In the still of the night
22.
Nell’istante
in cui respiro e l’aria riempie i miei polmoni, vomito un fiotto d’acqua.
Qualcuno mi fa girare su un fianco per evitare che soffochi. L’acqua salata mi
esce dal naso e dalla bocca contemporaneamente, e brucia nel farlo. Gemo,
strizzando gli occhi per il fastidio. Stringo i pugni, e sento la sabbia contro
le mie dita, intrappolata nei palmi.
-
Sei qui, ce l’hai fatta – questa è la voce sollevata di Johanna, e sua deve
essere anche la mano che mi accarezza la schiena.
Tossisco,
strizzando gli occhi. – Jo… Johanna? – balbetto in direzione della sua voce.
-
Razza di idiota! Ho dovuto recuperarti in acqua e farti persino la
rianimazione! Avevi tutte le intenzioni di morire, eh? E a quel poveraccio del
tuo fidanzato non pensi? – adesso non c’è più alcuna traccia di sollievo nella
sua voce, anche se non smette di accarezzarmi schiena e spalle.
Mi
ha salvato la vita?
-
Proprio tu… - dico, voltandomi verso di lei.
Johanna
inarca un sopracciglio. – Già, proprio io – ribatte. Ha capito cosa le volevo
dire: tra tutti, a salvarmi la vita è stata lei. Proprio lei, che sembra
volermi vedere morta con tutte le sue forze.
Le
sono di nuovo debitrice, e non mi piace per niente.
-
Riesci a metterti seduta? – chiede, cercando di sostenermi mentre mi muovo. –
Come va la botta?
Botta?
Quale botta? Non faccio in tempo a dirlo ad alta voce che le sue mani sono già
sulla parte lesa, all’altezza delle costole. Fa male, ma non così tanto. Glielo
dico, sperando che questo possa bastare per far sì che smetta di torturarmi con
le sue dita, ma lei continua, inarrestabile. Forse si diverte.
-
Te la caverai, non sembrano rotte – dice.
Nel
giro di poco più di ventiquattr’ore ho già collezionato tutta una serie di
infortuni: sono svenuta, ho vomitato, mi sono beccata le ustioni da acido
grazie alla nebbia, un morso di scimmia, un trauma alle costole e un
annegamento… e sono ancora viva per poterlo raccontare. Quest’arena sta
dimostrando con tutta sé stessa le sue intenzioni di farmi fuori, ma io resisto
ancora. Cos’altro mi attende?
-
Katniss! – Peeta urla il mio nome mentre corre verso me e Johanna,
seguito dal resto del gruppo che comprende anche Beetee e Finnick. Wiress è
morta, ricordo con amara rassegnazione. L’ha uccisa Gloss… ma Gloss è morto a
sua volta per mano mia.
Questo
risolleva un po' il mio morale.
-
Katniss! – ripete Peeta, gettandosi sulla sabbia accanto a me. Mi prende per le
spalle e mi osserva, scuotendomi leggermente. – Stai bene?
-
Ehi, non la scuotere! L’ho appena resuscitata, vacci piano – esclama
Johanna.
-
Che cosa? – urla, allarmato.
-
Sta scherzando, Peeta! Sto bene – dico, prendendo una delle sue mani e
portandomela alle labbra. Ci deposito sopra un bacio. – Sto bene, davvero.
Johanna
emette un verso che è una via di mezzo tra lo scocciato ed il disgustato. – Mi
fate venire il voltastomaco, voi due.
-
Perché non li hai visti prima! – esclama Finnick, sogghignando. – Ci mancava
poco che scopassero sulla spiaggia…
-
Ew! Ma insomma!
-
La volete piantare? – urlo. La nostra vita privata è affare nostro, non loro. Nostro,
e di nessun altro. – A voi che importa?
-
Se ci costringete a diventare dei guardoni diventa una questione di tutti –
dice Johanna, piccata. – Non ci tengo a vedere il piccolo Peeta.
-
O la piccola Katniss – aggiunge Finnick. – Anche se non dovrebbe essere
così male. Pensaci, Johanna-
-
Basta! – urlo di nuovo. – Perché tu non dici niente? – abbaio contro
Peeta.
-
Perché ti stanno solo prendendo in giro. Non dicono sul serio! – si giustifica,
baciandomi la fronte. Si stacca subito, però, a causa di ciò che continuano a dire
i nostri compagni e delle mie occhiatacce, tutte indirizzate a lui. Da come mi
comporto capisce che gli ho detto la verità, che sto effettivamente bene, perché
aggiunge: – Vieni, alziamoci…
Barcollo
un poco, e le costole ammaccate si fanno sentire, ma tutto il resto sembra
essere a posto. Anche respirare non fa più male, adesso che non ho più acqua da
sputare. Beetee, che è rimasto in silenzio fino ad ora, allunga le braccia per
porgermi l’arco e una faretra straripante di frecce. Non sono le mie armi,
noto: quelle devo averle perse quando sono caduta in acqua. Lo ringrazio lo
stesso, sentendomi un po' più al sicuro grazie alle armi.
-
Dov’è che andiamo adesso? Qual è la zona più sicura della spiaggia? – chiede
Finnick.
-
Non lo sappiamo più, grazie a quel giochetto della cornucopia rotante! –
sbraita Johanna. – Ci hanno fatto perdere l’orientamento.
-
Non avrei mai dovuto parlare ad alta voce dell’orologio – dico amareggiata. –
Adesso ci hanno portato via anche quel vantaggio.
-
Solo per il momento – ribatte Beetee. – Alle dieci vedremo ancora l’onda e ci
potremo orientare di nuovo.
-
Sì, non possono cambiare tutta l’arena – dice Peeta.
-
Non ha importanza – interviene impaziente Johanna. – Ce lo dovevi dire per
forza, razza di idiota, altrimenti non avremmo mai spostato l’accampamento. –
Curiosamente la sua risposta logica, per quanto condita da un insulto, è
l’unica che mi conforta. Sì, dovevo dirglielo, per farli spostare.
-
Raggiungiamo la spiaggia e una volta lì vediamo dove andare – propone Finnick,
alla fine. – Magari riusciremo anche a capire in che direzione sono fuggiti quelli
del 2.
-
Che saggio che sei, Finnick! – lo sfotte Johanna. Lui la spintona via.
Procediamo
in fila indiana, con Finnick ad aprire la fila e Johanna a chiuderla; io sono
ancora una volta nel mezzo, proprio come ieri, solo che stavolta ho accanto
Peeta, protettivo, con un braccio a cingermi la schiena. Sembra quasi che gli
altri abbiano stretto un patto tra di loro, un patto per cercare di proteggere
il più possibile la ragazza incinta nell’arena. Ce la stanno mettendo tutta, a
quanto pare… ma io non glielo sto rendendo un compito facile. Sono molto
propensa agli infortuni, come hanno potuto notare anche da soli.
Fossi
in loro avrei gettato la spugna ore fa.
Sulla
spiaggia non ci sono tracce del passaggio di Brutus ed Enobaria: niente orme.
Il vento, o l’acqua, le hanno spazzate via prima che potessimo arrivare per vederle.
Oltre al problema Favoriti, c’è anche quello del nostro orientamento a
complicare la situazione. La spiaggia e la giungla sembrano identiche, da
qualsiasi posizione le si voglia guardare: stessa sabbia bianca, stesse piante
verdi… persino gli stessi alberi alti. Il fatto che uno di quelli venga colpito
dal fulmine a mezzanotte e a mezzogiorno potrebbe tornarci utile, ma ce ne sono
dodici, tutti uguali, posizionati nello stesso punto per ogni sezione
dell’orologio. Finché non arriva il fulmine non sapremo mai qual è quello
giusto. Beetee ha ragione sull’onda: alle dieci, sapremo di nuovo in che punto
dell’arena ci troviamo.
Decidiamo
temporaneamente di fermarci in una zona della spiaggia riparata dal sole, che
in questo momento picchia forte sopra alle nostre teste; l’ultima cosa di cui
ognuno di noi ha bisogno, ora, è un colpo di sole. Ma se sono fortunata me lo
becco di sicuro, in barba ad ogni statistica. Morirò di insolazione, me lo sento.
Fa di nuovo molto caldo.
-
Hai ancora tu la spillatrice, vero, Katniss? – mi chiede Finnick. Al mio cenno
affermativo, mi fa un cenno con la testa di seguirlo. – Andiamo a prendere
dell’acqua.
-
Posso venire io al posto suo – propone Peeta.
-
No, vado con lui – dico, rialzandomi. Devo tenermi all’albero con una mano e
con l’altra sostenere la pancia. – Non riesco a stare seduta, mi fa male la
schiena. Camminare un po' mi farà bene.
-
Tranquillo, Peeta, te la tratto bene. Non è il mio tipo, ora come ora.
-
Cosa vorresti dire?
-
Che sei la persona meno sexy dell’intero pianeta, mammina! – risponde
Johanna al posto suo.
-
Piantatela!
Ci
allontaniamo dal resto del gruppo, e dalla spiaggia, per inoltrarci nella
vegetazione alla ricerca di un albero che faccia al caso nostro. Mentre ci
allontaniamo, sento Johanna che chiede a Peeta di disegnare un’altra mappa
dell’arena.
È
la prima volta che resto da sola con Finnick da quando è iniziato tutto questo
teatrino; la prima volta dal giorno in cui ci siamo incontrati, poco prima dell’inizio
della sfilata dei tributi. Quanti giorni sono passati da allora, cinque? Sei?
Tenere il conto del tempo che scorre sembra quasi inutile, arrivati a questo
punto. Ci può essere utile solo per capire le minacce che ci riserva l’arena,
per ogni sezione che dovremo attraversare.
Come
adesso: non sappiamo di preciso quali insidie sono nascoste dietro a quella
foglia, se c’è uno scorpione velenoso o un bruco innocuo, ma per ora nulla
disturba il cammino mio e del mio compagno ed è una piccola, magra consolazione.
Finché non lo sappiamo, siamo al sicuro.
Ci
fermiamo quando Finnick sembra aver individuato l’albero adatto; si inginocchia
davanti ad esso e comincia a scavare un buco nella corteccia col suo coltello.
Io gli resto vicina, quel che basta per osservarlo e per guardarmi intorno, in
attesa di qualsiasi eventuale minaccia decisa ad attaccarci. Ho l’arco carico,
pronto per qualsiasi evenienza, e Finnick ha il suo tridente.
-
Quando hai scoperto di essere incinta? – domanda ad un tratto Finnick; ha gli
occhi fissi sul suo lavoro, ma ha tutta la sua attenzione puntata su di me. –
Prima dell’annuncio?
No.
Dopo, molto dopo, vorrei rispondergli, ma la realtà non
corrisponde in alcun modo con la versione che Peeta ha dato all’intera Panem
durante l’intervista. Devo mentire un altro po'. – Più o meno. Il matrimonio
non era ancora stato annullato.
-
Ma l’avete fatto lo stesso. Sposarvi, intendo – si volta, osservandomi.
Annuisco.
–
Perché?
Rido,
a bocca chiusa. Non poteva fare una domanda più privata di questa. – Non volevo
dar loro la soddisfazione di toglierci anche l’opportunità di poter morire come
marito e moglie.
Loro.
Chi sono “loro”? I più non credo che afferreranno alla svelta ciò che voglio
dire… ma Finnick sembra capire al volo.
-
Wow – mormora. – Non avrei saputo dirlo meglio. Mi passi la spillatrice? – lo
faccio, e mentre Finnick finisce di armeggiare aggiunge: - Mi dispiace che la
vostra vita insieme sia stata bella per così poco.
È
un tipo a posto, Finnick, tutto sommato. Quando smette di sfoggiare l’aria da furbone
e di lanciare battutine a destra e a manca, sembra quasi quel tipo di persona
che ti piacerebbe avere come amico. Qui, purtroppo, non ho l’opportunità di
considerarlo tale fino in fondo. Adesso siamo alleati e abbiamo uno scopo
comune, ma quando arriverà il momento, quando saremo rimasti in pochi, sono
sicura che non esiterà un secondo nell’uccidermi col suo tridente. Così come io
non esiterò nel lanciargli una freccia dritta al cuore.
Non
saremo alleati per sempre.
L’acqua
inizia a sgorgare grazie alla spillatrice, così aiuto Finnick a riempire le ciotole
che ci siamo portati dietro. Sono a metà della mia quando l’urlo raggiunge le
mie orecchie, facendomi perdere il controllo della presa. Acqua e ciotola
cadono a terra.
-
Cosa è stato? – chiede Finnick. – Stava… chiamando il tuo nome?
Alzo
la testa, spaventata. No, non solo spaventata: terrorizzata. Le mie orecchie mi
stanno giocando un brutto scherzo? Non solo le mie, ma anche quelle di Finnick?
-
KATNISS! – l’urlo torna ancora una volta, e si ripete. Non sono le mie
orecchie: è lei. È proprio lei.
-
Prim! – soffio, muovendomi a rallentatore. – PRIM! – urlo, cominciando a
correre in direzione del punto da cui proviene la voce di mia sorella. – Prim!
– urlo di nuovo. In risposta, ricevo un nuovo grido.
-
Aiutami! Katniss, aiutami!
-
Katniss! FERMATI! – mi richiama Finnick, ma io sono già lontana.
Come
hanno fatto a portarla qui?, penso. Perché l’hanno portata
qui?, mi domando, mentre corro all’impazzata in mezzo alla vegetazione. Un
ramo, un viticcio, qualcosa mi sferza il viso con forza quando passo, ma io
continuo a correre, incurante di dove metto i piedi e di ciò che potrebbe farmi
male se continuo ad urlare il suo nome nel modo in cui lo sto urlando. Non mi
importa se qualcuno può aggredirmi: mi importa che qualcuno possa aggredire lei.
Prim. La mia sorellina… non devono farle del male. Morirei, se le facessero del
male.
-
Prim! – la chiamo, ancora e ancora, ma più avanzo nella giungla e più non trovo
tracce di lei. Non trovo niente, assolutamente niente. Mi fermo, ascoltando la
sua voce sofferente. – Prim – mormoro, angosciata, guardandomi attorno. Sento
un altro urlo, e stavolta è vicinissimo, più intenso. È sopra di me.
Sopra
di me?
Alzo
la testa, guardando verso il punto in cui dovrebbe esserci Prim, ma lei non
c’è. Al suo posto, appollaiato su un ramo, c’è un uccellino nero col becco
spalancato. Non l’ho mai visto prima d’ora ma lo riconosco all’istante. Quale
altro animale è capace di riprodurre nel più minimo dettaglio la voce di
qualcun altro? La voce di un essere umano, soprattutto.
Solo
una ghiandaia chiacchierona ne è capace.
Lancio
una freccia e l’uccellino tace, cadendo a terra. La voce di Prim tace. Ho i
brividi, nonostante il caldo. Mi allontano dalla piccola carcassa, stringendo
le braccia contro il corpo per la paura che provo. Mi allontano come se la
chiacchierona potesse rialzarsi, spiegare di nuovo le ali e rimettersi ad
urlare come Prim.
Voglio
andarmene da questo posto.
-
Katniss! – Finnick sbuca fuori all’improvviso dalle foglie, fermandosi accanto
a me bruscamente. – Sei velocissima, per essere una che è quasi annegata! Che
succede?
-
Non era… non era niente – singhiozzo. Sono così scossa da aver iniziato a
singhiozzare. – Era una ghiandaia chiacchierona. Non era mia sorella. Finnick-
-
Finnick!
Un
altro urlo, diverso da quello che mi ha portata fino a qui, riempie l’aria. Ci
circonda. Il corpo di Finnick scatta, irrigidendosi, e il suo volto muta
davanti ai miei occhi. – Annie! – grida, mentre l’urlo della donna
risuona sopra le nostre teste.
-
No! Finnick, non è Annie! È una ghiandaia chiacchierona! – afferro il suo
braccio prima che possa mettersi a rincorrere quegli stupidi uccelli come ho
fatto io. – Annie non è qui!
Ma
non mi ascolta. Finnick si libera della mia presa con uno spintone che quasi mi
fa perdere l’equilibrio e parte, correndo dietro all’uccellino che si spaccia
per Annie. Sono costretta a corrergli dietro, anche se tutto ciò che vorrei è
tornare dagli altri sulla spiaggia. Ma non posso lasciarlo solo, a rincorrere
urla fasulle. Lui non l’ha fatto con me, è venuto a cercarmi. Devo aiutarlo a
superare questa nuova ed orribile prova.
Trovo
Finnick che gira su sé stesso, urlando il nome di Annie a tutto spiano, in
mezzo a una radura. Non sembra capire che la fonte delle urla è un piccolo e odioso
ammasso di piume. Mi guardo intorno, in fretta, come ho fatto poco fa e come ho
fatto innumerevoli volte nel corso degli anni. Come faccio sempre quando
caccio, quando cerco la mia preda. Vedo una chiacchierona appollaiata a non molta
distanza da dove si trova Finnick e la abbatto con una freccia. L’animale cade,
morto, e con le sue urla cessano anche quelle di Finnick. Osserva il corpicino piumato
come se non credesse ai suoi occhi.
-
Finnick, ce ne dobbiamo andare da qui – mormoro, avvicinandomi a lui. Gli
prendo la mano libera dal tridente e lui sobbalza, ma non mi manda via come ha
fatto prima. Lo tiro verso di me per incitarlo a muoversi. – Potrebbero
essercene delle altre. Dobbiamo tornare alla spiaggia-
-
Katniss! – questo è Gale.
-
No! – premo le mani sulle orecchie, stringendo le palpebre. Non Gale.
-
Andiamo! – Finnick sembra essersi ripreso abbastanza da circondarmi i fianchi
con un braccio per incitarmi a correre via.
Le
urla adesso sono più insistenti, e più forti. Risuonano nei miei timpani come i
rintocchi che si sentono quando arrivano le dodici, qui nell’arena. Sono urla
strazianti, sono le urla che uno produce quando viene torturato. Quando sta per
essere ucciso. Gale, la mamma, Prim. Perché li stanno torturando?
Perché? La colpa è mia se gli stanno facendo del male! Perché non colpiscono
direttamente me, invece che loro? Sono io la fonte delle loro sofferenze?
Sono
la sola ed unica fonte delle loro sofferenze?
-
Katniss!
Cado
in ginocchio quando nella mia testa iniziano a risuonare anche le urla di
Peeta. Peeta! Non anche lui…
-
Katniss! Alzati! – Finnick lo sento a stento, che mi rimette in piedi e
mi fa correre di nuovo. In quel momento, un’ondata nera sorvola le nostre
teste, seguite da un’ondata di voci diverse, e tutte sofferenti. Non riesco a
distinguerle, ma mi fanno soffrire lo stesso. Hanno lo stesso, identico
effetto. Potrebbero essere le urla di chiunque, anche di uno sconosciuto, ma mi
farebbero male lo stesso. Il mio cuore scoppia di dolore. Singhiozzo, a corto
di fiato, mentre cerco di fuggire da tutte queste urla.
Seguo
Finnick che con uno scatto finale cerca di raggiungere il limitare degli
alberi, dove si sono riuniti Beetee, Johanna e Peeta ad osservarci arrivare. Ci
osservano e basta, non avanzano. Hanno paura delle urla? Finnick impatta di
faccia contro qualcosa e cade a terra come un peso morto. Corro verso Peeta,
che ha le mani sollevate, e le mie braccia, tese per aggrapparmi alle sue
spalle, urtano contro un vetro. Le mani mi fanno male mentre lo colpisco, mentre
cerco di toccare le sue mani che sono oltre il vetro, e grido per sovrastare le
urla delle chiacchierone che, adesso, stanno usando proprio la voce di Peeta
per farmi del male.
La
sua bocca si muove, ma non riesco a sentire nulla di ciò che dice. Sta bene,
riesco a vedere con i miei stessi occhi che sta bene, ma è come se non lo
fosse, perché l’urlo che sento nelle orecchie sembra provenire proprio dalle
sue labbra.
-
Ti prego, Katniss! – strilla la chiacchierona che si spaccia per Peeta.
-
Peeta! PEETA! – urlo io, graffiando il vetro. Ma non succede nulla.
Il
vetro non si sposta. E capisco che non si sposterà finché l’ora dedicata alle
ghiandaie chiacchierone non sarà passata. Finché le urla che circondano me e
Finnick non ci avranno fatto perdere del tutto il senno.
Scivolo
contro il vetro, in preda al pianto. Riesco appena a vedere Peeta, al di là del
vetro, che si accascia come ho appena fatto io. Urlo, cerco di sfogare il
terrore in qualche modo e a nulla serve, perché ciò che elimino urlando lo
recupero con l’udito.
Smetto
di urlare, mi rannicchio in posizione fetale, e mi sforzo di non sentire.
Sono
ancora in posizione fetale quando l’ora finisce. Le urla non ci sono più, ma
potrebbe essere comunque una trappola: le urla potrebbero essere cessate solo
perché sono riuscita a distruggermi i timpani con le mie stesse mani. E invece
è davvero tutto finito, e lo capisco perché stavolta la voce di Peeta non sta
urlando. Non sta soffrendo. È dolce, è delicata, è la sua voce di sempre. E la
sento distintamente, nonostante le mie mani siano ancora ferme sulle orecchie,
a coprirle. Sono sicura che sia lui anche se non lo vedo, perché ho gli occhi
chiusi, strizzati per evitare le orribili immagini che potrebbero coprire il
mio campo visivo se li aprissi.
-
È finita, tesoro. È tutto finito – lo sento dire. Sento le sue mani che provano
a prendere le mie, ma la mia stretta è troppo forte e non ci riesce. – Non c’è
più nulla, Kat.
Già,
non c’è più nulla. Non ci sono più nemmeno io.
Le
sue braccia scivolano sotto il mio corpo e con tutta la delicatezza di cui è
capace mi solleva, mi prende in braccio. Mi fa posare la testa sul suo torace e
le sue labbra sono subito sulla mia fronte per confortarmi. Nonostante senta il
suo calore e riconosca il suo tocco, non riesco, non voglio abbandonare la
sorta di rifugio sicuro che mi sono costruita in quest’ultima ora. Non voglio
abbandonare il rifugio sicuro, non voglio aprire gli occhi per scoprire che è
tutto parte di una bugia.
Non
sento più nulla sotto il corpo, a parte un braccio di Peeta sulla schiena e
l’altro sotto le gambe. Mi sostiene mentre cammina, mentre si allontana dal
punto in cui sono stata rannicchiata per un’ora intera. Grazie all’acqua fredda
in cui mi ritrovo immersa, capisco il luogo in cui mi ha portata. Sono sulla
spiaggia, sulla riva del mare che circonda la cornucopia. Peeta ha immerso me
dopo essersi immerso a sua volta. Mi tiene ancora stretta e non sembra volermi
lasciare, a meno che non sia prima trascorso parecchio tempo.
Socchiudo
gli occhi e la prima cosa che vedo è il suo torace, coperto dalla tuta blu. Il
suo torace è una cosa buona, è una visione che mi tranquillizza. È il torace di
Peeta, non è quello di un’orrenda creatura pronta a farmi fuori. Vedere il
corpo di Peeta è ciò che mi serviva per lasciare il mio guscio. Tolgo le mani
dalle orecchie e mi stringo a lui, passando un braccio attorno al suo collo e
l’altro davanti a me, in modo da riuscire a posare la mano sul suo cuore. Ecco,
lo sento di nuovo. Batte forte contro la mia mano.
Peeta
raccoglie un po' d’acqua con la mano e me la passa delicatamente sul viso.
Ripete il gesto più di una volta, rinfrescando le mie guance surriscaldate.
Alcune gocce finiscono sulle mie labbra, che cominciano a bruciare a causa del
sale. Devo essermele morse a sangue. Non ricordo di averlo fatto. Non ricordo
di aver fatto nient’altro che tremare, lì dentro. Tremare, strillare, cercare
di isolarmi dalle ghiandaie chiacchierone che cercavano di rubarmi anche
l’ultima briciola di ragione che avevo in corpo. Mi rendo conto di aver
ricominciato a tremare anche ora, perché Peeta sta cercando di scaldarmi
sfregando i palmi delle mani su di me.
-
Non è reale. Non c’era nulla di reale – sussurra.
-
Non li hai sentiti, Peeta. Gli stavano facendo del male. Li hanno uccisi
– la voce mi muore in gola.
-
No, tesoro, no. Non lo possono fare. Non possono ucciderli. Non hanno alcun
motivo di farlo – mi consola.
Sì
che ce l’hanno, invece.
-
Ti ho sentito, lì dentro… stavi male… - biascico, coprendomi gli occhi con le
mani. Le stringo a pugno e quasi graffio le palpebre, e se non lo faccio è solo
perché ho le unghie troppo corte per ferirmi davvero.
-
Ma io sto bene! Sono qui, lo puoi vedere tu stessa che sto bene. Non mi hanno
fatto del male.
-
Ti stavano uccidendo ed io non ho potuto fare nulla per salvarti… - singhiozzo,
chinandomi su me stessa. Peeta mi impedisce di farlo, però.
-
Guardami. Amore, guardami – mi costringe a togliere le mani da davanti al viso
e, afferratolo in una presa salda, lo tiene fermo. Nell’aprire gli occhi trovo
i suoi a pochissimi centimetri di distanza dai miei, intenti a fissarmi. – Non
mi hanno fatto del male. Non mi hanno ucciso.
-
Ma-
-
No. Ascolta – porta una mia mano sul petto, all’altezza del cuore, dove io
stessa l’avevo poggiata nemmeno due minuti fa. Quante volte abbiamo ripetuto a
vicenda questo gesto? – Cosa senti?
-
Il tuo cuore… - mormoro.
È
la stessa medicina che diedi a lui, mesi fa, quando mi raccontò la reale
portata dei suoi incubi. Era talmente pietrificato dal dolore che non riuscii a
fare altro che questo: fargli sentire il battito del mio cuore. Il mio cuore
vivo che discordava con le immagini di morte partorite dalla sua mente, dai
suoi sogni. Un cuore vivo per scongiurare la paura della morte. E adesso Peeta
lo sta facendo per me. Il suo battito è così forte che non può essere, in alcun
modo, messo in discussione.
-
E cosa può voler dire? – aggiunge.
-
Che sei vivo.
-
Sono vivo, esatto. Ogni volta che hai paura per me, ascolta il mio cuore. Lui
ti dirà che non devi averne affatto.
E
se non dovessi sentirlo più? Cosa accadrebbe, nel
caso contrario?
Poso
la testa nell’incavo del suo collo, schermando la mia mente da questa
eventualità. Non accadrà, se posso impedirlo. Sono ancora in tempo per impedire
la morte di Peeta. Le mie labbra sfiorano la sua pelle, salata a causa
dell’acqua o del sudore che non ha mai smesso di ricoprirci da quando ci
troviamo qui dentro. Premo la punta delle dita sul suo petto, come se volessi
imprimere il mio segno sulla sua pelle. Sul suo cuore.
-
Ti amo – è appena un soffio, il mio, ma lui può sentirlo.
-
Ti amo – ripete Peeta.
Tutto
il resto viene messo a tacere.
________________________
Non so voi, ma io ho sempre
trovato orribile questo settore dell’arena. Quale mente perversa può voler vedere
una persona che si riduce in pezzi a causa delle urla emesse dalle ghiandaie
chiacchierone? (no, la mente perversa in questione non è la mia! Vi vedo che mi
puntate le dita contro u_u) trovo questo tipo di violenza psicologica peggiore
di quella fisica.
Ed anche questo capitolo è
andato! Vi prometto che il prossimo sarà più tranquillo, così facciamo riposare
questa povera disgraziata ragazza che si è già chiesta cos’altro la
attende :D
D.