14
FEAR
NO DARKNESS
Deep Valley. Lothian.
Ovest.
-
Cavalieri che lasciano
Camelot all’improvviso diretti verso sud. E sembra che ce ne
sia uno nuovo, che
nessuno conosce, forse appena nominato. – Morgause, la
signora del Lothian,
sedette su una vecchia sedia in legno di quercia, nella sua stanza.
Posò il
calice di vino sul vassoio che un servitore le stava porgendo e gli
fece segno
di andarsene. Lui si affrettò a levarsi di torno.
-
Così pare, mia signora.
– rispose maestro Archibald, l’insegnante di
Mordred. – Ma forse non dovremmo
essere così sorpresi. Artù è... un re.
Invia spesso i suoi cavalieri nelle terre
dei lord o nelle città minori, a est di Camelot. Ha molte
cose a cui pensare.
Molti alleati da mantenere. Molti amici. Senza contare che
c’è il matrimonio
del Vostro terzogenito. Potrebbe...
-
Il matrimonio di Gareth
non c’entra nulla. E poi i cavalieri erano diretti a sud.
Perché a sud? Non c’è
niente laggiù! Niente che possa interessare ad
Artù.
-
È una via comoda, mia
signora. È più sicura. Ci sono percorsi segreti.
Viaggiare sulla Via dei Re...
non è sempre facile. I cavalieri sarebbero troppo scoperti.
Se i messaggi che
Artù vuole far giungere a destinazione sono messaggi
importanti, allora...
-
La Via dei Re non sarà
la più sicura, ma è la più breve.
Artù l’ha usata altre volte, in passato. Se i
messaggi sono così importanti, beh allora non vedo
perché dovrebbe passare da
sud per poi raggiungere l’ovest. Allungherebbe di molto il
tragitto. – Morgause
si alzò, avvicinandosi al camino dove, pochi giorni
addietro, aveva bruciato il
messaggio scritto in codice.
-
Forse i messaggi non
sono così urgenti. Ma è comunque necessario che
arrivino a destinazione
intatti.
-
La verità, Archibald, è
che qui c’è qualcosa che non torna.
-
Non penso dobbiate
preoccuparvi, mia signora. Due di quei cavalieri sono Vostri figli e
sebbene
siano fedeli al re di Camelot, sono anche fedeli alla loro madre.
O
forse no, pensò
Archibald. Ma si guardava bene dal dire cose che avrebbero potuto
causare le
ire della signora del Lothian.
-
Non ho paura per me, Archibald!
E
allora di cosa?
Il
maestro deglutì e
tacque. Viveva a Deep Valley da parecchi anni, ovvero da quando Mordred
aveva
solo qualche luna. Il suo compito era quello di seguirlo nella crescita
ed
istruirlo. E l’aveva fatto. Pensava di conoscere bene, quel
bambino. Conosceva
lui così come conosceva Morgause e la sua sorellastra,
Igraine, la madre di
Artù e Morgana.
Ma
di Morgause aveva
sempre avuto paura. Paura del suo sguardo verde, affilato e penetrante.
Paura
delle sue reazioni. Paura delle parole di Merlino, il consigliere di
Artù che,
anni addietro aveva avuto modo di incontrare. Era un druido saggio e
potente,
che vedeva molto lontano. E gli aveva detto qualcosa a proposito della
Grande
Madre, la divinità femminile primordiale venerata ad Avalon,
ovvero che la Dea
aveva quattro volti, quattro aspetti, quattro diversi modi di
manifestarsi; il
Primo Volto era il volto affascinante, dolce ma giusto, forte,
appassionato, il
volto di un’indomita guerriera.
Il
Secondo Volto era
quello più pio e benevolo, il volto di un’amica,
di una consolatrice. Archibald
aveva pensato ad Igraine, a quella donna così silenziosa e
gentile.
Il
Terzo Volto era il
volto saggio, il volto della maga sapiente, che poteva essere capace di
grandi
affetti, ma era anche dura ed implacabile, disposta a tutto pur di
difendere
Avalon e i suoi abitanti dai nemici.
E
poi c’era il Quarto
Volto. Il volto oscuro. Il volto segreto. La giustizia senza
compassione. Una
notte senza luna.
Morgause?
Le
ombre che la signora
del Lothian si portava addosso da quando era nata
l’avvicinavano molto al
Quarto Volto della Dea. Per questo Archibald era preoccupato.
Preoccupato per
Mordred, che era stato affidato alle cure di Lot e, quindi, di sua
moglie. Era
preoccupato persino per il re di Camelot. Per l’est.
Perché Morgause era anche
molto ambiziosa. Il suo primogenito era il più vicino al
trono.
“Archibald,
spera che Morgause non sia il Quarto Volto”, gli
aveva detto
Merlino. “Spera di non vederlo mai,
il
Quarto Volto. Anche se temo che sia tu che io lo vedremo.”
-
Archibald, è meglio che
tu vada. Da Mordred. Ti starà aspettando. – disse
la signora di Deep Valley,
ancora voltata di spalle.
-
Certo. Certo, vado
subito. – Si profuse in un breve inchino e lasciò
la stanza. I suoi occhi
azzurri erano offuscati da parecchi pensieri.
Che
cos’ha in mente, mio nipote?, pensava,
frattanto,
Morgause. Perché ha in mente
qualcosa, ne
sono certa. Come se non bastasse, Regina è partita proprio
questa mattina. Che
Artù ne sappia qualcosa? Forse crede che lei si prepari ad
attaccare Elohim? O
forse lui sa qualcosa su di me? No, non può essere. Se lo
sapesse, mi avrebbe
già mandata a chiamare o sarebbe arrivato con un esercito.
Nella migliore delle
ipotesi mi avrebbe mandato un avvertimento o un ultimatum.
Avrebbe
ordinato alle sue
spie di tenere gli occhi aperti e di comunicarle altri, eventuali
spostamenti o
decisioni prese dal re di Camelot.
Se
solo possedessi ancora una barlume di Vista!, pensò
Morgause, fremendo di frustrazione. Sarebbe
tutto più facile.
La
Vista era un potere
che le sacerdotesse di Avalon avevano fin da bambine, un potere che
permetteva
di prevedere eventi che erano in procinto di verificarsi. Ma la Vista
di
Morgause non era mai stata così potente e lei se
n’era andata presto, seguendo
sua sorella Igraine, che aveva sposato il padre di Morgana. Non aveva
la minima
intenzione di starsene rinchiusa ad Avalon! Ogni tanto aveva qualche
visione,
ma niente di chiaro, niente che potesse davvero capire.
Mi
terrò in contatto con Tremotino e non solo con lui.
Qualsiasi cosa Artù stia
tramando, non gli permetterò di realizzarla!
Verso
ovest.
Camelot
era scomparsa
presto dietro di loro.
Emma
aveva visto le mura
della città di Artù e Ginevra svanire pian piano,
mentre lei e i cinque
cavalieri che la seguivano si inoltravano nella foresta, seguendo la
strada che
li avrebbe condotti verso sud, per poi portarli verso le terre dei lord
a ovest.
All’inizio,
avevano
condotto i loro cavalli al trotto. In seguito, per non stancarli, li
avevano
riportati al passo. Emma era davanti a tutti, affiancata da sir Gawain.
Dietro
c’erano Galahad e Percival, che aveva voluto unirsi a loro ad
ogni costo. Chiudevano
il gruppo Agravain, spesso impegnato canticchiare un vecchio motivetto
popolare, nonostante non avesse una voce particolarmente gradevole e
Thomas,
silenzioso come sempre.
"Vanno le strade, lunghe e
infinite
sotto
le nubi e le stelle smarrite,
ma
sempre i piedi che han tanto vagato
tornano
infine al tetto bramato.
Gli
occhi che han visto fuoco e sconquasso
e grande spavento in grotte
di sasso
guardano infine i cari
giardini
e i campi e i colli di
quand'eran piccini”
-
Agravain. – disse
Thomas, schiarendosi la voce. – Forse potresti... raccontare
una storia, invece
di cantare.
-
Io gli suggerirei di tacere
e basta. – replicò Percival. – Le mie
orecchie sanguinano.
Agravain
lo ignorò. –
Cantare una canzone che parla di fare ritorno a casa porta fortuna. E
tiene
lontano la morte. Oppure preferite che canti la canzone dei demoni che
strappano i cuori dopo avervi tolto la voce?
Gawain
ricordava quella
canzone, perché la sentiva spesso da bambino, nel Lothian.
Parlava di mostri
che giungevano in una città in piena notte e portavano via
le voci alla gente,
per poi strappare loro il cuore, mentre le vittime urlavano senza
però riuscire
ad emettere alcun suono.
Sorrise
al fratello. – Questa
va bene, Agravain. Ma forse ti conviene riposare la voce per un
po’.
Cavalcavano
per la
maggior parte del giorno, fermandosi solo per riempire le borracce o
per
mangiare qualcosa. Avevano evitato qualsiasi insediamento in modo tale
che nessuno
si facesse troppe domande su un gruppo di cavalieri che virava verso
sud, anche
se laggiù c’era ben poco.
Emma
aveva indossato
l’armatura che il re le aveva regalato. La cotta di maglia
era d’argento,
finemente lavorata; la piastra pettorale smaltata, candida come neve,
come il
manto del suo cavallo, Maximus; Narsil era nel fodero appeso al
cinturone di cuoio
bianco con le fibbie dorate; sullo scudo e sul mantello rosso
agganciato alla
base del collo era impresso lo stemma della sua famiglia, il cigno.
Ripensò al
momento in cui aveva lasciato Camelot; Ginevra non aveva fatto cenno
alla loro
conversazione sui camminamenti e l’aveva salutata con un
semplice cenno del
capo. Artù le aveva posato le mani sulle spalle e le aveva
sorriso.
-
Confido in te. Sento
che sei pronta davvero e che puoi farcela. E allora il regno dei tuoi
genitori
sarà tuo. Lo ricostruirai e sarà di nuovo
splendido, come un tempo.
La
pantera non mi fermerà, aveva
pensato Emma. Il cigno non ha paura della
pantera.
Aveva
visto Gawain
salutare la moglie e i figli. Aveva guardato Agravain prendere in
braccio i
suoi e farli roteare in aria. Aveva osservato Thomas stringere la
figlia di
pochi mesi e baciare la moglie, Ella, in lacrime. Aveva spostato lo
sguardo su
Galahad che salutava suo padre, Lancillotto. Emma sperava che
sopravvivessero
tutti. Che quei saluti non fossero il preludio di un addio.
Percival
era arrivato per
ultimo. Non sarebbe dovuto venire, ma quella mattina aveva chiesto al
suo re di
potersi unire agli altri. Artù aveva acconsentito.
-
Se è quello che vuoi,
non te lo impedirò, Percival. – gli aveva detto il
re.
-
Vi ringrazio.
-
Vuole la rivincita,
ecco perché viene con noi. – aveva replicato
Agravain, sorridendo, divertito. –
Ti bruciano le chiappe, vero? Sei stato sconfitto pochissime volte in
vita tua
e mai da una donna.
-
Ammiro le donne che
sanno combattere bene, come Emma. E sì, quella sconfitta mi
brucia, ma la
principessa ha vinto meritatamente. Voglio venire perché la
rispetto e credo in
lei. – l’aveva rimbeccato Percival.
Eppure
ieri Artù ha accordato il permesso a quattro cavalieri.
Diceva che quattro
bastavano. Oggi, però, non ha fatto molta resistenza quando
Percival ha chiesto
di unirsi a noi, aveva
pensato Emma.
Merlino
si era
avvicinato, appoggiandosi al lungo bastone ricurvo. La pelle nera era
segnata
dalle rughe profonde, che parevano più marcate del solito,
soprattutto sulla
fronte alta, come se la preoccupazione lo stesse tormentando. Gli occhi
blu sotto
le fitte sopracciglia nebbiose sembravano scrutarla come se le stessero
leggendo dentro. Non dubitava che ne fossero capaci. E lui non sembrava
più un
uomo - lo stesso uomo che si era seduto di fronte a lei nella Foresta
di Rhun,
un giorno di qualche anno prima e le aveva parlato di Avalon e di
quanto gli
fosse costato starsene al suo posto - ma una creatura saggia e potente
uscita
da qualche antica leggenda.
-
Credi nelle parole di Morgana.
Una sacerdotessa di Avalon conosce sempre la verità.
– le aveva sussurrato, con
la voce roca.
-
Le credo. Ma non
capisco. – aveva risposto Emma, alzando la testa per poterlo
guardare.
-
Capirai. Presto. Quando
sarà il momento, capirai. C’è un
momento giusto anche per scoprire cose di cui
sei all’oscuro. E qui ci sono troppe orecchie.
Le
parole di Merlino non
avevano fatto altro che rendere assai più fitta
l’oscurità. Emma sapeva che
Merlino aveva delle visioni, a volte. Glielo aveva detto lui stesso. Ma
le
aveva anche detto che il futuro non era mai chiaro. Anche se lo fosse
stato,
dubitava che il druido glielo avrebbe svelato.
Verso
il tardo pomeriggio
del sesto giorno di viaggio il cielo, fino a quel momento terso, si
riempì di
nuvole minacciose e iniziò a tirare un forte vento.
-
Sta arrivando un
temporale. – annunciò Gawain, guardando le nubi.
– Dobbiamo fermarci... qui.
-
Qui? Ma sei uscito di
senno? – esclamò suo fratello Agravain,
strabuzzando gli occhi verdi.
-
Abbiamo scelta?
-
Preferisco cavalcare
sotto la pioggia, tra i fulmini e i tuoni, piuttosto che fermarmi a
Thorntown.
È una città di spettri!
Thorntown
era un
villaggio di mercanti e contadini che, un tempo, sorgeva a sud ovest,
tra il
Lothian e quello che un tempo era il regno di Emma. Era uno dei
villaggi
distrutti dall’avanzata dell’esercito del nord,
undici anni prima. Ora era in
rovina e non ci viveva più nessuno, ovviamente. A parte gli
spettri dei suoi
abitanti, secondo alcune storie. Le case, in legno e pietre, erano
malridotte,
con squarci nei muri, tetti in larga parte crollati. Le stradine erano
dissestate. La vegetazione si stava prendendo tutto quanto.
-
Non possiamo cavalcare
sotto la pioggia e lo sai bene. – intervenne Galahad,
scrutando il posto. –
Rischiamo di perderci. E saremo comunque costretti a fermarci,
perché non
vedremo niente. La notte è nera.
-
E poi... da quando uno
grande e grosso come te ha paura degli spettri? – lo prese in
giro Percival. E
tuttavia qualcosa lo innervosiva. Si guardava intorno e alle spalle.
-
Non si tratta di paura.
– ribatté Agravain. – Gli spettri ci...
disturberanno. Potrebbero condurci alla
follia. Lo sapete cosa dicono le leggende.
-
Sì. – confermò Gawain.
– Le leggende dicono molte cose. Cose terribili. Ma al
momento non vedo
un’altra soluzione. Emma?
“Ad
ovest... vicino al
confine con il regno del sud, c’è una
città chiamata Thorntown. Alcuni... non
vogliono fermarsi in quel posto. Superstizione. Magari nelle storie che
raccontano c’è qualcosa di vero, ma tu dovrai
fermarti, Emma. Dillo ai
cavalieri che verranno con te.”
Tutti
si voltarono a
guardarla. Lei si tolse l’elmo, liberando la folta chioma
biondo oro. Il
mantello rosso svolazzò, sospinto dal vento. Era proprio
come aveva detto
Morgana. Thorntown. Ma cosa poteva esserci di importante in quel luogo
dimenticato e in rovina? Forse la persona che l’avrebbe
seguita ad Avalon si
trovava a Thorntown? Si nascondeva?
E
si rese conto che tutti
stavano guardando lei. Se avesse detto di no, probabilmente non
avrebbero
contestato la decisione e avrebbero proseguito. Avrebbero... eseguito.
Perché
lei era l’erede al trono. Anche se quegli uomini
l’avevano protetta, erano di
rango inferiore al suo. Servivano un re, ma il re in quel momento non
c’era.
C’era solo la futura regina di Anatlon.
Emma
deglutì.
Improvvisamente aveva la gola arida. - Ha ragione Gawain. Dobbiamo
fermarci. Se
proseguissimo saremmo... certamente sorpresi dal temporale.
Agravain
borbottò
qualcosa di incomprensibile.
La
strada davanti a loro
si allargò e si rivelò ingombra di erbacce.
Quella, un tempo, doveva essere la
via principale del villaggio. Molte delle abitazioni erano
evidentemente
inagibili, gusci sbilenchi invasi dalla vegetazione. Ma tra di essi,
trovarono
un edificio in pietra e legno che, nonostante fosse pieno di crepe e
muschio,
sembrava abitabile. Il tetto era intatto. C’era persino un
altro edificio,
attaccato ad esso, forse una vecchia stalla. Una vera fortuna, visto
che stava
arrivando la tempesta e i cavalli dovevano essere messi al riparo.
-
Cerchiamo di capire se
possiamo avere accesso a questa casa. – disse Emma.
Il
pianterreno consisteva
in un grande stanzone. Contro una parete erano accatastati panche e
tavolacci.
Agravain, che si era liberato dal bisogno di fare polemica e parlare di
fantasmi, prese un pannello di legno, lo saggiò con le sue
grandi mani un po’
callose e poi lo portò davanti all’unica finestra
priva di vetri in modo da chiudere
l’apertura.
-
Io e Galahad ci
occuperemo dei cavalli. Li portiamo sul retro. –
annunciò Gawain, risoluto. –
Abbiamo poco tempo.
-
Sì. Io vado a dare
un’occhiata al pozzo. Forse c’è ancora
dell’acqua. – disse Emma.
-
Vengo anch’io. – disse
Percival.
-
Bene. Andate. Io do
un’occhiata in giro. – disse Thomas.
-
Ecco. Controlla che non
ci siano fantasmi. – rispose Percival, accennando un sorriso.
-
Fai pure lo spiritoso e
prenditi gioco di me. – replicò Agravain,
guardandolo con gli occhi socchiusi.
– Sai poco del mondo.
-
Ah, invece tu credi di
sapere tutto...
-
Ho parecchi anni più di
te. E ho due figli. Ho visto molte più cose. Ho viaggiato di
più...
Percival
roteò gli occhi.
Il
pozzo del villaggio
era dalla parte opposta dell’edificio in cui avevano trovato
riparo, in quella
che, un tempo, poteva essere stata una piazza in cui veniva allestito
il
mercato. Il tamburo a manovella sotto il tettuccio marcio aveva ancora
la sua
fune, ma il secchio, che Emma districò da un ammasso di rovi
a destra del
pozzo, era privo del manico.
-
Non importa. Ho portato
una corda. – disse Percival. Si mise al lavoro.
Tagliò un pezzo della fune e
infilò le estremità nei fori in cui, in
precedenza, era agganciato il manico.
-
Ben fatto. – commentò
Emma, sorridendo. – E nel pozzo c’è
acqua.
“Magari
nelle storie che
raccontano c’è qualcosa di vero, ma tu dovrai
fermarti, Emma. Dillo ai
cavalieri che verranno con te.”
Non
c’era nessuno, lì.
Emma si guardava intorno, ma il villaggio era abbandonato. Thomas stava
perlustrando i dintorni, ma non aveva lanciato alcun segnale.
Percival
gettò il secchio
nel pozzo, trattenendo la corda e, pochi istanti dopo, lo
issò. Lui ed Emma
diedero un’occhiata all’acqua.
-
Mi sembra bevibile. Percival?
Cosa vedi?
-
Solo acqua. E noi.
Emma
sollevò un
sopracciglio. – Bene. Ditemi, sir Percival. Perché
avete deciso di unirvi a
noi?
-
Perché era la cosa
giusta da fare. – rispose, senza esitazioni, fissando
l’acqua. Ad Emma parve
che le stesse nascondendo qualcosa. Qualcosa che lo toccava nel
profondo. Fu
sul punto di fargli qualche domanda.
In
quel momento vi fu un
colpo di tuono. Molto vicino.
-
È meglio sbrigarsi. –
gli fece notare Emma.
-
Certo.
Da
nord a ovest.
La
luna era una falce
sottile in cielo. Lungo la riva del fiume Acheron, Regina si era
accampata non
appena era calata la notte, con i cinque uomini che componevano la sua
scorta.
Due di loro, adesso, montavano la guardia.
Non
aveva permesso molte
soste. Il minimo indispensabile per far riposare i cavalli. Non avevano
tempo
da perdere. Avevano evitato di passare vicino ai villaggi sparpagliati
per le
sue terre, in modo che la gente non si accorgesse di nulla e non
facesse troppe
domande. Avevano attraversato campi arati, le zolle smosse. Avevano
costeggiato
il fiume fino a poco dopo il tramonto. Allora Regina aveva ordinato di
fermarsi. Era la sera del sesto giorno di viaggio.
Anche
Regina aveva scelto
di non percorrere la Via del Re. Per sicurezza, ovviamente. Avrebbe
impiegato
più tempo, ma il tempo forse le sarebbe servito per
elaborare il piano.
Non
riusciva a dormire,
per questo era uscita a guardare le acque del fiume che scorrevano,
lente e
tranquille, verso l’Oceano Occidentale, dove
l’Acheron si gettava. Frinire di
grilli e folate di vento che smuovevano le fronde.
Regina
ripensava al
mattino della sua partenza.
-
Vi ripeto di fare
attenzione. – le aveva detto Tremotino, quando Regina era
montata in sella a
Rocinante, il suo cavallo, un destriero giovane, marrone e con una
macchia
bianca sul muso, protetto da una gualdrappa nera di maglia metallica
che
mostrava le insegne araldiche del cavaliere, ovvero la pantera, nel suo
caso.
L’armatura nera, forgiata per lei, era perfetta, lucida, non
troppo pesante ma
comunque robusta.
-
E Voi fate attenzione
al mio regno. Fino a che non sarò di ritorno dovrete
occuparvene. – gli aveva
ricordato Regina.
-
Contate su di me. E tenetemi
informato.
-
Lo farò.
-
Un’ultima cosa.
Guardatevi dal Branco.
-
Branco?
-
Sono... sono dei
selvaggi, Maestà. Uomini che hanno deciso di vivere lontano
dai loro simili.
Uomini che hanno... che hanno ucciso e tradito. Niente più
che mercenari. Si spostano
spesso, insieme ai lupi. Lupi veri, intendo. Forse non li incontrerete
mai e
sarà meglio per Voi. Ma io Vi ho avvertita.
-
D’accordo. Vi
ringrazio.
Tremotino
l’aveva fissata
dal basso, sorridendo. – Avete tagliato i capelli...
Regina
aveva sempre
portato i capelli lunghi, fin da quando era piccola. Ma la notte prima
di
partire, guardandosi allo specchio, aveva deciso che era giunto il
momento di
tagliarli. Per comodità, ma anche perché le cose
stavano cambiando. Presto
sarebbe stata la regina non solo del suo regno, ma anche di quello dei
Blanchard. Quindi aveva preso le forbici e se li era tagliati. Ora
erano corti,
non le arrivavano neppure alle spalle.
-
Vi donano molto, Vostra
Maestà. – aveva commentato il Genio, rinchiuso
nello specchio.
-
Sono ancora la più
bella del reame?
-
Lo siete sempre.
Ma
non contava quanto
fosse bella. Contava quanto fosse potente e quanto fosse disposta a
rischiare
per avere ciò che le spettava. Contava cosa fosse disposta a
fare per vendicare
i suoi genitori e il tradimento subìto anni prima.
Anche
Daniel era venuto a
salutarla. Regina non l’aveva voluto con sé,
perché sapeva benissimo che non
era d’accordo con la sua decisione di partire e prendere
Anatlon.
-
Maestà, siete sicura
che... sia meglio per me restare qui?
-
Sì, comandante. Mi
servite a Nymeria. Occorre qualcuno che tenga d’occhio i
confini della
capitale. Usate pure tutti gli uomini che Vi servono. Se non Vi
dovessero
bastare, non esitate a cercarne altri. Ho dato disposizioni al mio
consigliere
affinché possiate disporre del denaro necessario a pagare...
-
Credo che gli uomini
basteranno, Maestà.
-
Bene.
A
quel punto, si erano
uniti al gruppo gli ultimi due soldati. Erano giovani. Uno era alto ed
era a
testa scoperta; ciò attirava subito lo sguardo sui suoi
capelli folti, di un
nero splendente. Il viso dalle ossa minute era ben modellato e gli
occhi erano
di un azzurro tenebroso. L’altro, invece, si era
già sistemato l’elmo sul capo
e da sotto spuntava un ciuffo di capelli biondicci.
-
E questi chi sono? – aveva
domandato Regina a Daniel.
Il
ragazzo con gli occhi
azzurri si era piegato leggermene su un ginocchio, portandosi una mano
al
petto, con il palmo rivolto verso l’esterno. Poi aveva chiuso
le dita a pugno.
– Maestà... il mio nome è Will
Nightshade. Lui è il mio compagno d’armi, Jim.
-
Jim Halloway. – aveva dichiarato
il secondo ragazzo, imitando l’inchino dell’amico.
Le sue iridi, ombreggiate
dalle lunghe ciglia, erano marrone chiaro.
-
Da dove saltano fuori,
Daniel?
Il
comandante accennò ai
giovani di prendere i cavalli. – Li ho addestrati
personalmente. Potete fidarvi
di loro.
Regina
decise di non fare
altre domande, dato che non aveva più tempo da perdere.
-
Posso dirvi un’ultima
cosa? – chiese Daniel.
-
Dite pure.
-
State bene con i
capelli corti. – E aveva sorriso.
A
quel punto anche
Morgause doveva essere stata informata della sua partenza.
L’avrebbe aiutata,
se ce ne fosse stato bisogno? Regina era disposta ad ascoltare la
signora del
Lothian, vecchia amica e alleata di sua madre. Ma non era sicura di
poter
accettare qualsiasi cosa le avesse chiesto. Non poteva concedere troppo
a
Morgause. Era una donna ambiziosa. Non solo, poteva essere anche
pericolosa,
visto che nelle sue vene scorreva il sangue di Avalon.
-
Non importa. – mormorò
Regina. – Affronterò qualsiasi cosa. Devo farlo.
Sono la regina di Mehlinus.
“Sono
convinto che se Vostra madre fosse qui sarebbe fiera di voi. Dovete
prendervi
la Vostra vendetta. È giusto. Ma, Regina, i Blanchard sono
pericolosi.”
Era
disposta a correre
quel pericolo. Per la sua vendetta.
Pensò
a sua madre, uccisa
da quei maledetti. A tradimento. Pensò a suo padre, ucciso
da David. A
tradimento anche lui. Pensò al simbolo che, un tempo, era
stato suo: il melo su
sfondo blu. Ogni tanto lo vedeva ancora nei suoi sogni, così
come vedeva i suoi
genitori. Henry, soprattutto. Henry che la issava sulle sue spalle,
perché lei
potesse cogliere una mela rossa. Una bella mela rossa che poi suo padre
tagliava in tanti spicchi...
“Grazie,
padre.”
“Possiamo
raccoglierne altre domani, se vuoi.”
“Sì,
mi piacciono le mele rosse.”
Regina
era solo una bambina che non sapeva niente di magia. Ed Henry la
portava spesso
nelle terre che circondavano Nymeria, dove crescevano numerosi alberi
di mele.
Erano quelli i momenti in cui si sentiva più felice. I
momenti in cui si era
sentita davvero a casa. Suo padre le aveva detto spesso che la sua casa
era
ovunque vi fosse qualcuno che avrebbe pensato a lei con affetto. E
Regina aveva
suo padre. Cora era sempre molto occupata. Non l’aveva mai
portata a
raccogliere mele.
“Regina,
hai mangiato di nuovo fuori dai pasti?”
“No,
madre...”
“Invece
sì, l’hai fatto. Altrimenti, cosa sarebbe
questo?”. Allungò una mano e le tolse
qualcosa da un angolo delle labbra. Un residuo di succo di mela.
“Madre...”
“Quante
volte ti avrò ripetuto che una fanciulla come si deve non
mangia fuori dai
pasti? Devi iniziare a comportarti nel modo giusto, Regina. Non
è così che una
futura regina si comporta.”
“Cora,
senti...”, provò a dire Henry. “Lasciala
stare. L’idea è stata mia.”
“Non
interrompermi, Henry!”
E
suo padre abbassava il capo. Sembrava così debole in quei
momenti...
Istintivamente
Regina
posò una mano sull’elsa della spada. La spada di
Henry. E si sentì subito
rincuorata. Chiuse gli occhi mentre stringeva l’impugnatura e
vide la mano di suo
padre che la stringeva come stava facendo lei. Lo vide chiaramente.
Sorrise.
Poi
quella stessa mano
salì al collo, a cercare il ciondolo, quello che aveva
sempre avuto con sé da
quando era piccola. Un ciondolo che aveva la forma di un albero di
mele. Il suo
vecchio simbolo. Così in contrasto con la pantera.
Regina
alzò lo sguardo al
cielo, osservando la falce di luna.
Presto
avrebbe raggiunto
il sud. Presto avrebbe affrontato i suoi nemici di sempre e li avrebbe
sconfitti. Anatlon avrebbe dovuto chinare il capo e inginocchiarsi
davanti ad
una nuova sovrana. E pagare.
-
Soldato. – disse Regina
al giovane Jim Halloway, uno degli uomini che montavano la guardia. Il
suo
amico, sdraiato su un cumulo di pelli, alzò la testa e si
mise in ascolto.
-
Sì, mia regina. – disse
Jim, con deferenza.
-
Si dice Vostra
Maestà. Portami una pergamena. Ho bisogno di
inviare un messaggio.
Il
soldato eseguì
l’ordine e, nel giro di un attimo, fu di ritorno con
ciò che aveva chiesto.
Regina vergò un messaggio indirizzato a Tremotino,
perché sapesse che era a
buon punto e che andava tutto secondo i piani. Poi aprì una
mano, pronunciò
poche parole e, su di essa, comparve un corvo nero che
sbatté le ali. Regina
legò il messaggio alla zampa e sospinse l’uccello
verso il cielo. Il corvo
spiccò il volo.
Più
a sud si erano
assiepate pesanti nuvole temporalesche.
Vicino a Deep Valley. Lothian.
Ovest.
Non
molto lontano da Deep
Valley, sorgeva Ludinsford, piccola città di mercanti di
pelli e spezie, di
strade lastricate da grandi blocchi di pietra, di edifici in mattoni
addossati
gli uni agli altri. E di ricche famiglie spesso in contrasto fra di
loro. Tra
queste ce n’era una, della quale era rimasta ormai solo
l’unica figlia femmina
del signore, che era lontanamente imparentata con Lot del Lothian.
Un
servitore salì le
scale che conducevano alle stanze di lady Amara, bussò
discretamente alla
porta, schiarendosi un po’ la voce e attese.
-
Sì?
-
Signora, ci sono delle
missive per voi.
-
Entrate.
Il
servitore entrò. Tre
candele di sego ardevano sul davanzale della finestra. Altre quattro,
poste
accanto al letto, spandevano una luce tremolante lungo le pareti,
costringendo
le ombre della sera a retrocedere. L’uomo
aveva riposto le lettere su un vassoio d’argento che
portò alla signora,
posandole sullo scrittoio, davanti a lei e chinando leggermente il
capo.
-
Ti ringrazio. – rispose
Amara, scostandosi una ciocca di capelli dal viso.
-
C’è altro che
desiderate, milady?
-
Niente. Ritirati.
Il
servitore se ne andò
alla svelta.
Amara
allungò una mano e
prese tutte le lettere arrivate quel giorno iniziando ad aprirle. Le
lesse
distrattamente e rispose ad alcune di esse, ma ciò che
c’era scritto là dentro
non era importante. Non aveva importanza per lei, almeno.
Il
messaggio davvero
importante e che da tempo attendeva era arrivato pochi giorni prima,
con un
corvo messaggero, che lo portava legato ad una zampa. Una piccola
pergamena con
poche parole scritte in codice, ma che non era stato difficile
decifrare.
“È
partita poco dopo il sorgere del sole. Presto saprà la
verità. Ho già
comunicato l’accaduto a Morgause.”
È
quasi giunto il momento. Finalmente.
Amara
si alzò. Guardò
fuori dalla finestra, il cielo scuro e punteggiato di stelle. Poi
osservò la
sua immagine riflessa nello specchio vicino al letto.
Un
istante dopo una
magica e densa nube viola l’avvolse completamente e quando si
diradò i capelli lunghi
e neri della donna si erano dissolti, cedendo il posto a capelli
ondulati e
castani, raccolti con un fermaglio. Gli occhi avevano assunto un taglio
differente e in essi brillava una luce diversa, più crudele.
I lineamenti del
viso si erano fatti più marcati, più duri ed
erano comparse nuove rughe. La
carnagione era chiara. D’un tratto la donna che indossava una
lunga veste blu
era più vecchia di quella che si era guardata allo specchio
giusto un momento
prima. Di Amara aveva solo la pesante collana d’oro a forma
di serpente. Nella
mano destra stringeva un lungo bastone dorato con la sommità
a forma di cobra.
Cora,
la regina di Mehlinus,
che tutti credevano morta da undici anni, sorrise.