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Autore: Eneri_Mess    10/10/2020    1 recensioni
FINE (Prima parte)
Con il segreto che nasconde, Yokohama è una città dove non si possono dormire sonni tranquilli.
Dal Preludio:
Una mano di Dazai gli strinse il braccio, mentre le dita dell’altra si aggrapparono alla sua camicia sgualcita sul petto. Il nemico barcollò, ma si rimise in piedi, recuperando una delle proprie pistole.
«Chuuya...» ridacchiò Dazai, fuori luogo. «Di nuovo: ho mai sbagliato nel formulare un piano?»
«Smettila!» e la prima nota di supplica si mischiò alla richiesta. «Non sei lucido!»
Genere: Azione, Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Chuuya Nakahara, Osamu Dazai, Sakunosuke Oda
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Capitolo 5

Truth O’Clock

(Parte 1)




 

 

 

Oh my God
Please help me, neck deep in the river screamin' for relief
He says, it's mine to give, but it's yours to choose
You're gonna sink or swim, you're gonna learn the truth
No matter what you do you're gonna learn the truth sayin'

[Bartholomew - The Silent Comedy]










 

C’era una seconda città riflessa nelle acque della baia. Bagliori che davano forma ai palazzi e alla ruota panoramica, ricreando una Yokohama placida e brillante, il ricordo di un sogno inafferrabile nei dettagli. 

Era l’una passata di notte e Dazai si trovava appoggiato al muro affianco all’ingresso del Lupin. La giornata si era protratta fino a poco prima e il locale aveva già chiuso, lasciando l’uomo a contemplare il punto più oscuro del cielo sopra di sé, uno spiraglio tra i palazzi in cui stava riversando i propri pensieri.  

Un leggero colpo di clacson dirottò la sua attenzione. Ango fece un cenno di saluto dal finestrino abbassato di un’auto scura.

«Novità sul Presidente?» 

Dazai si lasciò andare contro il sedile dell’auto in cerca di una posizione comoda, finché non appoggiò la fronte al finestrino e il tocco freddo gli diede sollievo. 

«L’operazione è andata bene, i medici sono positivi.»

Ango emise un sospiro di sollievo, ma non aggiunse altro. Per qualche minuto rimasero in silenzio, non più avvezzi a condividere tempo e spazio insieme, anche solo per lavoro. Il senso di disagio aveva più la forma spigolosa dei sensi di colpa, dal lato della ex spia, e un muro di vetro da parte dell’ex Dirigente della mafia. Tuttavia, la situazione era pressante sulle loro teste. Ango mise da parte i pensieri pungolatori e riprese la conversazione. 

«Sono emersi indizi sul rapimento di Yosano-sensei?»

Le dita di Dazai si chiusero a pugno, all’interno della tasca del trench. «Nulla.»

«Avete un rapporto su quanto successo?»

Le luci della città si diradarono, rimasero solo quelle dei lampioni; oltre il cono di luce che creavano c’era il buio e la percezione del mare. 

«Tre esplosioni in tre società legate alla Port Mafia. Gli ordigni erano fatti in casa, nulla di complicato, ma efficienti e sistemati nei punti ciechi delle telecamere di sorveglianza. Devono ancora fornirci i badge rilasciati a dipendenti e visitatori per fare controlli incrociati, ma non ne verrà fuori niente.»

«Pensate che sia opera di Red Hood?»

«Le esplosioni si collocano sullo stesso cerchio che ha iniziato due sere fa, anche se l’obiettivo della Port Mafia questa volta era solo una facciata.» 

Nel tono di Dazai, l’apparente indifferenza si mescolava con una rabbia tiepida. Erano caduti nella sua tagliola con una ingenuità imbarazzante. Le ultime parole che aveva rivolto ad Atsushi, quella mattina sul tetto dell’Agenzia, erano state fin troppo veritiere e funeste. 

«Per adesso pensiamo che Yosano sia viva. La sostanza trovata nella siringa era un composto di anestetico e paralizzante, studiato apposta per metterla fuori gioco. Hanno tenuto conto di quanto velocemente il suo corpo smaltisce tutto ciò che le è potenzialmente dannoso.»

Ango annuì, tenendo gli occhi sulla strada. Aveva una maschera di serietà, ma dalla rigidità della fronte corrugata traspariva la preoccupazione per tutte quelle notizie. 

«Ranpo-san non è riuscito a dedurre niente?»

Dazai chiuse gli occhi. «Il Presidente è stato operato d’urgenza e Yosano è stata rapita. Due delle persone più importanti per lui sono state prese di mire. Si è buttato a capofitto nell’indagine ed è stato impossibile trattare con lui. Forse domani avremo qualche novità.»

«Merda...» 

In una diversa circostanza, la sincerità con cui Ango imprecò avrebbe strappato a Dazai un sorrisetto. Il problema era che non riusciva a staccarsi dalla sensazione che la situazione li stesse ingoiando vivi. Il ricordo del Cannibalismo era ancora vivido e un’altra corsa in ospedale per il Presidente aveva messo alla prova il morale dei detective. 

«Ho una conferma però» riprese Dazai, mentre Ango fermava la macchina in uno spiazzo ghiaioso. Erano poco fuori il centro abitato e non c’era un’anima nei dintorni. Il rumore del mare contro la scogliera sostituì quello del motore. Dazai tirò fuori da un taschino interno del trench una fotografia. Ad Ango bastò un’occhiata per comprendere.

«Dopo che mi hai chiamato ho ricevuto una seconda telefonata. Alla luce di questo - Dazai diede una schicchera alla foto - non saprei dire se fosse Red Hood o un ratto. Ma la tecnologia di hackeraggio è la stessa usata sulla Moby Dick. Si sono agganciati al tuo ID nel mio telefono e poi all’auricolare del Presidente per attirarci in trappola.»

Nell’immagine c’era un piccolo microchip con stampata sopra la caricatura di un topo ridacchiante che si faceva beffe dell’osservatore. 

«Durante il caso del Cannibalismo siete riusciti a ottenere una pista facendo analizzare il dispositivo di controllo della Moby Dick.»

Dazai si strinse nelle spalle. «È già nelle mani di Katai-san, ma non freghi due volte la stessa persona, a meno che questa non voglia essere fregata» sentenziò Dazai, aprendo lo sportello dell’auto per scendere. 

Il vento gli scompigliò i capelli e l’odore di salsedine gli invase i polmoni prima che potesse inspirare pienamente. Sullo sfondo, Yokohama era una cartolina di luci arcobaleno, una città dei balocchi che nascondeva bene i propri segreti. Anche Ango scese dalla macchina, occhieggiando il panorama a propria volta; le sue dita si strinsero sullo sportello. 

«Se le bombe sono state messe da Red Hood e ha anche usato questo microchip, significa che-»

«Che Red Hood e Dostoevskij stanno dalla stessa parte» concluse Dazai, muovendosi verso il bordo dello spiazzo, gli occhi fissi sulle onde nere del mare. 

Il silenzio si protrasse il tempo che Ango ci mise a mandare giù l’ennesima, pesante verità. Si tolse gli occhiali, passandosi una mano sul viso tirato, per poi recuperare due fascicoli dal sedile posteriore, chiudere la macchina e avvicinarsi all’ex amico. 

«Red Hood è un diversivo? O è sempre lui a rubare anche le chiavi? Possibile che qualcuno da solo riesca a occuparsi di tutto questo?» 

Dazai iniziò la risposta alle domande di Ango con un’alzata di spalle. 

«Non sappiamo ancora quale abilità abbia Red Hood o se ne possieda una, ma escludo siano la stessa persona.» Nel dirlo, Dazai levò un indice, picchiettandosi la punta del naso. «Nell’omicidio della gioielleria siamo quasi certi che sia stato impiegato un qualche tipo di potere che il nostro finto giustiziere non ha ancora dimostrato di avere. Il calibro della pistola usata non corrisponde ai proiettili estratti da Akutagawa e Fukuzawa-san. In più, i modus operandi sono all’opposto: Red Hood è rapido e pulito, mentre l’assassino della gioielleria sembra essersi divertito

Ango porse a Dazai il primo dei due fascicoli che aveva portato con sé. Il documento era vetusto e consunto quanto il primo della sera al Lupin, senza alcun segno di riconoscimento immediato che lo classificasse come top secret. Dentro, la metà del rapporto era censurato e inutile. Questa volta, la prima fotografia ritraeva una galleria d’arte privata, mentre la seconda era stata strappata, e della chiave si vedeva solo l’impugnatura con delle decorazioni a foglia. 

«Non c’è stata effrazione» spiegò Ango. «La proprietaria abitava in un appartamento al piano superiore. Ci sono segni di trascinamento dalla camera da letto dove dormiva alla galleria, dove è stata uccisa.» Aprì il secondo fascicolo, nuovo e di un rosso mattone bollato in nero con un Confidential. Da questo estestrasse la foto di un cadavere di donna in camicia da notte, appeso al soffitto tramite dei cavi, come fosse stata un’installazione della mostra stessa. Dazai non si scompose, fissando la grottesca immagine con l’aria consumata di chi cose simili le ha già viste e riviste. 

«Identità fittizia?»

«Nome falso e vita costruita ad hoc» confermò Ango, richiudendo il file e consegnandoglielo con una rabbia impotente costretta a malapena sotto il tono serio. «Tornato in ufficio riprenderò ad analizzare gli effetti personali.»

«Il prossimo obiettivo potreste essere voi della Divisione. Il terzo tassello della struttura trilaterale di Natsume-sensei» meditò Dazai a bassa voce, le braccia in parte incrociate. La metà inferiore del suo viso era nascosta dietro i due fascicoli che stava inconsciamente tamburellando contro le labbra. Il suo sguardo stava vagliando le possibilità di un futuro prossimo. Un’espressione meditabonda che Ango aveva conosciuto ai tempi della Port Mafia, da cui era impossibile sfuggire, ma che gli anni avevano ammorbidito. 

«Se venissimo attaccati, forse il governo realizzerebbe l’entità della minaccia e la smetterebbe di tenere la testa sotto la sabbia...» commentò con sincerità e acredine Ango, serrando le dita a pugno. 

«Andiamo, Ango. Dov’è la fiducia verso i tuoi superiori? Hanno solo permesso a un’organizzazione americana di invadere Yokohama e quasi distruggerla» ridacchiò Dazai con un retrogusto cattivo. «Puoi sempre licenziarti e ricominciare in Agenzia. Kunikida-kun ti accoglierebbe a braccia aperte e potreste ammazzarvi di lavoro insieme.» Si fermò, ripensando a una cosa che aveva appena detto. «Abbiamo merce di scambio da offrire a Fitzgerald per utilizzare di nuovo Eyes of God?»

Ango scosse la testa. «Dalle ultime indiscrezioni che ho ricevuto, Fitzgerald è tornato in America. Sembra ci siano problemi interni alla Gilda.»

Le spalle di Dazai si sollevarono in un lungo respiro, per poi abbassarsi brutalmente nel rilasciarlo. «La conferma che non puoi fregare due volte la stessa persona con lo stesso metodo. Perché non c’è mai nulla di semplice?» si lamentò, il viso piegato da un lato con la prima espressione non contratta, anche se sconsolata, della giornata. 

Il suo cellulare iniziò a squillare. Sul display comparve l’identificativo di Kunikida. «Tch. Parli del dittatore… Ehilà, Kunikida-kun! A quanti caffé sei arrivato?»

«Dove sei?»

«A distrarmi con una donna, ma ha solo rimorsi da offrirmi» cincischiò Dazai, strizzando l’occhiolino ad Ango, che si massaggiò una tempia ingoiando la frecciatina. 

«Il Presidente ha lasciato l’ospedale.» 

«Se non fosse per il tuo tono lugubre direi che è una buona notizia» replicò il partner, più attento a come Kunikida avesse glissato completamente la sua battuta. La sua voce era pesante, al limite. 

«È sparito. Non ha lasciato detto a nessuno dove fosse diretto. Le sue condizioni non erano ancora stabili.»

Dazai si fece attento. «Non c’era nessuno con lui? Ha riferito qualcosa su quello che è successo oggi?»

«No.»

«Quindi sa effettivamente qualcosa...» constatò l’altro, assottigliando lo sguardo. 

«Non ho idea di dove potrebbe essere andato. Se si sentisse male...» 

Iniziava a esserci una sfumatura di panico nella voce di Kunikida, inquinata da uno sconforto spossato che si addiceva male al detective più ligio e retto dell’Agenzia. 

«Ranpo è quello che lo conosce meglio di tutti. Cerca di farlo ragionare. Io scarico la mia accompagnatrice e arrivo» e Dazai riattaccò. 

«Preferirei non ti riferissi a me così...» nicchiò Ango, ma il cellulare dell’ex Dirigente ricominciò a trillare. 

«Atsushi-kun, dammi buone notizie» sospirò melodrammatico Dazai, mentre si avviava alla macchina. 

«Ecco...» il ragazzo tentennò e, anche questa volta, non fu un buon segno. «Akutagawa pensa di sapere chi sia Red Hood.»

 

* * *

 

Qualche ora prima.

 

I segreti di Yokohama si snodavano tra le vie dove le luci magnetiche e brillanti non arrivavano. La notte stava scendendo lì col proprio manto e faceva sentire protetti nell’ombra quanti volevano muoversi indisturbati. 

All’interno della vecchia clinica medica, con una mano premuta sull’addome dove era stato ferito e operato, Fukuzawa stava misurando il proprio respiro, concentrandosi nel mantenerlo stabile. L’attesa stava scorrendo con un ticchettio indefinito, secondi troppo lunghi che l’uomo tentava di non contare. 

La prima voce che udì a spezzare la quiete fu di una bambina. Squillante e lamentosa del compito ingrato, si aggirò per le stanze della clinica, controllandole una a una. Fukuzawa ne seguì l’aurea violacea che emanava attraverso il vetro smerigliato dello studio, finché questa non si palesò sull’uscio. 

Il bagliore intorno alla sua figura sparì. Elise squadrò da capo a piedi il Presidente con uno sguardo sorpreso e, al contempo, più intelligente di una ragazzina della sua età. Gonfiò le guance. 

«Rintarou! Sei lento!» sgridò a piena voce nel corridoio vuoto, rivolta verso l’ingresso. Poi tornò a rivolgere la propria attenzione a Fukuzawa, le mani piantate sui fianchi. «Se stai male non dovresti andartene in giro così! Qualcuno si preoccuperà! Voi adulti siete tutti degli irresponsabili!»

Il Presidente chinò appena la testa in un assenso, seguito da un sospiro in cui liberò parte del dolore. «Hai ragione.»

«Via via, sii più gentile. Il nostro paziente è chiaramente provato.»

Mori Ougai apparve sulla soglia con un sorriso di sussiego. Aveva il suo camice bianco, i vestiti stazzonati, i capelli sciolti sulle spalle e una borsa da medico nera. Per la vista affaticata di Fukuzawa, vederlo conciato in quel modo tra quelle mura, fu un viaggio indietro nel tempo. 

«Su, Elise-chan, perché non vai a vedere se ci sono ancora dei pastelli in giro? Gli adulti devono parlare» esortò Mori, spingendo la bambina in corridoio con un’espressione instupidita. «Se mi fai un bel disegno dopo ti compro il gelato!» Elise lo guardò disgustata, ma fece lo stesso dietro-front, borbottando qualcosa che suonò come vecchio pervertito

«Non nascondo che la chiamata sia arrivata inaspettata» esordì Mori, addentrandosi nello studio e poggiando la borsa sulla sua vecchia scrivania. Nonostante il luogo fosse inutilizzato da anni, non sembrava aver patito troppo l’abbandono. Dava l’idea di essere stato messo in standby, con qualche telo bianco qui e lì, gli scaffali vuoti, ma non c’erano segni di vandalismo o di ricoveri occasionali per la notte. «È stata una giornata intensa per tutti.»

Fukuzawa fece per alzarsi dal lettino cui era appoggiato, ma Mori gli andò incontro rapidamente. «No, no, Fukuzawa-dono, niente sforzi inutili.» E con fermezza, lo costrinse a sedersi di nuovo. «Qualsiasi cosa voglia riferirmi, non riuscirà ad arrivare in fondo in queste condizioni. Mi faccia dare un’occhiata.»

Lo sguardo del presidente avrebbe voluto imporsi, ma le fitte di dolore gli toglievano il fiato. Restio, scostò la mano irrigiditasi nel tenere la ferita, lasciando campo libero al medicastro. 

«Lo sa che c’è una ragione se i pazienti vengono dimessi dopo l’autorizzazione del medico curante, sì?» sospirò Mori con quei suoi modi che facevano dimenticare che si trattasse del Boss della Port Mafia. Nel mentre, scostò i lembi del kimono per raggiungere i bendaggi macchiati di sangue fresco. «Non avrebbe dovuto lasciare l’ospedale in queste condizioni.»

La mano di Fukuzawa si aggrappò al suo bavero, in una stretta che nelle intenzioni era ferma, ma il tremolio dovuto alla sua salute la fece vacillare. Come anche il suo sguardo. 

«Yosano-sensei è stata portata via.»

Mori non si scompose. Sostenne lo sguardo dell’altro uomo, mentre con la mano scioglieva la stretta sul proprio camice. «Non faccia sforzi inutili e risparmi le forze» replicò, alzandosi per prendere quello che gli serviva dalla borsa e tornare verso il lettino; regolò un vecchio sgabello in modo da sedersi all’altezza giusta. «Avevo immaginato che le fosse successo qualcosa quando mi è arrivata notizia che la stessero operando» riprese il Boss della Mafia, sedendosi di fronte all’altro e mettendosi i guanti. «Ma le sorti della piccola Akiko non mi riguardano più da tempo, dico bene? È una donna adulta che sa a quali rischi va incontro.»

Per un istante, Mori poté sentire la rabbia di Fukuzawa investirlo, ma il sentimento non si evolse in azione a causa di una fitta di dolore provocata casualmente. 

«Ops, devo stare più attento a dove la tocco» si scusò leggero il medicastro, finendo di liberare la ferita dalle bende. «Lei però non si agiti. La situazione è ancora sotto controllo. Perdere un po’ di sangue fa parte di ogni guerra, dovrebbe saperlo meglio di chiunque altro» proseguì ambiguo, mantenendo la stessa aria sorniona, lo sguardo fisso sull’operazione. «Anche se, devo ammettere, il fatto che lei sia stato messo così velocemente fuori dai giochi un po’ di preoccupazione la solleva. L’hanno presa di sorpresa? O è l’età che avanza?» insinuò con un cenno di derisione smaliziata. 

Fukuzawa non abboccò. La sua mascella era serrata nel mantenere stabile la percezione del dolore. Respirava dal naso profondamente, così concentrato che Mori gli lanciò un’occhiata, chiedendosi se lo avesse ascoltato. Dato che il silenzio si protrasse e da parte del Presidente non sembrò esserci volontà di replicare, Mori riprese. 

«Ho fatto un po’ di ricerche, anche se la conclusione è stata inutile. Questo giustiziere osannato dalla stampa non ha un passato. Precedenti in altre città, affiliazioni a organizzazioni, motivi di vendetta… nulla. Un fantasma sbucato dalla notte. Persino l’amichetto russo di Dazai che ci ha dato tanto filo da torcere ha più tracce sporche di lui.» 

«Mi sono già scontrato con Red Hood in passato.»

Mori interruppe il proprio lavoro, fissando dal basso verso l’alto Fukuzawa. «Prego?»

«Quando… ero una guardia del corpo.» 

«Quindi è davvero qualcuno che abbiamo già incontrato?» 

Mori riprese a lavorare sulla ferita, ma continuando a lanciare occhiate all’altro, per non perdersi i dettagli. Fukuzawa scosse la testa. 

«È stato prima che Natsume-sensei mi incaricasse di proteggerla.»

Il sospiro di Mori fu sconsolato, così simile a quelli di Dazai. 

«Trovo ingiusto che per colpe di altri ci rimetta la Port Mafia. Se avete un conto in sospeso, sarebbe gentile da parte vostra risolverlo senza distruggere il lavoro che ho fatto negli ultimi otto anni. Ridare stabilità e credibilità alla mafia mi ha portato via il sonno e non sempre ho potuto svagarmi.» 

Le sue lamentele riempirono il nuovo silenzio, senza ricevere repliche. Il lavoro alla ferita era concluso e Mori si alzò per svolgere delle bende nuove intorno all’addome del Presidente, adocchiandolo in cerca di altre rivelazioni, ma l’uomo sembrava aver raggiunto il limite fisico. 

«Qui abbiamo finito» riprese il Boss, rimettendosi seduto sullo sgabello, analizzando i movimenti dell’ex guardia del corpo. Era pallido, teneva le palpebre serrate, nel probabile tentativo di racimolare le forze residue. Non sarebbe andato lontano, constatò. «Mi piacerebbe approfondire la questione sul giustiziere, ma prima vorrei che non vanificasse il mio operato. Si prenda dei giorni per riposa-»

Neppure Mori fu in grado di prevedere, o vedere, il gesto fulmineo con cui Fukuzawa lo riafferrò per il bavero, strattonandolo verso di sé. Le dita del medicastro si chiusero istintivamente sulle forbici che aveva appena finito di usare, ma non ci fu motivo di usarle. Il Presidente dell’Agenzia stava ansando pesantemente e il suo sguardo era vacuo, prossimo a perdere i sensi, ma sembrava impellente che dovesse aggiungere altro alla conversazione. 

«Il suo obiettivo… sei tu

Mori sondò il suo sguardo, mentre con le dita della mano libera tentava di allentare la presa sul proprio camice. Non riuscì a interpretare cosa si agitasse nello sguardo del Presidente dell’Agenzia, ma era qualcosa che lo stava facendo impensierire più di quanto fosse disposto a concedere. 

«Ogni tanto va di moda prendere la testa di un Boss della Mafia. Nulla di ingestibile» sdrammatizzò, nella speranza che questo smorzasse la tensione. 

Fukuzawa scosse la testa. La sua presa si stava indebolendo, ma le sue parole rimasero ineccepibili e vibranti di una verità scomoda. 

«Tu hai già ucciso Red Hood.»

E si accasciò contro Mori.

 

* * *

 

Di nuovo, qualche ora prima.

 

Le ultime punte di rosso del tramonto stavano scivolando via dalle facciate dei palazzi. Un fresco pungente, che nulla aveva a che fare con la giornata calda appena passata, aveva invaso le strade. Atsushi non fece attenzione né al buio che stava calando, né ai refoli che gli carezzavano le zone di pelle scoperta. 

Aveva la sensazione che fosse la giornata più lunga della sua vita e, allo stesso tempo, quella che gli era scivolata via dalle dita più rapidamente, come sabbia, senza possibilità di afferrare qualcosa. Kunikida gli aveva ordinato di tornare a casa e riposare perché le indagini erano a un punto morto. Il Presidente era stato operato d’urgenza, Yosano era stata rapita. Due realtà così pesanti da sfiorare quel lato della sua mente pronto a negare tutto. 

Nel giro di poche ore, l’Agenzia era stata messa con un ginocchio a terra e tutta la storia del giustiziere li aveva schiaffeggiati, facendosi beffe di loro. Avevano sottovalutato il pericolo. Erano scivolati nella sua trappola con le loro stesse mani. Nonostante gli avvertimenti di Akutagawa, non si erano svegliati in tempo dall’illusione creata da Red Hood nel far credere che il suo scopo principale fosse la Port Mafia. Ora non avevano idea di dove fosse Yosano, delle sue condizioni, se fosse viva. 

Atsushi era così rigido che dovette fermarsi sulla via del ritorno. Sentiva di non aver fatto abbastanza. La voce martellante nella sua testa gli diceva di tornare indietro e insistere nel trovare degli indizi, ci fosse voluta tutta la notte, tutto il giorno dopo. Qualsiasi momento sarebbe dovuto essere importante. 

Se non sei in grado di aiutare gli altri non meriti quello che hai

Non importava che il direttore fosse morto, la sua voce gli scivolò nella mente e chiuse una mano invisibile intorno al suo respiro, facendolo soffocare interiormente. Yosano-sensei era più di qualcuno. Era una di quelle persone a cui dava il buongiorno la mattina, che gli ricordava di bere di più e prendersi cura di sé. Non era solo una collega. Era un’amica.  

Atsushi si sentiva responsabile e in colpa di essere lì, per strada, sulla via di casa, mentre lei era da qualche parte, strappata alla sua vita quotidiana. Era consapevole che facendo quel tipo di lavoro rischiavano momenti del genere, ma quel sapere conscio non lo aveva preparato al trovarsi in una situazione sospesa.  

Fu in quella parentesi di pensieri stagnanti che le grida improvvise dei passanti lo destarono. Sconosciuti gli corsero di fianco. Qualcuno urlava di chiamare la polizia. Atsushi andò nella direzione da cui provenivano, veloce, il battito in gola per l’improvviso limbo spezzato. 

In una delle vie che portavano al mare, ora svuotata di gente, Rashoumon attraversò il suo campo visivo, inseguendo e attaccando Red Hood. 

Fu tutto improvviso e inaspettato. Il bisogno di fare qualcosa, iniettato di una rabbia sottile, dettata dall’impotenza, esplosero dentro Atsushi. I poteri della tigre lo pervasero e si lanciò al pieno della velocità contro il giustiziere. 

Red Hood stava sparando ai lembi neri e famelici di Akutagawa, ma questo non gli impedì di spostare una delle pistole contro Atsushi e aprirgli il fuoco dritto in faccia. 

L’effetto sorpresa di Atsushi rischiò di trasformarsi in un rapido k.o. se non fosse stato per il sesto senso della Tigre Mannara e la fulminea rapidità con cui evitò il proiettile. 

«Levati dai piedi, Jinko! Lui è mio!» gli gridò Akutagawa ansante, senza spostare l’attenzione da Red Hood. Ogni secondo era fatale, comprese Atsushi, ma si riprese velocemente, troppo nervoso e ostinato per mettersi da parte. Il pensiero martellante del Presidente e di Yosano mossero le sue gambe, buttandolo nello scontro. 

Gli attacchi di tutti e tre finirono col distruggere la fiancata di un palazzo e parte della strada. Nessuno prevalse e nessuno arretrò, nonostante Akutagawa si stesse spingendo oltre i propri limiti e avesse diminuito gli attacchi per proteggersi ed evitare di finire di nuovo con dodici proiettili in corpo. Dal canto suo, Atsushi non prestò attenzione alle ferite, tutte di striscio. La sua foga aumentava a ogni pugno o presa che andava a vuoto. Red Hood stava evitando gli affondi della Tigre con scioltezza, ma allo stesso tempo non pareva in grado di sfruttare la vicinanza per sparargli nelle zone scoperte. Erano troppo veloci, entrambi bloccati in una impasse. 

Una impasse che si risolse quando Red Hood, con la sua maschera senza tratti somatici a riflettere la sua percezione della battaglia, affondò a sorpresa  un calcio nello stomaco di Atsushi, direzionandolo contro Akutagawa e facendoli schiantare entrambi a metri di distanza contro un muro. Senza fermarsi, scaricò loro addosso una dozzina di proiettili. 

Nonostante il fiato mozzato per l’impatto, Akutagawa fu in grado di usare Rashoumon come scudo per entrambi. Questo però gli impedì di vedere la granata che seguì la sparatoria. L’esplosione coinvolse il palazzo contro cui erano finiti, seppellendoli tra i calcinacci. 



 

Dopo frenetici minuti di colpi di pistola e distruzioni, per lunghi minuti il silenzio calò vuoto, come se l’aria fosse stata risucchiata via. 

«Dov’è andato!?» sbottò Atsushi, riemergendo dal cumulo di macerie. Gli occhi della tigre spaziarono la strada deserta mentre il cuore gli martellava nelle orecchie. 

«Non dovevi metterti in mezzo!» gli abbaiò contro Akutagawa, ma senza rappresaglie, piegato in due dal dolore dell’ultimo impatto. Era pallido, col sangue a sporcargli il mento. Era un fascio unico di nervi e rabbia, ma, allo stesso tempo, sul suo viso si stava facendo strada una sgradevole sensazione. Atsushi non gli prestò attenzione. Anzi, lo ignorò, balzando fuori dai detriti come fossero stati trucioli, continuando a frugare il circondario. Di Red Hood non c’era traccia. 

«Non può essere andato lontano!» esplose in uno sfogo frustato, avvertendò la totale vanità di quello scontro diventare concreta. Pochi minuti, un’occasione, e questa si era volatilizzata. Non era cambiato nulla per Fukuzawa e Yosano. Deluso da se stesso, Atsushi picchiò i pugni a terra, ranicchiandosi per la stanchezza che prese il posto dell’adrenalina. 

Né lui né l’altro ragazzo si mossero, ognuno trincerato a fare i conti coi propri demoni del fallimento, finché non avvertirono l’arrivo delle prime sirene della polizia e dei soccorsi in lontananza. 

Senza fiatare, Akutagawa si alzò per andarsene. 

«È stato più veloce della tigre… come ci riesce!?» imprecò Atsushi, ma con meno mordente di prima. «È un’abilità!? Non ho percepito niente! Era troppo… troppo fluido nei movimenti! Come se sapesse! Come se...»

«Come se prevedesse l’attacco» concluse Akutagawa. Si era fermato, nonostante il suo intento di allontanarsi. 

Atsushi alzò lo sguardo stupito sulla sua schiena, per poi mettersi in piedi e avvicinarsi. Anche se le sirene erano sempre più vicine, lui le ignorò. 

«È possibile prevedere gli attachi? Quindi Red Hood ha davvero un’abilità?» insistette, portandosi davanti all’altro ragazzo e tagliandogli la via d’uscita. Si accorse che sul viso di Akutagawa c’era una lotta di emozioni che di rado aveva visto, come se i suoi pensieri fossero impegnati a combattere contro qualcosa di irreale, convincendolo che non fosse possibile. «Sai qualcosa!?» si accanì Atsushi. 

Akutagawa non negò, ma non verbalizzò neanche i propri pensieri. Fece per superare Atsushi e andarsene, ma questi lo afferrò per il cappotto con fin troppa forza e irruenza. 

«Se sai qualcosa devi dirmelo! Devo sapere dov’è andato! Dov’è la sua base!» gli urlò in faccia. Stava sragionando, ma non gli importava. Non se, di nuovo, un’occasione gli era a portata di mano. Non poteva sprecarne ancora. 

Per quanto Akutagawa fosse furioso di quelle mani addosso, digrignò solo i denti, piantando le dita nelle braccia del detective, ma senza reagire ulteriormente. Quell’idea martellante che gli si era formata in testa, quell’ipotesi che lo stava scavando dentro, era sufficiente a farlo desistere, a togliergli le energie residue con il solo pensiero delle implicazioni. Del rovesciamento che avrebbe significato. 

«Akutagawa!» lo strattonò Atsushi, frustrato dall’inseguire i pensieri che si riflettevano sul suo viso. «Rispondi! Sai chi è!?»

«È un fantasma» sussurrò gelido il cane della mafia. Sostenne lo sguardo collerico che gli era stato puntato addosso con uno granitico. Ciò che li lasciò in silenzio fu percepire la reciproca, sottile e infida angoscia. 

«Cosa intendi?» continuò Atsushi, allentando la presa e lasciandolo andare. 

Akutagawa non rispose, ma prese una decisione. 

«Devi portarmi dall’amico di Dazai-san.»







 

La temperatura era calata in modo drastico, ma Atsushi non era certo di avvertire gli spiacevoli brividi addosso per via del freddo. Il cancello che avevano di fronte era chiuso, tuttavia Akutagawa non si pose il problema, scavalcandolo con l’aiuto di Rashoumon

«Muoviti» ordinò secco, incamminandosi per il viale di pietra bianca. 

Atsushi imprecò a denti stretti. Non c’era nessuno in giro; da un lato un fattore positivo visto che si stavano introfulando in un luogo oltre l’orario di chiusura, dall’altro sarebbe stata una scusa per evitare quella gita sinistra. In entrambi i casi, Atsushi dovette mettere da parte il pensiero e saltare la cancellata. 

Raggiunse Akutagawa e questi lo giudicò con un’occhiata tagliente, le mani in tasca e ancora le tracce del recente scontro nel sangue rappresso agli angoli della bocca. La determinazione ad andare in fondo a quella storia era il motivo per cui sembrava non intenzionato a cercare un nuovo scontro, nonostante ogni fibra del suo essere emanasse agognasse di distruggere qualcosa. 

«Fai strada» ordinò ancora, con un cenno del mento in direzione del pendio discendente della collina. 

Non dovremmo essere qui. Non sono il tuo cagnolino. Ci cacceremo nei guai

Atsushi avrebbe voluto trovare la forza di rispondergli, ma ogni possibile replica gli si bloccò sulla lingua. Riuscì solo a scuotere la testa e superare l’altro ragazzo.  

L’odore dei fiori era pungente al suo naso, per nulla piacevole mescolato all’umidità tetra della sera. I colori erano smorti e l’unico che risaltava era il bianco dei marmi, spettrali contro il terreno scuro. 

Atsushi era stato lì poche volte e tutte per ripescare Dazai. Sapeva dove andare, ma la fastidiosa sensazione di star profanando un luogo importante senza la presenza del suo mentore gli stava rosicchiando la coscienza. Prima che potesse trovare una soluzione a quel disagio, arrivarono lì dove Akutagawa gli aveva chiesto di essere accompagnato. Non poté fare altro che ingoiare il groppo e lanciare un’occhiataccia al cane della mafia. 

«Contento?»

Akutagawa lo ignorò come non fosse neanche stato presente. I suoi occhi si fissarono per lunghi istanti sulla pietra davanti ai suoi occhi. 

S. Oda.

«Lo conoscevi anche tu?» Atsushi tentò la domanda interpretando l’espressione dell’altro ragazzo. Non sapeva dire con esattezza cosa stesse pensando, ma tutto gli stava dicendo che sapeva qualcosa. «Pensi sia collegato a Red Hood?» incalzò.

Akutagawa prese un respiro più lungo dei precedenti, chiudendo gli occhi. 

«Taci, Jinko. Fatti da parte.»

«Cosa-»

Rashoumon fendette l’aria e il terreno ai loro piedi. Prima che Atsushi riuscisse a processare cosa stesse accadendo, zolle di terra gli rotolarono addosso e la lapide perse la propria stabilità, inclinandosi all’indietro. L’odore di terra umida impregnò l’ambiente, man mano che la bara, stretta dai lembi di Rashoumon, emergeva. Il rumore con cui fu posata sul terreno fu sordo, attutito dall’erba. 

«Perché lo hai fatto!?» strillò Atsushi, dimentico completamente di essere in un cimitero. 

Ancora una volta, Akutagawa non stette a sentirlo. Circumnavigò la cassa per studiare come aprirla. Atsushi si frappose tra lui e la bara, spintonandolo con l’intento di fermare quella follia. 

«Ti ha dato di volta il cervello!?»

«Non hai neanche idea di chi ci sia qua dentro. Levati.»

«No!» Atsushi non demorse, dandogli una seconda spinta. «Se Dazai-san scopre cosa stiamo facendo-»

Akutagawa non lo stava più ascoltando. Che fosse vicino o lontano dalla bara non era importante. Quattro fendenti di Rashoumon superarono Atsushi, scivolando nella fessura sotto il coperchio. Pochi secondi e questo fu divelto, ricadendo nel nella buca del terreno da cui era stato estratto. 

Il verdetto, che lasciò senza parole entrambi i ragazzi, fu una cassa vuota. 

«Dazai-san deve saperlo» sentenziò Akutagawa e, col cuore in gola, Atsushi recuperò il cellulare. 





 

To be continued. 




 

Spazio autore 

 

Fremevo per postare questo capitolo. Amo Ango, come si capirà pian piano dalla storia. È un personaggio che mi ha sempre affascinato. Amo tanto metterlo nelle stesse scene di Dazai, per questo loro rapporto “non siamo più amici” che è sottile e profondo quanto uno strapiombo.
Fukuzawa e Mori sono quella Soukoku senior che il mio cuore non regge. Una scena con loro e addio.
I cuccioli stanno iniziando a cuccioleggiare (cit. socia), e lo faranno sempre di più UU Sorry not sorry. 

Non sto dicendo davvero cose utili, però sono contenta =)) 

Plus, siamo arrivati al primo clou della storia e, manco a farlo davvero apposta, ho giusto ricevuto ieri dal senpai Akai (@akai-koutei su tumblr) questo sprite dlkjfòlkgjdsfòlkgkldsjfgòsd 

 

red hood odasaku

 

Quindi niente, I’m in love. Spero che questa storia vi piaccia. 

Ringrazio il gruppetto di Bungou Stray DOGGOS su Discord e il loro sostegno, soprattutto quello di Europa91 che non mi fa desistere :°) 

 

Al prossimo weekend ~

 

Pagina autore su FB: Nefelibata ~ @EneriMess



 

Prossimo capitolo → Truth O’Clock (Parte 2)

 
   
 
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