dei quali lui non aveva fatto parte.
 
Socchiuse gli occhi quando sentì il suo cuore spezzarsi un’ennesima volta.
 
“Non lo so…”
 
A interrompere quella pesante situazione furono due battiti netti sulla porta e, a suo malgrado, Dwalin si ritrovò ad espirare sollevato: mai come in quel momento fu grato di essere interrotto e che quindi anche i suoi pensieri poco piacevoli venissero interrotti.
 
Dìs, come ridestata da un momento di debolezza, si tirò su a sedere sciogliendo le mani dal ciondolo e si strofinò con le mani le guance arrossate ricomponendosi da quel momento condividendo i pensieri di Dwalin: certi discorsi seppur dovessero venir affrontati, aprivano ferite che dovevano rimanere chiuse e che di fronte al nano avrebbero solo fatto uscire più sangue di quanto lei potesse permettersi.
 
Gli lanciò un’occhiata di assenso annuendo nervosa e il nano si diede una spinta con le mani sul bordo del tavolo facendo strusciare la sedia per terra in un suono sordo alzandosi e cominciando a camminare a passi sofferti e pesanti verso la porta di legno massiccio al margine opposto della stanza.
 
Appena Dwalin abbassò la maniglia non ebbe neanche in tempo di aprire un piccolo spiraglio che riuscì a intravedere e a  riconoscere immediatamente la figura seppur seminascosta di fronte alla sua porta; con la consueta toga rossa e la lunga barba bianca biforcuta di Balin si fece largo nello spiraglio che aveva aperto, così come il suo volto che si affacciò verso la porta socchiusa guardandolo con un sorriso nervoso. Un sospiro attraversò le labbra di Dwalin ben sicuro che non sarebbe stata una chiacchierata di qualche attimo e lanciò una breve e fugace occhiata dietro di se verso la cucina a malapena visibile e verso Dìs che si era alzata cominciando a sistemarsi l’abito e la lunga treccia di nuovo sulla spalla.
 
Voltò di nuovo lo guardo verso suo fratello abbassando di poco la testa. “Balin.” Lo salutò sbrigativo poggiandosi allo stipite della porta con l’avambraccio e tenendo la porta con la mano libera cercando di celare agli occhi di suo fratello la figura che si aggirava dentro casa sua, sapendo benissimo che tipo di domande sarebbero seguite e non volendo sopportare le sue occhiate rattristate che  sempre gli lanciava non appena lui e Dìs si trovavano da soli in una stanza.
 
“Fratello… ho, ho bisogno parlare con te.” Il tono calmo andò in netto contrasto con i suoi occhi che si spostavano irrequieti abbassando poi la testa verso il pavimento: solo in quel momento Dwalin notò un movimento nervoso delle sue mani dietro la schiena di Balin seguito da un breve silenzio pensieroso. “Riguarda…Oh principessa Dìs, non sapevo ti trovassi qui!” Esclamò suo fratello alzando lo sguardo oltre la sua spalla cancellando immediatamente dal suo viso quello sguardo cupo e sostituendolo con il suo solito sorriso cordiale e un profondo inchino.
 
Dwalin girò a malapena la testa di lato, scorgendo Dìs dietro di se, affacciata a sua volta dallo spiraglio libero dalla quale lui stesso era affacciato.   “Balin è sempre un piacere vederti.” Annuì sorridendo di rimando a suo fratello e facendogli un breve inchino con la testa . “Temo però che sia tempo per me di andarmene in ogni caso e di lasciarvi ai vostri affari, sedete al tavolo del consiglio ora dopotutto.” Gli sorrise affabile, e con quelle poche parole Dwalin intuì che in un modo o nell’altro il loro discorso sarebbe continuato, ma molto lontano nel tempo.
 
“Ragazza, sai che non devi andartene per causa mia.”
 
Dìs bloccò le sue parole con una scollata di testa e un movimento fugace della mano seguito da uno sbuffo divertito. “Ero passata solo per uno scambio di parole, niente che non possa essere trattato in seguito.” Mentì nascondendo abilmente tutto quello che si erano scambiati lei e Dwalin scoccandogli un’occhiata di intesa che Dwalin comprendendola ricambiò annuendo verso il basso. A piccoli passi si mise di fianco oltrepassando il piccolo spazio che le spalle larghe di Dwalin le concedevano per poter attraversare la soglia senza spostarlo in alcun modo ma osandogli una mano sulla parte bassa della schiena per farsi leggermente da leva.
 
“E poi è  tardi ho delle faccende da sbrigare, mi ero quasi dimenticata che la vita palazzo fosse così costellata di impegni!” Oltrepassò l’uscito e lasciandogli andare la camicia si affiancò a Balin alzandosi il vestito blu con le mani. “Come avete fatto ad andare avanti senza di me è un mistero! Questa montagna è quasi alla rovina!” Esclamò scrollando di poco le spalle e acuendo la voce sottolineando quelle parole.
 
Dwalin riuscì a percepire la risata forzata che e uscì dalle labbra a quella piccola frase, e con molta probabilità anche suo fratello che abbassò la testa annuendo tristemente.
 
“Se lo stanno chiedendo in molti principessa.” Mormorò Balin posandole , grato di veder scomparire qual sorriso forzato e di farlo diventare per qualche attimo uno di quelli luminosi che inondavano quei saloni molti anni addietro.
 
“Non ne ho alcun dubbio mastro Balin.” Rispose stringendo con la mano il braccio piegato dietro la schiena  di Balin in una stretta affettuosa e abbassandosi alla sua stessa altezza schioccandogli un bacio filiale sul lato della tempia, facendo arrossire suo fratello dalla fronte fino al naso acumino.
 
Dwalin si ritrovò a sorridere tra se e se abbassando lo sguardo di fronte a quella piccola scena familiare che gli liberò il petto dalle cattive sensazioni di pochi attimi prima; Dìs parve accorgersene perché gli donò uno sguardo talmente amorevole che per poco non sentì le ginocchia tremare e cedere, uno sguardo che mai era riuscito a cogliere, non da lei.
 
Li salutò entrambi piegando in avanti la testa e sfilando la mano dalla stretta di Balin si allontanò di un paio di passi proseguendo dritta verso i corridoi da cui solo a molte ore da lì l’avrebbe rivista ricomparire.
 
“A stasera principessa.” Si disse nella testa osservandole la schiena.
 
Ogni passo che lei compì allontanandosi da lui, come ogni volta fu un pugno nel petto, una tortura alla quale dovette sottostare inerme come ogni mattina,  ma di cui se ne beò totalmente non staccando mai lo sguardo da lei fino a che anche l’ultimo lembo della gonna scura non spari oltre il marmo verde del muro.
 
Balin non poté non notare lo scambio di sguardi che si lanciarono suo fratello e la principessa e ancora di più’ non poté non notare lo sguardo di  Dwalin indugiare sulla sua figura mentre questa scompariva  lontano oltre gli altri appartamenti dei membri del consiglio. Non riuscì a non reprimere un sorriso triste: quanti anni aveva visto suo fratello così e quante volte gli aveva retto il gioco ignorandolo o facendo finta che non sapesse, ma dopo che erano cresciuti sotto i loro occhi, era difficile non sapere cosa legasse suo fratello alla nana ed era anche difficile non sapere che questa non avrebbe mai potuto dargli ciò che lui cercava. Si domandò infatti se quelle visite non fossero piu’ un male che un bene, e il vedere le condizioni fisiche in cui riversava Dwalin in quel momento avrebbero potuto creare un enorme malinteso, e la camicia sbottonata di suo fratello gliene diede ancora più la conferma.
 
Dwalin abbassò lo sguardo verso Balin non appena Dìs svoltò l’angolo del corridoio, imbroccando la strada verso le stanze superiori del palazzo, e riuscì a notare i suoi occhi  squadrarlo dalla testa ai piedi indugiando sulla comincia scura arrotolata fino agli avambracci e trasandata, e riuscì anche a catturare quello sguardo che aveva sperato di non incrociare.
 
Suo fratello non mancava mai di dimostrargli che lui spesse e rimproverarlo anche per questo.
 
“Non guardarmi così.” Lo ammonì seriamente, non riuscendo a non nascondere il disagio che gli procurava quell’espressione di pena misto a tristezza che gli annebbiava il viso.
 
Balin scrollò le spalle volutamente non curante. “Oh se pensi ti stia guardando in maniera differente allora deve essere proprio così fratello.”
 
Dwalin non riuscì a trattenere un grugnito parecchio infastidito, piu’ dalle parole di suo fratello e dal suo tono volutamente ingenuo. “È così.” Asserì serio e sbuffando, ormai senza alcun motivo di lascarlo indugiar al di fuori della sua porta, si scostò dallo stipite  per lasciarlo entrare ed entrò nuovamente in casa prevedendolo e dandogli le spalle lasciandolo agli oneri di servirsi da solo.
 
Un silenzioso invito che però Balin non si lasciò ripetere due volte, seguendo il fratello dentro gli appartamenti che negli anni di Erebor Dwalin aveva a Malpensa occupato,  e non riuscì a non dire di essere stato stupito nel notare l’ordine in cui riversavano e i suoi pensieri volarono verso la nana che aveva lasciato alle prima luci dell’alba quel posto, e continuò ancora a pensare che tutto ciò avrebbe creato un grosso malinteso.
 
“Cosa è accaduto? Ci sono stati problemi all’interno o all’esterno del palazzo?” Gli chiese Dwalin sbrigativo avvicinandosi verso il focolare al centro della stanza ancora ben accesso e alla sedia accanto a questo afferrando la cotta di maglia poggiata sullo schienale.
 
Sentì suo fratello sospirare alle sue spalle nel frattempo che si passo la cotta oltre le spalle facendola ricadere pesante sol petto , prima di allungarsi e di cominciare ad indossare anche la cotta in pelle e ferro grezzo.
 
“Nessuno dei due.” Negò, Balin, il tono preoccupato  facendolo un attimo bloccare nell’allacciare le cinghie e tendere le orecchie mentre i passi di Balin si fecero piu’ vicini alla sua schiena. “Devi leggere questa.” Mormorò e prima che potesse chiedere a cosa si riferisse da dietro le sue spalle comparì la mano di Balin che gli sventò al lato della testa un messaggio dei corvi ripiegato su se stesso con il sigillo reale del clan dei Nerachiave in mezzo ad esso già spaccato a metà.
 
Serrò la mascella nervosamente non appena riconobbe il sigillo, mentre una miriade di momenti si susseguirono nella sua testa, nessuno dei quali piacevoli; squadrò il quadrato piegato di pergamena per qualche attimo prima di afferrarlo con una mano interrompendo di allacciarsi il gilet verde scuro e passandoselo tra le mani senza aprirla.
 
“Quando è arrivata? Sia il sigillo che la carta sono recenti.” Chiese sussurrando a mezza bocca facendo trasparir nel tremolio della voce la sua irrequietudine: non era sicuro di voler sapere.
 
Balin si schiarì la voce lasciandosi andare a sedere sulla sdia di fronte al fuoco ormai libera da qualsiasi oggetto sospirando pesantemente sia di piacere di poter poggiare la vecchia schiena sia per tentare di calmare i respiri sempre più’ irrequieti. “Poche ore fa, nel cuore della notte, è la prima dopo mesi. Non che mi sarei aspettato altrimenti, di tutti i messaggi questo è il primo a cui ha risposto e non so se rallegrarmene fratello.” Mormorò a sua volta di riposta spostando lo sguardo dalle fiamme dietro di Dwalin.
 
Suo fratello annuì guardando interdetto la lettera tra le mani e poi  cominciò a tirare ogni piega aprendo la lettera e cominciò  a leggere il figlio colmo di rune, talmente calcate di inchiostro nero che speravano il foglio rendendole pienamente leggibili anche da dietro e dalla sedia coperta di pellicce su cui era seduto.
 
Gli occhi sempre più’ confusi si muovevano su ogni parola e su ogni linea di testo, sgranandoli sempre di più in confusione ogni qual volta risaliva a delle righe piu’ in alto: aveva avuto la stessa espressione quando ne aveva letto il contenuto, anzi lui si era piegato su se stesso invocando il perdono verso qualsiasi entità si divertisse a giocare con il dolore celato dentro Thorin o se è per questo, anche verso la ragazza.
 
“Thorin non l’ha letta?” Gli chiese a bruciapelo, senza staccare gli occhi dalla pergamena giallastra, mentre i suoi occhi schizzavano su ogni parola studiandola piu’ volte.
 
Balin scosse la testa abbassando lo sguardo verso i guanti di pelle, tirandosene le dita nervosamente. “No fratello, tu sei il primo dopo di me.”
 
“E perché la stai facendo leggere prima a me e poi a lui?” Gli chiese ancora, questa volta serio, terribilmente serio, la voce dura ce mai lo aveva rimproverato del fratello minore che lo fece vergognare di se stesso.
 
L’unica domanda a cui non poteva rispondergli gli fu posta infine: quello sguardo, quella paura, quella rabbia e quella decisione scellerata che si era ritrovato a bloccare di sua spontanea volontà rischiando tutto solo per salvare Thorin da se stesso gli si stava rivoltando contro. Tutto si stava rivoltando contro quello che il ragazzo provava, e quelle poche parole avrebbero decretato la parola fine a tutti i suoi dubbi e le sue paure, oppure ne avrebbero solamente alimentato di nuovo le fiamme rendendo perfino per Dwalin impossibile da bloccare la decisione che avrebbe probabilmente preso.
 
“Perché ho bisogno che sia tu a dargliela o almeno che sia tu a dirgli ciò che c’è scritto.” Esalò, la voce intrinseca di angoscia che si andò sempre più’ a spegnere in un sussurro a malapena udibile.
 
Con un movimento del mento di indicò nuovamente la lettera tra le mani facendo oscillare la lunga barba bianca  tenendo sempre lo sguardo puntato verso terra. “Presta attenzione all’ultima parte, infondo, dopo la parte sugli accordi sugli zaffiri e sugli smeraldi.”
 
Dwalin abbassò nuovamente lo sguardo ancora più’ confuso  verso il paragrafo staccato del testo, talmente vicino al sigillo del clan e alla firma del signore dei nani che non vi ci era ancora arrivato, talmente però scritta scandita e calcata che fu impossibile per lui non incollarci gli occhi e poi spalancare gli occhi esterrefatto.
Strinse il foglio tra le mani, la carta si piego su se stessa dando sfogo a quel misto di confusione e angoscia che gli invase il petto: di tutte le cose che potevano accadere quella doveva essere per forza stata architettata, l’ultima domanda di Dìs gli risuonò in testa prepotentemente, così come la mancanza di una parte fondamentale in quella lettera, un informazione che non era stata data al signore dei nani dei Monti Gialli, un dettaglio di cui sarebbe dovuto essere a conoscenza ma che avrebbe cambiato tutto, e difatti quel dettaglio non c’era.
 
Per Durin Thorin, stupido bastardo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
L’acqua nera friccicò appena il metallo incandescente ne colpì la sua superfice: centinaia di schizzi si sparsero tutto intorno al secchio, i muscoli tesi e guizzanti del braccio si sciolsero e si freddarono con la stessa lentezza dell’acciaio ancora caldo nella tinozza.
Le ore passavano lente e inesorabili per il fabbro, piu’ la notte diventava profonda piu’ la lama che gli pendeva sopra la testa diventava sempre piu’ pericolosa  piu’ il ferro ormai pronto ci avrebbe messo a freddarsi per l’ultima volta meno tempo avrebbe avuto per completare il lavoro.
 
Quando l’ultimo schizzo tocco terra fu il momento di tirare fuori l’acciaio e con un gesto netto ne osservò ancora le linee che era riuscito a dargli, ne seguì ogni curva: seppur non ancora lucido sembrava splendere come una gemma già così, bagnato solo dall’acqua e sporco di cenere. Oltrepassò la fucina e avanzò verso il tavolo scuro al limitare di questa e con sicurezza poggiò il suo lavoro su di esso e poi spostò la sua attenzione verso l’oggetto di legno accanto a lui, passandoselo piu’ volte nel palmo e stringendolo piu’ e piu’ volte prima di far combaciare le due parti l’una nell’altra.
Osservandolo dall’alto mille e mille più pensieri gli vennero alla mente ma non diede filo a nessuno di questi, seguendo solo la sua vista e la mano che accarezzò l’operato dall’inizio alla fine con la punta delle dita.
 
Altri piccoli ciuffi di metallo presto si andarono a unire a quelli di legno che dalla notte prima giacevano ancora sul tavolaccio: un intaglio, un respiro, un intaglio, un respiro, un intaglio, un ennesimo respiro piu’ lungo degli altri, così come un intaglio più lungo e più fino degli altri che attraversò tutta la lunghezza del frutto delle sue ore insonni. Ne seguirono altri, sempre più piccoli, sempre più fini e intrinseci di significato, alcuni duri come la pietra, altri fini come i rami di un albero primaverile, me ognuno di loro andò a scavargli anche nel petto.
 
A lavoro finito studiò ogni piccolo disegno con la punta delle dita prima di far splendere l’acciaio nell’aria densa delle fornaci sopra la sua testa, muovendolo a destra e a sinistra, ruotano il polso su se stesso; e così come arrivò l’ultima alba arrivo anche il tempo di fare ciò che andava fatto.
 
 
 
 
 
 
 


Il corpo di Thorin veniva scosso dagli spasmi dei muscoli ancora tesi , i capelli seppur raccolti alti gli cadevano disordinati sul viso bagnato così come tutto il suo corpo: poteva benissimo sentire delle gocce di sudore oltrepassargli il collo fino a scendergli in mezzo al petto nudo, prima di svanire a loro volta. Lo sbuffare delle forge intorno a lui ormai andava a ritmo con i suoi respiri, il rossore delle fornaci incandescenti e dei bracieri incastonati nella roccia illuminava le fucine ma inevitabilmente sprigionava un calore insopportabile nel quale ormai era rinchiuso da ore. Si passò l’avambraccio sulla fronte per arrestare il sudore e pulirsi un minimo ma fece peggio sporcandosi ancora di piu’ e non riuscendo neanche così ad arrestare le contrazioni dei muscoli, si lasciò andare con la schiena nuda sul muro gelato dietro di lui sciogliendo con un movimento secco i capelli dal laccio di cuoio che ancora li teneva legati.
 
Chiuse gli occhi lasciando un sospiro di sollievo attraversargli le labbra appena la roccia fredda gli creò un brivido freddo che gli attraversò tutta la schiena insediandosi fino al collo e sulla nuca. Come il ferro che aveva battuto fino a poco prima anche lui si indurì di nuovo e il battito nel petto cominciò a decelerare: inevitabilmente cominciò a sentire il peso della due notti passate lì sotto e delle poche ore di sonno che si donava da due giorni a quella parte. Ma avrebbe patito anche piu’ di due notti in quello stato se questo avesse significato fare ammenda per tutto ciò che aveva fatto: avrebbe passato tutta la vita insonne se avesse potuto cancellare quel suo ennesimo errore, quella sua ennesima debolezza.
Se quel corvo fosse partito, se quando fosse arrivato a quella porta Balin gli avesse detto che ormai era troppo tardi, non era riusciva neanche a immaginare cosa sarebbe stato capace di fare e il peggio è che sarebbe derivato tutto da una sua scelta: dalla sua piu’ totale sicurezza di voler abbandonare il suo futuro alla cenere, nel quale si era ritrovato ad annaspare per recuperarlo, per rendere quella piccola visione che era riuscito ad intravedere di nuovo una realtà nella sua vita.
Le ultime parole che Ghìda gli aveva rivolto erano state molto chiare e definitive: per quanto i suoi sentimenti verso di lui potessero essere ugualmente brucianti ai propri, sapeva che lo pensava sul serio, perché anche lui si era ritrovato pensarlo. Se non si fossero mai incontrati, tutto ciò non sarebbe mai accaduto, ma se lui non l’avesse mai incontrata, forse ora, non sarebbe neanche dentro quella Montagna o se lo fosse stato sarebbe incatenato in una sala oscura a logorarsi attimo dopo attimo in un oblio dal quale non sarebbe più voluto uscire.
Ma come erano veritiere le parole di Ghìda lo erano state anche quelle di sua sorella: se l’avesse lasciata andare, se ne sarebbe pentito per sempre, se lei fosse morta prima del tempo l’avrebbe pianta per sempre, ma era arrivato alla conclusione che era meglio vivere sapendo di aver dato tutto che perdere sapendo di non aver voluto neanche tentare. Nel suo futuro c’era morte e dolore come nel suo passato, ma c’era anche la vita, la sua vita, la loro vita e per quanto potesse poi essere lunga o breve l’avrebbe vissuta, ogni singolo attimo.
 
Il primo vociare della mattina cominciava a farsi sentire e i primi fabbri cominciarono a varcare le grandi arcate infondo alle fucine, seguiti dai minatori che con carrucole di legno e grandi casse che prima di discendere nelle profondità della terra, riempivano di nuovo le innumerevoli casse e cisterne di legno, le quali da piene il giorno prima di qualsiasi tipo di minerale e gemma, si erano ridotte un fondo vuoto ma dubitava che quel giorno sarebbero state svuotate. L’intera montagna era occupata in ben altri preparativi e il solo pensarci gli fece tornare in mente una sedia vuota e tutto ciò che avrebbe comportato vederla di nuovo vuota e che cosa avrebbe comportato se questa volta  Durin non gli avesse concesso la grazia di vederla oltrepassare quelle colonne.
 
Riaprì lentamente gli occhi incatenando lo sguardo sul tavolaccio ruvido di fronte a lui nella fucina, verso l’ oggetto avvolto totalmente nel telo blu grezzo: se avesse snodato il nodo dorato che tratteneva quel telo e guardato il suo lavoro ormai compiuto, avrebbe certamente  finito per dubitare di se stesso e di ciò che aveva fatto. Ne avrebbe controllato ancora ogni singolo centimetro, passandoci sopra il dito, valutando, ponderando, soppesandone i difetti a malapena percepibili da chiunque.
 
Ma era stupenda, forse la cosa piu’ bella che avesse mai forgiato in vita sua.
 
Accanto ad essa c’era invece una spada, malandata, storta e mai completata, talmente piccola per il suo braccio che sarebbe potuta essere per lui solo un pugnale molto lungo: un sospiro di nostalgia gli attraversò le labbra ripensando alla prima volta che l’aveva vista giacere sull’incudine accanto a lui e il biglietto allegata a questa.
Si staccò dal muro avvicinandosi verso il tavolo e poggiò i pugni su questo, osservandole entrambi i lavori, uno accanto all’altro; studio di nuovo la spada che Ghìda aveva forgiato il primo giorno in cui era scesa con lui in quelle fucine: era così personale, così sua, che per quanto avessero poi il giorno dopo concordato che fosse un completo disastro non era riuscito a disfarsene.
Non era perfetta, affatto, ma infine l’aveva tenuta in un angolo al sicuro, un gesto talmente stucchevole che aveva finito per celarla dietro la sua postazione da lavoro, tra i vari lavori da finire, in maniera che potesse essere l’unico a poterlo guardare non osservato da altri occhi nelle fucine. Ne era diventato quasi geloso, ma in quelle ore notturne l’aveva tirata fuori puntandoci spesso gli occhi, come se fosse una silenziosa compagnia.
Alzò lo sguardo dal tavolo quando  si rese conto che il vociare a malapena scandito delle prime ore della mattina nelle fucine era diventato un parlottare ininterrotto sempre più’ alto e che il rumore dei martelli sulle incudini raro ormai avevano preso un ritmo scandito e le piccole forge intorno alla sua erano ormai quasi tutte occupate da nani indaffarati che a differenza sua avevano appena cominciato a lavorare.
Le fucine che prendevano vita divennero in quelle mattine un segno per lui che era arrivato il momento di doversene andare e che con molta probabilità: vista la quantità sempre più’ crescente di nani che arrivava a passi pesanti, arrivò alla conclusione che quella mattina si era forse attardato sin troppo.
 
Con quello che negli anni era ormai un movimento automatico afferrò la prima pezza pulita che gli capito a tiro, una poggiata malamente sul piccolo muretto della fucina, e la passò sul retro del collo e la base del petto asciugando gli ultimi residui di sudore che scendevano ripidi sui muscoli. Se lo passò poi tra le mani strofinandole vigorosamente tentando di togliere per quanto piu’ possibile  i residui di pece ancora attaccati alla carne delle sue mani: anche se la sua idea era quella di buttarsi nell’acqua gelata appena salito nelle sue stanze, voleva evitare in qualsiasi modo di poter rovinare il fagotto blu che si sarebbe portato dietro. Fu quindi meticoloso passandola anche sugli avambracci e infine la poggiò nuovamente sul tavolo prima di allungare una mano sopra la sua testa afferrando da uno dei vari ganci che pendevano sul soffitto di pietra la camicia scura che si era tolto appena sceso a lavorare la notte precedente. Se la infilò non preoccupandosi neanche di allacciarla fino alla fine del colletto smuovendosi di un poco i capelli umidi e attaccati alla fronte con una mano afferrando poi saldamente il fagotto lungo e rigido nella propria mano prima di uscire dalla sua postazione segando di lasciarsi dieto anche tutti i pesi neri che lo affliggevano, almeno fino alla sera.
 
Thorin oltrepassò con grandi falcate l’intera lunghezza delle fucine, passando sotto lo sguardo incuriosito di diversi nani che al suo passaggio chinarono la testa in avanti o si facevano da parte abbassando lo sguardo, seppur poi questo si spostava seguendolo curiosi: non era la prima volta che il re si attardava nelle fucine, e non sarebbe stata neanche l’ultima, ma non per questo, la sua presenza lì in quelle ore mattutine destava sempre diverse domande soprattutto da quando la presenza femminile che spesso ormai lo accompagnava era scomparsa.
Insieme alle domande infatti nacquero anche numerose silenziose preoccupazioni.
 
Come gli sguardi non smisero di seguire Thorin nelle fucine, non smisero neanche quando ne uscì, nemmeno quando ne oltrepassò la porta andando contro il fiume di barbe che si riversava nelle calde sale: in particolare modo due occhi verdi, vispi lo osservarono di sottecchi, e il nano a cui appartenevano sembrò l’unico stupito nel vederlo uscire da quelle sale sorridendo sommessamente sotto i lunghi baffi neri.
Dwalin se ne stava poggiato sul muro accanto sull’uscio dell’entrata, le braccia incrociate, un piede attaccato al muro, osservando chi entrasse nelle fucine ma con ancora piu’ apprensione chi ne usciva: apreì un occhio ancor socchiuso non appena notò che Thorin stesso ne era uscito, non muovendo però un muscolo aspettando che lui gli dicesse qualcosa.
 
Thorin tentò di ignorarlo e passargli oltre affrettando il passo e tenendo la testa bassa: non era in vena di chiacchere complice la stanchezza che cominciava a farsi sentire e il sapere perfettamente quale fosse la probabile ragione per la quale Dwalin si trovasse si trovasse lì sotto ad aspettarlo. Sapeva che in ogni caso non lo avrebbe lasciato in pace, infatti la sua voce risuonò dura per tutto il corridoio arrivandogli alle orecchie ben scandita facendolo bloccare.
 
 “Assicurami che non hai passato la notte lì dentro.”
 
Gli lanciò un’occhiata gelida bloccando il passo invitandolo a rimanere in silenzio e  senza aggiungere nulla di più gli passò oltre ricominciando a camminare con passo stanco e trascinato: sentì gli occhi gli occhi dell’amico scrutarlo mentre gli passava di fronte ma ciò non interruppe il suo passo, ma fece partire quello di Dwalin che in pochi attimi si andò ad aggiungere al rumore del suo che alternandosi rimbombarono per tutto l’atrio.
 
Dwalin non accennava a una parola lo seguiva solo attentamente forse aspettando o un suo ordine o una sua sfuriata o che di colpo cominciasse a parlare, ma piu’ rimaneva in silenzio piu’ la situazione lo fece irritare ancora di piu’.
 
“Credo che la domanda sul come tu mi abbia trovato sia del tutto inutile” Commentò ironico continuando a camminare lungo l’immenso corridoio d’entrata ormai colmo di nuovo di nani:  il fiume di stagnai, fabbri e orafi non fece che aumentare ogni minuto che passava così come le occhiate curiose o di riverenza, che si fecero solo più frequenti quando superò l’arco squadrato uscendo finalmente dall’area delle forge e delle miniere entrando all’interno del regno e verso il gioco di scale e corridoi ormai colmi dai lavori della mattina, risuonati di voci e grida pulsanti.
 
Dwalin accelerò il passo affiancandosi a Thorin che imperterrito continuava per la sua strada schivando a sua volta i nani che incontrarono di fronte a loro appena si avviarono lungo le ampie gradinate che risalivano dal basso delle fucine verso le sale più alte della montagna e inevitabilmente che si sarebbero sciolte nei corridoi del palazzo.
 
“Dopo la seconda volta che non ti rechi nelle tue stanze a dormire è un obbligo delle guardie reali avvertirmi su dove tu ti trovi, soprattutto se ti vedono tornare la mattina tarda sporco di cenere e catrame.” Volle specificare lanciando un’occhiata di sbieco accanto a lui: il viso di Thorin era solcato da lunghe strisce di cenere, gli occhi azzurri sottolineati da lievi occhiaie scure erano puntati di fronte a lui inespressivi. “Ma tu questo lo sai e sai che sarei arrivato prima o poi.”
 
Thorin lo guardò di sbieco mormorando qualcosa che non fu capace di comprendere ma poi scosse la testa come a cancellare ciò che avesse sussurrato tra se e se. “Non riesco a dormire la notte e se vengo qui lo faccio solo per tenere la mente occupata.” Gli rispose secco accelerando il passo per le scale, sperando di chiudere lì la conversazione anticipando una probabile domanda sul perché lo facesse ma non fu come aveva sperato: Dwalin accelerò il passo a sua volta portandosi ancora al suo fianco allungando perfino le falcate a due a due per raggiungerlo.
 
“E’ il fatto che tu abbia tenuto a sottolineare che sia solo per quello che mi fa sempre piu’ credere che non sia affatto per quello.” Replicò Dwalin insistente sapendo perfettamente che gli stesse mentendo, sapendo perfino ormai ciò che sognava e Thorin si maledì interiormente per ciò che era riuscito a far trasparire: odiava essere giudicato controllato per delle sue scelte. “Sempre gli stessi incubi?”
 
Thorin non rispose nulla contraendo la mascella, i suoi occhi i rimanevano fermi di fronte a se studiando velocemente ogni espressione che si parava di fronte al loro cammino, risalendo i corridoi ormai affollati: ormai i suoi incubi avevano invaso anche la realtà, ma questo non glielo avrebbe mai rivelato, così come i suoi sogni, che così reali per pochi attimi lo erano diventati sul serio.
 
Dwalin lo seguì senza batter ciglio, non pretendeva che gli rispondesse, non aveva mai avuto bisogno che lo facesse, le sue erano domande di circostanza, perché Thorin sapeva bene quanto fosse un libro aperto per lui: da quando lo conosceva poteva sapere cosa pensava solo da uno sguardo, ma la situazione, come aveva detto Dìs, era diversa, ora non aveva idea di cosa stesse passando e il suo mutismo non aiutava.
Varcarono insieme le scale che da lì a poco si sarebbero snodate verso le Gallerie dei Re; per quelli che furono dei brevi momenti Dwalin fu costretto per la quantità di nani che incrociavano la loro strada a stargli dietro costeggiando insieme a lui la lunga ringhiera dorata sulla loro destra e fu solo in quel momento che ebbe modo di guardargli la schiena e le mani, soprattutto quella destra che era rimasta coperta alla sua vista.
Nel suo palmo stringeva un oggetto insolito, racchiuso da un telo blu scuro, chiuso con attenzione da un laccio di cuoio nero: dalla forma e da come lo tratteneva nel palmo non gli ci volle molto a capire cosa celasse l’involucro ma ciò non fece che far aggiungere altre questi nella sua testa.
 
“Cos’è quello?” Gli chiese puntando con il mento lo strano involucro di continuando a camminare dietro di lui: la nuca di Thorin si spostò in basso osservando a cosa si riferisse.
 
“Un qualcosa che mi ero ripromesso di finire entro questa sera.” Mormorò asciutto di risposta, quasi tra se e se, facendolo inevitabilmente incuriosire ancora di piu’: Thorin la strinse ancora piu’ a se portandosela vicino al fianco quasi protettivo e possessivo, celandogliene una parte alla vista.
 
“Uno svago?”
 
“Se sei venuto a cercarmi fin laggiù a quest’ora suppongo che il tuo motivo non sia solo accertarti se io abbia dormito nelle mie stanze o cosa tenga nelle mie mani.” Replicò interrompendo il discorso toccato sul punto vivo. Bloccò il passo in mezzo al percorso dei gradini spazientito e puntò i piedi per terra lanciando un’occhiata ghiacciata oltre la sua spalla verso Dwalin ancora dietro di se.
 
“No infatti.” A quella semplice negazione Thorin annuì deciso con un movimento della testa e cominciò di nuovo a camminare spedito tra le luci arancioni e il verde delle pareti della montagna facendogli segno di continuare a seguirlo verso le stanze reali.
”Volevo dirti prima delle riunioni di questa mattina che Bard di Esgarot aumenterà le ronde al sud del Lago e che Dàin ha voluto sottolineare di come l’idea sia completamente folle ma che accetterà gli ordini imposti, così come dagli Ered Luin taglieranno tutte le tratte fino a che la situazione non sarà più tranquilla.” Dwalin sospirò continuando a camminare dietro di lui a grandi falcate.
 
“E cosa c’era in tutto ciò che non potevo conoscere piu’ tardi?” Intervenne Thorin interrompendolo rendendo per Dwalin il tutto ancora piu’ complesso già di quanto non sarebbe stato.
 
Dwalin rallentò il passo lentamente fino a che non si bloccò sul piazzale di passaggio oltrepassato da ben tre scale diverse che si diramavano in tre direzioni diverse del regno: gli osservò la schiena rimanendo in silenzio giostrando con maestria nella sua testa le parole che gli avrebbe  dovuto riferire e la vera ragione che lo aveva spinto personalmente quella mattina a prendere la situazione in mano. Ma ormai tutto quello che riguardava la mezz’elfa era un argomento delicato e che piu’ di una volta aveva fatto scattare in lui delle reazioni che mai si sarebbe aspettato e le parole di Dìs rispetto quella situazione, non lo aiutavano affatto.
 
 “Ha risposto anche suo padre.” Sputò Dwalin tutto di un colpo.
 
A quella affermazione il passo di Thorin si fermò sui primi gradini della scala e un brivido freddo gli oltrepassò la schiena facendolo irrigidire: decine di domande gli invasero la testa e tutta la preoccupazione che pensava di aver cancellato o di essere riuscito a rilegare nell’oggetto che stringeva nella mano ritorno su, facendogli uscire un ringhio sommesso che nascose con un respiro un po' piu’ pesante degli altri.
 
“Cosa ha risposto?” Chiese monocorde volando solo di poco il capo per poter osservare le espressioni di Dwalin con la coda dell’occhio nel frattempo chiudendo in pungo intorno al panno scuro in una morsa ferrea.
 
“Che accetta le condizioni, che nulla passerà da quella foresta o vicino ad essa, i primi carichi di gemme arriveranno dalla primavera come d’accordo, ma che aspetterà una tua parola prima di procedere, così come per rimandare i guerrieri che sono andati con lui di nuovo qui ad Erebor.”
 
Thorin annuì vero il basso spostando lo sguardo irrequieto da lui verso il pavimento verde scuro. “C’è dell’altro che ha aggiunto?”
 
Dwalin esitò rimanendo in silenzio incrociando le braccia al petto tentando di riassumere tutto quello che c’era scritto nella missiva arrivata durante la notte nella maniera piu’ semplice possibile, mentre quello che invece non c’era lo consumava. Passò lo sguardo dal pugno chiuso di Thorin fino allo sguardo che titubante ancora teneva voltato verso di lui, il profilo netto che si storpiava in ogni suo attimo di silenzio, arricciando la fronte sottolineando le rughe che gli attraversavano il viso.
 
“Dwalin?” Lo richiamò Thori; ora la preoccupazione incontrollata che era riuscito a nascondere era esplosa rendendosi evidente, e non tentò neanch di mascherarla ulteriormente.
 
Anche se con la coda dell’occhio lo vide avanzare verso di se a passi incerti bloccandosi proprio all’inizio delle scale dietro di lui permettendo alle parole che seguirono di essere uditi solo da entrambi senza le orecchie indiscrete dei nani che continuavano a camminare lungo il corridoio e incrociandosi sul piazzale in cui si erano fermati.
 
“Chiede sua figlia in questi mesi ti abbia fatto dubitare del suo giuramento verso di te o del tuo verso di lui, e se questo fosse accaduto…” Si interruppe per un attimo cercando nella sua testa di ponderare le parole utilizzate nella lettera. “Se hai dei ripensamenti riguardo l’accordo preso.” Mormorò osservando come a quella semplice frase lo fece scattare come aveva previsto; la mascella di Thorin si contrasse in uno spasmo di rabbia, lo sguardo perso in dei momenti che fecero sempre diventare gli occhi due fessure.
 
Giuramento.
 
Quanti giuramenti stava per spezzare giorni addietro? Quale accordo stava per mandare in fumo solo con l’invio di un corvo? Quale promessa stava per infangare?
 
Eppure sentirselo ricordare dall’altra parte era una cosa che non riusciva a tollerare, il sentirsi ricordare che in fin dei conti Ghìda era legata a lui in da un giuramento preso da altri e non da lei. Il concetto stesso che la sua stessa vita potesse essere spartita da un messaggio tra due regni lo faceva disgustare,  che fosse stata per lui una merce di scambio lo faceva odiare, che lui avesse avuto il potere di interrompere la vita di entrambi con un messaggio lo faceva impazzire, che se avesse voluto suo padre l’avrebbe potuta allontanare da lì , da lui, con una frase in più gli fece salire una rabbia sorda e incontrollabile.
 
“Lei è unica, è una gemma unica nel suo genere, è la mia gemma sul trono: lei non appartiene ai fondi delle miniere, o agli alberi delle foreste silvane, lei appartiene a me.
 
No, questo non era più vero.
 
Distolse lo sguardo dal pavimento socchiudendo gli occhi tentando di ritrovare la calma persa e annuì con la testa verso Dwalin dietro di lui serrando la mascella. “Mi occuperò della faccenda personalmente prima di questa sera.” Sottolineò glaciale mascherando per quanto potesse riuscire ciò che avesse scaturito quelle parole e cominciò di nuovo a camminare: ora aveva davvero bisogno di rimanere solo, doveva assolutamente rimanere solo, prima che tutto ciò che stava cominciando a bollire dentro di lui gli facesse compiere un’ immensa sciocchezza ancora una volta.
Quei momenti ora li aveva fusi addosso: le sue dita, sulle sue labbra, le sue gambe nude intorno a lui che lo attiravano in un mare di lussuria e desiderio, gli occhi intrinseci di lacrime che lo fissavano implorante di non fare quello che stava per fare, le parole che gli erano rimaste incatenate nella bocca che non era stato capace di rivelarle, che non sarebbe mai stato capace di rivelarle ad alta voce.
 
“Non ne è a conoscenza vero?” Un’ennesima domanda di Dwalin lo fece irrigidire di colpo bloccandogli nuovamente il passo  facendolo fermare sugli scalini e voltare la testa solo di poco verso di lui.
 
“Credo che dovrai spiegarti meglio.”
 
“Sai a cosa mi riferisco.” Cercò di fargli capire ma Thorin continuò a fissarlo rimanendo in silenzio non dandogli la soddisfazione di ammettere ciò che entrambi stavano pensando: non lo avrebbe mai ammesso, nemmeno a lui. “Quello che è accaduto nelle Terre Brune, se ti ha risposto in questo modo vuol dire che non ne è al corrente e che non è stato informato in alcun modo che lei fosse lì… la voce si spargerà oltre Erebor lo sai.”
 
“Non impiegheranno mesi prima che si possa venire a sapere.” Ribatté secco.
“Telkar lo saprà molto prima, certo come la morte.” Ripeté deciso Dwalin, sapendo perfettamente cosa sarebbe accaduto.
 
“Le condizioni di sua figlia sono intatte glielo riferirò personalmente quando i tempi saranno maturi e se lo verrà a sapere la colpa ricadrà su di me, era una mia responsabilità che ciò non accadesse.” Ruggì di rimando Thorin tagliando corto la conversazione, sottolineando con rabbia la parola sua, sibilandola tra i denti come un insulto velato vero il signore dei nani.
 
“O ne verrà a conoscenza quando ormai sarete sposati e non potrà piu’ ritrattare l’accordo dico bene?” Sputò Dwalin decidendo di togliersi quel peso dal petto che ormai lo stava dilaniando dall’interno: ci aveva pensato per tutto il tragitto fino alle fucine e sin dal momento che aveva riletto per la terza volta la lettera del capoclan e il fatto che Telkar non ne avesse fatto nemmeno menzione.
 
Capì di aver centrato il punto quando finalmente Thorin si voltò verso di lui guardandolo in faccia con gli occhi che lo incenerirono seduta stante ma nel quale vi poté leggere una profonda sofferenza che si fece solo più nitida ogni passo che compiva verso di lui portandosi di nuovo alla sua stessa altezza.
 
“Cosa ti ha raccontato Balin?” Gli chiese glaciale spiazzandolo guardandolo dritto negli occhi.
 
La domanda gli fece sciogliere le braccia al petto incredulo: allora era come temeva, come aveva sospettato, suo fratello sapeva piu’ di quello che avrebbe dovuto e sapeva anche quindi la verità su Thorin e sulla mezz’elfa. Non lo aveva negato, non lo aveva neanche confermato.
 
Intorno a loro il camminare dei nani della montagna continuava ininterrotto, non prestando a entrambi minimamente attenzione se non fosse per qualche piccola occhiata di sfuggita e quindi non ebbero neanche il modo di capire quanto importante fosse quella conversazione, ma tutti potevano ben intuire che il re non volesse affrontarla. A pochi passi dal capitano delle guardie lo guardava in una maniera che avrebbe intimorito anche il piu’ forte dei nani della stirpe di Durin facendolo zittire all’instate e scappare con la coda tra le gambe, ma Dwalin rimasse a fissarlo, anche quando strinse con forza il pungo e i muscoli delle spalle fremettero tirandosi.
 
“Dwalin cosa ti ha detto Balin riguardo lei?!” Insistette Thorin percependo una collera, mista a una profonda vergogna salirgli come nausea dallo stomaco.
 
Dwalin gli studiò gli occhi azzurri passando lo sguardo tra essi, mentre lo sguardo diventava sempre piu’ austero e per quanto la loro altezza fosse la stessa sembrava dominarlo in quell’istante; stette per riaprire la bocca per porgli nuovamente quella assurda domanda ma lo interruppe scuotendo la testa. “Nulla, Balin non mi ha raccontato nulla.” Sentenziò e a quella semplice negazione il viso di Thorin si distese un briciolo ma non gli diede il tempo di far altro perché si avvicinò ancora di un passo lentamente guardandolo giudicatore.
 
“Allora per quale ragione sei arrivato a questa conclusione?” Gli chiese insistente assottigliando lo sguardo severo.
 
“E’ la verità quindi, tu non gli hai detto nulla per questa ragione?” Lo incalzò, non rispondendo volutamente alla sua domanda.
 
“Sei già a conoscenza di tutto quello che devi sapere, non hai bisogno di conoscere altro.” Sputò Thorin da una parte sollevato che non sapesse nulla e cominciò di nuovo a risalire le scale non volendo trattare di quell’argomento, ne ora ne mai.
 
Dwalin però fu irremovibile nel suo intento e rima che potesse voltargli di nuovo le spalle nascondendogli dietro un muro di menzogne ancora le sue intenzioni, slegò le due braccia dal petto afferrandogli il braccio prima che potesse cominciare di nuovo a risalire le scale e scappare dentro le sue stanze.
Quel gesto gli costò un fremito nei muscoli del braccio di Thorin e un’occhiata che avrebbe fatto mettere da parte qualsiasi altro nano, ma lui era stufo: era stufo di vederlo in quello stato, di vederlo passare da momenti di estrema gioia al non dormire per giorni, al non riuscire a capire cosa gli passasse per la testa. Non riusciva più a comprenderlo, e lui non lasciava più che lo potesse comprendere e se davvero era come aveva detto Dìs, se davvero lui ne fosse innamorato, il suo comportamento sarebbe stata la sua rovina.
 
“Ti ho già detto perché non ti chiedo mai di lei, ma dopo quello che ho visto nell’ultima settimana e dopo quello che ho visto giorni fa, non mi puoi chiedere di lasciar perdere.”
 
“No Dwalin, non c’è nulla da dire.” Replicò netto il re contraendo la mascella.
 
“Nel nome di Durin Thorin!” Esclamò Dwalin esasperato stringendogli ancora di più’ il braccio facendosi piu’ vicino. “Non dormi, a malapena riesci a stare dietro ai consigli e da quando si è svegliata non fai altro che aggirarti per il palazzo come un animale ferito.”
 
L’altro non rispose nulla, gli lanciò solo un’occhiata verso la mano agguantata ancora contro il suo braccio e con uno strattone se ne liberò: i pugni contratti e gli occhi che lo trafissero gli fecero presto credere che i suoi sforzi furono vani, ma il suo corpo diceva altro dalla sua bocca di Thorin fuoriuscì un sospiro di rassegnazione.
 
Con lentezza Thorin si mosse verso la balaustra accanto a loro fissando dapprima incerto le piccole finestre accese incastonate nella roccia verde, e poi giù verso i fondi dorati della montagna, verso le casse, le botti e gli stendardi che avrebbero da lì a poche ore inondato la sala dei banchetti, portati in testa o sotto le braccia che si affollavano verso l’entrata della sala sotto il suo sguardo. Incrociò le braccia sulla sbarra dorata, tentando di formulare dentro di se un pensiero che potesse interrompere l’interrogatorio ma che al contempo gli liberasse la mente: Dwalin aveva ragione, il tenere tutto dentro di se non lo avrebbe aiutato affatto, eppur era così difficile per lui anche solo pensare.
 
“Thorin dimmi cosa sta succedendo.” Gli ripete di nuovo alle spalle facendogli socchiudere gli occhi.
 
“Ho compiuto un errore e ne sto ponendo rimedio.” Esalò infine senza spostare lo sguardo da sotto di se, spostandolo dall’oggetto fin verso di nuovo le alte colonne della Sala dei Banchetti dalla quale già si cominciava a serie il trambusto e a intravedere la luce dorata del camino.
 
“Quale errore?” Gli chiese ancora affiancandolo poggiandosi a sua volta canto a lui incrociando i polsi tatuati l’ uno sull’altro.
 
Thorin strinse i denti a quella domanda e incontrollabile e guardò in mezzo alle sue braccia, verso il panno blu che ancora stringeva fermamente nella mano e lo oltrepassò con il pensiero immaginandosi cosa racchiudesse, ma gli fu quasi impossibile e spinto dalla smania portò la mano verso il piccolo nodo slacciandolo quel poco che gli bastava per osservare ciò che racchiudesse. Ne mosse leggermente il tessuto ormai libero con le dita riuscendo a scorgere il piccolo scintillio argentato che irrimediabilmente lo portarono alle lacrime salate che ancora poteva sentire nella sua bocca o vedere scendere dal suo viso.
 
“Ho tentato di mandarla via, ho chiesto a Balin di inviare un corvo ad Elcar, per rompere l’accordo e riportarla a sud non appena la neve lo avrebbe permesso. Non è mai partito, il corvo, Balin non l’ha mai inviato.” Ammise coprendo velocemente lo scintillio sotto di se, ma talmente carico di vergogna che non riuscì a spostare gli occhi dal pavimento.
 
Sentì gli occhi di Dwalin trafiggerlo mentre con un avambraccio si avvicinò ancor più’ vicino osservandolo incredulo con gli occhi sgranati: i lunghi baffi che si arricciarono su loro stessi, il pugno ferrato che si andò a stringere sulla balaustra.
 
“Lei lo sa?”
 
“No e non dovrà mai venirne a conoscenza.”
 
“Per Durin, perch-”
 
“Perché…” Lo interruppe prima che potesse finire la frase, sicuro di potergli spiegare cosa fosse accaduto, ma le parole gli si bloccarono nella bocca appena presero forma.
 
Gli era così difficile ammetterlo a voce alta, eppure non c’era nulla di errato, per gli altri non era errato, ma per lui, per Thorin Scudodiquercia, lo poteva essere. Lui stava amando, di nuovo, stava amando però in una maniera che mai gli era capitata, un amore profondo e sconvolgente e ne stava pagando tutte le conseguenze. Lui il re sotto la montagna, aveva una metà di se nascosto in un corpo non suo, nel corpo dell’essere più inaspettato che Mahal avesse potuto scegliere, che lui avesse potuto scegliere, e invece che allontanarlo, ora lo voleva, la voleva disperatamente.
 
“La montagna… si è spaccata a metà.” Ammise infine abbandonando ogni suo freno, alzando finalmente lo sguardo verso Dwalin che a quella semplice frase che entrambi, dalle storie di Balin, conoscevano troppo bene, aprì lievemente la bocca incredulo. “L’ho sentita sbriciolarsi sotto di me, sotto di noi, e ne ho avuto paura, tutt’ora ne ho paura.”
 
Alla fine era come aveva sospettato dunque, Dìs lo aveva capito e lui lo aveva scambiata per lussuria, per un affetto profondo ma mai si sarebbe immaginato una simile situazione, una simile ammissione, eppure non c’era gioia in quelle parole, nessun entusiasmo o briciolo di dolcezza: lui l’ amava davvero allora, Thorin Scudodiquercia stava amando e in una maniera che Dwalin non si sarebbe neanch aspettato se glielo avessero giurato sulla propria tomba.
 
No di più, lui non l’amava solo, lui…
 
“Voi…”
 
“Muoviti Fàrim o la neve si scioglierà se continui così lentamente!” Una voce squillante risuonò per le scale che ripide si diramavano di fianco a loro interrompendo immediatamente le parole che  con talmente tanto sforzo gli stavano per uscire dalla bocca: forse per il meglio.
 
“La neve non si scioglierà in meno di due cinque minuti avrai tutto il tempo per scorrazzarci dentro Trèl”
 
“E io avrò tutto il tempo di distruggerti a palle di neve!”
 
“Ve l’ho già detto: usciremo solo dopo che avremmo completato la storia di Re Azaghal che non avete completato ieri, mi avevate dato la vostra parola, soprattutto tu Trèl e tu Lòni non sei da meno.” Una voce ben  conosciuta si andò a unire al piccolo coro facendo voltare perfino Dwalin verso la scala alla loro destra che scadeva ripida verso il piazzale condividendo lo sbigottimento di Thorin. 
 
Il destino aveva agito per conto proprio rendendo totalmente inutile la conversazione accesa che i due nani avevano intrapreso, mettendo il re dei nani di fronte a una situazione dalla quale non poteva scappare, che non voleva affrontare prima del tempo ma che infine, seppur con riluttanza si trovò a vivere.
 
“Ma ci avevi dato la tua parola.” Piagnucolò Nìm di fronte a Ghìda tirandole di poco il mantello per bloccarla e attirare la sua attenzione, trattenendo nell’altra la camicia consunta del nano biondo, gonfiando le guance rosee facendo arricciare la costellazione di lentiggini in mezzo alla fronte e al naso.
 
“Già, avevi anche detto che avresti giocato con noi oggi, e che ci avresti insegnato qualche trucco con la spada ” Confermò Fàrim ponendosi di fronte a lei camminando all’indietro e scendendo ogni scalino senza difficoltà alcuna continuando ad osservarla spalleggiando la sorella accanto a se con un’occhiata complice.
 
Ghìda scosse la testa e puntò il dito in avanti con fare giudicatore mentre con l’altra mano tratteneva la piccola Mar che a differenza degli altri non riusciva a scendere le scale in maniera tanto abile costretta a poggiare entrambi i piedi su uno stesso scalino piu’ volte rallentando i sovraeccitati nani che la circondavano . “E infatti la manterrò ma solo dopo che avrete completato i vostri doveri e io avrò completato i miei.” Appuntò facendo desistere il piccolo nano dai capelli rossi di fronte a lei che alla risposta si voltò cominciano a scendere le scale correttamente infilando arreso le mani dentro le piccole tasche della giacca a testa bassa.
“Come ho già detto, finirete le poche pagine rimaste e poi andrete a gettarvi nei cumuli di neve fuori le mura, fino a quando non sarete voi stessi a chiedermi di rientrare.” Ripeté poggiando una mano dietro la nuca di Fàrim cercando di motivarlo.
 
“Allora mai!” Ridacchio allegra la piccola nana che le teneva la mano appuntando i pensieri che già aveva paura si sarebbero avverati: erano le prima luci eppure già tutti e sei i nani erano ben riusciti a dimostrale che non era importante l’orario, loro sarebbero riusciti a continuare così giorno e notte, tardi o presto, l’orario era un qualcosa di prettamente relativo per quella compagnia scalmanata, di cui anche lei faceva parte ormai. Ben presto l’avrebbero etichettata anche a lei come ‘disturbatrice della quiete’.
 
Fu però Lòni a prendere il suo posto schizzando dal suo fianco e portandosi questa volta lui di fronte a lei, impuntando i piedi a terra e bloccandole irrimediabilmente il passo facendole uscire un sospiro esausto dalla bocca: già si stava pregustando l’ennesima trovata, seppur come al solito doveva sempre cercare di sommettere diversi sorrisi. Come volevasi dimostrare alzò un sopracciglio biondo pregustandosi il lampo di genio che gli era appena passato per la mente attirando totalmente l’attenzione del piccolo gruppo. “E se prima uscissimo e poi andassimo nella biblioteca? L’ordine non cambia giusto?” Replicò salendo uno scalino per farsi piu’ alto e gonfiando il petto fieramente portandosi le mani suoi fianchi su cui era perennemente allacciata la piccola spada.
 
Divertita gli diede un piccolo buffo sulla fronte con la punta delle dita facendogli arricciare il naso interrompendo la postura fiera che aveva con tanta fatica mantenuto facendolo ridacchiare e piegare su se stesso con una mano sulla fronte. “Ma se finite prima di studiare poi potete rimanere piu’ a lungo, se studiate dopo, prima o poi sarete costretti a rientrare e anche a prendervi un gran bel raffreddore se non correte subito a casa a cambiarvi. Vuoi perderti le canzoni sui grandi guerrieri della stirpe di Durin di questa sera?” Gli rispose eloquentemente tentando di farlo desistere facendogli anche un fugace occhiolino che però non servì affatto, anzi altre voi si alzarono a sostegno dell’idea .
 
Una piccola testa riccioluta scura si affacciò da dietro di lei facendosi forza con le mani sulla ringhiera dorata per osservarla dal basso verso l’alto con un piccolo ghigno. ”Allora prima arriviamo in biblioteca prima cominciamo e prima usciamo a giocare?” Trèl appuntò in difesa dell’amico lanciando un’occhiata verso Lòni che spalancò gli occhi azzurri lasciando cadere la mano che dalla fronte sia andò ad allacciare eccitata al pomo della spada, incredulo di fonte a quella affermazione, così come Fàrim che già cominciava saltellare su se stesso puntando lo sguardo sempre più’ ampio verso di lei.
 
“No, non è quello che ho detto…” Cercò di fermarli ma ormai era davvero troppo tardi: non fece neanche in tempo a finire la frase che diversi movimenti d’aria seguiti da leggeri strilli di gioia la sorpassarono da dietro riversandosi veloci giù per le scale verdi, schivando e saltellando via oltre tutti i nani che salivano nella direzione opposta ricevendo diverse occhiate divertite o scrolli di teste delle guardie agli angoli di ogni scala.
 
“Chi arriva per ultimo questa sera mangia sotto il tavolo!” Urlò Fàrim dando una botta con la spalla a Lòni accanto a se incitandolo a correre. “Vale anche per te Ghìda!” Le urlò voltandosi leggermente verso di lei prima che sia lui che Lòni schizzassero giù inseguendo i due gemelli ormai già a diversi scalini di distanza correndo dalla rampa di scale svoltando immediatamente a quella successiva senza neanche aspettare Nìm che dovette alzarsi il vestito fin troppo pesante per poter correre.
 
“Non vale nessuno ha dato il via! Fermi! Fàrim lo dico ad a-dad! Lòni fermo! Trel, Drel siete due imbroglioni!” Urlò di rimando Nìm inseguendo i quattro amici: i piccoli boccoli rossi che rimbalzavano e che si mossero veloci oltre le rampe di scale scomparendo ben presto tra la moltitudine di nani sulla scala e tra le grate.
Alzò lievemente gli occhi al cielo non potendo però  “Non correte, o finirete per farvi male, se non peggio.” Li avvertì sicura che nessuno l’avrebbe sentita, troppo lontani o con la testa troppo tra le nubi per poter perfino prestare attenzione alle sue parole, non che in altre circostanze le sue parole venissero ascoltate, soprattutto quando si trattava di quelle piccole competizioni.
 
“Non preoccupatevi mia signora e tutto sotto controllo!” La voce di Lòni le arrivò ben scandita alle orecchie, rimbombante e ansimante per i corridoi a causa dalla rincorsa che gli costò per raggiungere Drèl e Trèl ormai a diversi gradini di distanza.
 
“Tanto perdi e mangerai proprio sotto i miei piedi!”
 
“Stai zitto riccioli rossi!”
 
“Se vuoi mangio io sotto il tavolo con te.” La piccola voce di Màr la richiamò sotto di se mentre con riluttanza continuava a scendere con lei gli scalini, il viso basso e crucciato mentre con costanza cercava di allungare di più’ il passo per poter percorrere le scale più’ velocemente e inseguire il gruppo di amici tendendole comunque fermamente la mano.
 
Le si strinse  il cuore a vederla così concentrata e quasi dispiaciuta nell’essere così piccola da non poter accelerare di piu’ il passo, quindi si fermò tutto di un colpo e chinandosi leggermente la prese tra le braccia incollandola a un suo fianco con entrambe le braccia a sorreggerla. “E chi lo ha deciso che saremo noi a perdere?” Le ammiccò di tutta risposta questa strinse le mani piu’ fermamente al collo del suo vestito facendole accelerare ancora di più’ il passo La piccola nana la guardò dapprima confusa quando venne sollevata puntando gli occhi chiari stupiti verso i sui piedi e poi verso di lei e di tutta risposta cominciò a scendere gli scalini più’ velocemente rispetto a prima.
 
Nel frattempo sotto di loro la gara era stata presa come una questione di vitale importanza, e la scommessa da vincere aveva già mietuto due vittime: la piccola Nìm che non riusciva a stare dietro a suo fratello e Trèl ormai lontani e il fratello di quest’ultimo che infine era arrivato alla conclusione che non sarebbe stato comunque l’ultimo e aveva rallentato il passo, ma l’orgoglio dei nani per molti era piu’ forte perfino del buonsenso e il piu’ grande dei sei lo incarnava tutto.   
Lòni infatti non aveva decelerato il passo, anzi era piu’ deciso ad arrivare primo, superò perfino Trèl che gli lancio un occhiataccia appena saltò un paio di gradini superandolo e svoltando verso l’ultima scala; così preso dal rincorrere l’amico che svoltando non si rese conto che questo si era fermato nel mezzo del piazzale fermandosi precisamente alla fine delle scale rimanendo fermo e con la schiena ben raddrizzata, e così senza riuscir a fermarsi ci andò a sbattere contrò cadendo rovinosamente all’indietro sbattendo il didietro sullo scalino che aveva saltato.
 
“Ah, Nel nome di Durin Fàrim ma cosa…” Le parole gli si bloccarono nella bocca non appena massaggiandosi la schiena ancora a terra riuscì a guardare oltre le gambe dell’amico sgranando gli occhi e rizzandosi immediatamente in piedi seppur il dolore alla schiena lo fece dondolare lievemente. Trèl arrivò a sua volta ansimante con il volto rivolto verso i due nani, confuso dapprima  ma poi alzò lo sguardo e vide il motivo per cui si erano entrambi bloccati, chiudendo immediatamente la bocca e rizzando a sua volta la schiena
 
Ghìda strizzo gli occhi bloccando il passo non appena sentì un tonfo infondo alle scale seguito poi da un lamento gutturale, riaprí le palpebre lentamente spaventata già immaginandosi il peggio, e il peggio nella sua testa era una visione talmente catastrofica da sembrare quasi comica. Accelerò il passo sospirando pesantemente: almeno non stavano urlando dal dolore e già questo era un punto a favore.  Màr accanto a se notando il suo sguardo ridacchio sommessamente nascondendosi nell’ incavo della sua spalla facendola sorridere.
 
“Visto, cosa vi avevo det-…” Riuscì a dire ma le parole così come il passo le si bloccarono  appena riuscì a guardare sotto la rampa delle scale e a scorgere le cinque piccole teste chinate tutte rivolte in una sola direzione; ben raggruppati lo sguardo le si incatenò inevitabilmente verso ciò che stavano fissando con tale riverenza, bloccandole il passo. e il cuore in un unico momento.
 
Alla fine della scalinata, al limite del piazzale di passaggio, poggiato con gli avambracci sulla ringhiera dorata Thorin le dava la schiena ma gli occhi azzurri e freddi erano puntati verso di lei, il volto leggermente voltato oltre la spalla, solcato da intense linee nere e macchie di fuliggine che sottolineavano ancora di piu’ i tratti duri. La continuava a fissare di rimanendo in silenzio, uno sguardo indecifrabile ma che nella sua freddezza, e nella sua intensità le fece rivivere ogni momento e la fece ripiombare violentemente tra le sue braccia, tra la loro carezze: le labbra che le formicolarono incontrollate le piccole ferite sui palmi delle mani pulsare di nuovo e i ricordi che viaggiarono verso i gemiti sommessi che le erano uscita dalla bocca.
 
Non ci fece nemmeno caso ma  Dwalin la osservò dapprima di sottecchi indugiando per alcuni attimi, lanciando poi un’occhiata verso Thorin prima di abbassare di nuovo lo sguardo sospirando loro  puntandolo nuovamente verso il barato dietro di loro.
La tensione si poteva tagliare con un dito, chiunque li stesse guardando in quel momento ormai era in grado di poter dire che ci fosse qualcosa in quello sguardo, un intero discorso scambiato con una ‘occhiata fugace, un’intera vita racchiusa in quello sguardo, che Ghìda sapere di poter avere solo da lui quello, uno sguardo e un bacio ormai che non la lascia in pace neanche un secondo
Perfino i piccoli nani ancora ben rigidi al centro della sala che non riuscirono a non far vagare i loro visi dal re a Ghìda, rigida sopra le scale che non disse nulla al re, rimanendo immobile, il viso che mai avevano visto così scioccato e sofferente che Fàrim si dovette trattenere a non potte una domanda inappropriata, così come la piccola Mar che nella sua testa si chiedeva se avesse compiuto lei stessa qualcosa di sbagliato o se Ghìda si fosse sentita male di nuovo.
Tanto da far avvicinare addirittura confusa la piccola Nìm al braccio di Loni stringendoglielo debolmente cercando il suo sguardo in cerca di una risposta, ma lui rimase fermo e in silenzio prendendo solo la mano nella sua stringendogliela forte tentando di farle capire che non c’era nulla da temere, o almeno così sperava.
 
Thorin fu il primo ad abbassare lo sguardo voltando di nuovo la testa e donandole di nuovo quelle spalle che aveva finito per disgustare per quanto le aveva osservate, per quanto si era ritrovata piu’ volte a pregare la sua schiena che il suo viso. Ghìda distolse lo sguardo dalle sue spalle tese, tentando di colmar quella sensazione che la stava facendo sussultare e stringere a se Mar con ancora più’ decisione, provando una forte fitta al petto mentre tutto le ritornava su, compresa la rabbia che aveva sprigionato il giorno prima.
Sentì una piccola mano toccarle la spalla e quasi immediatamente la ridestò puntando lo sguardo dapprima basso verso il volto di Màr che la fissava con gli occhi preoccupati e sgranati, senza però dire nulla; le si avvicinò e le diede un piccolo buffo con la fronte sulla testa forzando un sorriso per tranquillizzarla.
 
“Andiamo su, si è fatto tardi.” Le disse e la poggiò gentilmente a terra forzando una calma apparente che tentava di celare l’angoscia che l’aveva invasa, sentendosi pietosa e allo stesso tempo terribilmente frustrata.
 
Alzò lo sguardo scendendo le scale  lanciando un’occhiata verso i piccoli nani che ancora la attendevano alla fine della scalinata forzando un ennesimo sorriso che la fece tremare dalla testa ai piedi e gli indicò la scala dietro di loro incitandoli a proseguire, seppur ancora molti di loro osservavano l’unico punto in cui lei non avrebbe di nuovo posato lo sguardo “Coraggio sennò  faremo tardi e non potrete mantenere la vostra parola e davvero dovrò tirarvi fuori io dalla neve.” Gli disse ridestandoli totalmente un'altra volta , dando a Nìm di fronte a lei una piccola pacca dietro la schiena per farla muovere oltre le scale lanciando una breve occhiava a tutti gli altri cinque piccoli nani che le sorrisero fugacemente annuendo con la testa bassa prima di proseguire in silenzio anticipandola verso le scale che scendevano verso la biblioteca.
 
La testa di Thorin si sforzava di rimanere bassa, il senso di colpa che lo mangiava vivo, la vista ormai appannata dal via vai sotto si lui che era diventato ormai  solo piccole macchie colorate a cui non prestava neanche più attenzione, poiché tutta la sua attenzione pregava di essere rivolta verso la figura che sentiva viva dietro la sua schiena, e che infine andava via a causa del suo maledettissimo silenzio e del suo orgoglio che anche in quella situazione gli impediva perfino di parlare.
 
Fermala.
 
“Ho lasciato detto di lasciare il posto reale libero per te.” Il tono quasi monocorde, talmente rigido da tagliare l’aria in due; gli occhi che schizzarono di lato di lato ad osservarle la schiena, incapace di  muovere nessun muscolo, se non quello della mano che strinse il panno blu con talmente tanta forza che sentì l’oggetto al suo interno premergli sulla pelle della mano.
Ghìda raggelò a quella frase che la incollo al pavimento bloccandone il passo all’inizio delle scale, talmente fredda che  fu come ricevere uno schiaffo in pieno viso; sentì un'improvvisa voglia di gridare a pieni polmoni la sua frustrazione, ma non riuscì a fare niente di tutto ciò riparandosi dietro una barriera impenetrabile.
Si portò una mano a stringere la gonna del vestito, voltando di poco la testa di lato incapace di guardarlo ancora direttamente negli occhi, ma abbastanza da poter vedere che anche lui non la stava guardando mantenendo il volto rigido rivolto nelle sale inferiori del palazzo.
 
“Molto bene.” Mormorò annuendo, non volendo aggiungere oltre: non c’era bisogno di aggiungere oltre a quello che si erano detti, lei non aveva bisogno di dirgli altro.
 
Ma non fece a malapena in tempo a girarsi del tutto che venne richiamata un’altra volta: una seconda fitta che le bloccò il respiro.
 
“Verrai quindi.” Affermò Thorin tagliente alle sue spalle.
 
Alle sue orecchie risuonò come un discorso assurdo, voleva o non voleva che andasse, se preferiva che rimanesse nelle sue stanze era meglio che glielo dicesse facendo finire quella farsa e che la lasciasse proseguire senza torturarla oltre.
Il lato del collo le comincio a bruciare, anche se ben nascosto dai capelli sentiva un punto in particolare arderle sulla pelle, un marchio che da giorni portava indelebile, che tentava di nascondere ma che lei sapeva comunque ci fosse.
Seppur decretando la sua rovina sì girò del tutto osservandolo dritto in faccia, gli occhi blu che anche se questa volta voltati solo di poco verso di lei la guardavo profondi facendola vacillare. Decise comunque di non dare retta alla sua parte piu’ fragile, quella che era stata preda delle sue mani e delle sue parole e dei suoi baci.
 
 ”Credevo fosse un mio obbligo.” Gli si rivolse glaciale con lo stesso tono che aveva usato con lei.
 
Thorin strinse ancora di piu’ l’oggetto nella sua mano dalla rabbia: lo detestava, quel muro che lei era capace di alzare, dove si barricava. Lo aveva detestato dal primo istante in cui l’aveva visto e in quel momento si dovette munire di tutto il suo autocontrollo per pronunciare quelle parole che in un altro contesto le avrebbe risparmiato interrompendo lì quella conversazione e invitandola di nuovo a proseguire.
 
“No non lo è, non lo è mai stato.” Rispose composto.
 
Ghìda raddrizzò la schiena a sua volta: il muro che ormai alto tentava di ripararla da ogni sua parola, da ogni gesto , ma un muro in macerie, una armatura a brandelli, cosa poteva difendere, soprattutto da chi era in grado di distruggerla con una carezza.
 
“E’ un ordine quello che mi stai ponendo quindi?” Chiese insistente, il cuor che le cominciò una corsa dentro il petto, che riuscì a malapena a controllare.
“Nemmeno…”
 
“C’è altro?” Lo interruppe violentemente  prima che potesse aggiungere una ennesima frase a quello spettacolo che ormai non apparteneva solo a loro ma che aveva attirato diversi sguardi curiosi, compresi quelli dei nani dietro di lei che tornarono addirittura indietro di qualche scalino osservandoli.
Thorin abbassò dapprima lo sguardo verso terra, passando irrequietamente lo sguardo sotto di lui e poi verso la sua mano; Ghìda che poté giurare di dire che tratteneva qualcosa nel palmo destro, seppur coperto dal braccio teso sulla ringhiera.
Sospirò pesantemente prima di guardarla di nuovo. “C’è qualcosa che desideri, che vorresti richiedere?”
 
Il petto le fremette, sapeva essere una domanda di mera circostanza eppure entrambi sapeva cosa volessero dire quelle parole cariche di significato solo a loro due, allora perché gliele aveva chiesto, poteva mandarla via e basta, perché voleva risentirle dire quelle parole di nuovo, lì di fronte a tutti.
 
Le mani le artigliarono con ferocia il vestito, la voglia di urlare sempre piu’ crescente e devastate. “Ciò che io voglio mio signore non ha importanza.” Sputò non riuscendo a controllare il tono di voce sprezzante con cui gli si rivolse.
 
Erano ora uno di fronte all’altra, talmente vicini che rimase scioccata:  Thorin non si era mosso da dov’era rimanendo saldo con le braccia sulla balaustra, allora era stat lei a muoversi così pericolosamente, così dolorosamente che il corpo ormai agiva per conto proprio ignorando qualsiasi suo volere di stargli lontano attirato come lo era sempre stato verso il suo corpo… verso il suo pezzo mancante.
 
“Quello che io desidero non ha importanza.” Ripeté questa quasi sussurrandolo, ammonendosi da sola e ripetendo quelle parole che lui stesso le aveva detto.
 
Thorin relegò l’orgoglio che lo contraddistingueva per quei pochi attimi, nei quali sotto quegli occhi feriti, non riuscì a controllare la propria bocca che si mosse in modo autonomo. “E’ l’unica cosa che ha importanza.” Mormorò in maniera talmente flebile che stentò a malapena a sentire le sue stesse parole.
 
Gli scuri di Ghìda tremarono spalancandosi  leggermente in ruoli così come lui a quella frase, ma ben presto si inarcarono tristemente così come la sua bocca su cui si formò un sorriso triste, e abbattuto: il petto che le si abbassò in un esalazione tremante e velenosa che sentì arrivargli perfino addosso ferendolo a sua volta.
 
“No, non è vero, lo sappiamo entrambi” Gli rispose con voce spezzata, assestandogli un colpo che gli fu difficile da incassare e facendo crollare qualsiasi parola avrebbe potuto utilizzare per cancellare ciò che era accaduto.
 
Gli occhi di Ghìda  dapprima puntati nei suoi si spostarono leggermente assottigliandosi studiando il suo viso, distratti da un qualcosa che lui non era in grado di vedere ma che aveva attirato la sua attenzione facendola sorridere tristemente. La vide stringere il pungo della mano abbassando di poco lo sguardo verso il suo fianco e poi alzarla titubante verso di lui: le tremava leggermente e si ritirava sempre di piu’ come se anche il solo sfiorarlo l’avrebbe bruciata mentre con gli occhi guardava tutto tranne che nei suoi occhi rincorrendo un punto fisso sulla sua pelle.
La mosse incerta verso il suo viso e quando notò che non l’avrebbe fermata in alcun modo posò la mano sulla sua guancia e gli sfiorò la barba con le piccole dita: si morse il labbro incerta fino a che non mosse il pollice fin verso sotto il suo zigomo tirando con il polpastrello la sua pelle ripulendolo con delicatezza da una macchia che con molta probabilità gli attraversava il viso che non era riuscito a togliere.
 
La montagna intorno a lui sembrò fermarsi, non c’era piu’ altro se non lei, se non quel momento così dolce e vezzoso che si chiese se ne fosse davvero lui il protagonista, se fosse davvero lui ad aver diritto a un simile ritaglio di infinito. Sapeva che diversi occhi erano puntati su di loro, li sentiva fissi come spettatori ignari di ciò che significava quel piccolo gesto: da sopra di lui, da sotto di lui, dagli occhi di Dwalin che gli premevano sulla nuca, delle piccole teste che da dietro la scala li fissavano con gli occhi sgranati sussurrando tra di loro, ma non gliene importo affatto, sarebbe potuta bruciare la Montagna in quel momento e non se ne sarebbe accorto minimamente.
 
“Sai già qual è l’unica cosa che volevo e io so già di non poterla avere, ma ciò non mi fa dimenticare dov’è il mio posto, mai…me lo hai insegnato tu.” Gli sussurrò guardandolo dritto negli occhi e interrompendo il piccolo momento con il pollice lasciando solo la mano sul suo viso per qualche istante, scossa da piccoli fremiti incerti. Ripeté quelle parole che si era già impressa da giorni, che lui stesso le aveva chiesto di imprimersi bene in mente e mai come in quel momento volle cancellare ogni su azione che avesse portato a questo: sarebbe stato così facile, sarebbe stato tutto così facile.
 
Thorin dovette fare appello a tutto il suo buon senso per non chiudere gli occhi o afferrarle la mano tenendola ancora premuta sul suo viso quando questa si scostò in lunghi attimi: oltrepassando la guancia, la mandibola e infine sfiorandogli con delicatezza perfino la camicia all’altezza del petto: gesti che non fecero altro che ricordargli ciò che aveva fatto e di come quell’assurdo teatrino di frasi di circostanza nascondessero ben altro.
Alla fine infine si staccò del tutto da lui ma per ultima e agognate tortura che volle infliggergli , gli posò la mano sull’avambraccio sfiorandoglielo lievemente attraverso la camicia, ma la sentì chiaramente come se gli tesse toccando la pelle nuda: l’impulso di allungare la mano opposta e bloccarla lì fu irrefrenabile, ma non fece neanche in tempo ad alzar la mano che la mano di Ghìda scivolò via. La piccola utopia svanì di colpo facendolo tornare alla realtà non appena  gli diede di nuovo la schiena lanciandogli oltre la spalla un ultimo sguardo incerto: la sua mano strinse con fermezza il nulla e il calore sul suo viso svanì di colpo facendolo respirare come se avesse trattenuto il fiato per tutto quel tempo e a fargli distendere ogni singolo muscolo del corpo.
Sentì Dwalin avvicinarsi dietro di lui, mentre Ghìda spariva di nuovo di fronte ai suoi occhi venendo inghiottita dalla fredda roccia della montagna, così come tutti i non detti che continuava ad inghiottire e soffocare; lo vide con la coda dell’occhio mettersi al suo fianco osservando lo stesso punto in cui i suoi occhi erano ormai incatenati rimanendo in silenzio condividendo ciò che sentiva, e non se ne vergognò questa volta, affatto.
“Ti ricordi quando ti ho detto di prendere ciò che volevi? Penso che sia arrivato il momento di farlo.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il fabbro osservò con attenzione il lavoro finito ben rinchiuso in un drappo blu, costudito tra due cuscini in mezzo al suo giaciglio: il momento a lungo agognato si stava avvicinando sempre di piu’ e sempre di piu’ cresceva la voglia di aprire il piccolo fagotto o di donarle il suo lavoro prima del tempo. Il sudore sul corpo si era andato a sostituire a brividi freddi, la camicia macchiata di cenere era stata sostituita da una pulita e ben piu’ ricca e nobile di quella che indossava per il lavoro, il rumore del martello sull’incudine era stato invece sostituito vociare sotto di lui e dalla musica che sempre piu’ alta arrivava fino alla sua porta.
 
I muscoli tesi e laboriosi era distesi e rilassati sotto il lungo mantello che adesso lo avvolgeva fin oltre la fine delle sue gambe poggiate sul soffice materasso del suo letto in una lenta attesa che non faceva altro che tentarlo nel farlo rinchiudere di nuovo nella sua fucina, al sicuro, cullato dai rumori di una ninna nanna antica come il dio che aveva guidato la sua mano nell’ impeccabile lavoro.
Ma il fabbro non si lasciò tentare, troppo salda la sua decisione, troppo federe al suo lavoro e alle ore nelle quali le sue mani erano diventato altro che un ammasso di ferite e di bruciature, troppo fedele a colei che come il fumo nelle narici lo aveva spinto troppe volte a chiudere gli occhi al suo solo percepirlo vicino a se e  contro di se, come il rumore dello scudo che un tempo gli si spaccò sul braccio.
La verità è che un tempo lontano il fabbro era stato un guerriero, il più grande dei guerrieri: canzoni erano state cantate su di lui, racconti erano stati narrati, e da umile fabbro era diventato leggenda e dall’essere uno dei tanti era diventato l’unico. Ma le guerre erano finite, nessuno piu’ aveva bisogno della sua spada, nessuno piu’ aveva bisogno del suo scudo per essere difeso, così era tornato a fare ciò che sapeva fare meglio, creare.
 
Il legno del letto scricchiolò quando a passi lenti si diresse verso un oggetto di altrettanta precisa fattura posto alla luce del camino: neri e dorati erano i suoi intarsi, generazioni addietro era stato fuso e tirato fuori dalle fiamme incandescenti incoronando un’intera stirpe; lo portò in alto con le mani prima di lasciar cadere il suo peso sulla sua testa e sul suo petto.
 
E nel tempo di un profondo sospiro il fabbro, divenne re.
 
 
 
 
 
 
 
 

Ghìda si lasciò andare ancora di piu’ allo schienale della sedia su cui era seduta ormai da diversi minuti; le mani con cura percorrevano sempre lo stesso percorso nei suoi capelli districando i piccoli nodi e smuovendo i ciuffi sperando che  così le sarebbe stato più facile finire il minuzioso lavoro di intrecciare ogni singola treccia che si era snodata prima di cominciare a prepararsi. Anche se era seduta di fronte al camino da diverso tempo sembrava quasi che il calore che sprigionasse non bastasse neanche per riscaldarle il corpo coperto solo da una leggera sottana chiara, tanto da portarla a raggomitolarsi su se stessa premendo i piedi sul legno liscio della sedia .
Seppur la finestra era chiusa le mani non la smettevano di tremar e ogni piccolo gesto le sembrava un’impresa insormontabile, mai si era sentita così, così divisa, così lontana da voler scappare dalla sua stanza e non tornarvi mai più’, oppure chiudercisi dentro come aveva già fatto settimane addietro: mai aveva desiderato come in quel momento di scomparire e di lasciare tutto così intatto, di lasciar che quella notte passasse.
 
La musica dalla sala dei banchetti ormai arrivava ben scandita alle sue orecchie da quando il sole era tramontato dietro la montagna, così come lo schiamazzo di cui in quella giornata aveva avuto un assaggio passando al ritorno nelle sue stanze di lato alla sala, sfiorando con lo sguardo le immense colonne in fila che ne scandivano l’entrata: il grande camino già a metà pomeriggio era stato acceso, le tavolate erano già state predisposte su in tutta la sala, ricolme di altrettante sedie e sgabelli ,centinaia di barili colmi di birra erano già stati portati e posizionati al centro e intorno alle pareti e le tavole erano già state imbandite di tutto punto, anche quella al centro della sala; seppur da lontano era riuscita scorgere l’immensa sedia scura adornata d’oro e gli intarsi sopra di essa dei due immensi corvi neri ai lati dello schienale che vigili servavano chi vi ci sarebbe seduto sopra, e accanto ad essa una piu’ piccola, identica, le ali erano però chiuse e i corvi solo appollaiati in riposo, il legno più’ chiaro, ma li adorni dorati ne coprivano quasi tutto lo schienale… la sua sedia.
 
Quella sedia che si era premurato di lasciare, per la quella addirittura l’aveva fermata, come se una sedia o un posto potesse cancellare tutto il resto.
 
Il sentire i canti sempre più’ scanditi e ritmati provenire da sotto di lei non la stava aiutando minimamente a distogliere i suoi pensieri da quello che aveva sentito quella mattina, da ciò che si era spinta a fare quella mattina: non era riuscita a controllarsi, aveva tentato di camminare via, di evitare anche solo di poggiare lo sguardo su di lui, aveva già voltato la schiena per andarsene ma poi il solo sentire la sua voce l’aveva fatta bloccare come un obbediente soldatino e lei incosciente aveva compiuto il grave errore di voltarsi e guardarlo negli occhi. Quei maledetti occhi.
Cosa avrebbe dovuto fare, cosa doveva fare, cosa voleva Thorin da lei, non gli bastava già così, che lei gli avesse ubbidito? Che avesse mantenuto la parola data e dimenticato?  Che avrebbe mantenuto la sua parola è che avrebbe tentato di fare come se nulla fosse successo, come sei lei non provasse nulla, come se tutto ciò che era successo non fosse mai accaduto.
Eppure quello sguardo, quello stesso sguardo che le aveva rivolto prima di cacciarla via dalla sala del consiglio, l l’aveva fatta vacillare e compiere quel gesto scellerato di fronte all’intera Erebor, ma lui non l’aveva fermata, perché non l’aveva fermata? Era stato lui a decidere, perché ora invece sembrava che quella decisione l’avesse presa un altro re. Non era così debole o indeciso, o non privo di onore da rimangiarsi la propria parola, non lo era con il suo regno, non lo sarebbe stato per lei, allora cosa, perchè? Un mero senso di colpa probabilmente, ma la decisione era stata lui a prenderla, era tanto lui a scegliere , e lei doveva smetterla di crearsi false speranze, le avrebbe solo fatto più male già di quanto non le facesse adesso. Ogni gesto che lui avrebbe compiuto, ogni parola, ogni gesto sarebbe stato dettato solo dai suoi obblighi, lui non poteva amarla e se lo avrebbe fatto non glielo avrebbe mai detto.
 
Forse infine era vero, abitavano davvero il corpo di Thorin due nani diversi, il re e il nano e lei era finita nel fuoco incrociato di entrambi e suo malgrado lei amava entrambi.
 
Al solo ripesarci portò le gambe ancora più’ vicino al petto cingendole con la mano libera e strinse la base del collo lasciando ciondolare la testa di lato verso di questa, cercando un appoggio di una mano che non fosse la sua mentre il calore del camino di fronte a lei le pareva sempre più’ flebile e la luce della luna ormai alta che filtrava nella finestra le pareva sempre fredda. Alzò di poco la testa puntando lo sguardo di poco dietro di se, puntandolo verso il letto intatto, su cui vi era poggiato il vestito vermiglio che lungo ricadeva dalle pellicce del letto fin sui tappeti sotto di questo, un’immensa cascata rossa adornata sul petto e sugli spacchi sulle braccia di fini ricami dorati.
Le era stato così facile tirarlo fuori dall’armadio, sceglierlo, osservarlo, ma ora il solo pensare di indossarlo le faceva stringere il petto, la spaventava a morte, quella notte, seppur dovuta a un loro ritorno alla montagna sani e salvi, al coraggio dei nani che erano partiti e avevano salvato i propri familiari in cui lei stessa era partita per salvare la propria gente, la stava spaventando a morte piu’ di quanto ne aveva provata quando aveva abbattuto quegli orchi.
 
Un bussare lieve alla porta della sua stanza  la riportò violentemente alla realtà e i suoi occhi schizzarono velocemente via dal vestito e quasi come fosse stat colta in flagrante di un crimine si tolse la mano dal collo e coprì il segno violaceo con il collo della sottana e qualche ciuffo di capelli ancora acconciati a metà che si portò sulla spalla senza indugiare.  Spostò confusa lo sguardo verso la porta e non sentendo nessuno parlare e qualcosa le scattò dentro al petto: una vaga speranza che la fece rizzar su se stessa e afferrare i lembi della sottana con tale forza che si graffiò perfino la pelle sotto di essa.
 
Schizzò in piedi presa da una frenesia sempre crescente rischiando perfino di inciampare sulla pelliccia sotto il tavolo di fronte al camino e avanzò a passi veloci dalla parte verso l’entrata della sua stanza: mai si ricordo di essersi mossa così velocemente ad aprire una porta. Mosse le mani verso la maniglia facendola scattare e la aprì ma appena scorse chi vi era dietro  dovette premere le labbra insieme per non spalancarle: di tutte le persone che si era immaginata di poter vedere spuntare da dietro l’uscio , mai si sarebbe immaginata di scorgere quei tratti.
 
Due occhi blu gelati.
 
Il naso dritto ma incredibilmente femminile.
 
Le catenelle d’ oro e gemme blu che si intersecavano nei capelli neri e nella lunga traccia.
 
Dís.
 

 





 
 
 
 
 





ANGOLO AUTRICE
Scusate per il ritardo, anzi per l’immane ritardo ma al mare non sono praticamente riuscita a scrivere nulla dall’iPad, era piu’ arduo scrivere che leggere e infine mi sono scritta tutto su un foglio e ho ricopiato tutto daccapo appena sono tornata a Roma e ricomincia con la solita tabella di marcia, seppur un esame mi reclama hahahahahhah
Sono un po' anche una merdaccia lo so, ho fatto un capitolo di spiegazione ma che racchiude tante piccole perle, tra cui un messaggio che volevo dare su Ghìda sul perché ami Thorin in quel modo: pernso che la libertà di poter scegliere soprattutto per lei sia stat molto piu’ importante di qualsiasi gesto e poi Thorin bheeeeee ha fatto il cretino e mo ne paga le conseguenze: QUALCUNO CHE VUOLE INDOVINARE COSA HA FORGIATO IL NOSTRO FABBRO? Cosa mai vorrà poi Dìs? E soprattutto… quanto è devastante la scena DwalinxDìs, anche per lei volevo creare un quadro un po' piu’ completo perché se no sembra solo molto orgogliosa ma c’è ben altro sotto.
Questo capitolo è un esperimento, sto leggendo il Silmarillion se non ve ne siete accorti e mi sono lasciata trasportare, ma spero che questa storia nella storia vi possa aver entusiasmato. Vi prego non odiatemi per questo capitolo, è il primo dopo un paio di cui sono davvero soddisfatta, forse perché ci ho lavorato quasi per un mese hahahahahhaha
E per il prossimo cosa vi aspettate? Mhmmmmm io so che voi sapete che io so che voi sapete >-> E poi accadrà una cosa, anzi piu' di una cosa molto importante <3 <3 <3 Delle gioie finalmente.
 

Ringrazio Alcalime91 e Perla16 per le recensioni che ormai sono tutte e due un appuntmaneto fisso e vi chiedo ancora scusa   e ringrazio tutti quelli che seguono: Star_of_vespers ,Thorin78 , valepassion95, Aralinn, , marisole, NekoBlonde, e GiadaHP, Perla_16, Ribes Roger e Nekoblonde, Alcalime91 e un new entry ancora… Fib23!
E un grazie a tutti quelli che leggeranno in seguito <3
 







SPOILER
"Resta con me."

 
   
 
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