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Autore: MaxB    27/08/2020    3 recensioni
Questa è una storia che ho iniziato a scrivere dopo aver finito di leggere il secondo volume, quando ancora doveva uscire il terzo.
La considero una prosecuzione della storia originale come se il terzo libro non esistesse, e narra quindi delle vicende familiari che si sono succedute dopo la fine de Gli scomparsi di Chiardiluna, con leggere modifiche alla trama.
Sostanzialmente, Thorn e Ofelia saranno alle prese con la vita quotidiana da coppia sposata, cercando di capirsi, vivere insieme e prendere confidenza l'uno con l'altra.
E con un inaspettato desiderio di Ofelia...
Genere: Fluff, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Thorn mi fa proprio ridere nei panni di genitore. Sarà OC, fuori personaggio, quello che volete, ma per me sarebbe davvero bravissimo.
(Sorvola sul fatto che non posta da più di un mese, come se nulla fosse...).
Avevo perso un po' di voglia di continuare questa storia, anche perché avevo un sacco di idee e quindi minacciava di durare ancora parecchio (e minaccia ancora di durare parecchio), ma ho fatto una scaletta e cercherò di darmi una mossa. Ci tenevo a far vedere le reazioni genitoriali di Ofelia e Thorn nei primi mesi di vita della bimba, quando tutto è una novità, ma passato questo intramezzo velocizzerò le cose (spero).
Detto ciò spero che il capitolo vi piaccia (grazie ancora e come sempre a SaphiraLupin che è sempre presente e mi tira sempre su il morale) e mi auguro di postare il prossimo senza lasciar passae un altro mese perché finalmente sto ingranando di nuovo (non a caso si chiama Ingranaggi la storia e... ok, pessima, scusate) Comunque la parte di Serena che *spoiler* chiama i genitori con i nomi personali è ispirato ad una storia che mi ha raccontato mia nonna: dal momento che con mio nonno si cjoamava per nome, mio papà li chiamava per nome invece di "mamma" e "papà". Di conseguenza hanno dovuto cominciare a chiamarsi tra di loro mamma e papà. E niente mi faceva ridere anche se è una cosa logica.


Capitolo 18

A sei mesi precisi a Serena cominciarono a spuntare i primi dentini.
Il processo fu evidente in tutta la sua esplosiva novità non perché le gengive gonfie e arrossate della bimba lasciavano intravedere delle piccole protuberanze bianche, ma perché Serena sbavava ovunque, piangeva istericamente per il fastidio, e cercava di mordere qualsiasi cosa, possibilmente fredda, per lenire il dolore.
Spesso le vittime delle sue masticazioni bagnaticce erano le dita del malcapitato di turno: la mamma, il papà, il padrino, o la zia Roseline, che però si era rifiutata di tenerla ancora in braccio dopo la prima volta che era capitato.
- Non posso farmi mordere le dita come se fossero dei biscotti appetitosi, Ofelia! Mi verrà l’artrite! – si era giustificata con scarsa convinzione.
Renard, invece, abituato a portare un gatto dagli artigli affilati sulla testa, non si accorgeva quasi del fatto che Serena gli mordeva voracemente le dita. Della bava si accorgeva eccome, però, specialmente quando aveva qualche incontro galante con Gaela. Quest’ultima si faceva vedere più spesso al castello, con gioia di Ofelia, per la quale la meccanica era, in fondo, una vera amica, forse la prima che si fosse mai fatta. Non che scambiassero chiacchiere da salotto, Gaela non era proprio il tipo, ma Ofelia sapeva che ci sarebbe stata in caso di bisogno. Per quanto fosse carina con Serena, a suo modo, cioè molto blandamente, la bimba non si azzardava a morderla. La piccola aveva capito con chi aveva a che fare, così allungava le braccia corte per afferrarle la chiave inglese o il cacciavite di turno, invece di provarci con le dita. Dopo che Serena era riuscita, per puro caso, a prendere davvero un attrezzo dalla cintura onnipresente di Gaela, Ofelia si era rifiutata di lasciargliela ancora in braccio finché avesse avuto tutta l’oggettistica da lavoro addosso. La questione si era risolta in modo confacente per tutti: Renard teneva la bambina e Gaela la intratteneva, seduta di fianco a loro.
Ofelia si tratteneva a stento dal sorridere quando li vedeva. Sembravano loro la famigliola felice.
Inutile dire che la persona con le dita più fredde e sgranocchiabili era il papà. Thorn aveva sempre le mani ossute gelide, e Serena provava un immenso sollievo a masticargliele. Sembrava che entrambe le donne dell’intendente fossero inaspettatamente e imprescindibilmente attratte dalle sue mani, con le dita lunghe e le ossa del polso sporgenti, così abili e rapide, precise come poche. Al contrario di quelle di Ofelia, piccole e maldestre. Lei aveva una specie di vera e propria ossessione per le mani del marito, ma lui non sembrava essersene accorto.
La prima volta che Serena si appropriò dell’indice del papà successe in soggiorno, dopo cena. La zia Roseline lavorava in camera con la sua macchina da cucire, che in qualche modo i parenti erano riusciti a portarle da Anima. Dopo che la sua era andata distrutta durante il primissimo viaggio da Anima al Polo, la zia non aveva più avuto il tempo di procurarsene una. Ofelia invece stava rispondendo all’ultima lettera ricevuta dai familiari, impegnandosi soprattutto nella parte di risposta che riguardava il suo caro prozio. Thorn, seduto rigidamente sul divano con Serena in braccio, tentava di leggere uno di quei manuali che trattavano argomenti fondamentali per svolgere il suo lavoro; quei tomi inutilmente grandi di cui venivano aggiornate due o tre righe ogni mese, costringendo l’intendente a rileggerseli da capo per adeguarsi alle nuove direttive. Ofelia lo considerava un compito ingrato, lei sarebbe morta di noia, lo sapeva, ma Thorn non si lamentava mai. L’unica nota positiva era che quei volumi erano spesso rilegati e facevano una bella figura nello studio del marito; e potevano essere utilizzati come armi all’occasione.
Serena, silenziosa a parte qualche gorgoglio tranquillo, era tutta accartocciata con la schiena premuta contro la pancia del papà. Lanciandole occhiate intenerite di tanto in tanto, Ofelia si chiedeva quanto il ventre del marito potesse essere comodo, piatto e ossuto com’era. Eppure, alla figlia non sembrava dispiacere tanto quanto non dispiaceva a lei. Serena si mise ad osservare, ad un certo punto, le mani del papà che giravano le pagine di quel codice civile soporifero ad una velocità sorprendente, se si teneva conto del fatto che lo stava leggendo. Ofelia mise giù il calamaio e guardò la figlia, incuriosita. Fulminea come il padre, Serena afferrò con le tozze e cortissime dita, non per questo deboli, l’indice destro del papà, portandoselo alla bocca.
L’espressione di Thorn fu talmente imprevedibile che Ofelia scoppiò a ridere: rigido dalla testa ai piedi, sgranò gli occhi e si guardò attorno come se qualcuno gli avesse dato una scossa. Nel giro di poco la mano si riempì di bava e Serena si mise a ridacchiare, sollevata, ma Thorn non fece nemmeno il tentativo di togliere il dito dalla bocca bagnata della figlia.
Rimase lì, fermo come uno spaventapasseri, con lo sguardo affilato, a farsi mangiucchiare le falangi. Alcuni minuti dopo, con il braccio libero si risistemò meglio la figlia in grembo e riprese a leggere, tenendo in equilibrio il tomo voluminoso con una sola mano e molta maestria.
Ofelia si commosse vedendo quanto Thorn fosse cambiato per lei e per la loro figlia. Ossessivo, maniacale, fissato con la pulizia e l’igiene, si stava sottoponendo senza un lamento ai capricci di Serena, accettando di tenere un dito dentro la cavità orale bagnata e sdentata della figlia. In quel momento Ofelia avrebbe tanto desiderato avere la macchina fotografica di Hector, per immortalare il momento, ma si limitò ad osservarli rapita.
Alla fine Serena si addormentò addosso a Thorn, che estrasse delicatamente il dito dalla bocca della piccola e se lo asciugò senza nemmeno una smorfia di disgusto su un fazzoletto, estratto dalla giacca. L’unico segno di corrucciamento che ebbe fu un aggrottamento delle sopracciglia quando si rese conto che la bava era finita un po’ ovunque, e sarebbe stato difficile pulire con un solo fazzolettino.
Accorrendo in suo aiuto, impietosita dalla scena, Ofelia cercò di asciugare la bimba e il marito come poté. L’enciclopedia gigantesca, o qualunque cosa fosse quel mattone che Thorn stava leggendo, era bagnato di bava sui bordi, così Ofelia si affrettò a pulirlo per evitare che le pagine sottili si increspassero.
Ne ruppe qualcuna, ma non se ne preoccupò molto: la zia Roseline avrebbe potuto aggiustarle senza fatica.
Sentendosi osservata, Ofelia alzò la testa e si ritrovò incatenata nella morsa degli occhi di Thorn, affilati e insistenti.
Fraintendendo, lo rassicurò: - La zia può aggiustare la carta senza problemi, domani sarà come nuovo.
Invece di rispondere, Thorn si sporse quel tanto che bastava per baciarla. Un bacio di quelli seri, intensi, affannosi. Ofelia gli avrebbe infilato le dita tra i capelli se non fossero state coperte di saliva e se Serena non fosse stata addormentata in mezzo a loro. Avrebbe dovuto dare una bella pulita ai guanti…
Thorn si staccò e aspettò che Ofelia indietreggiasse per alzarsi, portando con sé Serena. Per quanto fosse stato repentino, la piccola continuò a dormire placidamente, ignara dei movimenti bruschi del padre. O forse così protetta da non essersene accorta.
Andarono in camera in silenzio e, mentre Ofelia finiva di pulirsi in bagno, Thorn mise Serena nella culla. Non fece nemmeno in tempo a finire di asciugarsi le mani che il marito la placcò contro l’ampio mobile, facendovela sedere. Reclamò la sua bocca riprendendo da dove si erano interrotti in salotto.
- Che ti prende? – chiese Ofelia poco dopo, con il fiato corto, mentre Thorn le accarezzava le gambe sotto il vestito, facendole venire caldo. Più caldo.
Lui le lanciò un’occhiata di ferro senza rispondere. E senza fermarsi o indugiare. Solitamente Thorn era così irruente quando era particolarmente stressato o quando, per un motivo o per un altro, non condividevano l’intimità per un periodo troppo prolungato, ma la loro ultima volta era stata quella mattina… frettolosa, certo, ma c’era stata.
Rassegnata a non ottenere risposta, Ofelia lo attirò comunque a sé, desiderando sentirlo più vicino, quando lui le mormorò sul collo: - Mi è venuta in mente una cosa.
Perplessa, Ofelia ci mise qualche istante a capire che Thorn stava rispondendo alla sua domanda. Il fatto che le stesse torturando la pelle sensibile della gola, inoltre, non l’aiutava certo ad essere ricettiva…
- Mh? – lo spronò. O forse era solo un gemito inarticolato.
- Mi sono ricordato della nostra settecentoquarantunesima volta, trentotto giorni fa.
Di colpo presente, Ofelia si staccò da lui e lo guardò con gli occhi spalancati dietro gli occhiali storti. Settecentoquar… cosa?
- Di cosa stai parlando?
- Del nostro amplesso di trentotto giorni fa.
Thorn era serio come se stesse dicendo ad Ofelia a quanto ammontavano le tasse che pagavano. E impaziente. Più impaziente, rispetto al pagamento delle tasse.
Ofelia impiegò più del previsto a capire bene le implicazioni di ciò che Thorn le stava dicendo. – E trentotto giorni fa abbiamo fatto… siamo stati insieme per la settecentoquarantesima volta?
- Settecentoquarantunesima. La quarantesima è stata quella stessa mattina. Alle due del mattino, a dire il vero, quando Serena si è svegliata e tu non sei più riuscita a prendere sonno.
Ofelia vide tutto rosso all’improvviso, e sentì anche le guance scaldarsi per l’imbarazzo. – Tu le conti tutte?
Thorn sembrava irritato. Sbuffò leggerissimamente. – Io non dimentico mai nulla.
- Certo, lo so, ma anche il numero di…
Ofelia si ritrovò a balbettare. Se ricordava il numero di volte in cui lo avevano fatto, ricordava con precisione anche cosa avevano fatto? Tutto, per ogni singola volta?
Thorn sembrò leggerle nel pensiero. – Sì, anche il numero di. E come. Non è volontaria questa cosa, nel caso in cui te lo stessi chiedendo.
Ofelia si rese conto che anche Thorn era un po’ a disagio: aveva le orecchie rosse e guardava da un’altra parte. Si sentì un po’ meschina: non era colpa del marito se la sua memoria così formidabile gli faceva ricordare ogni particolare di ogni conversazione ed evento. Allo stesso tempo era affascinata dal sistema di catalogazione del suo cervello. Era incredibile che riuscisse a ricordare ogni singola volta, a numerarla, porla in ordine cronologico e addirittura dire cosa avessero fatto. D’un tratto fu più curiosa che attonita.
- E cosa abbiamo fatto la settecentoquarant…, insomma cosa ti è venuto in mente?
Thorn, sempre più rosso in volto, le lanciò un’occhiata di sottecchi. Si schiarì la gola. – Posso rinfrescarti la memoria, se vuoi.
Ofelia sorrise, annuì e lo assecondò, in modo che aiutasse anche lei a ricordare cosa avevano combinato quel giorno.
Prima di addormentarsi rifletté sul fatto che Thorn era una specie di diario umano, una raccolta vivente di ricordi, dialoghi, avvenimenti e fatti quotidiani. Si sentì al sicuro, perché non avrebbe mai scordato nulla, e nel caso in cui la sua memoria fallibile fosse venuta meno, Thorn sarebbe sempre stato pronto ad andare in suo aiuto.
E anche a ricordarle le altre settecentoquaranta volte in cui si erano amati. Sì, quello era davvero utile. Anche un po’ di più.
 
- Credo sia ora di smettere di allattarla – disse la zia Roseline, solenne.
- Un po’ alla volta, magari – si intromise Berenilde, diplomatica.
Serena aveva ormai quasi otto mesi, e con due dentini ben formati e altri due spuntati per metà, Ofelia soffriva un vero e proprio calvario ogni volta che Serena reclamava il suo pasto. Aveva sottoposto la questione alle due zie, certa che avrebbero avuto ottimi consigli da darle.
- E come dovrei fare? Ha ancora bisogno di latte – fece notare Ofelia.
Cercò di fare mente locale circa lo svezzamento delle sue tre sorelline più piccole, ma all’epoca non era stata molto interessata alle fasi di crescita delle gemelle. Come poteva, visto che non voleva nemmeno sposarsi? Figurarsi poi diventare madre…
- Basterà ricorrere al buon vecchio biberon – fece notare Berenilde, le cui erre scricchiolanti calcarono per bene la parola “biberon”. Ofelia si sorprendeva sempre di come l’accento del Polo fosse melodioso in bocca alla madama e duro sulle labbra di Thorn. – Inoltre potremmo cominciare ad affiancare il latte ad un po’ di frutta grattugiata, per variare la dieta e introdurre delle vitamine, oltre al calcio. A Vittoria piacevano tantissimo. Vero, tesoro?
La bambina, sentendosi presa in causa, alzò la testa facendo ondeggiare i lunghi capelli bianchi. Si distrasse dal suo disegno quel tanto che bastava per annuire e poi continuò a colorare. Sbirciando l’opera della cuginetta, Ofelia si augurò che il bambino che aveva raffigurato insieme a lei e Salame non fosse Tom. Era davvero troppo presto per le questioni amorose, a sei anni.
- Mi è capitato di parlarne con la governante, quella donna sa veramente il fatto suo. Un’enciclopedia per bambini – si intromise la zia Roseline, che ci teneva ad esprimere la propria opinione.
La governante era la levatrice che l’aveva aiutata a partorire e veniva spesso interpellata per alcuni consigli sulla crescita di Serena. Talvolta, anzi spesso, li offriva anche senza che le venissero chiesti.
- Va… va bene, allora. Comincerò ad integrare la sua dieta con la frutta e proverò a darle il biberon.
Ofelia non era restia all’idea, a quel cambiamento. Allattarla aveva cominciato ad essere davvero doloroso, però… rendersi conto che Serena stava già crescendo a vista d’occhio le fece crescere dentro una strana malinconia. Scacciando quei pensieri irragionevoli si diresse verso la cucina, dove sapeva che avrebbe trovato la governante. Era ora che Serena provasse a mangiare qualche pappetta.
 
- Non ne vuole sapere del biberon, è inutile – sbuffò Ofelia, contrariata, mentre Serena faceva i capricci sdraiata sul letto matrimoniale.
Con il biberon caldo in mano, fissava la figlia come a volerla sgridare con lo sguardo. Non poteva certo cominciare a farla combattere a nemmeno un anno, giusto? Serena piagnucolava e, ogni volta che la mamma provava ad avvicinarle la tettarella alle labbra, lei voltava la testa categoricamente e si metteva a frignare: più eloquente di così c’erano solo gli sguardi di Thorn.
Quest’ultimo osservava la scena in piedi accanto al letto, imbronciato.
Alla fine, cedendo, Ofelia la prese in braccio e se l’attaccò al seno, facendola calmare. Mentre l’allattava aggrottò le sopracciglia: la componente cocciuta in famiglia non mancava, tra Berenilde, sua mamma Sophie, lei stessa, doveva ammettere, e persino Thorn; anche la zia Roseline… ma insomma, Serena non aveva neanche un anno! Era troppo presto per impuntarsi in quella maniera.
Thorn si schiarì la voce accanto a lei. – Potrebbe dipendere dal fatto che con te è abituata all’allattamento al seno?
Ofelia lo guardò dal basso, adagiandosi sui cuscini per riuscire a vederlo bene in volto. Rendendosi conto del suo sforzo, Thorn si sedette sul bordo del letto, accanto a lei, per essere più vicino alla sua altezza.
- Cosa?
Thorn si schiarì ancora la gola, come sempre, aveva imparato Ofelia, quando era a disagio. – Ho letto un manuale sullo svezzamento e… sulla crescita, insomma. Alcuni esperti dicono che il bambino, quando è così piccolo, fa delle associazioni da cui è difficile distaccarsi in seguito. Forse associa te all’allattamento al seno, e fatica a comprendere cosa sia il biberon. Magari, se provassi a darglielo io…
- Nel senso che quando ha fame reclama solo il latte nella modalità classica?
- Sì, si potrebbe dire così – concesse Thorn, aggrottando le sopracciglia ancora di più.
- Proviamo, allora. Inizia ad essere davvero fastidioso, specialmente con i dentini.
Thorn accartocciò tutto il viso, un po’ per il commento e un po’ per quello che si accingeva a fare, e prese Serena dalle braccia di Ofelia. La bambina si ribellò leggermente dal momento che non aveva ancora finito, ma quando il papà la guardò con il suo solito cipiglio si acquietò subito. Serena, si rese conto Ofelia, non aveva paura del papà, ma solo lui riusciva a trasmetterle un senso di pace così profondo da contagiarla. Thorn non era mai nervoso quando la prendeva in braccio, e appena la toccava sembrava che anche le sue onnipresenti occhiaie sbiadissero. La presenza di Serena era catartica per lui, in un modo che Ofelia ancora faticava a comprendere.
- Cosa devo fare? – chiese lui dopo un po’, quando la piccola ricominciò ad agitarsi.
- Prima di tutto devi versarti una o due gocce di latte sul dorso della mano o sul polso, per saggiare la temperatura del latte. Se è troppo caldo si brucia la bocca, se è troppo freddo non lo vuole. Non è scaldato naturalmente come quello mio.
Ancora una volta, Thorn si imbronciò di fronte a quel commento. Di Ofelia aveva visto tutto, in tutti i momenti, buoni o cattivi che fossero, conosceva il suo corpo quasi meglio di quanto conoscesse il suo, eppure… certe frasi proprio lo mettevano a disagio. In ogni caso obbedì, decretando che il latte tiepido doveva essere… corretto, insomma.
- Poi? – la incalzò, come se Ofelia l’avesse costretto e lui non si fosse offerto volontariamente.
- Poi basta, le avvicini il biberon alla bocca e lei dovrebbe bere. In teoria.
Con le sopracciglia più che mai aggrottate, come se quella di dare il biberon alla figlia fosse una sfida, Thorn le appoggiò piano la tettarella alle labbra. All’inizio Serena parve confusa quanto il padre, e Ofelia quasi trasalì quando la vide accigliarsi: ci mancava solo che prendesse anche le espressioni facciali, da Thorn. Eppure era una bamba sorridente…
Quando poi Serena si sentì le labbra umide, ci passò sopra la piccola lingua rossastra, e capì quello che il papà stava cercando di fare. Pochi istanti dopo succhiava avidamente il biberon, guardando Thorn, ancora un po’ perplessa davanti a quello scambio di ruoli, eppure contenta di mangiare.
Ofelia sorrise di fronte alla scena, e tirò un sospiro di sollievo. Non voleva proprio più saperne di allattare, almeno per qualche anno.
Sorrise ancora di più nei giorni successivi, comunque, quando Thorn si autoproclamò allattatore ufficiale, anche se detta così suonava strano. Si occupava lui, quando era a casa, di dare il biberon alla piccola, ordinando alla levatrice di preparaglielo. Nulla poteva competere con le espressioni sbigottite di Berenilde e della zia Roseline. Quest’ultima, in particolare, ogni volta che lo vedeva seduto sul divano intento a leggere con un braccio che sorreggeva Serena e le dava il biberon, mugugnava che la scena era paradossale quanto un libro sedicente ad una riunione delle Decane. Ofelia non poteva darle torto, ma le piaceva guardare Thorn immerso nelle sue letture e allo stesso tempo presente ad ogni minimo cambiamento umorale di Serena.
Aveva fatto tesoro di tutto ciò che non aveva ricevuto lui durante la sua infanzia e lo stava riversando sulla figlia così che non dovesse patire lo stesso trattamento. Ofelia si vergognò di aver dubitato delle capacità di Thorn come padre. Quando si applicava era inarrestabile, forse avrebbe addirittura potuto crescere Serena da solo.
Quando però alzò lo sguardo brevemente per incontrare il suo, in un lampo di metallo affilato, Ofelia si sentì rabbrividire piacevolmente. No, lui non avrebbe potuto crescere Serena da solo come lei non avrebbe potuto farlo. Erano una squadra, un insieme, e Thorn non sarebbe mai più stato solo.
Prima erano in due, ora in tre. Ed erano perfetti, così insieme.
 
La cosa più divertente delle giornate di Ofelia, che sentiva terribilmente la mancanza del suo lavoro, certi giorni, era Renard. Badare a Serena le piaceva, era appagante, si sentiva utile e adorava la figlia, ma era consapevole di non essere nata per fare la donna di casa e madre di famiglia. Thorn lo sapeva, e l’aveva accettata per questo, con la sua indipendenza, ma allo stesso tempo Ofelia non poteva né abbandonare Serena né portarla al lavoro con sé. La piccola aveva ormai undici mesi, e il tempo era volato mentre lei cresceva a vista d’occhio. I capelli biondi fini come le piume di un pulcino si erano ispessiti ed erano cresciuti, creando uno strano ma piacevole contrasto con i grandi occhi scuri. Era vivace e allegra, ma silenziosa, tranquilla. Raramente strepitava e urlava o si comportava in modo riprovevole. In ogni caso, niente e nessuno era in grado di far ridere la piccola, e la madre, come il padrino e consigliere Renard.
L’ex valletto di Chiardiluna, decisamente sprecato e maltrattato nel suo vecchio ruolo, sembrava aver guadagnato nuova vita da quando era nata la figlioccia, che adorava. Ofelia sapeva che parte del merito andava anche, e soprattutto, ad una certa madrina-meccanica, però Renard stravedeva per Serena.
Ogni giorno salutava prima lei di tutti gli altri, che nella stanza ci fossero Thorn, Ofelia, la zia Roseline o Berenilde. L’unica eccezione era Gaela, ma era concepibile, dal momento che Renard sembrava prendere fuoco quando la vedeva. La ragazza dai modi rozzi e diretti passava spesso per casa di Ofelia, ufficialmente per salutare la figlioccia, ufficiosamente per pomiciare di nascosto con Renard. Serena si divertiva sempre a giocare con la sua cintura degli attrezzi, e spesso le prendeva la sigaretta che Gaela teneva perennemente all’angolo della bocca. Ogni volta che accadeva Ofelia si augurava che Serena non la masticasse o ciucciasse, ma fortunatamente Gaela, per quanto menefreghista delle regole e delle convenzioni, la riacchiappava sempre in tempo e, sorridendo alla bambina, la metteva via. Quando la vedeva sorridere così dolcemente Ofelia capiva come mai Renard si fosse innamorato perdutamente di lei.
In ogni caso, quest’ultimo era di gran lunga il più chiamato in casa. Berenilde lo chiamava per farsi fare qualche favore, come chiedere un goccetto di brandy o farsi portare qualcosa dalla cucina; la zia Roseline lo utilizzava come scala umana per farsi prendere qualche volume rovinato dalla biblioteca di casa nei momenti di nostalgia estrema in cui si metteva a riparare ogni pezzo di carta che trovava; Ofelia lo chiamava per chiacchierare la maggior parte delle volte, o per farsi ridare Serena; Vittoria per giocare, perché l’Omone tutto Rosso, come lo chiamava lei ogni tanto, la sollevava e faceva volare come se fosse una piuma. L’unico a non chiamarlo era Thorn, ma lui non chiamava mai nessuno.
Non fu quindi una sorpresa quando, durante una cena con Berenilde, la piccola Serena, di punto in bianco, disse: - Enad.
Cinque paia di occhi si voltarono verso di lei, mentre la zia Roseline e Berenilde, che tenevano sempre banco, si zittirono.
- Cos’ha detto? – chiese Vittoria, interessata.
Come se avesse capito di essere stata interpellata, la piccola ripeté: - Enad!
Alzò le braccia grassottelle verso il padrino, che stava passando di là in quel momento, facendolo bloccare nella camminata. Il suo volto prese fuoco come i suoi capelli, mentre gli occhi gli si inumidivano.
- Mi hai chiamato, piccola signorina? – chiese con la voce spezzata.
Una volta l’aveva chiamata figliola, ma si era attirato un’occhiata talmente incattivita da parte di Thorn che aveva fatto marcia indietro immediatamente. Piccola padroncina aveva fatto storcere il naso ad Ofelia, invece; già non tollerava che chiamasse lei padrona, figuriamoci sua figlia, che era la figlioccia di Renard. Alla fine aveva optato per piccola signorina, che aveva quietato tutti quanti.
- Enad! Enad! – canticchiò lei, aprendosi in un sorriso.
Thorn ripose la forchetta con una calma talmente ponderata che avrebbe zittito persino l’audace Archibald. Era una quiete di facciata che in realtà nascondeva una furia malcelata e pronta ad esplodere. Renard se ne accorse e, invece di prendere in braccio Serena, avvampò ancora di più, le accarezzò brevemente il viso e si allontanò, facendo imbronciare Serena,
- Con il vostro permesso, signore e signor intendente, mi accingo ad uscire. Vi auguro una piacevole serata e… una buona notte! – disse in fretta imboccando l’entrata.
Ofelia guardò il marito con aria quasi delusa mentre Serena scoppiava a piangere. La zia Roseline e Berenilde si misero a discutere di dialoghi infantili e prime parole, mentre Ofelia cercava di placare il pianto della figlia. Thorn, alzandosi in silenzio e muovendosi in fretta come sempre, gliela prese dalle braccia e si dileguò.
Ofelia sospirò, ma decise di non indagare.
Più tardi, quella sera, trovò Thorn seduto a letto con la figlia sulle gambe, evidentemente esausta, mentre cercava di insegnarle a pronunciare il suo nome.
Entrò in camera proprio mentre lui scandiva: - Thorn… - con le sue r scricchiolanti e arrotolate, e la bambina esplodeva in un: - Enad! – stizzito.
Ofelia non sapeva se ridere o essere esasperata; il cipiglio tra le sopracciglia di Thorn le fece capire che la lezione di nomi andava avanti ormai da parecchio. Si avvicinò tentando di non cadere e depositò la sciarpa sul letto. Prese Serena dalle mani del padre e la lavò e cambiò.
Era passata quasi mezz’ora quando si sedette accanto a lui sul letto, con Serena ormai pronta ad addormentarsi in braccio suo. Thorn non si era mosso di un millimetro da quando gli aveva tolto la figlia di dosso.
Non sapendo cosa dire, lo chiamò con voce sommessa: - Thorn?
Lui si incurvò, evidentemente scoraggiato. – Non sono un buon padre.
- Lo dici perché la prima parola di tua figlia è il nome del padrino? Lo chiamiamo ogni secondo, Thorn, è il nome che Serena sente pronunciare di più in assoluto.
- Enad… - biascicò Serena in risposta, il secondo prima di cedere definitivamente al sonno.
Ofelia provò a metterla in braccio al marito, ma lui rifiutò.
- Thorn, Serena ti adora. Vedrai che nel giro di due giorni imparerà a pronunciare anche il tuo, di nome.
Thorn non sembrava convinto, e alla fine si alzò per cambiarsi, in silenzio. Ofelia sospirò piano mentre depositava Serena nella culla, notando all’improvviso quanto fosse diventata pesante. Ormai la sua piccola aveva quasi un anno, e oltre a crescere di stazza stava iniziando anche a parlare. La cosa la commosse. Voleva che Thorn vedesse quella prima parola come un traguardo, non come una sconfitta. Si sentì terribilmente malinconica e si diresse verso il marito, che si stava levando la camicia.
Lo abbracciò da dietro, accarezzandogli il petto. Thorn si irrigidì contro di lei, ma non rispose alla carezza. Era troppo scoraggiato per prestarle attenzione.
- Thorn – mormorò lei, depositandogli un bacio sulla schiena. – La nostra bambina sta crescendo. Non puoi gioire di questo invece di soffermarti sulle quisquilie?
Thorn si voltò guardandola dall’alto, facendola sentire più piccola di quanto già non fosse. – E una volta cresciuta? Cosa diventerà? Cosa le impedirà di allontanarsi?
Ofelia comprese che dietro la momentanea a apparente gelosia di Thorn si celava un problema ben più radicato e profondo. La paura dell’abbandono, quella paura che ancora lo ghermiva e lo rendeva schiavo, nonostante gli anni d’amore e lealtà che lei gli aveva donato a cuore aperto. Thorn amava sia lei che Serena ma, mentre era certo che avrebbe avuto Ofelia sempre al fianco, non poteva essere del tutto sicuro che la figlia un giorno non si sarebbe scelta la sua strada; avrebbe amato qualcuno più di quanto amava loro.
- Thorn, è ovvio che un giorno si allontanerà. Si sposerà, avrà dei figli, anteporrà loro a noi. Ma questo non vuol dire che ci dimenticherà, che si scorderà di noi, o che proverà meno affetto per noi.
Thorn la fissava con occhi da rapace, fissi, affilati, metallo brillante nella penombra della camera. Tutto fuorché convinto.
- Avere Serena ha fatto diminuire il tuo affetto per me? – gli chiese allora Ofelia, sperando che il marito non si ritraesse di fronte a quella conversazione sentimentale. Non era decisamente il suo campo.
- No – sancì lui, lapidario, senza mutare espressione.
- Lei crescerà e non starà per sempre con noi, Thorn. Il fatto stesso che oggi abbia detto la sua prima parola ne è una dimostrazione. Ospiterà più persone nel suo cuore, farà nuove conoscenze, ma ci sarà sempre uno spazio per noi. Il fatto che abbia imparato a pronunciare prima il nome di Renard non significa che ami più lui di me o te. Semplicemente, forse non sa nemmeno come chiamarti. Non vedi come allunga le braccia verso di te appena ti vede? Non importa chi la tenga, se io, Renard o le zie, quando vede te vuole te, ed è testarda come qualcuno di mia conoscenza.
Ofelia vide le sue narici fremere, forse nel tentativo di trattenere uno sbuffo, o un sospiro. Non era pienamente d’accordo con quel discorso, probabilmente non lo sarebbe mai stato, ma quanto meno lo sentì meno rigido tra le sue braccia. Si alzò sulle punte dei piedi, disposta a tutto pur di fargli cambiare atteggiamento. Non le piaceva vederlo così teso, e lei aveva la capacità di distrarlo.
Ormai non si faceva più nessuna remora ad utilizzarla.
- Thorn – bisbigliò al suo orecchio. O almeno, ci provò, dato che rimaneva più bassa di lui di una testa e mezzo, nonostante si fosse alzata sulle punte. – Ripeterò il tuo nome così tanto che lo pronuncerà anche nel sonno.
Le lunghe braccia di Thorn si chiusero su di lei senza preavviso, come una gabbia, e un secondo dopo Ofelia sentì il materasso sotto di sé.
- Comincia ora – le ordinò lui, chinandosi su di lei.
- Thorn… - mormorò ancora, posandogli un bacio sul collo.
Quella notte ripeté il suo nome così tanto da fargli perdere significato, fino a renderlo un ammasso di lettere senza senso, che avevano il solo scopo di far rabbrividire di piacere il proprietario.
Il giorno dopo Ofelia passò più tempo possibile con Serena, sentendosi a volte stupida, e altre volte temendo che persino la bambina si sentisse stupida, a ripetere sempre “io sono la mamma” e “Thorn è il tuo papà”.
La sera Serena era ormai stufa di sentirla, ma aveva imparato una nuova parola: Thorn.
Peccato che, quando Thorn rincasò e la bambina lo vide, urlò di nuovo: - Enad! – allungando le braccia grassottelle.
Thorn si accigliò e, ancora vestito con la giacca da intendente e con una voluminosa pila di fascicoli sotto braccio, si avvicinò a Ofelia e alla figlia senza intenzione di prenderla in braccio. La bambina si agitò, desiderosa di sfuggire alla mamma che ripeteva da troppe ore sempre le stesse cose.
Ofelia si raddrizzò gli occhiali sul naso mentre la sciarpa, anch’essa esasperata, le stringeva troppo il collo.
- Serena, lui è papà Thorn.
- Thon! – urlò la bambina, stizzita.
- Papà Thorn! – esclamò anche Ofelia, sentendosi ancora più sciocca. Non faceva per lei quel ruolo…
- Thon!
La sciarpa strinse ancora più forte Ofelia, costringendola a distrarsi per allentarsela e non morire soffocata. Lanciò comunque un’occhiata a Thorn. Invece di trovarlo deluso, con la bocca ridotta ad una riga sottile e la mascella contratta, notò che aveva una luce diversa negli occhi.
Lui allungò il braccio libero, facendo intendere ad Ofelia che doveva mettergli Serena in braccio, e quando la piccola urlò di nuovo il suo nome, notò un’altra scintilla impossessarsi del suo sguardo. Vederlo così le fece esplodere il petto di amore e orgoglio, e gli avrebbe dato un bacio se lui non fosse stato troppo in alto e troppo impegnato per riuscirci.
Quella sera, fortunatamente, a cena erano soli, dato che Berenilde e Vittoria si erano prese il raffreddore e la zia Roseline aveva deciso di stare con loro per accudirle. Quando Ofelia chiese a Thorn il sale, Serena si agitò, esclamando: - Thon!
Questa volta Thon si accigliò. – Non può continuare a chiamarmi Thorn.
- Lo so – mormorò Ofelia, prendendola in braccia, stanca. Poi ebbe un’idea. – Papà – disse, facendo inarcare un sopracciglio a Thorn, - mi passi anche il pepe, per favore?
- Papà! – urlò Serena, battendo le mani.
Quello che Ofelia scorse sul viso di Thorn fu un lampo di pura gioia, innegabile, anche se il suo volto rimase inespressivo come suo solito. Solo un occhio allenato come il suo era in grado di cogliere le più piccole sfumature di emozione che gli modificavano il volto. Continuarono così per tutta la durata della cena, con Thorn che chiamava Ofelia “mamma” e lei che si rivolgeva a lui come “papà”. Serena finalmente capì, e quando fu ora di andare a letto si rivolse ai genitori con i giusti appellativi senza bisogno di aiuti.
Thorn la mise a letto e rimase accanto a lei, in piedi, finché si addormentò. Poi si diresse in fretta, silenziosamente, verso la moglie, tanto da coglierla di sorpresa.
La sua alta e dinoccolata figura si richiuse su di lei senza preavviso. Ofelia rispose al bacio in ritardo, faticando a capire cosa stesse succedendo.
- Stai bene? – gli chiese quando si separarono per riprendere fiato.
- Sì. Anche un po’ di più, mamma.
Quella notte Ofelia scoprì che chiamare Thorn “papà” aveva su di lui un effetto afrodisiaco, e ne approfittò senza freni. Thorn aveva finalmente realizzato che erano un nucleo, una famiglia, composta da padre, madre e figlia, e in cui lui ricopriva il ruolo più importante in assoluto.
Quando, più tardi, si ritrovò schiacciata piacevolmente dal peso di Thorn, le cui ossa premevano contro di lei senza darle fastidio, Ofelia si spostò i riccioli dalla fronte e mise via gli occhiali. Accarezzò la nuca del marito, abbandonato contro di lei, e pensò che la felicità poteva ridursi a quello: il corpo di Thorn contro il suo e la piccola che dormiva accanto a loro.
  
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