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Autore: Saelde_und_Ehre    18/09/2020    4 recensioni
Due aviatori britannici sono impegnati nella guerra contro i giapponesi sul fronte del Pacifico. Durante le battaglie sono abituati a cavarsela anche nelle situazioni più estreme, ma i pericoli peggiori sono quelli che giungono inaspettati.
Genere: Azione, Hurt/Comfort, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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Nuova avventura, nuovo delirio.

Questa novella nasce da una challenge tra appassionati di scrittura: per una volta ho provato a "cambiare schieramento" e tirare fuori dal cilindro personaggi nuovi (anche se i vecchi, in un modo o nell'altro, torneranno a fare capolino tra le pagine) e si spera che il risultato sia decente.

Potreste trovare: british humour come se piovesse, stereotipi culturali usati a scopi goliardici, britannici sofferenti.

Se non siete ancora scappati a gambe levate, vi lascio alla lettura.

La storia è dedicata alla carissima Spoocky, che spero apprezzerà.

 

Capitolo 1

L’accampamento britannico era ancora immerso nel silenzio, interrotto soltanto dalle voci di meccanici e armieri e dall’affaccendarsi dei cuochi da campo che preparavano la colazione per i piloti.
Il sergente di squadriglia Samuel MacPhearson tastò la tasca dell’uniforme, incontrando la consistenza familiare di un libro in edizione tascabile, poi strinse il nodo della cravatta e di soppiatto uscì nel piazzale senza degnare di ulteriori sguardi il suo parigrado e compagno di tenda, che russava scomposto sulla branda.
Indugiò per un po’ all’esterno, fece qualche passo nell’atmosfera sospesa della prima alba, riconoscendo gli edifici di legno della base e le figure familiari degli Spitfire che riposavano sul prato, vicini alla pista di decollo. Una brezza leggera, proveniente dalla costa, diffondeva nell’aria la fragranza dei cedri e del legno di sandalo, alle quali andavano a sovrapporsi le note umide del limo, e increspava le onde di un mare nero come pece su cui la luce dell’alba spandeva una colata di metallo fuso. Ancora avvolta dall’oscurità, la foresta riecheggiava dei cinguettii di svariati uccelli. La Union Jack e la bandiera azzurra della Royal Air Force ondeggiavano pigre sul pennone.
Di nuovo, il sergente sfiorò i contorni del libro che teneva in tasca, poi aspirò con voluttà l’aria frizzante del mattino: era quello il momento della giornata che preferiva, quando non c’era ancora nessuno in giro.
Dalle cucine proveniva l’odore di pane tostato, bacon, caffè e uova; qualche minuto dopo riecheggiò nell’aria il suono della sveglia e i piloti iniziarono a svegliarsi con grugniti, sbadigli e fruscii di coperte, mentre il sole si alzava all’orizzonte e i contorni delle cose si facevano più nitidi. Alcuni erano già usciti e blateravano con aria svagata parole a cui MacPhearson non prestò ascolto.
Il sottufficiale arricciò il naso, consapevole che i momenti di pace non duravano mai abbastanza. Rivolse un saluto militare al tenente Woods e si diresse a grandi passi verso le cucine, dove i cuochi gli fecero trovare un piatto già pronto e una tazza di tè, poi lanciò un’ultima occhiata ai suoi commilitoni che continuavano a chiacchierare e si allontanò tenendoli accuratamente a distanza.
Con la coda dell’occhio notò che si stavano tutti quanti riunendo intorno alla tavola allestita sotto un tendone, riempiendosi i piatti di cibo e scambiandosi frasi di circostanza, e che il sergente Fowler comparve alla vista quando gli altri erano già tutti seduti.
Camminava con la sua solita andatura dinoccolata e svagata, spostando lo sguardo dalla tavola imbandita al cielo striato d’arancio. Si sistemò il berretto, che come al solito gli ricadeva sulle ventitré, poi salutò il tenente e si scusò con una risatina nervosa.
Quel damerino con la faccia da cavallo è di nuovo in ritardo, pensò MacPhearson, reprimendo un leggero ghigno mentre rievocava l’immagine del suo compagno di tenda spiaccicato sulla branda. Decise in ogni caso che la cosa non lo riguardava, drizzò le spalle e, come ogni mattina prima di una missione, con passo marziale si avvicinò agli aerei: otto di essi, a imitazione delle Tigri Volanti, avevano fauci dentate dipinte sul muso; il nono aveva soltanto la mimetica regolamentare della RAF, il codice di serie e i simboli di ventisei abbattimenti – bandiere tedesche, giapponesi e italiane – sotto il cockpit.
Un giovane meccanico con la faccia e i vestiti sporchi di olio lo raggiunse, si mise sull’attenti e salutò militarmente. “Buongiorno, signor sergente.”
“È a posto, John?” chiese il sottufficiale, indicando l’unico Spitfire senza personalizzazioni.
“Già pronto, armato e tirato a lucido, signore, come da lei richiesto. L’abbiamo rimesso in sesto abbastanza in fretta.”
MacPhearson annuì asciutto. “Buono a sapersi.”
Quando il meccanico se ne fu andato, prese la sua solita sedia da campo e si sedette all’ombra dell’ala, il vassoio della colazione poggiato sulle ginocchia, e trasse fuori dalla tasca una copia consunta di Waverley di Walter Scott.
Un leggero sorriso gli stirò le labbra mentre, sorseggiando il tè, si immergeva nell’atmosfera selvaggia e familiare delle Highlands. Il chiacchiericcio di sottofondo scomparve e a lui parve di sentirsi di nuovo a casa, tra le verdi distese ondulate e battute dalle intemperie, i castelli solitari, i laghi che riflettevano il cielo e le scogliere a picco, anche se a separarlo dalla Scozia c’era una mezza giornata di fuso orario di distanza.

Anche dopo aver salutato il tenente Woods, il sergente Thomas Fowler rimase in piedi di fronte alla tavola con le braccia dietro la schiena, a osservare attentamente i vassoi, il modo in cui erano disposti e tutto ciò che contenevano.
“Non si siede, sergente?” domandò cortesemente l’ufficiale.
Egli si limitò a fare spallucce. “Sono un aviatore, per me la visuale dall’alto è sempre la migliore,” replicò con un sorriso, i muscoli tesi come molle. Prese una fetta di pane ancora caldo, vi spalmò una cospicua dose di burro e due fette di bacon arrotolate, e iniziò a mangiare con una mano mentre con l’altra si versava il caffè.
Woods alzò gli occhi al cielo. “La vedo in forma, sergente.”
“Sempre in forma, signore, soprattutto quando c’è da andare a caccia.”
L’ufficiale annuì, si sistemò il tovagliolo sulle ginocchia e tornò a mangiare come se quel discorso non avesse mai avuto luogo. Fowler si sorprese per quello scambio che era durato anche più del previsto: di solito Woods rivolgeva la parola ai suoi subalterni solo per le comunicazioni ufficiali ed era sempre calmo, quasi flemmatico, ma quel giorno sembrava in vena di parlare più del solito.
“Notizie dal capo squadrone, signor tenente?” gli domandò.
Woods sorbì pensieroso il suo tè. “Se la passa sicuramente meglio di noi: dorme venti ore al giorno ed è costantemente servito e riverito, senza nemmeno pagare il soggiorno.”
“Ineccepibile.”
Tra i commensali si diffuse un mormorio costernato: gli ultimi ricordi che avevano del comandante Bennett erano uno Spitfire che precipitava in vite avvolto dalle fiamme e un paracadute difettoso che si apriva in ritardo. Quando era stato raccolto era ancora vivo, ma decisamente malridotto, tanto che i medici avevano preferito mantenere assoluto riserbo sulle sue condizioni.
“Non siate tristi,” disse Fowler, notando che l’atmosfera andava incupendosi, “almeno finché ai giappi non verrà l’idea di romperci le scatole all’ora del tè, avremo sempre un motivo per sorridere.”
“In verità è successo già due volte che fossimo in aria a quell’ora,” intervenne il sergente Wilson. “Quindi sì, abbiamo buone ragioni per essere irritati.”
“Mi dispiace contraddirla, signore…” Il caporale Wright si sistemò sul naso gli occhialini rotondi, guardò l’orologio che portava al polso e fece un breve calcolo. “Se volessimo rispettare il fuso orario, l’ora del tè sarebbe all’incirca alle undici di sera.”
Fowler sollevò un sopracciglio. “Lo tieni ancora sincronizzato con l’orario di Londra?”
Wilson scrollò le spalle mentre si versava del latte nella tazza. “Lui è rimasto indietro a quarant’anni fa, qualche ora di ritardo non farà sicuramente la differenza.”
“Oh, insomma, quante storie. Sembrate un circolo di zitelle vittoriane!” Fowler fece un sospiro teatrale. “Proprio tu, Wilson, dovresti dare l’esempio.” Indicò la fusoliera di uno degli Spitfire, su cui tra le coccarde blu, rosse, bianche e gialle campeggiava la sigla identificativa GAY. “Vedi, anche il tuo aereo è felice.”
“In realtà, quando ero in America ho sentito dire che ‘gay’ vuol dire anche invertito.”
“E tu li capisci pure gli americani quando parlano? Mio Dio, sembra che mastichino chewing-gum anche quando non lo fanno!”
“Anche tu dovresti smetterla di parlare a bocca piena: stai zitto e mangia.”
“È senz’altro un buon consiglio. Bravo, Wilson.” Fowler ingurgitò l’ultimo morso di pane tutto intero, poi prese un’altra fetta e ci spalmò altro burro, incurante dello sguardo torvo del suo parigrado.
Smise di prestare attenzione alle chiacchiere dei compagni e mentre mangiava si perse a guardare di fronte a sé, senza pensare a nulla.
Tutto era ancora avvolto in un’atmosfera arancione, quasi vellutata, ma l’abitudine lo portò a scorgere subito la testa rossiccia di MacPhearson che spuntava da dietro l’ala di uno Spitfire.
Un ronzio proveniente dall’alto e un’ombra scura che calava sulla pista lo avvertirono dell’arrivo dell’aereo della posta. I piloti si alzarono tutti insieme e gli corsero incontro, dimenticando subito la tristezza che li aveva assaliti. Solo lui rimase fermo al suo posto, approfittandone per prelevare una manciata di biscotti mentre osservava la scena: sapeva già che, se ci fosse stata posta per lui, qualcuno di loro gliel’avrebbe consegnata.
Il rumore del motore si fece più forte, un pacco fu calato giù con delle corde e gli aviatori si fiondarono su di esso come sciacalli su una carcassa. Vociando e motteggiando si spartirono i rispettivi pacchi, lo scozzese ricevette il proprio e tornò a sedere all’ombra del caccia.
Gli altri, alla spicciolata, tornarono alla tavolata con lettere e altri doni dalle famiglie; Wright annunciò che per Fowler non c’era nulla. Fowler annuì: da quando, un mese prima, l’avevano trasferito dall’altra parte del mondo, i manicaretti di sua madre e le lettere di sua sorella giungevano più sporadici.
L’aviere Chris Harris, ultimo arrivato della squadriglia, guardò dentro la scatola che aveva ricevuto e arrossì per l’imbarazzo, per poi richiuderla con fretta ladresca. Un ragazzo lentigginoso sui vent’anni gli piombò alle spalle, sbirciò a sua volta e sul suo viso comparve un sorriso ilare.
“Giù le mani!” brontolò Harris, cercando di nascondere il pacco sotto il tavolo.
L’altro, però, aveva già agguantato il contenuto e lo stava sventolando trionfante davanti agli altri. “Guanti di lana, una sciarpa fatta ai ferri e… guardate, anche un cappellino bordato di pelliccia!” Trovò un biglietto e lo lesse ad alta voce: “Mi raccomando, copriti bene e non prendere freddo. Con affetto, mamma.”
“Non è vero, non c’è scritto così!”
Evans, che doveva avere almeno il doppio dei suoi anni, posò una mano sulla spalla di Harris con fare paterno. “Ma tu gliel’hai detto a tua madre che da questa parte del mondo le stagioni sono impazzite?”
Per tutta risposta, le guance pallide del più giovane divennero ancora più rosse. “No, io…”
“A casa hanno scambiato la nostra vacanza ai tropici per il fronte orientale, a quanto pare,” commentò Collins. Con ostentata indifferenza teneva stretto al petto un involto che probabilmente nascondeva una bottiglia di rum della sua distilleria di famiglia.
“È pur sempre il quindici gennaio,” puntualizzò Wright con aria compita, una copia del Daily Telegraph arrotolata sotto l’ascella, “E pare che i mangiacrauti non se la stiano passando molto bene a Stalingrado.”
“Ben gli sta,” ringhiò Wilson, paonazzo in viso. Stava per rievocare uno dei suoi aneddoti sulla battaglia d’Inghilterra, probabilmente, ma alzò di scatto la testa e strizzò gli occhi, fissando un punto indefinito all’orizzonte. Woods gli scoccò uno sguardo inceneritore, ma fu ignorato. Tutti gli altri tornarono a dedicare l’attenzione alle loro lettere.
Fowler sorrise indulgente. “Ecco, voi che vi lamentate, provate a guardare il lato positivo della vita…”
“Oh, no, di nuovo!”
“Cosa c’è adesso, Stephen?”
Qualunque cosa Wilson stesse per dire, fu coperta dal gemito stridulo e insistente dell’allarme antiaereo.
Il sergente Fowler scattò come un veltro aizzato e, prima ancora che il flemmatico tenente Woods potesse dare ordini in merito, iniziò a correre verso i caccia.
“Oh, che seccatura!” commentò Evans alzandosi, in un tono di voce che voleva scimmiottare quello del comandante Bennett. “Ma i giapponesi non fanno colazione?”
Wilson strinse i denti. “Evidentemente no, altrimenti ci penserebbero due volte prima di importunare gli altri.”
Collins gli batté una pacca sulla spalla. “Sai qual è la differenza tra un pilota di caccia e il suo aereo? L’aereo non frigna quando i motori sono spenti.”
A quel punto, anche Woods si alzò. “Come si suol dire, ragazzi, è la guerra. Si decolla!”

L’ululato delle sirene riportò MacPhearson tra i profumi esotici dell’Asia, dissolvendo il suo sogno a occhi aperti. Subito dopo scorse le divise blu degli altri aviatori, udì le loro voci che si avvicinavano.
I meccanici stavano già togliendo i fermi alle ruote ed eseguendo gli ultimi controlli.
Il primo pilota ad arrivare fu proprio Fowler, con la sua solita andatura elastica e un vago sorriso che gli aleggiava sulle labbra. “Eccolo, il lupo solitario.”
Infastidito, MacPhearson fece scivolare la lettera di suo fratello tra le pagine del libro, lo richiuse e lo fece sparire nella tasca dell’uniforme, reprimendo tra i denti qualcosa di scortese.
“Tanto lo so che è sempre lo stesso libro, te lo porti dietro da due anni,” lo prese in giro l’altro, mentre calzava la cuffia. “Sembri uno di quei preti che vanno in giro con la Bibbia sempre aperta per recitare versetti a caso.”
MacPhearson lo guardò in cagnesco. “La prossima volta che mi tagli la strada con una delle tue virate improvvisate lascerò che ti guardi le spalle da solo.”
L’altro non rispose: aveva già richiuso il tettuccio e stava mettendo in moto, pronto per decollare.
MacPhearson aggrottò le sopracciglia, ma decise di non dargli ulteriore corda. Gli lanciò un’occhiata fugace, poi indossò a sua volta la combinazione di volo, salì sull’ala dello Spitfire e balzò all’interno della cabina di pilotaggio. Il motore si avviò con un ruggito, l’elica iniziò a girare e il caccia si mosse sulla pista.
Diede manetta per aumentare la velocità, poi si guardò indietro alla ricerca del suo parigrado. “Stammi dietro, mi raccomando,” gli disse attraverso il segnale radio, quindi si staccò da terra e si librò in volo, avendo cura di precederlo.

***

Gli Spitfire e gli Zero si inseguivano in un cielo altrimenti terso, infiammato dalle raffiche di traccianti e dalle scie nere degli aerei abbattuti. Ci fu qualche istante di immobilità, in cui le due formazioni si scrutarono a vicenda nel tentativo di sondare le rispettive intenzioni, poi i britannici picchiarono per prendere velocità, virarono e cabrarono per riguadagnare altitudine sugli avversari.
Il sergente MacPhearson approfittò del momentaneo acquietarsi della mischia per guardarsi intorno: mentre a qualche migliaio di piedi di quota si lottava per la supremazia aerea, sulla superficie del mare era in corso una battaglia tra navi americane e giapponesi. I raggi del sole già alto creavano giochi di luce abbagliante sul mare turchese, così trasparente che perfino da quelle altezze si aveva l’impressione di scorgerne le profondità; una striscia di terra verde profondo spiccava vivida in lontananza, lambita da una spiaggia bianca contornata di palme.
Per un attimo gli parve che i giapponesi guizzassero qua e là come uccelli sbandati, poi si ricompattarono e cabrarono a loro volta nella direzione opposta, senza perderli di vista.
Si aspettano di trascinarci nella mischia per sfruttare il loro vantaggio, pensò il sergente. Alle sue spalle, al di sopra del ronzio costante del motore, riusciva a intravedere l’elica dell’aereo di Fowler e le fauci digrignate dipinte sul muso affusolato.
I britannici salirono fino a quando i filamenti di nubi non arrivarono ad attorcigliarsi intorno alle loro ali, poi MacPhearson tornò a guardare giù: i cerchi rossi sembravano macchie di sangue sulle ali dei caccia giapponesi, che come piranha in una vasca svolazzavano a quota più bassa. Rammentò con nostalgia i tempi, neanche troppo lontani, in cui erano loro a dare filo da torcere agli aerei tedeschi, con la stessa tattica che contro gli Zero si sarebbe rivelata suicida. Strinse i denti: era fastidioso, per non dire snervante, essere costretti a improvvisare ogni volta senza poter sfruttare il pieno potenziale delle loro macchine volanti. E soprattutto, dover rinunciare al brivido del duello sapendo che lo Spitfire era stato concepito per esserne il campione assoluto.
“Tenetevi pronti,” disse il tenente Woods attraverso la radio. “Toccata e fuga come sempre.”
Vi furono alcuni mormorii, che però furono subito coperti dal rombo dei motori.
Si accertarono che i giapponesi fossero abbastanza distanti, poi si disposero nella classica formazione a V, il comandante di squadriglia a formarne la punta, e si lanciarono in picchiata a tutta velocità con le ali affilate che squarciavano il cielo. “Fuoco!” Le mitragliatrici ruggirono e una pioggia di proiettili si abbatté sui più leggeri caccia nipponici.
MacPhearson fu uno dei primi a piombare nella mischia; individuò il bersaglio e fece fuoco. Vide pezzi di rivestimento staccarsi dalle ali, un lampo arancione che avvolgeva il motore, poi lo Zero puntò il muso verso il basso e iniziò a precipitare in vite.
Gli altri cercarono di eludere la tempesta di piombo con brusche virate, poi si dispersero in vari gruppi come uno stormo d’uccelli all’arrivo di un predatore più grosso. Un paio di essi si allontanarono rapidi verso la portaerei più vicina, lasciandosi dietro una scia di fumo nero.
“Uno è mio!” esclamò il sergente Fowler, mentre gli Spitfire si sganciavano e cabravano per riguadagnare altitudine.
MacPhearson strinse i denti. “Non dire gatto finché non l’hai nel sacco…”
Con tutta la calma del mondo, la voce di Woods annunciò: “I giappi sono passati al contrattacco.”
Il sergente si voltò: i caccia giapponesi erano in formazione compatta dietro di loro, le bocche da fuoco strepitavano vomitando traccianti. D’istinto, spinse la manetta al massimo mentre l’ululato del motore gli rimbombava negli orecchi e i proiettili rimbalzavano contro le ali dello Spitfire. “Dannazione,” ringhiò, eseguendo una manovra evasiva che fece quasi sbandare l’aereo. “Fowler, dove sei? Wilson?”
“Sto dando la caccia ai piccioni, come direbbe Fowler,” brontolò il secondo.
Dall’altro interpellato non ottenne risposta, ma notò di sfuggita il muso dentato del suo caccia, contratto in una sorta di ghigno sardonico, che virava per mettersi in coda a un avversario.
“Idiota,” brontolò tra sé e sé.
Lo Zero continuava a tallonarlo, così vicino che gli parve quasi di scorgere il volto concentrato del pilota. Consapevole che prima o poi la velocità di salita sarebbe calata fino a spingerlo allo stallo, col rischio di renderlo una preda facile, puntò verso le acque cristalline in un tuffo quasi verticale.
Se il pericolo della picchiata non fosse bastato a far cambiare idea al giapponese, pensò, i riflessi di luce lo avrebbero confuso abbastanza da fargli mancare il bersaglio.

Infiammato dal fumo e dai traccianti, il cielo era affollato di aerei. Gli Spitfire con la mimetica macchiata di grigioverde e d’azzurro cercavano disperatamente di sfuggire al fuoco degli Zero, che si distinguevano per la colorazione verde scura e i cerchi rossi sulle ali e la fusoliera.
Due di loro, tra cui quello di Evans e quello di Collins, erano già stati costretti a un atterraggio d’emergenza sulla spiaggia; gli altri lottavano nel tentativo di ricomporsi.
Anche Fowler doveva aver subito qualche danno – lo avvertiva dalla strana resistenza opposta dal suo aereo – ma si sentiva a tal punto elettrizzato che, dopo aver crivellato il motore di un avversario, sfrecciò subito in coda al successivo. Azionò le mitragliatrici, lo Zero schivò con una virata e lui gli andò dietro incalzandolo.
Non ebbe il tempo di attaccare di nuovo, perché una raffica proveniente dall’alto lo costrinse a schivare. Proprio davanti ai suoi occhi, lo Spitfire contrassegnato con la sigla GAY si torse come un uccello ferito, poi iniziò a precipitare senza controllo. Il sergente notò con orrore che un pezzo d’ala si era staccato e che la forza di gravità si opponeva fermamente ai tentativi del pilota di mantenere un assetto stabile.
“Stephen!” gridò.
Dall’altra parte, attraverso il segnale disturbato da fruscii simili al grattare delle unghie su una lavagna, giunse una sequela di imprecazioni rivolte all’aereo, ai musi gialli e a tutte le categorie del creato. “Maledizione, questo trabiccolo volante non risponde. Devo uscire.”
“Buona fortuna, Steve.”
Gli rispose un grugnito, poi la comunicazione si chiuse e Wilson si buttò col paracadute.
Fowler si inclinò appena per guardare in basso: a giudicare dal traffico di natanti che solcava le acque, a raccogliere il sergente sarebbe stata qualche unità navale giapponese – sempre che, come la sua esperienza aveva già più volte dimostrato, non fosse così fortunato da finire su una torpediniera a stelle e strisce. E a quel punto, i suoi amici yankees avrebbero di sicuro saputo come rispedirlo al mittente, con tanto di pacchetti di chewing-gum e sigarette.
Stava per ritornare sulla sua rotta, quando vide uno Spitfire guizzare a qualche centinaio di piedi di distanza con uno Zero alle calcagna, minacciosamente vicino alla superficie dell’acqua e al raggio d’azione delle navi. Dall’assenza di segni distintivi lo riconobbe come il caccia di MacPhearson.
Aggrottò le sopracciglia. “Ma tu guarda quell’idiota, non chiede nemmeno aiuto.”
Si lanciò in picchiata come un falco sulla preda e sparò una raffica dall’alto. Colto di sorpresa, il giapponese sbandò e scivolò d’ala, annaspando per riprendere il controllo.
Fowler cabrò appena, i denti stretti e gli occhi fissi sul collimatore, quando il lampo arancione di un’esplosione lo abbagliò prima che potesse sparare di nuovo. Sbatté le palpebre mentre una nube di fumo denso e nero gli invadeva la visuale, e vide il muso spoglio del caccia di MacPhearson riaffiorare dalla caligine.

Il sergente MacPhearson distolse lo sguardo dallo Zero abbattuto e rialzò la testa, curioso di sapere chi fosse stato a coprirgli le spalle durante quella manovra delicata. Quasi sussultò quando si trovò di fronte il ghigno, più grottesco che minaccioso, che Fowler aveva fatto dipingere sul suo Spitfire. Stupito, cercò di scrutare dentro la cabina, ma l’altro virò e si allontanò come se non fosse successo nulla.
Come non detto, sospirò.
Rassegnato alle stravaganze del suo collega, virò a sua volta e lo seguì senza dire niente.
In quel momento, la voce del tenente Woods riecheggiò in frequenza. “Si torna indietro!”
MacPhearson controllò il quadrante degli strumenti, che indicava una leggera perdita di carburante. Per la prima volta accolse l’ordine del comandante quasi con sollievo, e sperò che l’aereo riuscisse a riportarlo indenne alla base.

***

Dal mare proveniva una leggera brezza che faceva ondeggiare le fronde degli alberi, così alte e intricate da dare l’impressione di voler tagliare l’accampamento britannico fuori dal resto del mondo. Sul piazzale, i lampioni gettavano una luce fredda e asettica.
Quando gli aviatori uscirono dalla capannina del tenente Woods, il sole aveva già iniziato la sua parabola discendente e le ombre scure si stagliavano contro un cielo violetto. Il cane-mascotte della squadriglia, un piccolo terrier dagli occhi vispi e il pelo marrone, corse loro incontro scodinzolando.
MacPhearson andò subito a cercare il suo meccanico; gli altri si fermarono sulla veranda, dove una lampada tremolante illuminava un tavolino su cui erano poste una scacchiera con tutti i pezzi sparpagliati e una pila di giornali provenienti dalla madrepatria.
Wright recuperò una copia del Daily Mail, una del Times e una del Telegraph, si sistemò gli occhiali sul naso e senza indugio s’immerse nel suo passatempo preferito: confrontare le notizie riportate dalle varie testate, criticare i giornalisti faziosi e commentare i fatti di cronaca nera. Il cane si accoccolò sulle sue ginocchia e si mise a sonnecchiare affondando il muso nella sua divisa.
Assorto nei propri pensieri, il tenente Woods si appoggiò al parapetto e si accese una pipa già preparata in precedenza; Fowler rimase con lui, ad ascoltare il frinire degli insetti che si levava dalla vegetazione nascosta nel buio.
“Tre missioni al giorno sono una faccenda alquanto seria,” sentenziò il tenente. “Questi giapponesi vanno rimessi al loro posto. Non crede, sergente?”
“Però abbiamo fatto una bella caccia,” disse il sottufficiale.
“Siamo stati fortunati, altroché,” ribatté Woods, “anche oggi abbiamo perso tre aerei e due piloti.”
“E i giapponesi almeno il doppio, signor tenente.”
L’ufficiale soffiò un’ampia boccata di fumo dalla pipa, poi annuì. “Di cui due abbattuti dal sergente MacPhearson e due da lei, se non erro.”
“Sissignore.”
“Com’è che la chiama lei, sergente?” domandò, scrutandolo di sotto in su per compensare la differenza d’altezza. “Caccia ai piccioni?”
Rigido e impettito, Fowler cercò di darsi un contegno professionale. “Signore, se il mio cognome non m’inganna, dare la caccia agli uccelli era il mestiere dei miei antenati.”
Per un attimo gli parve che Woods fosse sul punto di dire qualcosa, ma rimase a fumare in silenzio, limitandosi a volgere lo sguardo alle ombre scure degli aerei.
“È arrivato il tè!” Mentre i giornali venivano spostati su una sedia per fare spazio al vassoio con le tazze fumanti, Collins si sedette al tavolo e iniziò a sistemare i pezzi sulla scacchiera, quindi alzò lo sguardo su Fowler. “Una partita a scacchi, signor sergente?”
“No, grazie, non ti darò ancora una volta l’opportunità di vincere.”
Il caporale aggrottò le sopracciglia, tuttavia decise di non insistere e si rivolse agli altri piloti in cerca di un malcapitato a cui infliggere uno scacco matto in due mosse. Rifiutarono quasi tutti; l’unico ad accettare la sfida fu Harris, il novellino, ignaro dell’umiliazione che ne sarebbe seguita.
Imparerà in fretta, si disse il sergente, con un sorrisetto sulle labbra mentre sorseggiava il suo tè.
“Ma dov’è MacPhearson?” chiese il tenente, alludendo all’unica tazza ancora nel vassoio.
Fowler fece spallucce. “Credo sia andato a sentire il meccanico per quella perdita di carburante… sa quanto tiene al suo aereo.”
L’altro lo spinse in avanti con fare paterno. “Vada lei a portarglielo, altrimenti si raffredda.”

Ancora una volta, Fowler scorse la figura robusta del sergente MacPhearson seduta sotto l’ala del suo Spitfire. Anche se ostentava un atteggiamento da vecchio nostalgico, doveva avere all’incirca venticinque o ventisei anni, come lui; si conoscevano da almeno tre e insieme ne avevano passate parecchie, ma per un qualche strano motivo non erano mai riusciti a entrare in confidenza. Rimase per un po’ a fissare la sua ombra, irresoluto, poi gli si avvicinò con l’impressione di star camminando scalzo sui carboni ardenti.

“Sei in ritardo per l’ora del tè.”
MacPhearson si stupì nel trovarsi di fronte il sergente Fowler che gli porgeva una tazza ancora calda. Richiuse il libro, la prese tra le mani e sorbì un lungo sorso. “Suppongo che dovrei ringraziarti.”
“Ancora con quel libro?” Nelle iridi verdi del suo collega passò un guizzo divertito. “O sei uno di quelli che leggono dieci parole al giorno, oppure lo sai a memoria.”
Egli scosse il capo. “Sei un Sassenach [1], non puoi capire.”
“Guarda che Sir Walter Scott l’ho letto anch’io,” replicò Fowler. “Il mio preferito era Ivanhoe, mi sono sempre piaciute le storie di cavalieri.”
MacPhearson annuì, tuttavia lasciò cadere il discorso. “Comunque, per la faccenda di stamattina…”
“Non c’è bisogno.”
Egli lo scrutò assottigliando gli occhi: l’unica strategia conosciuta da Fowler era individuare un aereo nemico, fiondarglisi addosso e colpire fino a che l’altro non cadeva, fin dai tempi degli scontri contro i tedeschi. Solo che gli Zero erano tutta un’altra cosa rispetto ai Messerschmitt, e se duellare contro un Me 109 poteva essere considerato uno scontro alla pari, a tratti anche stimolante e avvincente, pensare di usare lo stesso approccio contro uno Zero era un errore da incoscienti.
“Sono preoccupato per Stephen,” disse l’altro, cambiando ancora una volta argomento.
“Chi?”
“Come, chi? Wilson.”
“Tornerà.” MacPhearson alzò lo sguardo su di lui. “Ti ricordi quella volta in Tunisia, quando tutti lo avevamo dato per spacciato e poi ce lo siamo visto ricomparire con quel 109?”
“Sai, prima di entrare nel 606° Fighter Squadron, io e Wilson volavamo su un ricognitore notturno.” Senza chiedere il permesso, Fowler si sedette a gambe incrociate sull’erba e appoggiò la schiena al carrello d’atterraggio. Finì di bere, quindi posò la tazza vuota per terra e proseguì: “Facevamo parte dello stesso equipaggio: io ero l’osservatore e lui il mitragliere. Fu lui a permetterci di sorvolare la Manica senza riportare danni, tenendo a bada ben tre uccellini tedeschi che avevano deciso di volare troppo lontano dal nido.”
MacPhearson fu tentato di chiedergli cosa l’avesse portato a diventare pilota di caccia, tuttavia scelse di tacere. “Io sono in questo stormo più o meno dall’inizio della guerra. Quando sei arrivato tu, avevamo già ottenuto un discreto numero di vittorie sopra i cieli inglesi,” disse invece, guardando dritto di fronte a sé. “Ma di quelli che conoscevo e che prestavano servizio già all’epoca, oltre a me, sono rimasti solo il caporale Wright e il capo squadrone Bennett.”
Notò che quella conversazione stava scendendo troppo nel personale e s’interruppe, portandosi la tazza alle labbra. Con la mente tornò a quando, durante una sortita nei pressi di Calais, aveva abbattuto un famoso asso degli Stuka. Neanche Fowler rispose, né si voltò verso di lui.
“Non consumarlo troppo, quel libro,” disse infine, dopo una pausa indefinita. Si alzò ripulendosi i pantaloni, poi indicò con un sorrisetto la capanna del comandante. “Perché non sei venuto? C’era Collins che cercava qualcuno in grado di batterlo a scacchi.”
“Perché non ci provi tu, visto che ci tieni tanto?”
“Credo che la mia dignità di giocatore di scacchi sia già compromessa, anche senza che lui infierisca.” Con quelle parole, il sergente Fowler si congedò.
MacPhearson alzò gli occhi al cielo e tornò alla sua lettura.

***

Ogni giorno, la routine era sempre la stessa: alzarsi, fare colazione, decollare, tornare alla base per rifornire piloti e aerei, volare fino a che il sole non calava.
Evans era stato ripescato da un ricognitore britannico e paracadutato alla base, stanco ma illeso, mentre di Wilson non c’erano notizie.
Fowler era impegnato a passare in rassegna le scarse possibilità che il sergente non fosse annegato in mare o finito nelle mani dei giapponesi, quando un rombo assordante lo richiamò all’attenzione.
La sagoma di un grosso aereo da trasporto oscurò il cielo, lo spostamento d’aria generato dalle eliche parve spazzare gli alberi e il velivolo iniziò a scendere di quota, diretto verso la pista d’atterraggio.
Gli altri aviatori si radunarono sul piazzale, incuriositi dalla novità. L’aviere Cook, che stava dormendo stravaccato su due sedie, il capo reclinato sul petto, si risvegliò imprecando.
“Sono bombardieri giapponesi, George,” lo prese in giro Collins.
Apparve anche MacPhearson, che si fermò accanto al suo parigrado fissando con le sopracciglia aggrottate i militari che erano appena scesi dall’aereo e si stavano schierando sull’attenti davanti al tenente Woods. Avevano volti sbarbati di fresco, le divise impeccabili, che parevano appena uscite dalla lavanderia, e gli stivali lucidi. Il più anziano di essi doveva avere una ventina d’anni; tra essi figurava anche un giovanissimo ufficiale pilota col viso lentigginoso e un’uniforme troppo larga per il suo fisico esile.
“Chi sono quelli?” chiese MacPhearson, sollevando un sopracciglio con diffidenza.
Il sergente Fowler fece spallucce. “Suppongo… nuovi piloti, freschi di brevetto.”
“Poverini.” Evans scosse la testa. “Se, come tutti gli altri, sono venuti qui col sogno di ingaggiare combattimenti mozzafiato nei cieli, avranno una brutta sorpresa.”
“Sempre che sopravvivano abbastanza per constatarlo di persona,” borbottò Cook con aria torva.
Un’occhiataccia del tenente Woods li zittì e i quattro uomini si immobilizzarono sull’attenti.
La presentazione durò per un tempo che a Fowler parve interminabile, poi i nuovi arrivati furono spediti ai rispettivi alloggi e il comandante rivolse un cenno a lui e a MacPhearson. “Seguitemi.”
I due sottufficiali si scambiarono un’occhiata perplessa; per un istante, Fowler temette che il tenente volesse riprenderlo per la sua distrazione o per il suo atteggiamento irriverente, su cui sia lui che Bennett avevano già soprasseduto fin troppe volte.
“Ci passerò sopra solo perché lei è uno dei migliori piloti dello squadrone,” gli diceva ogni volta Bennett. “Ma la prossima non sarò così magnanimo.”
Woods, tuttavia, sembrava tranquillo come sempre. Li fece entrare nella sua cabina e si richiuse la porta alle spalle, dirigendosi verso la scrivania ingombra di mappe e strumenti di calcolo.
Guardò prima MacPhearson, che rimase impassibile sotto la lampadina che pendeva dal soffitto, poi lui.
A disagio, Fowler spostò il peso del corpo da un piede all’altro, poi fece vagare lo sguardo sulle tavole prospettiche degli aerei giapponesi che occupavano quasi tutta la parete.
“Ho ricevuto una comunicazione dal comandante di stormo,” annunciò il tenente, mostrando a entrambi un foglio con la sua firma. “Per il vostro contributo allo sforzo bellico della nostra nazione, e per i successi in combattimento conseguiti su questo fronte, vi sono state concesse due settimane di licenza premio.”
Quelle parole trasmisero a Fowler una sensazione simile a quella che si provava dopo aver concluso con successo un atterraggio d’emergenza nonostante il carrello gravemente danneggiato.
Ancora una volta, gli venne da voltarsi verso MacPhearson, e per un istante gli parve addirittura di intravedere un sorriso sul suo volto sempre imbronciato.
 

[1] da sasunnach (sassone), è il soprannome che gli scozzesi danno agli inglesi

  
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