Wait for me {in fields of gold}
Per
i primi giorni era stato facile, per i primi giorni era stato bello.
Il
giorno in cui Clarke era tornata sulla Terra, convinta che sarebbe rimasta sola
per sempre e in cui, inaspettatamente, aveva trovato tutti i suoi amici ad
attenderla, stava volgendo al termine e si era deciso di rimanere nei pressi
della spiaggia, per iniziare il giorno seguente a costruire delle abitazioni.
Avevano
scherzato attorno al fuoco, avevano bevuto e avevano mangiato, cercando di smorzare
la tensione che si avvertiva nell’aria. Ci sarebbe voluto tempo, per abituarsi
alla normalità e soprattutto per iniziare a crederci davvero.
[Octavia l’aveva nominato
solo una volta e
Clarke aveva sentito il respiro
mancarle.]
L’adattamento
si era rivelato molto più lento e turbolento del previsto, perché non basta la
consapevolezza di essere vivi e in pace per evitare che antichi rancori
riaffiorino senza pietà. Echo, dopo qualche settimana, era diventata sempre più
insofferente alla vista di Clarke, anche se solo Raven ed Octavia sembravano
essersene accorte.
Raven
aveva tentato più volte di parlarci, ma la guerriera rifiutava ogni confronto,
imputando le loro preoccupazioni a un’eccessiva paranoia. Stava bene e andava
tutto bene.
Ma
il risentimento, come una piaga nascosta, si diffondeva e inquinava l’aria di
quei tanti pezzi che avevano scelto la vita, ma non sapevano bene come viverla.
«Echo.»
disse Octavia, fermando l’altra mentre stavano scendendo insieme al fiume per
prendere l’acqua.
«Cosa?»
«Vorrei
che fossi onesta con me. Hai avuto uno scatto d’ira con Clarke totalmente
ingiustificato.»
«Non
è vero.» ribatté lei, continuando a camminare.
«Ti
vuoi fermare?» gridò Octavia, buttando il secchio per terra. «Ci tengo a te,
non sopporto di vederti così. Non è quello che Bellamy avrebbe voluto.»
Nominarlo
fu come premere un interruttore per Echo che, di colpo, indurì lo sguardo e si
mise sulla difensiva.
«Bellamy
è morto. Non sappiamo cosa avrebbe voluto, perché non è qui a dircelo. Bellamy
è morto e a te sembra non importare nulla. Troppo presa da Levitt,
suppongo.»
Il
suo commento, pieno di astio e di dolore, fece capire a Octavia quanto Echo
soffrisse e tenesse dentro per evitare di riversare la sua sofferenza sugli
altri.
«Mi
manca da morire, Echo. Non c’è giorno che non ci pensi e giorno che non mi
senta in colpa per non avergli creduto. Sto cercando di andare avanti perché è
quello che avrebbe voluto, lo sai anche tu.»
Echo
si sentì schiacciata dal peso di quelle parole e si piegò a terra, faticando a
trattenere le lacrime.
«L’ho
abbandonato. Aveva bisogno di aiuto e io l’ho lasciato da solo.»
Octavia
corse ad abbracciarla, stringendola a sé e iniziando a piangere.
«È
anche colpa mia, lo so, ho sbagliato e vorrei tornare indietro.»
Echo
si sfogò sull’unica Blake ormai rimasta e si rese conto che questo dolore non
se ne sarebbe andato presto, forse mai.
«Non
riesco a guardare Clarke. Ci sto provando, lo so che l’ha fatto per Madi, che pensavamo che Bellamy fosse impazzito e ci avesse
traditi e invece…»
«E
invece aveva ragione.» concluse Octavia.
«E
l’abbiamo lasciato da solo a pagarne il prezzo.»
[Clarke aveva rincorso Echo
per parlarle,
si era piegata contro un tronco
sentendole
e aveva iniziato a piangere
tutte le lacrime
che aveva trattenuto fino a quel
momento]
«Clarke
non sta bene.»
È
con calma che Raven fa quest’osservazione, posando il suo bicchiere e
osservando la tavola di fronte a lei.
La
ricostruzione era durata mesi, ma ormai avevano costruito un piccolo villaggio
apposta per loro, con varie case e una grande villa centrale, dove pranzavano e
cenavano tutti insieme.
Clarke
non era venuta a cena e, benché non ci fosse nulla di strano di per sé, tutti i
suoi amici avevano notato il suo crescente peggioramento.
Fingeva
di star bene, fingeva di essere felice, ma Raven e Niylah
che avevano le loro case vicino a quella di Clarke la sentivano quasi tutte le
notti che gridava nei suoi incubi.
Sapevano
che sarebbe stato difficile per tutti, soprattutto per lei, ma per Clarke
sembrava andare sempre peggio.
«Non
possiamo fare altro che starle vicino.» osserva Jackson.
«Quello
che ha passato è stato terribile ed è normale che le serva del tempo.» commenta
Emori, anche se capisce dallo sguardo di John che lui
e Raven non sono convinti che stia guarendo in modo sano.
«Cosa
suggerisci di fare?» chiede Octavia, guardando Raven.
«Non
lo so, per questo ne sto parlando. Nessuno di noi è convinto che Clarke
riuscirà a riprendersi. Ancora non riesce neanche a dire il suo nome.»
«Credo
sia comprensibile, visto quello che ha dovuto fare per Madi.»
dice Gaia, osservando di sfuggita Echo che si era irrigidita sulla sedia.
«E
comunque lei è Clarke, è la persona più forte che ci sia.» dice Jordan, mentre
gli vengono alla mente tutte le storie che Monty e Harper gli hanno sempre raccontato
sui Cento e sulle scelte di Clarke.
«Mi
chiedo soltanto se questa volta non sia stato troppo.» conclude, infine, Raven.
[Clarke è nella sua stanza,
bloccata dall’ennesimo attacco
di panico,
chiedendosi quando finalmente
riuscirà a respirare
di nuovo.]
Clarke,
stesa sul suo letto, cerca di addormentarsi, ma i pensieri le vorticano in
testa come trottole impazzite e lei vorrebbe solo metterli a tacere, chiuderli
dentro un cassetto e non riaprirli mai più.
Vorrebbe
solo che facessero silenzio.
Dopo
ore di veglia, riesce finalmente a prendere sonno, per svegliarsi
immancabilmente in preda a qualche incubo. A quel punto, ormai vicina all’alba,
Clarke inizia una nuova giornata, cercando di sorridere e di mettere tutta se stessa nelle azioni del loro vivere quotidiano e provando
a stancarsi in ogni modo possibile per potersi addormentare senza pensare.
E
alcuni giorni va bene, in alcuni momenti sente di essere serena, ma in altre
giornate il sonno non arriva mai e al dolore che prova costantemente si
aggiunge il dolore di essere un’ingrata.
E,
solitamente, a quel punto arriva l’attacco di panico in cui Clarke non riesce a
mettere a tacere i pensieri che la tormentano e vorrebbe soltanto farla finita.
Clarke
conosce quella sensazione, perché l’ha già provata quando è rimasta sulla Terra
da sola e ha continuato a girovagare senza riuscire a trovare nessuno. Chiamarlo
tutti i giorni, con quella radio, l’aveva tenuta in vita e Madi
l’aveva salvata, liberandola da quell’infinita solitudine.
E
adesso, quasi trecento anni dopo, Madi non c’è più e,
anche se Clarke sa che è meglio così, le manca terribilmente perché sa che non
la rivedrà mai più.
Si
accascia al suolo quando il vorticare della sua mente la porta a quel momento,
in cui ha premuto il grilletto, in cui lui si è caduto a terra e in cui i suoi
occhi hanno smesso di guardarla e si sono spenti.
La
speranza di rivederlo l’aveva mantenuta in vita per sei anni; la consapevolezza
di averlo ucciso quasi per niente, di averlo abbandonato quando aveva bisogno
di lei, di aver tradito la sua promessa e di averlo perso per sempre per colpa
sua le stava dilaniando l’anima e il cuore.
Clarke,
con fin troppa lucidità, sente che vorrebbe togliersi la vita e l’unico motivo
per cui non lo fa e continua a sopportare quel dolore, è per i suoi amici che
hanno deciso di continuare a vivere con lei.
Sa
benissimo che si sono tutti accorti che non sta bene e che forse mai starà
bene, ma nessuno la giudica e se la prende con lei per averlo tolto anche a
loro.
Dopo
aver seguito Echo e Octavia e averle sentite si era
convinta che Echo sarebbe andata da lei e si sarebbe
vendicata, ma invece la guerriera, dopo quel pianto, era come se fosse riuscita
davvero a perdonare Clarke e, pur soffrendo, non aveva più mostrato segni di
insofferenza verso di lei.
E
Clarke, invece di sentirsene sollevata, si era sentita ancora più avvilita
perché non meritava neanche una briciola dell’affetto che gli altri le avevano
dimostrato.
Dopo
alcuni minuti, che le sembrano sempre ore, l’attacco di panico si placa e
Clarke resta a terra, finché i raggi del Sole non iniziano a spuntare e si
rende conto che un’altra terribile notte è finita e una nuova giornata deve
iniziare.
Si
impone di resistere, di essere forte, ma ogni mattina alzarsi le sembra sempre
più difficile.
[Clarke tiene ancora,
in un angolo del cassetto,
la sua pistola carica.]
Non
sa bene cos’è che la fa scattare.
Forse
è la festa che stanno organizzando per celebrare il loro primo anno da quando
tutto è successo, per ringraziarsi l’un l’altro e per potersi dire, ancora una
volta, che ce l’hanno fatta; forse è il pensiero che è passato un anno da
quando l’ha ucciso e lui non tornerà, mai.
Mentre
tutti stanno ultimando i preparativi, Clarke dice loro che andrà verso il fiume
a prendere le ultime scorte d’acqua per la festa.
Nella
discesa al fiume, Clarke sente il freddo del metallo che le pesa sulla schiena,
nascosto dalla sua giacca e sussulta interiormente, quasi correndo per arrivare
davanti all’acqua.
Si
avvicina alla spiaggia, buttando i secchi, e si inginocchia, prendendo la
pistola tra le mani.
Non
vuole usarla, ma le sembra impossibile che riuscirà a resistere un altro anno
così. E un altro ancora.
Jordan,
sfruttando l’empatia che gli hanno trasmesso i suoi genitori, ha praticamente
aperto un’attività da psicologo e Clarke è riuscita ad aprirsi leggermente con
lui, spiegandogli tutti i tormenti che la agitano.
Jordan
le ha detto che andrà meglio, che il lutto non scompare ma si attenua e che
deve vivere anche per onorare i morti.
Clarke
avrebbe voluto gridargli che non poteva onorare l’uomo che aveva ucciso con le
sue mani e che il suo lutto era verso Madi – non scomparso,
ma attenuatosi dopo un anno – mentre ciò che sente verso di lui è viluppo di
sentimenti così dolorosi e colpevoli che le impediscono ancora di dire il suo
nome.
Si
punta la pistola alla tempia, iniziando a piangere.
«Mi
dispiace.» sussurra, come se ci fosse qualcuno con lei che porterà questo
messaggio agli altri. «So che siete tornati indietro e avete scelto la vita
insieme a me, ma…»
Controlla
nuovamente di aver tolto la sicura della pistola e se la ripunta alla tempia.
«Ma
non ce la faccio più. L’ho perso, l’ho ucciso… Madi è
felice e non ha più bisogno di me. Spero che possiate perdonarmi, anche se non
me lo merito.»
Clarke
sospira e smette di piangere, stringendo più forte l’arma: «May
we meet again.»
{I know I'll
see you
on the other
side
Wait for me
In fields of gold
It's not
the end
It's all I
know}
«Clarke.»
Un
secondo prima di premere il grilletto, Clarke sente il suo nome e le manca il
respiro, perché sa di aver sentito male, ma un guizzo di speranza le percuote
comunque tutto il corpo.
Si
gira di scatto, verso destra, verso dove ha sentito la voce e, confusa a causa
degli occhi pieni di lacrime, lo vede a pochi passi da lei che la guarda.
«Bellamy.»
È
quasi stranita dal suono di quel nome prodotto dalla sua bocca e pensa di
essere definitivamente impazzita.
Lascia
cadere la pistola e corre verso di lui che apre le braccia per stringerla a sé.
«Sei
qui.»
Clarke
ricomincia a piangere sulla sua spalla, tirandolo a sé così forte che Bellamy potrebbe
quasi dire di sentire del dolore, se non fosse che lui la sta abbracciando
altrettanto forte.
Restano
così per un tempo indefinito, finché non si siedono sulla spiaggia, mentre il
sole sta iniziando a tramontare.
Clarke
non sa cosa dire, non sa cosa fare e si sente schiacciata dalle emozioni che
sta provando.
«Com’è
possibile?»
Vorrebbe
scusarsi, vorrebbe dirgli che le dispiace più di quanto possa capire, ma la
prima cosa che riesce a fare è chiedergli come sia possibile.
«Quando…»
Bellamy si blocca subito, indeciso se dire quelle parole, perché sa che lei ha
già capito. «Quando mi hai sparato» e a Clarke fa male come se qualcuno le
stesse piantando un coltello nel corpo, «non sono morto come avete pensato
tutti. Ero molto grave, ma il soldato rimasto nella stanza mi ha curato in
qualche modo e sono finito in coma su Bardo. E poi sono trasceso, insieme a
tutti.»
«Ma
gli altri sono tornati un anno fa.»
«Avevo
deciso di non ritornare. Quando siamo diventati un’unica mente, ho visto che
Octavia ed Echo ti avevano perdonato e che tutti avevano
accettato la mia morte.»
Clarke
trattiene il fiato e si sente come se davanti a lei ci fosse il vaso di Pandora
e lei lo stesse finalmente per aprire.
«Ero
felice lì, Clarke. So che tu non sei ascesa e non l’hai provato, ma non c’è
alcun dolore o alcuna sofferenza. Non c’è la morte. Dato che tutti sembravano
aver preso bene la mia morte, ho deciso di non tornare, perché non credevo di
essere necessario per qualcuno. Octavia ha trovato Levitt
e Hope, Echo è con Raven, Murphy ed Emori.»
«Loro
non ricordavano nulla di quei momenti. Solo un grande benessere.»
«Sono
rimasti troppo poco, per questo le loro emozioni sono confuse e frammentarie.»
Clarke
annuisce, eccessivamente stordita da quello che stava accadendo.
«E
ora? Perché sei qui?»
«Tu
non sei ascesa.» ripete, quasi come se quella fosse l’unica risposta. «Come Madi, sapevo che non saresti stata sola e credevo che
saresti stata felice con gli altri. Una volta trascesi, non si vede cosa vi
accade qui sulla Terra.» continua a spiegare Bellamy, con una calma ferma e
decisa.
«Ma
poco fa, per la prima volta, ti ho sentito. Ho sentito tutto il tuo
dolore e non volevo che ti uccidessi.»
«Ma
ora non potrai più tornare indietro,» dice Clarke, balzando in piedi. «non si
può trascendere di nuovo. Perché?»
«Clarke.»
le dice e lei, pur odiandosi per questo, è così felice di sentire il suo nome
tra le sue labbra. «Non ho mai voluto ascendere da solo. Ho provato a
convincerti e capivo quanto era assurdo quello che dicevo, ma sapevo che ci
avrebbe condotti a un’esistenza migliore.»
«Avrei
dovuto avere fiducia in te, invece ti ho abbandonato. Ti ho tradito e ti ho
ucciso.» Clarke si piega sulle ginocchia. «Perché ti sei sacrificato, di
nuovo, per me? Non me lo merito, non merito il tuo perdono.»
Bellamy
la tira a sé, abbracciandola nuovamente.
«Ho
sbagliato anche io. Ho creduto troppo in Cadogan, mentre
non si è rivelato altro che un bugiardo e un assassino per quello che ha fatto
a Madi. Avrebbe fallito il test, sicuramente.» le
dice, parlando vicino al suo orecchio. «Come sempre, senza di te la mia ragione
non funziona bene.»
«La
testa e il cuore» dice lei, intrecciando le mani dietro la sua schiena.
«Insieme,
no? È sempre stato questo l’importante.»
«Together.»
[E Clarke, finalmente, torna
a respirare.]
Ritornano
insieme alla festa e, nella stupefacente gioia di tutti, Bellamy racconta loro
quello che ha già detto a Clarke, omettendo il suo tentativo di suicidio.
I
festeggiamenti proseguono per tutta la notte, con Octavia che non smette di abbracciare
suo fratello ogni dieci minuti per accertarsi che sia davvero lì.
Echo abbraccia Bellamy con forza, ma
basta che si guardino per capire che la loro storia, nonostante lui sia lì, è finita
da tempo.
È
quasi l’alba quando tutti si ritirano nelle rispettive case e Clarke rimane
ferma davanti al fuoco, con Bellamy di fianco a lei.
«Non
riesco ancora a crederci.» commenta Clarke.
Bellamy,
d’istinto, le prende il mento e la fa girare verso di lui, baciandola con
decisione. Clarke ricambia il bacio, sentendo di nuovo le lacrime premerle
sugli occhi.
«Questo
ha aiutato?» le domanda Bellamy, sorridendole.
«Penso
di aver bisogno di un altro piccolo aiuto.» conclude Clarke, piena di gioia, mentre
Bellamy si avvicina per baciarla di nuovo.
Fine.
Salve,
avviso di preparazione: seguiranno note di commento e sproloqui a seguito del
pessimo finale di the 100. Sono tutte opinioni personali e che non vogliono
offendere il parere di nessuno.
Amo
Bellamy e Clarke come coppia, ma cercherò di fare un commento neutrale, senza
considerare il lato romantico della loro relazione.
Ho
scritto questa storia perché sentivo il bisogno di dover dare un lieto fine a
Bellamy e Clarke e per dimostrare che, con tutti i buchi di trama che la
stagione ci ha dato, sarebbe stato molto facile far rivedere Bellamy in quella
scena finale.
Non
so e senza sapere non mi sento di dire nulla in merito alla presunta lite tra
Bob Morley e Rothenberg che avrebbe portato alla
realizzazione di questo finale terribile, ma sicuramente JRo
è riuscito in pochi episodi a distruggere tutto il telefilm.
Partendo
dalla trama, trovo ridicola questa svolta fantascientifica e metafisica,
dato il taglio iperrealistico della serie (perché la City of Light era tanto
terribile e questa condizione di trascendenza no? Sono state presentante in
modo simile, eppure nella prima il dolore e la realtà della condizione umana
venivano esaltati, mentre nella seconda ci si è comodamente accontentanti; per
non menzionare gli alberetti di luce); trovo ridicolo che si
contesti per tutta la stagione l’esistenza degli alieni (esseri superiori? Dei?
Boh, tanto ci vengono buttati lì e mai presentati) e poi alla fine tutti
vogliono soltanto trascendere; trovo ridicolo introdurre e perdere tanto
tempo per caratterizzare un personaggio come Hope per poi non dargli nessun
tipo di utilità (a parte la morte di Diyoza), ma del
resto anche di Jordan non si è mai saputo davvero che farne; trovo assurdo
il modo in cui la morte di Bellamy venga accettata da tutti senza che NESSUNO
batta ciglio o vada a sputare in un occhio a Clarke, specialmente da parte di
Octavia ed Echo che hanno perso ANNI delle loro vite
a Skyring per cercare di ritrovarlo.
Passando
ai personaggi, Bellamy Blake muore nel modo peggiore possibile (abbandonato,
solo, ritenuto pazzo da tutti e ucciso dalla persona che ama di più al mondo) e
solo per recuperare un libro che Clarke, comunque, non prende e con Sheidheda VIVO ancora lì.
Al
di là della tremenda ingiustizia, perché doverlo far morire così? Non ha senso
e rende i personaggi tremendamente OOC.
Clarke
non l’avrebbe MAI fatto, in virtù della promessa che si erano fatti a Sanctum riguardo l’arena di combattimento a Polis (dove,
comunque, non lo aveva ucciso, ma lo aveva abbandonato, è ben diverso).
Quella
scena per me ha distrutto tutta l’empatia che provavo per il personaggio di
Clarke, non mi dispiaceva neanche della sua sofferenza perché non mi sembrava
neanche lei, ma solo una donna piena di egoismo ed egocentrismo.
Concludendo
con la scena finale (non commenterò su Lexa-giudice,
in quanto per me era scontato che si vedesse lei e non mi è dispiaciuto): è
indubbiamente piena di emozione e rivederli tutti felici fa il suo effetto, ma
dopo che ti fermi a rifletterci ti rendi conto di quanto sia sbagliato.
Jackson
e Miller sarebbero tornati umani per CLARKE? Certo? Da una condizione che ci
viene descritta come di pura estasi e da cui neanche la FIGLIA vuole tornare? Posso
comprendere che gli altri tornino per una specie di catena (Levitt
per Octavia, Hope per Octavia, Jordan per Hope e così via, ma non ha comunque
nessun senso).
Il messaggio
finale è che per stare in pace li hanno dovuti “far sparire” tutti gli umani? Lexa-giudice comunica a Clarke che saranno sterili (ma come
li hanno resi sterili, con la forza della mente?) e che quando moriranno non
torneranno con gli altri (e quindi dove andranno? In che SENSO?). Alla loro
morte, tutti gli umani saranno estinti (che senso ha avuto tutto il telefilm?)
E,
infine, come farà Clarke a essere felice? Ho inserito il bonus Bellarke alla fine, ma ritengo che senza Bellamy, Clarke
potrà solo essere divorata dai sensi di colpa. È rimasta in vita, senza Madi e senza di lui, come potrebbe mai andare avanti?
Come
detto, ho sproloquiato, ma non me ne pento. Dovevo sfogarmi e chapeau a chi ha
letto fino a qui, siete coraggiosi! Ho amato la serie the 100
e i suoi personaggi e una fine così mi ha davvero deluso su molti livelli.
Ho
lasciato qualche termine in inglese, perché ho visto la serie in lingua
originale e alcune cose non suonano proprio al mio orecchio in italiano.
I
versi in mezzo alla storia e il titolo vengono dalla magnificazione canzone dei
GAITS, The Other Side.
Spero
che la storia vi sia piaciuta e spero che mi lascerete un commentino.
Vi
mando un grande bacio e may we
meet again (non con JRo).
EclipseOfHeart