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Autore: MaxB    11/10/2020    3 recensioni
Questa è una storia che ho iniziato a scrivere dopo aver finito di leggere il secondo volume, quando ancora doveva uscire il terzo.
La considero una prosecuzione della storia originale come se il terzo libro non esistesse, e narra quindi delle vicende familiari che si sono succedute dopo la fine de Gli scomparsi di Chiardiluna, con leggere modifiche alla trama.
Sostanzialmente, Thorn e Ofelia saranno alle prese con la vita quotidiana da coppia sposata, cercando di capirsi, vivere insieme e prendere confidenza l'uno con l'altra.
E con un inaspettato desiderio di Ofelia...
Genere: Fluff, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Eccomiiiiii! Allora, questo capitlolo segna un pochino una svolta nel senso che spero di poter procedere più speditamente dopo questa parte... più speditamente in senso di temporalità della storia, non che io andrò più spedita. Magarii!
Ho voluto lasciare in sospeso la parte finale perché sono malvagia e volevo tenervi sulle spine, ma in realtà, se quando avrete finito il capitolo vi rileggerete le prime due frasi, capirete benissimo cosa succederà ahahahaha.
Sto procedendo anche con Into the deep, che sarà al prossima storia che aggiornerò (finalmente), anche se sta deviando del tutto dal progetto originale. Non a caso, la vicenda di svolge all'interno dell'osservatorio delle Deviazioni xD Ora vedo quanto lungo viene (lo è già troppo e devo ancora arrivare alla parte che mi interessava davvero), perché se supera le 20 pagine mi toccherà spezzarlo uff. Va be' dai, a questo punto me lo auguro così avrò due capitoli pronti *-*
(Non accenno minimamente al fatto che devo ancora cominciare a scrivere il secondo capitolo di Contropartite).
Grazie mille a tutti per la pazienza e buona lettura, spero^^


Capitolo 20

Poco dopo il compimento di un anno da parte di Serena ci furono due eventi eclatanti: la piccola iniziò a camminare e Renard chiese finalmente a Gaela di sposarlo. I fatti, in un certo senso, erano strettamente legati.
Ma questo lo vedremo dopo.
Ofelia provò a far camminare la bambina su insistenza di Berenilde e della zia Roseline. Serena ormai si rotolava dappertutto e, quando la si lasciava un attimo libera, andava carponi ovunque. Diverse volte Ofelia aveva visto Renard massaggiarsi la testa o la schiena: nel tentativo di seguire gattonando la figlioccia, il gigantesco consigliere sbatteva un po’ su tutto il mobilio, e si stava anche rovinando le ginocchia.
Per quanto tranquilla, Serena sprigionava energia da tutti i pori, com’era giusto che una bambina facesse, e di conseguenza Ofelia aveva ceduto alle pressioni delle zie. Però non le aveva coinvolte nei tentativi di far camminare la figlia: le mettevano ansia, quelle due signore navigate, una di figli e l’altra di nipoti, che la osservavano scrutando ogni suo movimento. Era lei la madre, era giusto che imparasse qualcosa anche da sola.
Quindi chiese chiesto aiuto a Vittoria e Renard, un pomeriggio. La verità era che lei avrebbe voluto aspettare Thorn per provare a far camminare Serena, visto quanto il marito ci teneva ad essere presente quando provava o faceva qualcosa di nuovo. Però quel giorno la piccola si era aggrappata al divano senza preavviso, in seguito ad una delle sue gattonate sfrenate, mettendosi in piedi da sola. Poi aveva mosso dei passetti esitanti ma sostenuti lungo il bordo del grande divano, sempre appoggiata ai cuscini con una mano. Era arrivata a metà prima di cadere.
Gaela, che era arrivata per pranzo con la scusa di sistemare qualche marchingegno in cucina che non funzionava, e in attesa in realtà di portarsi a casa Renard per la serata, che sarebbe sicuramente diventata notte, aveva fischiato.
- Questa non me la voglio proprio perdere – aveva commentato, stravaccandosi sul divano cercando di non calpestare Salame, che come al solito amava fare lo slalom tra i suoi polpacci.
Renard si accovacciò accanto a Serena, una montagna d’uomo raggomitolato su se stesso per essere faccia a faccia con una bimba minuscola, e batté le mani, subito imitato da una ridente Serena che non capiva cosa stesse succedendo ma nel dubbio si divertiva. Vittoria si sedette accanto a loro, silenziosa come suo solito.
Ofelia si sentì pervadere da un misto di orgoglio e impazienza. – Proviamo a farla camminare –esordì, avvicinandosi al trio.
A turno tennero le braccia di Serena per aiutarla a stabilizzarsi mentre muoveva i primi incerti passi su due gambe. Poi, quando la bambina diede prova di essere in grado di gestire il proprio equilibrio, la tennero solo per una mano. Ofelia aveva sempre paura quando era Vittoria, volenterosa, a volerla accompagnare. In fondo, la cugina non aveva più di sette anni, e Serena cominciava ad essere pesantina. Però la presenza di Renard alle loro spalle, in grado di evitare che cadessero entrambe in caso di necessità, la rassicurava.
Dopo un’ora abbondante trascorsa con Gaela che imprecava perché Salame tagliava la strada a Serena e Renard che incitava la piccola come se stesse per tagliare un traguardo sportivo, Ofelia, Vittoria e Renard si inginocchiarono per terra formando un triangolo, con Serena al centro. A turno battevano le mani per attirare l’attenzione della piccola, incoraggiandola a raggiungerli. Non ci volle molto perché Serena cominciasse a camminare da sola senza quasi più cadere, e senza bisogno che i grandi la tenessero per stabilizzarla non appena andava da loro. Quando la zia Roseline arrivò nel salone decretando che la sua fame era talmente “profonda da non poter nemmeno essere saziata da un piatto di quel bisbetico ricettario segreto della sua vecchia cugina inacidita” Ofelia lasciò che Serena la raggiungesse caracollando sulle gambette tozze, facendo spalancare gli occhi alla zia che, colta alla sprovvista, non seppe cosa fare. Quando accennò a chinarsi per prendere in braccio Serena entrò a sorpresa Thorn, che si bloccò alla vista della figlia in piedi, da sola, nemmeno aggrappata alla gonna della zia. Sfuggendo alle braccia di quest’ultima, si diresse senza esitazione verso il papà, mentre tutti la fissavano orgogliosi, azzardando anche qualche passetto di corsa. Essendo ancora presto per accelerare l’andatura, Serena rischiò di cadere nell’ultimo tratto, ma le lunghe braccia di Thorn la sollevarono prima che toccasse terra col naso.
- Papà – esclamò la piccola, felice. O forse intendeva dire pappa, dato che si mise a ciucciare uno dei nastri delle spalline della giacca da intendente di Thorn, facendoglielo sbrilluccicare di saliva.
Thorn guardò con aria scettica Ofelia, poi Renard, Gaela, la zia Roseline, Vittoria e infine Salame, come se fossero complici di un terribile misfatto.
Ofelia si strinse nelle spalle: - Volevamo provare a farla camminare un pochino accompagnata, ma ci ha preso talmente gusto che ha deciso di fare tutto da sola. Le piace l’indipendenza.
- Mi ricorda qualcuno – bofonchiò Thorn, talmente piano che nessuno lo udì.
In quel momento entrarono nel soggiorno Berenilde e Archibald, che nessuno aveva invitato e nessuno sapeva fosse lì, con aria visibilmente insonnolita, come se avessero schiacciato entrambi un pisolino.
- Che bella dormita – mormorò Berenilde, sorniona, accarezzando i capelli di Vittoria.
- Può ben dirlo, madama – rincarò Archibald, facendosi scrocchiare la schiena.
Tutte le persone nella stanza, e pure la sciarpa e il gatto, si voltarono a fissarli. Berenilde ci mise alcuni secondi ad accorgersi dell’equivoco. – Oh, no, non abbiamo dormito insieme. Sarebbe sconveniente, non trovate?
Archibald ridacchiò: - Ne valeva la pena, però, dovreste vedere le vostre facce.
Ofelia pensò che niente valeva la pena quando in cambio si otteneva quello sguardo inferocito da parte di Thorn, a stento controllato. I suoi occhi d’acciaio brillavano minacciosi, e la cosa sembrava divertire l’ambasciatore ancora di più. Come se non bastasse, Serena si divincolò per essere messa a terra e sgattaiolò corricchiando come un’ubriaca verso Archibald, aprendo e chiudendo le manine per farsi prendere in braccio.
- Papà! – gridò di nuovo, imperiosa, mentre l’ambasciatore la prendeva in braccio tenendola sotto le ascelle come un sacco di patate.
Decisamente, non stava gridando “papà” ma “pappa”. Dal momento che la tolleranza di Thorn aveva un limite molto sottile che sembrava essere stato ampiamente varcato, e se ne resero conto tutti, si affrettarono a prendere posto a tavola. Gaela accettò di restare a cena, con qualche impropero che nel suo gergo voleva essere fatto passare per un ringraziamento, e quindi anche Renard per una sera cenò insieme a loro, invece di seguire l’amata fuori casa.
Non fu una delle cene migliori, con Archibald che faceva battute allusive impunemente, irritando ora Renard ora Thorn, talvolta anche la zia Roseline, che per la maggior parte delle volte però arrossiva e guardava l’ambasciatore di sottecchi. Berenilde sorbiva con tranquillità il pasto, come se fosse tutto normale, e Serena, stranamente agitata, si sbrodolò con il purè più del solito e scagliò pezzi di pane in giro per la tavola ridendo. Per lo meno Ofelia, impegnata com’era a ripulire Serena, non dovette preoccuparsi di tenere viva la conversazione: Archibald parlava per cinque, Gaela imprecava per dieci, mentre la zia Roseline cercava di riportarli all’ordine.
Nonostante il caos, quando finalmente Serena si quietò e mangiò più o meno educatamente, Ofelia prese un lungo respiro e guardò uno per uno i commensali. All’improvviso l’assalì la nostalgia di casa, insieme ad uno strano senso di rimpiazzo. Per la prima volta erano tutti seduti insieme a mangiare come una vera famiglia, non come quelle di Anima, in cui per davvero erano un’unica grande famiglia, ma un nucleo variegato e spumeggiante, divertente ed energico. Inclusi Archibald, Gaela e Renard, che Ofelia in qualche modo considerava degli amici, per quanto l’ambasciatore potesse essere insondabile. Ofelia ringraziò anche che a quel tavolo, a parte lei e la zia Roseline, non ci fossero animisti: sarebbe stato impossibile cenare con piatti, bicchieri, stoviglie e spezie che davano di matto per via delle diatribe e offese in corso. Con la coda dell’occhio notò, però, che tra le mani impacciate di Serena il cucchiaino tremolava leggermente.
Ofelia si augurò di aver visto male e, cercando di non pensarci, distolse lo sguardo. Una cosa alla volta, quel giorno bastava il progresso della camminata. Si sarebbe preoccupata in un secondo momento dello sviluppo dei poteri familiari della piccola.
Finito di cenare, Thorn si dileguò senza proferire parola. Ofelia si augurò che il suo atteggiamento distaccato dipendesse dalla presenza di Archibald, ma una piccola parte della sua coscienza le mormorava, malefica, che non era tutta causa dell’ambasciatore.
Un paio di ore dopo, con Serena addormentata in braccio, esausta per la giornata produttiva, Ofelia varcò la porta della camera. Thorn era seduto sul bordo del letto, come un ragno, con le gambe piegate e i gomiti su di esse, il mento appoggiato alle mani intrecciate. Era tutto curvo e sembrava pronto a rotolare via con un soffio di vento. Peccato che fosse molto più forte di quanto dava a vedere.
- Oh, sei qui – mormorò Ofelia, depositando Serena nella culla con la sciarpa. – Avevi da fare? – indagò, cercando di venire a capo del suo comportamento.
- Lavorerò da casa da ora in poi. Tre giorni la settimana su sei.
Ofelia, già diretta verso il bagno, si bloccò, rischiando di cadere.
- Lavori da casa?
Thorn non fece nemmeno lo sforzo di alzare lo sguardo, fissamente puntato su un angolo del tappeto che non era perfettamente allineato all’asse del parquet.
Non ottenendo risposta, Ofelia continuò: - Perché?
Questa volta, forse cogliendo la nota incalzante nel tono della moglie, Thorn rispose tra i denti: - Perché non sono abbastanza presente.
Intuendo che la faccenda si stava facendo seria, Ofelia tornò indietro e, cercando di non cadere addosso a Thorn, si accovacciò ai suoi piedi.
Stava per porgli un’altra domanda affinché continuasse, ma non ce ne fu bisogno. Le parole fluirono dalla bocca di Thorn con la solita eloquenza impeccabile.
- Serena sta crescendo e deve avere al fianco una figura paterna chiaramente identificabile. Non voglio che mi scambi con il tuo consigliere o l’ambasciatore, prendendo più confidenza con loro che con il suo legittimo padre. Io… non ne ho avuto uno. Non voglio che per Serena sia lo stesso.
La gravità, il dolore dietro le parole di Thorn la colpirono come un pugno nello stomaco, quasi che fossero state animate o che gli artigli di Thorn fossero entrati in azione. A volte tendeva a dimenticare che, al di là della compostezza impassibile e austera, delle poche frasi d’affetto e dei modi da tagliacarte, della mentalità logica e calcolatrice, Thorn era sensibile. Era umano. E soffriva ancora per la sua infanzia, o la sua non infanzia. Nella vita di ogni bambino dovrebbero esserci due figure portanti, due genitori su cui fare sempre affidamento. Lei li aveva avuti, anche troppo a dire il vero, mentre Thorn no.
Per Serena quelle due figure erano lei e Thorn, ed era giusto che lui si prendesse il tempo necessario per stare con la bambina. Perché, quanto meno, lei si rendesse conto di avere un padre che non anteponeva il lavoro a tutto il resto. Ofelia sapeva che, nonostante la prima impressione potesse essere proprio quella, in realtà Thorn avrebbe sempre mostrato il meglio di sé con loro, e non al lavoro.
Ofelia si rialzò e lo baciò dolcemente sulla guancia, prendendolo alla sprovvista.
- Ne sono felice – mormorò, cercando di trattenere il sorriso intenerito che voleva piegarle gli angoli della bocca.
Ofelia confermò quell’asserzione quando, due giorni dopo, e nei giorni a venire, Serena si fece a capire a gesti, parole e sgambettate: voleva andare dove lavorava papà, e solo giunta nel suo studio si calmava, si acciambellava per terra e giocava in silenzio. Non emetteva un suono se non era Thorn a farlo per primo, e bisbigliava con i suoi pupazzi quando lui prendeva una telefonata o ne effettuava una. Il modo in cui emulava Thorn riempiva Ofelia di tenerezza, così come il modo in cui Thorn rimaneva estremamente concentrato sul lavoro ma senza mai perdere di vista la figlia, pronto ad intervenire in caso di bisogno. Allo stesso tempo, le faceva un po’ paura quella somiglianza.
Una figlia con gli stessi modi, gli stessi interessi e abitudini di Thorn…
Quando ne parlò con Renard, lui aprì il mobile del soggiorno e versò un abbondante bicchierino di liquore a entrambi. Finirono per ridere come dei matti con la gola in fiamme.
E un sano timore che scorreva nelle loro vene mischiato all’alcol.
 
Come accennato, i primi passi autonomi di Serena furono anche il preambolo alla domanda di matrimonio da parte di Renard per Gaela.
Poche settimane dopo la sua prima camminata, infatti, Serena era diventata talmente sicura che prendeva e andava in giro da sola, senza avvertire nessuno. Il fatto che fosse estremamente silenziosa non contribuiva ad aiutare Ofelia a tenerla d’occhio quando era occupata. Bastava che si girasse un attimo e Serena era sgusciata via caracollando sulle gambette cicciottine, in esplorazione, indipendente. Renard era diventato ufficialmente una balia, ma più di una volta la piccola era scappata pure a lui, anche se non lo avrebbe mai ammesso con Ofelia. Il fatto che Serena fosse intraprendente e sicura di sé le metteva una certa ansia, perché se la immaginava già grande, inarrestabile, a battersi per quello che voleva. Con pacatezza mista a profonda determinazione. Il pensiero aveva un retrogusto dolceamaro: forse Serena sarebbe riuscita ad imporsi come lei non era mai riuscita a fare con sua madre. Per quanto la amasse, non poteva negare che il carattere della madre fosse opprimente, e Ofelia aveva sempre odiato le leggi imposte dai costumi di Anima e da Sophie.
Gli sporadici episodi in cui Serena era riuscita a sfuggire all’attenzione di Renard, be’… solo una cosa, o meglio, una persona era capace di distrarlo al punto di fargli dimenticare i propri doveri. Un giorno, però, Ofelia se ne accorse.
Era in cucina alla ricerca di una mela, approfittando della mancanza della cuoca per potersela mangiare a morsi e non tagliata e sbucciata come la domestica gliela preparava sempre, quando Serena entrò in cucina. Fu il tonfo che fece quando atterrò sul sedere che annunciò ad Ofelia la presenza della figlia. La prese in braccio con la mela ancora in bocca, aggrottando la fronte. Era stato Renard ad insistere per poter passare un po’ di tempo con Serena, come mai allora lei era da sola?
La piccola la aiutò a scoprirne il motivo.
- Mamma! – chiamò, scandendolo perfettamente. Poi con le manine davanti alla bocca mimò il gesto di un bacio, ripetendolo. – Enad!
Nonostante ancora facesse fatica a pronunciare il nome del padrino, Ofelia capì che si riferiva a lui, e anche che era impegnato a dare baci. Sempre più perplessa, andò verso il salotto con la figlia in braccio, bloccandosi in mezzo al soggiorno: Renard e Gaela erano sdraiati a metà tra divano e tappeto. Mugugni soddisfatti e schiocchi di baci riempivano l’aria.
Ofelia si sistemò Serena in modo che desse le spalle alla scena, mentre il fiato le rimaneva bloccato in gola rumorosamente. Resisi conto di non essere più soli, Renard e Gaela si fermarono, lei con le mani tra i capelli di lui, spettinati e ribelli come il fuoco vivo, e lui con il viso seppellito nel suo collo. Entrambi divennero erubescenti come i favoriti fulvi di Renard.
Quest’ultimo scattò in piedi, mortificato, nel più completo imbarazzo. – Perdonatemi padrona, non so cosa mi sia preso. È stato un atteggiamento deplorevole e… ho mancato di professionalità, trascurando il mio compito. Io vi chiedo umilmente perdono e…
Renard continuò a balbettare confusamente parole di sconforto e redenzione mentre Gaela, serafica come se fosse stata intenta a prendere il tè e non in procinto di copulare sulla tappezzeria, si rialzò spolverandosi e sistemandosi le bretelle della salopette.
- Smettila con questi paroloni. Non hai mica ucciso qualcuno.
Ofelia voleva dirle che un pochino la decenza l’aveva uccisa, dato che la sua cintura era già palesemente slacciata, ma si trattenne per affetto verso Renard. Si vergognava talmente tanto da non riuscire a guardare in faccia Gaela, tantomeno Ofelia.
Fu Serena a trarli fuori dall’impaccio.
- Enad! – esclamò, agitandosi in braccio alla mamma per girarsi verso il padrino. Continuò a mandare baci ridendo, come per incitarlo a riprendere da dove si era interrotto.
Se possibile, il consigliere avvampò ancora di più e si dileguò. Salame sbucò fuori da dietro le gambe di Gaela, sempre nel posto sbagliato al momento sbagliato, e prese a fare le fusa contro le caviglie della meccanica. Dal canto suo, imperturbabile, lei si rimise la sigaretta spenta tra i denti. Con lo sguardo sembrava quasi voler sfidare Ofelia a dirle qualcosa, ma la padrona di casa la conosceva abbastanza bene da sapere che era dispiaciuta anche lei. Non tanto per lo slancio di passione incontrollata, quanto per la perdita di vista di Serena, che si sarebbe potuta fare davvero male senza supervisione.
- Mi sa che devo tornare al lavoro – disse congedandosi, avviandosi verso la porta. Poi si fermò e, contrariamente a tutte le sue abitudini, si scusò: - Non succederà più. Renard però è più libero rispetto a me e questo è l’unico posto in cui riusciamo a vederci in pace.
Ofelia sapeva che Gaela viveva ancora a Chiardiluna, in cui la mancanza di privacy era totale e la riservatezza non esisteva. Per un attimo provò pena per Renard e Gaela, che sembravano sempre in difficoltà: la loro storia non era di sicuro facile. Le ricordava un po’ la sua…
Sorrise leggermente, attirando l’attenzione di Serena. – Dì ciao alla madrina. Dille che vuoi che torni presto.
- Ciao maina! Tonna pesto! – ripeté la piccola, per nulla turbata.
Gaela si voltò senza aggiungere altro, imboccando la porta, ma Ofelia aveva visto il sorriso che le aveva incurvato gli angoli delle labbra.
Possibile che Renard, per una volta, avesse bisogno dei suoi consigli?
 
- Come posso fare una cosa del genere, ragazzo?
Renard si era dato alla macchia in modo decisamente codardo da quando Ofelia lo aveva colto in flagrante con Gaela. Aveva smesso di cercarlo giusto il tempo di pranzare e alla fine era stato Thorn a scovarlo per lei, nel pomeriggio. Era rientrato prima per lavorare da casa, e nel momento in cui aveva messo piede nel suo studio con Serena in braccio, accigliato, Renard ne era sgusciato fuori profondendosi in molteplici scuse. L’imbarazzo e il disagio lo rendevano goffo quasi quanto Ofelia, che non poté impedirsi di sorridere.
Lo trascinò in salotto per parlargli, e lo vide torturarsi le mani, agitando la chioma rossa, irrequieto. Sembrava una montagna in procinto di franare. Ofelia lo aveva fatto accomodare sul divanetto e aveva preso posto sulla poltrona di fronte a lui. La zia Roseline era andata a schiacciare un pisolino e Berenilde li avrebbe raggiunti a cena.
- Mi dispiace, davvero, prometto che…
- Non è successo nulla di grave, Renard… - disse Ofelia contemporaneamente.
Nessuno dei due capì cosa l’altro avesse detto, e alla fine si misero a ridere.
Ofelia intervenne per prima, senza dargli la possibilità di parlare ancora. – Renard, non è successo nulla di male. Sarebbe potuto accadere, a dire il vero…
Renard avvampò.
- Ascolta, questo palazzo, castello, villa, chiamalo come vuoi, ha un sacco di stanze. Io… posso capire la tua impazienza… - mormorò arrossendo a sua volta. Non era e non sarebbe mai stata a suo agio con certi argomenti. – Evita il soggiorno, per favore. Ci sono tante camere libere, lì è più improbabile che Serena vi veda. Non dimenticare che ha la memoria degli storiografi, non sarei molto tranquilla sapendo che, girando per casa, potrebbe trovarsi di fronte certe scene.
- Avete perfettamente ragione, il mio atteggiamento è stato deplorevole. Chiunque altro mi avrebbe portato di fronte al plotone di esecuzione.
Ofelia scosse la testa, disgustata a quell’idea.
Rimasero in silenzio per alcuni istanti, mentre Ofelia attendeva che Renard tirasse fuori tutto quello che voleva dire.
- Il fatto è, ragazzo, che come dice sempre Gaela questo è l’unico posto in cui possiamo vederci in libertà. Non sto dicendo che sia il sordido covo di tresche amorose clandestine, sia chiaro, ma Gaela vive ancora a Chiardiluna e io, non lavorando più lì, rischio guai grossi se vengo trovato nei suoi alloggi senza autorizzazione. Lei invece non è sotto alle direttive di nessuno, anche se tecnicamente lavora per Archibald, però può andare e venire a piacimento. Non abbiamo altro posto.
Ofelia rifletté sulla questione. In un certo senso, quel muscoloso uomo buono come il pane le faceva tenerezza, tutto incurvato sul divano, affranto. Renard era caloroso, qualche volte impertinente, divertente e positivo. Vederlo abbattuto la metteva a disagio.
- Non vi sto impedendo di vedervi, Renold. Vi ho detto anche che potete prendervi la camera che volete. Ma non hai pensato di chiederle di sposarti?
Renard trasalì.
- Sì – ammise dopo un po’. – Io vorrei sposarla dal primo momento che ho messo gli occhi su di lei. Però non è così facile. Io non… non possiedo nulla, ragazzo. Cosa potrei mai offrirle? Non potrei mai andare a vivere lì, lei odia quel posto, ma temo di non avere i mezzi necessari a comprare una casa.
Ofelia si rese conto che non sapeva nulla dello stipendio di Renard, nonostante tecnicamente fosse un suo dipendente. – Non vieni pagato abbastanza?
Non voleva essere un’accusa, quanto una semplice domanda, ma Renard si mise subito sulla difensiva, raddrizzandosi. – Oh, no, non volevo dire questo. Il mio salario è più che equo, anzi, forse addirittura troppo elevato per le mansioni che svolgo. È proprio una questione di burocrazia. Nessun istituto in questo sistema darebbe credito ad un consigliere, o a chiunque non abbia una garanzia solida alle spalle, a meno che io non compri una di quelle catapecchie nei bassifondi. Il mio orgoglio, lo ammetto, me lo impedisce.
Ofelia si rese conto ancora una volta di quanto fosse stata fortunata. Il suo era un matrimonio combinato, certo, ma oltre ad essere andato bene, fortunatamente, sotto il profilo coniugale, anche da quello finanziario non poteva lamentarsi. Non sapeva a quanto ammontasse il patrimonio di Thorn, se non per il suo possesso di un numero di castelli che nemmeno ricordava, ma sapeva per certo che non doveva essere poco. Non si era mai dovuta preoccupare di cose come la dote o la casa.
All’improvviso spalancò gli occhi, colta da un’illuminazione, ma Renard non parve notarla. Aveva preso il via, ormai, e tutte le sue angosce strabordarono come acqua da una coppa già piena. – Per caso avete chiesto al signor intendente la faccenda dell’officina? Vedete, in quel caso potremmo chiedere all’ambasciatore, per quanto l’idea non mi alletti, di mettere una buona parola sull’operato di Gaela, e probabilmente ci permetterebbero di aprire una nostra attività. Anche in quel caso, però, rimarrebbe la questione della dimora. E io personalmente non vorrei essere troppo distante da qui. Potremmo prendere uno stabile che abbia anche un piccolo appartamento sopra l’officina, ma temo che sarebbe un po’… squallido. Mi rincresce, ma pare che questa volta sia io quello che necessita consigli, ragazzo.
Ofelia sorrise a quello che, prima di tutto, era un suo intimo amico.
- Non ho chiesto a Thorn, mi dispiace, lo ammetto. Ma potrei avere un’altra soluzione, lasciatemi solo porre la questione a mio marito. Voi intanto vedete di procurarvi un anello.
Renard parve ancora più abbattuto. – Ce l’ho già, l’anello, da diversi mesi. Non ho mai trovato il momento adatto per darglielo.
Ofelia gli lanciò un’occhiata significativa, al che Renard distolse lo sguardo.
- Il coraggio, va bene, il coraggio. Non ho mai trovato il coraggio di darglielo. Anzi, – esclamò, rovistando nelle tasche, - potrei chiedervi l’immenso favore di conservarlo in attesa dell’attimo perfetto? Gaela ha l’abitudine di afferrarmi per le tasche per bac… cioè…
Ofelia si trattenne a stento dal ridere quando lo vide arrossire e farfugliare, come se non fosse già di per sé abbastanza scarlatto. Accettò la scatolina.
- Posso? – chiese quasi timidamente.
Renard parve intimorito, ma annuì.
L’anello che Renard aveva preso per Gaela era semplice, d’oro bianco, senza fronzoli, una classica fascia con una piccolissima pietra azzurra incastonata nella banda. Nulla di eclatante, ma proprio per questo Ofelia era certa che sarebbe piaciuto a Gaela. Non se la immaginava proprio ad indossare brillanti, e anche solo un anello era un azzardo.
- Che… che ne pensi, ragazzo? – mormorò Renard, che si era curvato come se sulle spalle portasse un peso più grande di lui.
Ofelia distolse lo sguardo dall’anello e lo fissò su di lui con affetto. – Ne penso che le piacerà tanto, davvero tanto. È perfetto per lei.
Renard parve illuminarsi di una luce interiore. – Dite sul serio?
- Assolutamente.
Era come se i suoi stessi capelli avessero ripreso vita, più rossi del solito. – Vi sono così grato per il vostro parere. Dovrei davvero smetterla, però, perché si dà il caso che io sia pagato per dare consigli a voi, e non viceversa.
Ofelia rise di gusto.
- L’ho notato solo ora. Voi non portate anelli.
Ofelia osservò le sue disadorne dita guantate, che utilizzò subito dopo per accarezzare Salame e spostare la sciarpa in modo che non bisticciassero come sempre.
- No, difatti. Diventa abbastanza complicato portarne quando si indossano quasi costantemente dei guanti. E Thorn non è proprio tagliato per qualsiasi tipo di orpello.
Renard annuì gravemente. Da un lato a Ofelia dispiaceva di non poter esibire la prova della sua unione con Thorn, la vera nuziale, ma dall’altro, maldestra com’era, sapeva che l’avrebbe persa subito o, peggio, rotta. Si immaginò l’anulare di Thorn cinto dalla fede, che sarebbe stata davvero bene sulla sua mano grande e affusolata.
Un brivido le corse giù per la schiena e si affrettò a far cambiare rotta ai suoi pensieri. Pensare alle mani di Thorn era come accostare un fiammifero alla brace: prendeva fuoco subito. Aveva un debole per quelle mani, e si vergognava ad ammetterlo, come se fosse una cosa sbagliata.
- Lasciatemi parlare con Thorn. Vedrete che troveremo una soluzione. Voi, piuttosto, cercate di convincervi a farle la proposta quanto prima.
Renard fece una smorfia. – Ci penserò, ragazzo, ci penserò.
Ofelia si alzò, subito seguita dal consigliere, ed entrambi allungarono un braccio: una per recuperare la sciarpa che cercava di scappare dal gatto, l’altro per recuperare il gatto in questione. Si augurarono la buonanotte con un sorriso e Ofelia puntò dritta verso lo studio di Thorn.
Si bloccò sulla soglia quando vide la scena che le si prospettava di fronte: stanca di giocare, Serena di era appisolata contro la spalla del papà, che con un braccio se la teneva stretta al corpo e con l’altro scriveva con precisione e velocità alcuni appunti. Aveva l’attenzione puntata su tre diversi manuali di chissà cosa e un mucchietto di documenti, ma sollevò lo sguardo su Ofelia appena entrò. Non distolse gli occhi da lei, continuando nel frattempo a scrivere senza una sbavatura o una deviazione, finché non prese posto di fronte a lui.
- Di quali questioni così urgenti dovevi parlare con il tuo consigliere?
Ofelia trattenne a stento un sospiro. La gelosia di Thorn era proprio inguaribile, ma alla fine, in fondo, era una prova del suo interesse. Non era mai diventata così patologica da crearle preoccupazione.
- Del suo matrimonio con Gaela.
Thorn ripose la penna nel calamaio. Aveva la sua completa attenzione.
- Si sposano?
- Dovrebbero. Lui ha intenzione di chiederglielo, ma non è facile nella loro situazione.
- Quale situazione? – domandò Thorn, glaciale come se stessero parlando di qualche catastrofe causata da Ofelia.
- Non hanno i mezzi necessari ad acquistare una dimora… consona. In più Renard vorrebbe che Gaela mettesse su la propria officina meccanica per affrancarsi dal bugigattolo in cui vive, a Chiardiluna, ma non è facile senza una garanzia. Gli istituti di credito non concedono somme di denaro a chi non ha grandi patrimoni di copertura.
Thorn aggrottò le sopracciglia e si mosse rigidamente sulla sedia. Ofelia sapeva che, se non avesse avuto Serena in braccio, avrebbe posato i gomiti sulla scrivania e il mento sulle mani giunte. Lo conosceva quasi quanto se stessa, ormai. Invece mise la bimba in una posizione più comoda, affinché gli stesse sdraiata in grembo e non seduta appoggiata alla sua spalla.
- Posso pensarci io, a quello. A fare da garante per l’officina, intendo. È questo che sei venuta a chiedermi, no?
Ofelia venne trasportata indietro nel tempo, a quella fredda notte in cui era andata di nascosto a trovare Thorn all’intendenza, quando lui era stato attaccato. Rammentava tutte le concessioni che lui aveva fatto senza battere ciglio, solo per, ora se ne rendeva conto, cercare di apparire positivamente ai suoi occhi. Non pensava di essere una moglie che richiedeva grandi cose, ma ricordare di quando non amava Thorn e gli aveva fatto tutte quelle richieste la metteva a disagio.
Lasciò vagare lo sguardo su Serena e poi, come calamitato, sulle mani di Thorn, e si affrettò a distoglierlo prima di arrossire. No, non era andata da lui solo per chiedergli quello. Non solo, insomma…
- Veramente… volevo chiederti anche se potremmo dargli uno dei nostri castelli in prestito…
Thorn questa volta spalancò gli occhi, prima di tornare ad accigliarsi.
La richiesta non le era sembrata così grande quando l’aveva formulata nella sua mente. Una garanzia per l’officina e un castello come residenza. Erano regali nuziali adeguati, no? Del resto, però, erano decisamente impegnativi, molto più onerosi di una paga per un consigliere.
Si aspettava un rifiuto, che come al solito non arrivò. – I miei… i nostri castelli non sono esattamente qui vicino, Ofelia. Se gliene diamo uno dovremmo costringerli ad allontanarsi e ad aprire un’officina in una zona che non conoscono. Il più prossimo dista quattro ore di carrozza.
Gli occhiali di Ofelia impallidirono e la sua sciarpa si agitò nervosamente.
Più di tutto, però, si rese conto che come al solito Thorn non le aveva negato quella strampalata richiesta.
In ogni caso, proporla a Renard e vederlo accettare avrebbe comportato separarsi da lui. Non avrebbe potuto lavorare ancora per lei, distando così tanto. Deglutì a fatica e riportò gli occhi su Thorn.
- Saresti davvero disposto a cedergli uno dei nostri castelli?
Thorn si strinse appena nelle spalle. – Non è una richiesta impossibile. Sono dimore che comportano ugualmente spese dal punto di vista elettrico, di mantenimento e pulizia. Il fatto che qualcuno ci abiti non aggrava minimamente l’onere che comporta.
Ofelia parlò prima di riuscire a trattenersi: - Mi negherai mai qualcosa?
Thorn la fissò con intensità, con quel suo sguardo metallico, da predatore, che le rimescolava l’intestino e le faceva venire voglia di andargli più vicino, come un uccello nelle grinfie di un ipnotico serpente.
- Dipende dalla richiesta – bofonchiò lui, per nulla consapevole dell’atmosfera che aveva creato. Elettrica.  – Per ora mi hai sempre domandato cose alla mia portata, concedibili.
Ofelia si alzò dalla sedia e si sporse sulla scrivania, avvicinandosi a Thorn così tanto che a separarli c’erano solo i loro respiri. E i documenti. Lui non parve far caso al fatto che lei glieli aveva spiegazzati e spostati tutti.
- Al di là del tipo di richiesta, ormai sono sicura che non ci sia nulla che non tu non faresti per me.
Thorn, a tradimento, si allungò per posarle un bacio delicato sul collo, che lasciava intendere ben altre intenzioni. – Pensavo che la cosa fosse ormai palese da tempo. Se te ne sei resa conto solo ora significa che non sono stato abbastanza trasparente e chiaro.
Ofelia raggiunse la sua bocca e lo baciò con passione, sorridendo appena quando lo sentì rispondere con la stessa intensità. Cercò di infilargli una mano tra i capelli per tirarselo ancora più vicino, ma com’era prevedibile perse l’equilibrio. Thorn si scostò per proteggere Serena e allo stesso tempo allontanò il calamaio, memore di cos’era successo l’ultima volta che Ofelia si era trovata in prossimità di una boccetta di inchiostro.
- Forse è meglio se andiamo in camera – mormorò, vergognandosi della sua solita goffaggine.
Gli occhi di Thorn ardevano di un sentimento represso con tanto vigore da fargli ignorare il caos che regnava sulla sua scrivania.
- Sono d’accordo – concordò, come se stessero commentando il tempo o la cena.
Più tardi, mentre entrambi cercavano di non fare troppo rumore per non svegliare Serena che, come al solito, dormiva profondamente, Thorn si bloccò sul più bello. Ofelia gemette di impazienza.
- Se hai altre richieste da farmi, questo è il momento giusto. Sono incline alle concessioni, ora.
Ofelia non poté evitare di scoppiare a ridere.
- Voglio che ci trasferiamo su Anima e che Archibald venga a vivere con noi.
Thorn perse quello che lei aveva catalogato come buonumore, sebbene per uno come Thorn fosse quasi impossibile riconoscerlo. Parve quasi spaventato.
- Parli sul serio? – chiese, con voce roca, un po’ per la paura e un po’ per la situazione.
Ofelia sorrise scuotendo la testa. – Baciami come si deve, Thorn.
Come al solito, lui l’accontentò di buon grado.
 
- No, ragazzo, non posso proprio!
- Ma perché, Renold? Ne ho già parlato con Thorn, ci fareste un favore addirittura!
- Voi non… ah! Mettetevi nei miei panni! Vivrei con la costante consapevolezza di non essere riuscito a mettere con le mie mani un tetto sopra la testa della mia signora! Sarebbe una dimora in prestito, non potremmo mai sentirla come nostra, per quante concessioni possiate farci e quanto sia grande la vostra generosità! E poi, il lavoro? So che come consigliere non è che sia proprio utile, ultimamente, e volevo parlarvi anche di questo, ma come farei se andassi ad abitare a quattro ore da qui? Dovrei licenziarmi e cercare un altro lavoro, che non sarebbe mai retribuito quanto questo, scusate il commento materialista, e con quali prospettive? Non so fare altro che il valletto, ed è una carriera ingrata che non mi sento più di voler intraprendere.
Ofelia si accarezzò la sciarpa, rattristata. Le argomentazioni di Renard non erano affatto campate in aria, ed era quello a metterla ancora più in difficoltà. Aveva agito con le migliori intenzioni, e Renard lo sapeva, ma questo non toglieva che le sue proposte lo umiliassero dal punto di vista di capofamiglia.
- L’unica è crearci un piccolo spazio all’interno dell’officina. Il signor intendente ha avallato questa decisione, giusto?
Ofelia annuì. Almeno l’officina sarebbero stati in grado di aprirla.
Renard si alzò, scompigliandosi i folti capelli rossi con un moto di frustrazione. – Bene, almeno questo è fattibile. Io ti… vi sono davvero grato, Ofelia, permettetemi di dirlo, mia padrona, per la vostra solerzia. Nessuno, ve lo posso assicurare, ha mai fatto tanto per me. Nessuno.
 L’oscurità si abbatté su di lei nel momento in cui Renard, repentinamente quasi quanto Thorn, si chinò su di lei per abbracciarla. La stretta non era possessiva quanto quella del marito, non le trasmetteva la stessa sensazione elettrizzante e rilassante allo stesso tempo, la consapevolezza di essere esattamente dove avrebbe dovuto, e voluto, essere. Non sentiva quell’abbraccio come un ritorno a casa.
Ma fu lo stesso piacevole, una breve interazione tra due persone che si rispettavano a vicenda e volevano il meglio l’uno per l’altra. Ofelia gli accarezzò il viso teneramente quando si scostarono.
Un raschiare di gola li colse quando non si erano ancora separati.
Gaela se ne stava all’entrata del salotto, sigaretta in bocca e occhi infiammati da un misto di collera, sdegno e gelosia cocente.
- Ho interrotto qualcosa? – domandò con i suoi soliti modi bruschi.
Ofelia si affrettò ad alzarsi, rischiando di inciampare su Salame che le si era giustamente attorcigliato ai piedi. Renard le afferrò il braccio per impedirle di cadere, ma la mollò subito, come se ne fosse rimasto scottato.
- Gaela, sono lieta di vedervi… - cominciò Ofelia, lievemente a disagio, ma Renard la interruppe.
- Andate pure, ci penso io qui. Devo discutere alcune cose in privato.
Ofelia per una volta fu lesta ad obbedire, e si diresse in camera dove la zia Roseline giocava con Serena. O meglio, Serena giocava con la zia, dato che non faceva che correre da una parte all’altra della camera per non farsi prendere.
- Per tutti i vocabolari del vecchio mondo, come fa ad avere tutta questa energia una bimba così piccola? Ofelia, ti prego, lasciami andare a prendere un bicchier d’acqua, ho la schiena a pezzi.
La zia se ne andò senza darsi il disturbo di chiudere la porta, e Ofelia ridacchiò. Serena le corse incontro per farsi prendere in braccio, ridendo da sola, e la mamma la depositò sul letto. Si sedette con lei per dedicarle un po’ di tempo, però la sua attenzione fu catturata dalla scatolina contenente l’anello di fidanzamento di Renard per Gaela. Lo aveva posato sul comodino in attesa di trovargli una sistemazione più adeguata, ma ancora non aveva idea di dove lo avrebbe messo.
Oltretutto, pensò, se l’anello era lì con lei come avrebbe potuto Renard consegnarlo a Gaela?
Più che un consiglio, le sembrava che al suo consigliere servisse un miracolo.
Rimise il gioiello al suo posto e riportò l’attenzione sulla figlia, che le si arrampicò addosso.
- Mamma chiudi occhi! – esclamò, posandole le manine sulle lenti degli occhiali.
Questi di scurirono di paura nella stretta delle piccole dita, estremamente forti, della bambina.
Ofelia le sorrise. – Va bene, chiudo gli occhi e poi?
Con gli occhi serrati, per accontentarla, Ofelia sentì la figlia battere le mani. – Cecca bimbo!
- Devo cercarti? – le chiese, mentre la sentiva scendere dal letto. Allungò un braccio per aiutarla ad arrivare a terra senza che si facesse male, ma Serena le intimò di non aprire gli occhi.
Ofelia sorrise rendendosi conto di quanto la piccola fosse già imperiosa; del resto, nelle sue vene ribolliva il sangue di Thorn e Sophie. Fu pervasa da un’ondata di affetto per la figlia che la riscaldò dentro, facendole anche sentire la mancanza del marito, che non sarebbe rientrato che nel pomeriggio.
Quando si riebbe dai suoi pensieri e aprì gli occhi, si rese conto che Serena era sparita.
Insieme alla scatolina con l’anello.
  
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