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Autore: espositosuarez    27/09/2020    1 recensioni
Clexa AU
Alexandra Woods lavora la cartapesta.
Clarke Griffin è un cardellino in una gabbia che giorno dopo giorno, le toglie sempre di più il respiro.
Bisogna somigliare almeno un po' alle cose che vogliamo trovare.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Clarke Griffin, Lexa
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Cartapesta
 

“Kokoro no kaze” raffreddore dell’anima. La pioggia cadeva incessante su Polis. Le finestre delle case tremavano a causa della furia dei tuoni, che squarciavano il cielo colmo di nuvole grigie. Nemmeno la luna poteva contrastare l’oscurità che troneggiava quella sera, non poteva dare nessun conforto alle anime sole e tormentate che la cercavano irrequiete e non poteva regalare nessuna notte romantica “al chiaro di luna” agli innamorati. Era impotente, così come lo erano le stelle, incapaci di indicare la retta via. Tutto lassù era stato nascosto e intrappolato da quelle masse dense fluttuanti.
Alexandra Woods se ne stava ad armeggiare vicino al bancone del suo laboratorio, mescolando con una sostanza appiccicosa fogli di giornali e stracci vecchi. Il suo viso veniva illuminato dalla luce flebile di una candela, conferendole un aspetto sinistro. I suoi lineamenti, infatti, venivano distorti dalle ombre che creava quella piccola fiamma, che lottava per non spegnersi in mezzo a tutto quel buio. La ragazza si fermò a guardarla distrattamente, posando su di essa il suo sguardo vuoto. Perché ti ostini a lottare? L’oscurità inghiottirà anche te, sei destinata a consumarti. E per cosa? Per chi? Ma nonostante tutto sei così piena di vita, la tua fiamma danza e ipnotizza chi si accorge di te. Perché?
Con uno scatto stizzito, andò vicino alla candela e le soffiò sopra spegnendola. Rimase qualche secondo immobile sul posto, le braccia inermi lungo i fianchi e i pugni serrati. Lo sguardo perso rivolto chissà in quale punto del pavimento. Sapeva che non era facile essere la parte migliore della vita di una persona. Nell’aria si diffondeva l’odore della candela ormai spenta e d’un tratto un sorriso amaro si fece strada sul suo viso, gli occhi sbarrati, iniettati di follia.
Stava perdendo il senno della ragione.
Stava affogando in un mare di catrame, piuttosto che in un mare di stelle.
 


PASSATO

Polis era una piccola cittadina che accoglieva artisti di ogni genere. Questo perché il proprietario dell’unica villa presente in quel paese, era solito organizzare feste tutt’altro che ordinarie e ogni anno molti artisti di strada accorrevano per non lasciarsi sfuggire l’occasione di farsi notare dai signori più potenti della contea nella speranza di farsi assumere per una prospettiva di vita migliore, oltre che per l’alto compenso. Oltre alle feste, raramente si organizzavano anche delle mostre d’arte. Proprio in quell’occasione, Alexandra si trovò a varcare il cancello della villa. Non sapeva perché era lì, non le era mai interessato primeggiare tra gli altri e la sua arte veniva sempre disprezzata, perché non ritenuta all’altezza. Gli altri usavano martello e scalpello, lei coltelli e carta vetrata. Mentre si dirigeva al portone principale, si guardò intorno. In lontananza si ergeva la sontuosa dimora. Era di una maestosità fuori dal normale, i cornicioni erano decorati con gargoyle in pietra sparsi qua e là dalle più svariate dimensioni, come se fossero di guardia. Le finestre erano tutte formate da piccoli vetri colorati che andavano a formare disegni diversi.
Chissà come doveva essere la luce in quelle stanze. Erano in grado di illuminare anche lei? Potevano colorare la sua anima di cartapesta? 
Continuò la sua camminata e si accorse di essere circondata da enormi siepi dalle forme più bizzarre: cubo, padelle, nuvole, pecore, clessidra e che più ne ha più ne metta. Il viale sterrato portava ad una grandissima vasca circolare, al cui centro vi era una statua che raffigurava una ragazza dai lunghi capelli ondulati con una veste che le lasciava scoperto il seno sinistro, il volto rivolto verso il basso e una mano tesa verso il cielo da cui usciva l’acqua bagnandola. Era meravigliosa. Il modo in cui era stata raffigurata la veste la lasciava senza fiato, le veniva voglia di afferrare una di quelle pieghe con le proprie mani. Il rumore del portone la riportò alla realtà e ad accoglierla vi era una governante dall’aria severa. Le rivolse uno sguardo sdegnato dopo aver visto il modo in cui era vestita e disse “Da questa parte” incamminandosi senza nemmeno aspettarla.
Buongiorno anche lei, bellissima giornata oggi eh?  borbottò Alexandra tra sé e sé. Una donna con camicia larga un po' malandata e pantaloni lunghi non era vista di buon occhio per la società di quel tempo, ma lei se ne era sempre fregata. Suo padre quando era in vita, l’aveva sempre accettata per come era e non le aveva mai fatto problemi. “Fregatene della gente Alexandra, tanto avrà sempre qualcosa da dire, buona o cattiva. Spostano l’attenzione dai loro fallimenti sugli altri perché così risulta più facile andare avanti. Non hanno la coscienza pulita e soprattutto non hanno coraggio di affrontare sé stessi. Tu sei destinata a volare e con quelle gonne lunghe e ingombranti come pensi di farlo?” diceva. “Sei la mia bambina” aggiungeva, per poi chiudere il discorso.
Un piccolo sospirò uscì dalle labbra della ragazza a quel ricordo e la governante si fermò davanti a una porta dal pomello in oro, dalla forma di una nota musicale. Non sapeva nemmeno la strada che aveva percorso per arrivare fin lì, persa come era tra i suoi pensieri. La donna dopo averle spiegato cosa fare, aprì la porta e le fece segno di entrare. Subito un fracasso l’assalì: gli artisti erano lì a sistemare le proprie opere maledicendo l’intensa luce colorata che filtrava dalle finestre a causa dei vetri particolari.
Certo che non capite proprio un cazzo eh
Ognuno poteva scegliere la propria postazione. La sala era piena di sculture, quadri, ceramiche, terracotta e legni intagliati. Era naturale scannarsi per ottenere i posti migliori e strategici, ma scelse un angolino da cui filtrava una luce blu elettrico. Posò con delicatezza la sacca impolverata a terra e iniziò ad allestire la sua bancherella con i materiali messi a disposizione. Una volta terminato, si sedette su una piccola sedia in legno, desiderando che quella giornata finisse il più presto possibile. Nemmeno i giochi di colore della luce, riuscivano a colorare e a dare vita per qualche secondo a quello sguardo spento.


Una ragazza dai lunghi capelli biondi ondulati stava osservando distrattamente la sua figura allo specchio. Il vestito verde dalla gonna ampia le fasciava alla perfezione il fisico slanciato, evidenziando il seno prosperoso. Non amava molto questi vestiti che a stento la facevano respirare a causa dei bustini dai lacci di satana, ma era suo dovere. Nonostante provenisse da una delle famiglie più altolocate della contea, si considerava una ragazza semplice e soprattutto con interessi completamente diversi delle sue coetanee. A lei non interessavano chiacchiere da salotto, né tantomeno andare alla disperata ricerca di un ragazzo per sposarsi. Sapeva che prima o poi sarebbe successo per mano di suo padre a causa della posizione che ricopriva, ma preferiva rimandare quel pensiero a quando sarebbe effettivamente accaduto. Lei era alla ricerca di altro. Una scintilla si accese nei suoi occhi azzurri. Clarke Griffin era euforica. Quest’anno le vacanze del collegio coincidevano con la mostra organizzata da suo padre, non stava più nella pelle. Del resto ogni tanto anche lei dipingeva qualcosa nei momenti liberi o di notte quando non riusciva a prendere sonno, ma sentiva che le mancava qualcosa…qualcosa che sperava di trovare nell’arte altrui. Il suo sogno nascosto era poter fare dell’arte un mestiere, ma suo padre non gliel’avrebbe mai permesso.  Aveva sbirciato l’arrivo degli artisti da una delle finestre della villa e aveva visto i carri pieni delle loro opere coperte da dei teli.
“Clarke, è ora” suo padre se ne stava davanti alla porta della sua stanza, nel suo completo color cremisi elegante, con un sorriso stampato in faccia. Si avviarono insieme verso la sala allestita per l’evento e dal continuo tic del padre di arricciarsi la punta dei baffi con l’indice e il pollice, notò che anche lui era decisamente impaziente di vedere le opere di quest’anno. Gli ospiti erano già arrivati e guardavano meravigliati ciò che li circondava. Clarke non aveva mai visto tutta quell’ arte concentrata in un posto così piccolo. L’energia che emanava era come se premesse per far esplodere i vetri delle finestre circostanti, per espandersi ancora di più. Fu subito circondata da amici di famiglia, che le facevano i complimenti per come era cresciuta.  Come se fosse merito mio.  A metterci il carico, vi era il padre che la esibiva come se fosse un trofeo. Dopo qualche sorriso di circostanza, riuscì a liberarsi per curiosare finalmente in giro. Vide quadri dipinti con le più svariate tecniche; imponenti sculture, che erano riproduzioni perfette delle più famose in realtà. Quest’ultime l’avevano delusa più che mai. Esteticamente erano perfette, nulla da dire. Ma non trovava un’anima, una personalità, un qualcosa che rispecchiasse l’artista nel suo lavoro. Fin da piccola l’avevano cresciuta con l’idea di puntare alla perfezione, a costo di tralasciare la propria essenza. “Le persone questo si aspettano da te Clarke: la perfezione” le diceva la sua insegnante del collegio. Ma Clarke non capiva chi è che avesse stabilito questa cosa; chi è che ha così tanto potere da influenzare delle persone a comportarsi in una determinata maniera? Ovviamente per il carattere che aveva, in cuor suo non avrebbe mai accettato l’imposizione di altri. Ma fatto sta che aveva iniziato comportarsi come gli altri volevano, come gli altri si aspettavano. Aveva interiorizzato tutto ciò che gli altri pensavano di lei e aveva finito per fare dei comportamenti suoi, che inizialmente non le appartenevano neanche lontanamente.  Aveva smarrito la sua essenzaforse è per questo che tentava di ricercarla nell’arte?
Pensava a questo quando urtò accidentalmente la gamba di una bancherella, incespicando. Si girò di scatto per scusarsi, ma le parole le morirono in gola. Un fascio di luce blu illuminava la piattaforma di legno, su cui vi erano messe in fila una accanto all’altra dei fantocci di cartapesta. Dello stesso materiale vi erano anche delle maschere e piccole riproduzioni di paesaggi montuosi o di alberi dai rami spogli. Si avvicinò e prese uno dei fantocci in mano. Erano incredibilmente leggeri, lo rigirò tra le mani cogliendone più dettagli possibili. L’oggetto raffigurava una figura umana con gli occhi bendati, dai tratti del viso e dalla smorfia della bocca, sembrava avesse un’espressione sofferente. Vi era una strana energia lì, come se qualcosa fosse stato intrappolato con la forza in quei fantocci di cartapesta. Sventolò la mano libera come a scacciare via quel pensiero e finalmente decise di scoprire chi è che aveva creato tutto ciò. L’angolo era in penombra a causa della luce, ma scorse una ragazza dai lunghi capelli mori raccolti in una coda di cavallo che guardava verso il pavimento. Non aveva proprio percepito la sua presenza, né tantomeno il suo urto con il piede che reggeva la bancherella.
“Mi scusi” provò Clarke, senza ottenere risposta. Riprovò con voce più alta, ma nulla ancora. Decise di avvicinarsi sperando di catturare l’attenzione entrando nel suo campo visivo, ma la ragazza mora se ne stava persa nel suo mondo incurante di tutto e di tutti. Allungò il braccio destro e con una mano picchiettò sulla sua spalla. A quel contatto la mora si allontanò come scottata, guardando per la prima volta chi aveva davanti. Clarke dal canto suo indietreggiò portandosi una mano sul cuore per lo spavento, causato dal movimento improvviso dell’altra. Quest’ultima si fece avanti e ciò che Clarke vide la lasciò senza fiato: espressione impassibile, lineamenti duri che esaltavano gli zigomi, occhi verdi foresta coperti da un velo opaco. Occhi spenti. Occhi di cartapesta. Una voce roca la raggiunse. Voce di chi è in silenzio da troppo tempo.
“Sono la ragazza di cartapesta, ha bisogno di una maschera?”
Dopo qualche secondo di sorpresa Clarke riuscì a balbettare una risposta “Perché dovrebbe servirmi?”
“La sua si sta sgretolando”
rispose con voce piatta la mora. “Questa dovrebbe andare bene”
Clarke osservò la mora scegliere con apparante nochalance una maschera tra le tante porgendogliela. Era la faccia di un cardellino. Non la prese. “Lascerò correre sulla sua maleducazione, non ne ho bisogno. Piuttosto, vorrei quelli” disse indicando i fantocci messi in fila
La ragazza di cartapesta la analizzò in silenzio per qualche secondo e disse “Ha bisogno di un’emozione, quindi”
Clarke irritata dalle risposte dell’altra prese un bel respiro, serrò i pugni e aggiunse con aria di sfida “Li prendo tutti”
A quelle parole la mora le rivolse un’occhiata incomprensibile e mentre li poneva in un cesto disse “My lady stia attenta, l’emozione sbagliata al momento sbagliato può far danni. Un miscuglio di emozioni non è mai raccomandabile perché è incontrollabile e potrebbe incrinarla fino a spezzarla. Diventerebbe un ammasso di vetri rotti. Una carta pregiata appallottolata e calpestata da nessuno”
“Come lei, quindi? Ho i miei dubbi a riguardo, dovrebbe succedermi qualcosa di rilevante”
“E’ qui che sbaglia. Lei ha già le sue incrinature. Tutte le abbiamo ma c’è chi ne è consapevole e chi no. Di solito ce ne accorgiamo quando si sono già formate delle crepe che si espandono come ragnatele dalla forma complessa, fino a spaccarsi del tutto a causa della pressione insostenibile finendo per sgretolarsi come cenere. Siamo noi le trappole di noi stessi e nessuno è un foglio di carta liscio senza problemi e preoccupazioni”
un sorriso tutt’altro che confortante comparve sul viso della mora “Ad esempio lei è un foglio di carta con delle crepe agli angoli in basso che salgono piano piano verso l’alto, mi chiedo quanto tempo abbia prima di stropicciarsi completamente sotto la pressione delle aspettative degli altri. A furia di accontentare chi le sta intorno, ha perso sé stessa sotto strati e strati di maschere”
“Cosa ne sa lei delle mie preoccupazioni?! Non mi conosce come io non conosco lei”
“So riconoscere un cardellino in una gabbia creata da sé stessa”
“E io so riconoscere chi è che non è più in grado di dare colore alla sua vita”
detto questo la bionda le diede le spalle e con passo accelerato lasciò la sala della mostra sotto lo sguardo curioso dei presenti.
 

Passò una settimana da quell’incontro. Lexa era seduta vicino alla finestra del suo laboratorio ad osservare la vita che fremeva in Polis. Si domandava da quando andava avanti la sua, sotto anestesia totale. Era da un po’ che sentiva una pressione e al tempo stesso un vuoto all’altezza del petto. La sera oltre al suo groviglio di pensieri che non le lasciavano tregua, la pressione si trasformava in dolore. Solitudine? Mancanza? Chi lo sa, sentiva solo il suo cuore accelerare sempre di più, lo sentiva rimbombare per tutta la stanza, dimenarsi come un forsennato tra la sua parete toracica di cartapesta. Forse era il troppo vuoto. In quel laboratorio con una piccola stanzetta, alleggiava solo il suo fantasma da troppo tempo ormai. Un giorno stanca di provare dolore aveva rinchiuso le proprie emozioni in ogni fantoccio di cartapesta che creava. Ognuno ne possedeva una. Come se buttare via sé stessa, le avrebbe potuto donare sollievo. Quanto si sbagliava. Come se non bastasse non era riuscita a trattenere ciò che pensava davvero con quella ragazza alla villa di cui non sapeva nemmeno il nome. Di solito ci riusciva alla grande, ma quella ragazza a pelle aveva acceso qualcosa in lei, aveva percepito che cercava qualcosa e soprattutto la voglia di metterla a tacere aveva preso inspiegabilmente il sopravvento. Come se stesse bloccando un futuro problema. Ma futuro di che?
Infatti sapeva di aver accesso una miccia, se ne era accorta nel modo in cui la bionda le rispondeva a tono e soprattutto per come si era concluso il loro discorso senza né vinti né vincitori apparentemente. In realtà l’orgoglio di Lexa ne era uscito ferito, si era sbilanciata troppo ed ecco il risultato. Doveva rinchiudere in un fantoccio buono a nulla anche lui.
Ad interrompere i suoi pensieri fu il bussare alla porta. Con fare scocciato andò ad aprire riuscendo a nascondere a mala pena la sorpresa per chi si trovava di fronte.
“Io sarò anche un cardellino in una gabbia, ma qui mi sembra più il contrario “  disse l’ospite indesiderato dopo aver scansato Lexa ed esser entrata nella sua dimora senza permesso “Ah sono Clarke Griffin comunque e tu invece, ragazza di cartapesta?” aggiunse allungando la mano. Lexa ignorò il gesto “E le buone maniere dove le ha lasciate? Aspetta ha detto Griffin?!” rispose in modo un po' brusco.
Clarke ignorò il riferimento al suo cognome, iniziò a camminare per il piccolo laboratorio soffermandosi sul banco da lavoro dell’altra. Prese una maschera a forma di corvo e iniziò a tastarne la consistenza con i polpastrelli
 “Non ho mai posseduto realmente le buone maniere, come ho detto precedentemente non mi conosci. E non conosco ancora il tuo nome”
“Come se non lo sapesse, è a casa mia. Alexandra Woods. Che cosa vuole?”   disse con tono laconico. “Voglio essere la tua apprendista, insegnami come si lavora la cartapesta”
 Lexa alzò il sopracciglio sinistro, sperando di aver sentito male “Che cosa?” Clarke sorrise divertita dalla reazione dell’altra “Voglio diventare la tua apprendista. I tuoi fantocci mi hanno incuriosito, nonostante siano leggeri, nella mia mano li ho sentiti pesanti, impregnati di qualcosa a me sconosciuto. Ma quel qualcosa, è qualcosa di tuo. Insegnami a fare lo stesso”
La mora iniziava ad infastidirsi “Posso insegnarle la tecnica, ma non quello che lei vuole. Non sono di certo una maga” “Eppure quegli fantocci mi sembravano più vivi che mai, più vivi di te” controbatté la bionda. Davanti al silenzio tombale della mora, emise un sospiro di frustrazione. “Oltre a questo, dammi un motivo valido per accettare la tua richiesta”
Clarke si avvicinò alla finestra dandole le spalle, fece un bel respiro e dopo aver preso coraggio si diresse verso Alexandra afferrandole il polso. Lexa odiava essere toccata da chi non conosceva, ma stranamente il suo tocco non le recava alcun fastidio. Anzi sentì una scossa al braccio, come se stesse reagendo a qualcosa, lo considerava un dolore piacevole. Con una voce quasi simile a un sussurro, Clarke diede voce a una richiesta particolare “Aiutami a non diventare un guscio vuoto. Aiutami a non essere cartapesta”
Aiutami a non diventare come te,
arrivò a Lexa. Buffo come da un lato si possa usare l’arte per svuotarsi, mentre dall’altro lato la si usi per riempirsi. All’inizio voleva essere importante per qualcuno, voleva essere semplicemente amata, voleva lottare per qualcuno. Ma si rese conto che i suoi erano solo sogni, solo castelli di carta.
Quella spiegazione le bastava.
“Iniziamo domani all’alba, veda di essere puntuale” un grande sorriso comparve sul volto di Clarke. Sembrava stesse illuminando la stanza così tanto che Lexa fu costretta a darle le spalle.
“Io vedrò di essere puntuale, ma vedi di darmi del tu. A domani Alexandra
 

Il mattino dopo Clarke fu puntuale. Aveva passato tutta la notta a girarsi e rigirarsi nel suo letto, immaginandosi a come sarebbe andata la sua prima lezione. Aveva tante domande da porgere alla sua maestra, ma aveva capito che non sarebbe stato facile ottenere una risposta esaustiva. Questa era una sua caratteristica. Non si fermava mai alla semplice risposta, lei voleva indagare, scavare e andare a fondo. Voleva capire quanto di una frase appartenesse a chi la pronunciava e soprattutto voleva scoprire tutti i meccanismi mentali che portavano quella persona a dire quelle determinate parole. Quest’ultime per lei non erano semplicemente parole, ma un’arma. La parola può ucciderti, può manipolarti, è potente e carica di significato. Può appesantirti il petto come un macigno o può rendertelo leggero come una piuma. Ferisce quando preme per uscire grattandoti la gola con i suoi artigli o può essere un balsamo rigenerante. Alcune muoiono dentro di te, vengono messe a tacere e molto spesso si trasformano in rimpianti, altre invece sono un fiume in piena rabbioso che sfocia nel rimorso. Le parole danno vita, ma possono anche uccidere.
Alexandra l’aveva accolta come si aspettava: con indifferenza. Si aspettava di iniziare subito la parte che riguardava il lavoro manuale, ma il suo entusiasmo fu smorzato sul nascere.
“Come puoi toccare e modellare qualcosa, se non sai neanche di cosa ti tratta?” aveva detto la mora, così iniziò una brevissima lezione sulla cartapesta “La cartapesta è una tecnica che utilizza stracci e carta vecchia imbevuta in una colla vinilica o di farina. Viene lavorata e rifinita con carta vetrata, coltelli affilati o seghe. Martello e scalpello non sono adatti. E’ molto elastica e resistente, inoltre la superficie essendo carta può essere facilmente decorata o dipinta. Principalmente è usata per creare delle maschere, ma ci si possono fare anche delle piccole sculture” concluse Lexa. Clarke era stranamente ammaliata dal modo in cui parlava la sua maestra; per la prima volta intravedeva un lato umano e i suoi occhi davano un accenno di vita. Si vedeva lontano un miglio che le piaceva quello che faceva. Era l’unico argomento per cui mostrava apertamente vero interesse. Decise di azzardare.
“Perché lavori proprio la cartapesta? Potresti lavorare elementi più pregiati, aspirare a meglio no?”
Lexa cambiò immediatamente espressione, la guardò evidentemente scocciata dall’interruzione “Mio padre faceva questo di mestiere, me l’ha insegnato lui. La caratteristica della cartapesta è che usando materie poverissime, si possono costruire cose di un certo impatto. L’attenzione e la cura che ci si mette nel creare una cosa, la passione…sono tutte cose fondamentali, oltre alla tecnica. Per essere appagati professionalmente non c’è bisogno di materiali pregiati, io vedo arte e bellezza anche in vecchi stracci consumati o in fogli di carta calpestati dai passanti incuranti. Sta tutto sul come viene valorizzato un materiale, Clarke” Il modo in cui pronunciò il suo nome le provocò un brivido che le fece drizzare la schiena, ma l’altra fortunatamente sembrò non accorgersene.



Passò un mese in cui ogni giorno Clarke andava da Lexa a farle da apprendista. All’inizio ci furono degli screzi tra le due, i loro caratteri erano apparentemente incompatibili: passavano giorni interi senza che nessuno delle due spiccasse parola, entrambe troppo succubi del proprio orgoglio, ma dopo aver sotterrato l’ascia di guerra le cose ripresero ad andare decisamente meglio. Nonostante tutto Clarke era sempre rimasta, non aveva mai accennato ad andarsene anche quando tutto diventava troppo esasperante. Dal canto suo, Lexa inizialmente le si rivolgeva in modo sgorbutico, non era abituata ad avere gente che le ronzava intorno mentre lavorava e finiva per alterarsi facilmente. La sua pazienza era ai minimi storici. Non sapeva perché ma quella ragazza buttava all’aria tutta la sua aria di menefreghismo e le faceva venire voglia di avere un confronto e soprattutto, voglia di vincerlo. Ma la biondina le teneva testa eccome e ne uscivano sempre entrambe sfinite. In quei giorni Lexa scoprì che Clarke amava dipingere e che sognava di vivere d’arte. Scoprì che quando era concentrata, poggiava la lingua sul labbro superiore un po' a lato, come fanno i bambini: se le cose andavano bene sorrideva, se invece andavano male sbuffava e iniziava tamburellare nevroticamente l’indice sinistro sul banco da lavoro. Scoprì che quando era arrabbiata, aveva la tendenza ad assottigliare gli occhi, non capendo che di minaccioso non c’era proprio nulla. Scoprì che prendeva il caffè lungo, leggermente zuccherato e che andava pazza per i dolci. Lexa aveva ormai impresso nella sua mente il suo profumo, biancospino: non era solito che si accorgesse della sua vicinanza grazie a quello. Scoprì che di notte, quando tutti dormivano, con solo la vestaglia addosso correva a piedi nudi tra i giardini della villa. Amava la sensazione che le dava l’erba sui piedi scalzi, respirare l’aria pura e il tutto finiva spesso con un bagno in fontana. Poi si lasciava avvolgere dal silenzio della notte.
“La statua chi raffigura?” chiese Lexa incuriosita “Sono io. La fece commissionare mio padre prima della mia partenza al collegio, mi disse che potevo averla come volevo. In quel periodo ero sotto l’attenzione di tutti, venivo conciata come una bambola in un modo che non mi apparteneva minimamente. Quella statua sono io con il mio vestito più semplice, che chiedo che qualcuno mi liberi da queste catene che ho finito per stringere io stessa accettando quello che gli altri volevano, che mi purifichi facendo dissolvere tutto il trucco e tutte le apparenze per ritrovare me stessa”
Ogni tanto la beccava a fissarla e lei distoglieva subito lo sguardo arrossendo. Ormai era diventata routine: arrivava, si punzecchiavano, Lexa le insegnava i procedimenti, si punzecchiavano ancora e lei se ne andava lasciandola sempre con “A domani”, con una muta promessa. Lexa finiva per sperarci e per crederci ogni volta.


“Perché la ragazza di cartapesta?” chiese Clarke curiosa, mentre mescolava la colla agli stracci. Lexa la guardò, valutando se rispondere seriamente o no. Molto spesso rifilava delle risposte ambigue, non confermava o smentiva mai completamente una cosa. Preferiva omettere o sviare. Stavolta però, optò per la verità.
“Perché io sono cartapesta. La mia pelle è cartapesta” Si alzò, sollevando le maniche della camicia scoprendo le braccia. Varie crepe si facevano strada sulla sua pelle, intrecciandosi tra di loro. Sembrava dimostrare più degli anni che realmente aveva. Pelle segnata, pelle che non respirava chissà da quanto tempo.
Cartapesta
Si abbassò frettolosamente le maniche e continuò a parlare con una voce distante “Mi ricorda molto la cartapesta. Ti ricordi la lezione che ti feci? Ti dissi che la cartapesta veniva creata con vecchi stracci e giornali e ho creato il mio guscio così, con le esperienze che ho vissuto. Solo che questo guscio è stato modellato con coltelli affilati che mi hanno trafitto ogni santa volta e ogni volta il dolore era lancinante. La cartapesta molto spesso si usa per coprire un difetto, è solo apparenza. Può essere abbellita come vuoi, puoi creare quello che vuoi, ma il difetto ci sarà sempre al di sotto. E’ sempre lì che fa sentire la sua pressione. Spesso mi sento un fantoccio di cartapesta: vuoto, senza uno scopo, incapace di arricchirsi, debole. Aspetta e spera che qualcuno prenda un pennello e gli faccia una macchia di colore, si accontenterebbe anche di un puntino. La cartapesta è usata per costruire delle maschere ed io ho perso il conto di quante ne abbia usate. La solitudine è qualcosa che si insinua tra le crepe del tuo cuore. La noia è ciò che fa apparire quelle crepe. Il fatto è che la cartapesta è un materiale resistente, si adatta quasi a tutto, ma non è invincibile e sento che stia per cedere. Non so se per i colpi che vengono dati involontariamente da me stessa che premo per uscire e respirare, oppure perché sono causati da un martello pneumatico esterno”
Clarke non si aspettava una risposta del genere. Rimase in silenzio per qualche minuto, accorgendosi di star mettendo a disagio Lexa. Si trattenne dal sorridere per timore di causare un fraintendimento, la mora evidentemente si aspettava una raffica di domande. La guardò con uno sguardo rassicurante, non voleva farla chiudere a riccio e con voce calma le chiese “Esiste un martello pneumatico esterno?”
Lexa sospirò rassegnata. Emise degli sbuffi e iniziò a camminare nevroticamente per la stanza. Clarke era sinceramente divertita dal suo comportamento, rimase in attesa. La mora si fermò di colpo, girò la testa guardando fuori la finestra e sventolando la mano in senso orario con l’indice e il pollice a formare una pistola rispose “Clarke Griffin, credo sia tu il mio dannato martello pneumatico esterno”
Clarke rise di cuore.
Lexa divenne rossa per la vergogna.  
 
Un giorno Clarke fissava le mensole vuote del laboratorio, leggendo le targhette malandate affisse sul legno quasi marcio. Queste recitavano: felicità, amore, tristezza, rabbia, stupore etc. Senti qualcuno tossire e si girò di scatto colta nel sacco.
“Che stai combinando?” domandò Lexa. Clarke indicò la mensola e l’altra capì subito “Lì c’erano i fantocci che hai comprato la prima volta che mi hai incontrato” disse con un tono piatto che non utilizzava da tempo. La bionda aveva qualche sospetto, ma aveva paura di esporli a voce alta. Aveva timore nel chiedere. Iniziò a camminare in modo nervoso per la stanza, facendo scricchiolare le vecchie assi di legno del pavimento. “Mi stai facendo venire mal di testa” Lexa la afferrò per un braccio e l’avvicinò a sé “si può sapere cosa ti frulla in quel cervello?” “Perché si chiamano così?”  domandò secca Clarke. Lexa la spinse debolmente via, si passò stancamente una mano sul volto e rispose “Le avevo rinchiuse tutte lì perché io non le volevo più. Hai comprato le mie emozioni Clarke Griffin, pessimo affare” Clarke tremava dalla rabbia, le si scagliò contro imbestialita “e tu le butti via così, al primo che passa?! Sei un idiota Alexandra Woods. Sei umana ficcatelo bene in quella zucca vuota che ti ritrovi, non puoi buttare via le tue emozioni altrimenti vivrai come un cadavere ambulante, sono le emozioni che ti tengono in vita. Smettila di fare la vittima della situazione, ti lamenti perché niente riesce a catturare la tua attenzione e perché tutto è bianco e nero, ma sei tu che fai in modo che sia così. Le cose non cadono dal cielo, devi alzare il culo e andartele a prenderle Lexa” concluse respirando affannosamente. “E credi che non ci abbia provato?” rispose la mora alzando per la prima volta la voce. “Lo stai facendo ancora, incredibile. Usi tutte le scuse possibili ed inimmaginabili e non te ne rendi nemmeno conto. Non so cosa ti sia successo, ma davanti a me non vedo più la persona che credevo. Ricordati che la sera davanti allo specchio scoviamo il colpevole di tutto ciò che ci accade: noi stessi” Clarke era una furia inarrestabile, riprese fiato e continuò “Hai mai fatto caso che il bordo dello specchio non viene mai coperto dal riflesso dell’uomo, ma la sua ombra invece può coprire il bordo ma non entra nel riflesso dello specchio? E’ tutto così caotico, ma al tempo stesso ci fa entrare in un’altra dimensione. Invece di capire quali sono gli errori che abbiamo commesso assumendoci le proprie responsabilità, facciamo scarica barile, nonostante vediamo la verità ogni volta che incontriamo uno specchio. L’ombra appartiene alla realtà, non può mischiarsi alla pochezza di trovarsi davanti allo specchio con un alibi che fa acqua da tutte le parti” concluse. Lexa fu colpita nel vivo e con tutta la cattiveria possibile ed immaginabile sputò il suo veleno. Voleva farle male. Voleva corroderle l’animo. Voleva farle provare lo stesso dolore che stava provando in quel momento “Ma con quale faccia tosta vieni a dire a me queste cose?!” i tratti del suo volto si erano contratti, aveva assottigliato gli occhi con fare minaccioso “ Tu stai apposto con te stessa quando ti guardi allo specchio? Non mi sembra stia facendo qualcosa per ribellarti alle scelte che la tua famiglia ti impone. Te ne stai qui nel mio laboratorio scappando dai tuoi problemi, alla ricerca di qualcosa di profetico che neanche tu sai cosa sia. Sai cosa Clarke, anche tu usi solo scuse dalla mattina alla sera, tu non stai cercando un bel niente, semplicemente non riesci ad accontentare un tuo capriccio e ne hai fatto una questione di Stato. Non parlare di me, quando non stai facendo nulla per aprire e sfondare la gabbia in cui ti ritrovi a vivere. Sei un guscio vuoto Clarke. “ concluse la mora. Clarke le se avvicinò lentamente con la testa bassa, gli occhi chiusi, stretti in una morsa per evitare di versare pioggia su un terreno arido che non ne meritava neanche una goccia. Le mani si aprivano e si chiudevano ripetutamente, nel tentativo inutile di calmarsi. Prese in silenzio le sue cose, si avvicinò a Lexa e le schiaffeggiò la guancia destra “Mi fai davvero pena.” Detto questo se ne andò sbattendo la porta, lasciandola con un marchio sulla guancia che bruciava più di qualunque altra cosa. Aveva vinto il suo orgoglio un’altra volta. Ma a che costo? La sua tranquillità era stata costruita in una confort zone basata sul distacco in cui le sue emozioni erano tenute sotto controllo. La felicità e l’amore erano delle mine vaganti che potevano spedirla dritta nell’ignoto.
Era ritornata l’unico fantasma tra quelle mura di cartapesta.
 
Passò una settimana e di Clarke neanche l’ombra. Il giorno dopo la loro litigata, le fu recapitato un sacco con dentro i fantocci che la bionda aveva acquistato precedentemente. Non li voleva nemmeno lei. Lexa si era buttata sul lavoro creando un esercito di fantocci anonimi, come se potessero riempire il vuoto che la sua assenza stava causando. Era proprio come diceva Freud con la sua teoria di “coazione a ripetere” che non spinge l’uomo come sarebbe sensato verso il principio del bene, ma a ripetere gli stessi errori contro ogni principio di autoconservazione come una sorta di godimento distruttivo masochistico. Sapeva di aver esagerato, ripensando alle parole che le aveva rivolto poteva immaginarsi chiaramente dei coltelli conficcarsi nella sua pelle e rivoli di sangue colare, macchiando la sua pelle candida. Ma stavolta il manico lo aveva avuto lei. Il distacco che le serviva per uscirne viva, è lo stesso che l’avrebbe uccisa. Stava fissando un punto impreciso del suo banco da lavoro, bevendo con sguardo perso un bicchiere di assenzio. Quel liquido verde le bruciava l’anima, era il suo finto disinfettante, cercava di curare il veleno con un altro veleno. Un’illusione che porta ad altre illusioni, a sogni di carta imbevuti d’inchiostro il cui contenuto è impossibile da decifrare e troppo pesante per volare, un sogno che appassisce e un paracadute bucato smarrito nella nebbia della memoria. Anni passati a vivere nascosta nel silenzio. Mescolò il liquido nel bicchiere con un movimento pigro.  Dormiva poco, si era abituata troppo alla sua presenza e si sa, l’abitudine può spegnere una persona, ma unita alla mancanza può smontarti in minuscoli pezzi rendo impossibile ricostruirti come prima. I suoi pensieri furono interrotti dal bussare alla porta, la guardò un attimo stranulata, convinta fosse uno scherzo causato dall’alcol. Il bussare si fece ancora più insistente. No decisamente non era l’alcol. Si catapultò alla porta, andando a sbattere contro alcuni mobili rischiando di cadere più volte in quel breve tragitto, la aprì sperando di trovare Clarke ma si ritrovò di fronte una ragazza dalla pelle scura dai tratti latini con i capelli castani che fuoriuscivano dal cappuccio del mantello tenuto su malamente dall’aria nervosa. “Sei tu Alexandra Woods?” domandò seria. “Chi vuole saperlo?” rispose Lexa con aria indagatrice. “Si, sei tu” rispose l’altra. La sconosciuta frugò nel taschino della borsa estraendo una busta da lettere stropicciata e gliela porse “Stasera è stata organizzata una festa alla villa in onore di Clarke Griffin in cui verrà annunciato il suo fidanzamento. Ora io non so cosa ci sia tra voi due, ma non l’ho mai vista così passiva da quando ne ho memoria e caso vuole che sia in questo stato da quando non viene più in questo luogo, a mio parere, alquanto discutibile. Questo è l’invito per entrare. Vedi di presentarti in condizioni accettabili per l’amor del cielo, sembrate entrambe uno straccio vecchio” concluse la sconosciuta. Lexa era confusa, troppe informazioni tutte in una volta. Come un automa prese la busta con l’invito e l’altra soddisfatta dopo essersi allisciata le pieghe del mantello, fece per andarsene senza dare a Lexa nemmeno il tempo di formulare una domanda, ma dopo alcuni passi si fermò “Vedi di rimediare, voglio che se ne vada con il sorriso, oppure te la vedrai con me. Ah a proposito, sono sua sorella” e se ne andò. La ragazza di cartapesta sapeva che i Griffin durante un loro viaggio avevano adottato una bambina che era entrata subito in sintonia con Clarke, gliela aveva confessato lei stessa, ma di certo non si aspettava di trovarsela davanti la soglia di casa sua con un invito.
Fidanzamento
Non sapeva bene il motivo, ma sentiva invadere il suo corpo da un fastidio non indifferente. Lexa aveva sempre evitato i legami perché aveva paura della superficialità e facilità con cui gli altri feriscono e rimpiazzano in poco tempo e lei non sarebbe riuscita a sopportarlo. Era il tipo di persona che se rompono un vaso, impiega una settimana per metabolizzarlo e una settimana per dirlo, figurarsi pensare di farlo con una persona. Eppure con Clarke era diverso, le mancava terribilmente e quando stava con lei venivano fuori gesti così naturali che non pensava fosse in grado di compiere. L’idea di lei con un’altra persona, la metteva in uno stato di agitazione. Voleva le sue attenzioni. Anche se in cuor suo lo sapeva, non erano destinate a stare insieme.
Il mostriciattolo chiamato gelosia aveva ormai preso il sopravvento, la testa iniziò a vorticare pericolosamente e iniziò ad avere dei conati di vomito. Corse come poteva nella sua stanza, prese a volo un secchio e iniziò a vomitare tutto il veleno che aveva assunto precedentemente. Buttò fuori la sua anima.
Stomaco di cartapesta
 
La sala da ballo della villa dei Griffin non era mai stata così gremita di gente. Tutti gli esponenti dell’alta società era riunita lì per assistere all’ufficializzazione del fidanzamento tra Bellamy Blake e Clarke Griffin. La sala era luminosissima, in un angolo vi era l’orchestra che stava regalando una bellissima colonna sonora alla serata. Gli invitati si erano scatenati già in numerosi balli e anche le dame più timide, erano state convinte dai giovani rampolli ad unirsi alle danze. Vicino al muro al lato opposto delle finestre, vi era una tavolata infinta con le più svariate prelibatezze. Inoltre la servitù vestita tutto a puntino, girava tra gli invitati con dei vassoi servendo calici di champagne. Vi era un clima decisamente allegro…per tutti, tranne per Clarke. L’abito rosso con i ricami oro che indossava non le era mai parso così stretto. Non voleva stare lì e soprattutto non pensava di doversi sposare così presto con uno sconosciuto. Suo padre le disse che era un’occasione da non perdere. Per carità Bellamy era un bel ragazzo: alto, fisico scolpito, capelli neri ricciolini e occhi marroni. Ma a pelle non le trasmetteva nulla. Ancora non era stato annunciato nulla e già la esibiva come trofeo, anche lui come suo padre. Inevitabilmente pensò a Lexa e al modo in cui la trattava. Anche se a primo impatto poteva risultare apatica, in realtà osservandola di soppiatto Clarke aveva notato i suoi piccoli gesti di premura nei suoi confronti, camuffati sempre accompagnati da qualche battutina sarcastica. Quando le domandava qualcosa era perché era realmente interessata alla sua risposta e soprattutto, teneva in considerazione la sua opinione.
D’un tratto l’orchestra smise di suonare e il tempo si fermò. Suo padre la chiamò accanto a sé. Clarke si muoveva con lentezza, come se potesse rimandare l’inevitabile. Sentiva aumentare il macigno che gravava sul suo petto, ad ogni passo che compiva. Si sforzava di mantenere le spalle dritte come le avevano insegnato, un sorriso raggiante stampato sul viso. La sua maschera migliore.
“Siamo lieti di annunciare che Clarke Griffin e Bellamy Blake convoglieranno a nozze. Che questo porti prosperità a tutti noi. Auguri”
Un fragoroso applauso si liberò nella sala e la musica ricominciò.
Stava soffocando e non solo a causa del vestito. Poteva benissimo immaginare un cardellino che si dimenava nella sua gabbia che si rimpiccioliva sempre di più, opprimendola.



La festa finalmente era giunta a termine. Clarke Griffin se ne stava nel giardino della sua proprietà, con indosso una vestaglia bianca che le arrivava appena sopra il ginocchio. Stava guardando un punto indefinito della siepe a forma di clessidra, quando sentì un legnetto spezzarsi sotto la pressione di qualcosa. Si girò di scatto verso la fonte del rumore guardigna “Chi c’è ?”
Una sagoma femminile che era nascosta tra l’erba, fece la sua comparsa con le braccia in alto in segno di resa e disse “E così ti sposi?”
Lexa se ne stava lì, l’aria più stanca e trasandata che mai e nessun cenno di divertimento nella sua voce.
“Che cosa ci fai tu qui? Come hai fatto ad entrare?” chiese Clarke stupita.
“Non è importante. Allora, quindi ti sposi?” ripetè di nuovo la mora. Clarke riportò lo sguardo sulla siepe a forma di clessidra “Così sembra”
Lexa si fermò un attimo a guardarla. Il cielo quella sera non era mai stato così limpido e la luna piena era più luminosa che mai. Era proprio quest’ultima che conferiva alla bionda un aspetto etereo. La sua pelle diafana sembrava brillare sotto quella luce, facendo invidia al diamante più prezioso. Emise un sospiro rassegnato e fece alcuni passi avvicinandosi a Clarke.
“Vieni con me” disse di punto in bianco. La bionda sorrise ironica “E perché dovrei? Hai forse dimenticato quello che mi hai detto nel tuo dannato laboratorio?”  “Proprio perché non ho dimenticato nulla, vogl-“  si corresse “vorrei che tu venissi con me. Voglio farmi perdonare” concluse decisa. Clarke la guardò incerta. Non aveva né le forze di litigare, né per portare rancore. Ma l’aveva ferita e soprattutto aveva dimenticato come fosse lasciare le chiavi del proprio umore ad un’altra persona. Lexa allungò il braccio e aprì il palmo della mano in un muto invito. La bionda sospirò e la prese, ma Lexa si districò e le afferrò il polso guadagnando uno sguardo confuso.
“Dove mi porti?” chiese Clarke
“Ti porto a fare l’artista” rispose la mora, trascinandola con sé.


Il tetto della casa laboratorio di Lexa era decisamente pericolante. Le tegole stavano in piedi per miracolo e Clarke più volte temeva che queste non potessero reggere il loro peso. Lexa la rassicurò in tutti i modi possibili e le dava a parlare con l’intento di distrarla da quel pensiero, raccontandole delle numerose volte in cui era salita lì sopra per vedere meglio come la notte abbracciava Polis. In effetti da quella prospettiva l’aspetto della cittadina cambiava radicalmente. Non era frenetica come di giorno, in quel momento tutto sembrava in balia di un sonno sereno.
“Vedi Clarke, sta tutto da come vedi le cose. Magari un problema se ci stai dentro può sembrarti insormontabile, ma se riesci ad estraniarti diventa più piccolo, più distante e per qualche secondo ti accorgi che la situazione non è poi così grave come sembra. Quei momenti ti servono per trovare una soluzione più razionale o per non pensare al peso che porti dentro” disse Lexa guardando di fronte “Cosa aggiungeresti a questa tela che hai davanti?” le domandò poi. Clarke si prese un momento per pensarci. Non avrebbe cambiato nulla di quello che i suoi occhi stavano vedendo, ma forse… ”Aggiungerei due sagome che passeggiano nel cuore della notte, che quasi sfumano fino a dissolversi. Tutti vivono la loro illusione nei sogni, ma loro lo fanno ad occhi aperti” disse. Lexa si lasciò sfuggire un sorrisetto e si girò a guardarla sinceramente divertita. Incrociò le mani dietro la schiena e le si avvicinò “E dimmi Clarke Griffin, come chiameresti questa tela?” le domandò con fare curioso. “L’ultimo respiro” rispose. Clarke si fermò a guardarla, non aveva mai visto i suoi occhi verdi così accesi. La mora aveva qualcosa di strano quella sera, se ne era accorta già da quando l’aveva vista nel suo giardino. Di solito tendeva a nasconderle le cose, ma era fin troppo sciolta quella sera e lei dal canto suo, era più agitata che mai. Ma non perché Lexa la stesse infastidendo…ma perché il suo corpo stava reagendo a quel desiderio nascosto che da tempo tentava di mettere a tacere. Nel laboratorio fremeva a volte per toccarla, ma si era sempre controllata. Aveva paura di sgretolare quell’armonia di porcellana che si era creata. I loro sguardi si erano incatenati, nessuno delle due accennava a dir qualcosa. Clarke chiuse gli occhi e sospirò. All’improvviso sentì un tocco caldo e delicato accarezzarle la guancia. Lexa se ne stava accovacciata, lì davanti a lei, con uno sguardo per lei enigmatico. D’improvviso la baciò e Clarke spalancò i suoi occhi azzurri per la sorpresa. Aveva passato la maggior parte del suo tempo a spiarla nel laboratorio e immaginava che le sue labbra fossero morbide. Spesso notava come venivano martoriate con i denti dalla loro padrona, solo perché qualcosa non riusciva come voleva. Fu un bacio delicato, rassicurante. Inizialmente. La realizzazione accese la miccia e il loro bacio divenne più intenso. Quando Lexa si staccò, Clarke l’afferrò per il collo per riavvicinarla ma l’altra ridendo si oppose.
“Che succede?” chiese Clarke
“Ti avevo detto che ti avrei portato a fare l’artista, no?”
Lexa la portò nel suo laboratorio e fece cenno alla bionda alla pittura posata sul pavimento a lato del muro. Clarke era evidentemente confusa e impaziente, dipingere era l’ultima cosa che voleva in quel momento e Lexa lo sapeva benissimo. La mora l’abbracciò da dietro e le iniziò a depositare piccoli baci sul collo. Si fermò un attimo per imprimere nella sua mente l’odore della sua pelle che tanto le era mancato. “Clarke Griffin, ti va di dipingere la ragazza di cartapesta?” disse con voce roca nella penombra di quella stanza. Clarke sorrise e dopo aver intinto una mano nella pittura azzurra, la passò sul petto di Lexa.
Una passione sfrenata fu consumata sul bancone di quel laboratorio. Colori che si mescolavano tra di loro, anime spente che prendevano colore. Tocchi gentili, affondi profondi. Sospiri che riempivano quella stanza fredda e silenziosa da troppo tempo. Due corpi che si incastravano perfettamente come piccoli ingranaggi di un orologio. Due ragazze che stavano rendendo la cartapesta un’opera d’arte.
 
Lexa fu svegliata dai raggi del sole che filtravano dalla finestra. Ci mise un po’ per aprire definitivamente gli occhi e quel che vide la stranì. Si trovava sul pavimento della sua stanza, con il secchio del vomito di lato. Di Clarke nessuna traccia, come non aveva traccia nemmeno di una punta di colore sulla sua pelle. Sentiva un forte brusio provenire da fuori, quella mattina doveva esserci grande fermento in città. Si alzò frastornata aiutandosi con le braccia ed andò ad aprire la finestra. Immediatamente un forte odore di bruciato le arrivò dritto alle narici, costringendola a portare una mano a coprire il naso e il brusio si fece ancora più rumoroso. Con voce impastata urlò a un passante “Ma che diavolo succede?” questo la guardò torvo e urlò di rimando “La villa dei Griffin è andata a fuoco ieri sera! Una compagnia di mangiafuoco durante lo spettacolo ha scatenato un incendio involontariamente. Non sono riusciti a domarlo. Dicono che li abbiano trovati tutti carbonizzati”
Lexa ci mise un po' a metabolizzare quello che aveva sentito. Si diresse di corsa nella sua stanza e sul letto trovò l’invito tutto stropicciato.
Le gambe le cedettero e cadde a terra in ginocchio. Lame di ghiaccio le solcavano le guance, lasciando scie di fuoco al loro passaggio.
Aveva sognato. Non era mai arrivata alla villa. Non aveva mai baciato Clarke. Si era addormentata perché aveva bevuto troppo.
Clarke Griffin era morta. Forse ora, era una persona libera. Ma Alexandra Woods sentiva le catene stringersi più forte che mai intorno alla sua anima di cartapesta.
Eh sì, era proprio il suo ultimo respiro.


PRESENTE
Fiamme avvolgevano il corpo di Alexandra Woods, così come la sua casa.
Urla disperate rieccheggiavano in tutta Polis.
La cartapesta era stata consumata e portata via come cenere al vento.
Due cardellini guardavano la scena, appollaiati su un tetto non poco distante.
“Sei destinata a volare Alexandra”
I due cardellini spiccarono il volo.




 
  
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