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Autore: BenniBennis    14/10/2020    0 recensioni
Un’estate dal profumo di cambiamento, l’amore che quando arriva non lo fa mai senza creare danni, amicizia, famiglia, danza, divertimento, intrighi, litigi, scelte. Quella che era nata come una vacanza diventerà un’esperienza unica per una giovane venticinquenne desiderosa di dare una svolta alla sua vita. Ma non sarà facile gestire i cambiamenti.
“Nell'ansia che ti perdo ti scatterò una foto”.
Prima Originale a capitoli, ci ho messo il cuore, spero apprezziate :)
Grazie.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Capitolo 1 – Aria di benvenuto e di rinascita


Il vento marino spettinava i capelli e gli abiti leggeri di luglio. Il suono delle onde che s’infrangevano sullo scafo e il parlottare dei passeggeri facevano da basso sottofondo alla mia lettura. Non potevo smettere di leggere quella lettera, accuratamente scritta a mano e in una grafia quasi strisciata, come se avesse voluto togliere di mezzo quel pensiero il prima possibile; sicuramente gli era costato un certo sforzo trascrivere quella proposta, ma aveva voluto fare le cose per bene, e scrivere addirittura una lettera a mano, non farmi una chiamata, inviarmi un messaggio o una mail. Mi meravigliai ancora di quell’uomo, era raro che non mi stupisse.
Gli occhi si soffermarono sulla firma, la sua solita firma anch’essa trascurata, in cui a malapena si potevano riconoscere l’iniziale. Ma in quel caso il solo nome era preceduto da una parola molto semplice ma significativa. “Papà”.
Cara Streghetta mia, posso ancora chiamarti così? Di tempo n’è passato, e anche troppo in fretta. Ma non ti ho scritto qui per parlare di cose brutte, bensì il contrario. È tanto che non ci vediamo, ho perso il conto degli anni, e mi manchi tanto. La domanda è una e semplice: ti andrebbe di venire qui, da me, per una sorta di vacanza?
Erano anni che non facevo una vacanza estiva, e non era tanto per dire. Quando i corsi terminavano, trascorrevo i mesi più caldi dell’anno sempre a Venezia, costretta anche dal lavoro che raddoppiava.
Chiamami, così ti spiego meglio. Per piacere”.
Il pomeriggio di quello stesso giorno in cui avevo ricevuto e letto per la prima volta quelle parole, al ritorno da una guida a San Marco, davanti ad una tazza di tè tiepido, avevo composto il numero di mio padre. Il tono con cui accolse la mia chiamata mi fece capire subito che era più che felice che preso in considerazione la sua proposta.
Quando ero un’adolescente preda delle crisi esistenziali, il nostro rapporto era colato a picco, come una nave incagliata. Lo odiavo, odiavo qualunque cosa facesse e, più di tutto, odiavo quando mi dava consigli; non mi capacitavo di come potesse sapere cosa fosse meglio per me, lui che era maschio e soprattutto vecchio. Grandi litigate non c’erano per fortuna mai state, ma avevo finito per allontanarlo dal mio mondo composto da apparente felicità. A lui era dispiaciuto, ovviamente, e ogni giorno tentava di riavvicinarmi, ma al tempo ero ancora più testarda di adesso. Finché non me n’ero andata di casa, non c’eravamo parlati, o meglio io non gli avevo rivolto parola. A Venezia, non sentendo praticamente più nessuno, tutto si azzerò. Eravamo in territorio neutro, potevo dargli un’altra possibilità.
«Cos’è questo fatto della vacanza?» gli avevo chiesto dopo essermi informata su come stesse.
«Sì.» aveva mormorato indeciso. «C’è la possibilità di farti venire qui da me, per tutta l’estate. Se prendi una pausa dal lavoro puoi raggiungermi. Ho parlato con la direttrice dell’albergo su quanto tu sia importante per me, e ha detto che può lasciarti una camera, non è un problema, e -»
L’avevo interrotto divertita, bevendo l’ultimo sorso di tè e alzandomi dal tavolo.
«Okay. La camera, l’albergo, la direttrice disponibile… Ma il posto in questione dov’è?»
Sapevo che mio padre si spostava spesso per lavoro, e anche abbastanza lontano da casa a volte; tutto cambiava da anno ad anno. Pensare, ad esempio, che una volta era stato accettato a Capri – letteralmente di fronte casa – e la volta successiva in una località sarda.
«Mamma non ti ha detto niente su dove sto lavorando ultimamente?» mi aveva fatto perplesso.
Gli avevo ricordato quanto fossi in cattivi rapporti con quella donna e lui si era scusato, ricordandosi solo in quel momento che tra me e la sua ex moglie non scorreva buon sangue.
«Quindi?» avevo insistito.
«Scusa!» aveva riso. «Quindi, lavoro all’isola d’Elba.»
 
Ripiegai la lettera sui già solcati segni, attenta a non farla portare via dal vento e mangiarla dall’acqua, e la infilai velocemente nella tasca esteriore della grossa valigia. Il sale velava il blu pavimento e lo rendeva allo stesso tempo bello e scivoloso; avanzai a piccoli passi attenta a non finire a terra, e, insieme alla mia figura, portavo avanti i bagagli. Forse portare due grandi trolley era stato un po’ eccessivo, ma davanti all’armadio non ero riuscita a infilare solo il minimo indispensabile. Erano comunque due mesi e io rimanevo un’ossessionata del vestire.
Ero riuscita ad entrare al coperto e a lasciare il ponte, e ora arrancavo goffamente e pesantemente. Con un colpo al cuore mi resi conto che un ragazzo aveva posato una mano sul carrello del trolley e faceva per darmi aiuto; aveva un viso cordiale e il sorriso che portava sulle labbra era autentico.
«Grazie.» sorrisi gentilmente.
«Oh.» sussultò subito. «Sei italiana? Intendo, sei… Ehm…»
«Sì, sono italiana.»
Non mi meravigliai per niente a quella domanda. Non era il primo che mi scambiava per una straniera. Mi dicevano che ero troppo bella per venire dall’Italia e dovevo essere nata da genitori di un altro paese; mi prendevano per greca, finlandese, australiana, spagnola. Ormai ci vivevo, con quegli scambi nazionali.
Con garbo, il ragazzo mi portò il trolley fino a dove gli avevo chiesto, mentre io mi occupavo dell’altro bagaglio. Mi fermai a quella che, informandomi, capii fosse la porta d’uscita, in modo che una volta aperta sarei potuta scendere subito. Non trovando un posto per sedermi e rilassare le gambe, mi limitai ad appoggiarmi a una parete e chiudere gli occhi. Ero stanchissima. Odiavo viaggiare in treno, e il caldo afoso e il cambio di mezzo che avevo dovuto affrontare non avevano certo aumentato la mia simpatia per gli spostamenti su ferrovie, nemmeno le molte ore seduta, aspettando d’arrivare in porto. La nave la preferivo, ma la stanchezza precedente si stava facendo sentire, e anche se era un’ora precisa di traghettata, strepitavo dalla voglia di mettere piede sulla terra ferma e sdraiarmi su un letto.
Notai, riaprendo gli occhi, che gran numero dei passeggeri della nave delle sette si era radunato vicino l’uscita, al mio fianco. Il traghetto era pieno, tutti futuri turisti come me, lo si leggeva dalle facce.
Solo quando fu aperto il grande uscio di ferro e si iniziò ad intravedere la scala d’approccio, pensai che lì, a terra ad aspettarmi, c’era davvero mio padre. Dovevo comportarmi da figlia normale, in buoni – o almeno decenti – rapporti con il proprio genitore. Ma come fare? Cosa dire, come agire?
E tra cinque minuti mi sarei trovata di fronte quell’uomo che da bambina avevo tanto amato e da adolescente non aver mai voluto. E da adulta come sarebbe stato il nostro rapporto?
Le grida dei marinai coloravano la calda aria e le ultime cime venivano fermate saldamente al porto, mentre con calma le persone scendevano gli ultimi gradini interni della nave. Dal voler scendere per prima, lasciai che tutti i passeggeri mi sorpassassero e assaporai per ultima l’aria aperta. L’estate, ufficialmente entrata già da un po’, si stava facendo sentire, regalando alla vista un cielo azzurro intenso e privo di nuvole e un’aria non eccessivamente pesante.
Aiutata da un disponibile marinaio, scesi sulla piattaforma di ferro e provai a fare i primi gradini, ma un uomo davanti a me mi fermò. Era lui.
Ciò che mi risaltò subito agli occhi furono due cose: la prima fu la divisa da cuoco che indossava nonostante fosse a un porto e non a lavoro, e la seconda l’immensa quantità di capelli grigi che gli occupavano la testa. Quanto era invecchiato? Sette anni erano tanti, tantissimi. La folta chioma nera rigata solo ogni tanto di bianco adesso aveva lasciato spazio ad un’altrettanta fitta di capelli, ma solo grigi.
«Papà.» non riuscii a trattenere in un sussurro.
Ero mutata improvvisamente. Fu come se mi facesse pena, e tutta quella voglia di odiarlo si materializzò a prima vista.
Lo sguardo profondo che mi metteva tanta soggezione negli anni addietro, però, c’era ancora, solo caratterizzato da qualche ruga in più; e in quel momento mi fissava senza sbattere un occhio.
«Sei tu?» domandò.
Avrei tanto voluto rivolgergli la stessa domanda, ma non lo feci. Annuii soltanto.
«Margherita.» sospirò profondamente e mi abbracciò senza scrupoli.
L’isolamento di Venezia che tanto avevo voluto si ruppe in quella stretta, e in più compresi che odiare qualcuno non era più cosa mia. Dovevo assolutamente aggiustare con mio padre; sarebbe stato difficile, più di dieci anni tra scontri e lontananza non si sarebbero cancellati in un battito di ciglia, ma forse un’estate sarebbe bastata, e si poteva iniziare ricambiando quell’abbraccio.
Fummo quasi cacciati via dai marinai che si accingevano a dare il benvenuto ai passeggeri che invece si imbarcavano in quel momento, così in due prendemmo i miei bagagli e raggiungemmo l’auto nel vicino parcheggio del porto. Caricammo le valigie e con uno sbattere di portiere mise in moto e ci allontanammo dall’insieme di navi. Si potevano ben vedere le vetture che salivano sulle imbarcazioni per andare via dall’isola, mentre io m’intromettevo in essa chiedendole, quasi pregandola, qualche cambiamento.
«Il posto non è lontano. Sono dieci minuti di macchina.»
Silenzio di nuovo, mentre percorrevamo una strada semideserta circondata da campi a maggese. Non avevo il coraggio di guardarlo in faccia, nemmeno quando posò una mano sulla mia e ci aggiunse un “mamma mia, sei cresciuta tantissimo, sei diventata ancora più bella”: così arrossii semplicemente, chiusi a pugno l’altra mano e ingoiai un boccone amaro. Nonostante il mio aspetto, non ero abituata ai complimenti, e mi risultava difficile ogni volta dire anche solamente “grazie”. Tutto ciò che facevo era arrossire, e a volte abbassare gli occhi; rari erano i ringraziamenti che mi uscivano di bocca.
Come se non avesse detto niente, ritirò la mano e la saldò al volante; sbirciai di nascosto e, con mio sollievo, vidi che era ben impegnato a guardare la strada.
«Vedi, qui c’è un supermercato, puoi venire a far spesa.» spiegò a un tratto rallentando. «Ti prendi la macchina e vieni qui quando vuoi.» poi parve rabbuiarsi. «Mi dispiace molto, ma è già tanto che ti è stata data una camera. Il ristorante è solo per i clienti e, be’, proprio non posso farti venire e -»
«Papà.»
Rallentò e fermò l’auto.
Mi faceva uno strano effetto chiamarlo, tanto quanto averlo insieme a me in quell’abitacolo. Ma quello sarebbe stato solo l’inizio, avrei fatto bene a farci l’abitudine.
«Va bene. Hai fatto anche troppo, per una come me.»
Quelle parole non dette in faccia non sarebbero significate un bel niente, così mi voltai a incrociai i suoi occhi già puntati su di me. Sapevo che con quel “una come me” aveva intuito quanto mi sentissi in colpa per tutto quello che di cattivo che avevo fatto. Sperai che mi perdonasse, lo sperai davvero intensamente.
«Grazie di essere venuta.» mormorò emozionato.
In quel momento intuii che c’era qualcosa che non andava. Capivo cosa aveva negli occhi, la stessa cosa che portavo pesantemente io a Venezia: la solitudine.
«Sono qui.» lo rassicurai. «Non vado via.»
Come se i ruoli si fossero invertiti, fui io a infondergli calma come un genitore: appoggiai una mano sulla sua spalla e lui ci lasciò subito un leggero bacio.
«Forza, andiamo.» sorrisi allegra.
Non volevo perdermi in dolcezze e momenti emozionanti. Non di già, almeno.
Il motore riprese a ruggire e passai il resto del brevissimo tratto osservando il paesaggio fuori dal finestrino. Fino al villaggio era tutta natura, per lo più campi secchi e piante di origine marittima; per arrivare al posto in questione si percorreva una larga ed isolata strada sterrata, che continuava per un chilometro e mezzo da l’asfalto di una via principale e spesso trafficata, come in quel momento, che portava ad una spiaggia mozzafiato e per questo spesso percorsa dalla gente.
«Quindi ci sei già stato qui?» gli avevo chiesto, ma parve più un’affermazione.
«Sì.» cambiò marcia. «E’ il secondo anno che ci lavoro. E il posto è bellissimo, Margherita, bello davvero. Per una ragazza come te poi è un luogo pieno di distrazioni.»
Non spiegò altro, ma questo quasi mi bastava. Potevo finalmente vivermi per bene i miei venticinque anni, anche se per una sola estate. Era forse arrivata la svolta che tanto desideravo.
«Eccoci.»
Inaspettatamente, dietro una curva, c’era un cancello di legno scuro, di media altezza e con un’insegna che nominava il posto; ai lati piante fitte di margherite di tutte le grandezze occupavano vasi di pietra bianca.
«E’ proprio per te, guarda.» rise indicando i fiori, mentre con l’altra mano effettuava una svolta.
Mentre ancora sorridevo come una bambina a quell’osservazione, parcheggiò il veicolo in un parcheggio all’aperto ma riparato dal sole da pannelli di scura plastica, spense la macchina e aprì la portiera; io feci uguale, raggiunsi il cofano per prendere i bagagli e li tirai giù attenta a non far prendere loro un brutto colpo. Con un trolley, ci avvicinammo all’entrata di legno; questa fu aperta manualmente e ci ritrovammo all’interno del villaggio. Non che si vedesse ancora molto, ma sapevo che quello sarebbe stato un qualcosa di meraviglioso, me lo sentivo dentro. Ne ero quasi sicura, mi fidavo sempre ciecamente del mio istinto.
Ci trovavamo su una spaziosa e dritta strada di cemento, e alla mia sinistra si alzava una grossa casa dalle mura color pesca, a due piani, con una scala in pietra bianca che portava al secondo livello, nascosto però da un muretto che faceva da parapetto ad un balcone; anche il muro era colmo di fiori dagli accesi e caldi colori estivi e ricadevano sulla tettoia sottostante come riccioli morbidi. A destra della strada, invece, un alto e pulito canneto che ostacolava la vista, ma per niente brutto da osservare. In fondo alla via si poteva intravedere un altro parcheggio semipieno.
Scantandomi dal paesaggio meraviglioso, passai il trolley all’altra mano e feci un altro passo sull’asfalto cocente, ma l’uomo mi fermò gentilmente.
«Dove scappi?» rise. «Tu stai qui.»
Voltandomi verso lui, lo trovai che indicava la casa pesca sorridendo lievemente.
«Ah.»
Non sapevo se era sorpresa o delusione. Be’, dovevo comunque immaginare che essendomi stata riservata una camera da parte di mio padre non avrei potuto avere una stanza lussuosa o cose del genere, ma era ancora tutto da scoprire, per me.
«Questi sono gli appartamenti per il personale.» spiegò iniziando a salire le scale. «Non che tu sia del personale, ma sei comunque mia figlia.»
«Devo prenderla come una cattiva cosa?» sorrisi divertita, mentre a sguardo basso salivo gli scalini.
«Io non direi.»
Un balcone non molto sottile e né troppo lungo era ricoperto da mattonelle chiare e lisce, in abbinamento alle pareti. Alla fine del pavimento, una porta ricoperta a metà da un vetro ondeggiato e che privava di vedere all’interno; a sinistra, di fronte al parapetto e leggermente lontano dall’altro uscio, una uguale. Avevo dunque un vicino, non era male come inizio. Anche se contavo di fare più conoscenze possibili, per distruggere l’eremita che c’era in me da tanti anni.
«Tieni.»
Aprii la mano e ci poggiò dentro un paio di chiavi grigie, appese ad un portachiavi elementare e circolare e accompagnate da un porta-targhette verde; dentro c’era il numero 127 scritto a pennarello.
«Quindi quella è tua?» domandai indicando con un cenno del mento la porta di fondo.
«No.» scosse la testa. «Io vivo a due minuti di macchina da qui, in una casina sulla strada sterrata che abbiamo percorso prima.»
Non potevo crederci. Era così lontano? Non certo a una grandissima distanza, ma per una come me che contava di riallacciare ben stretti i rapporti, anche due minuti di auto potevano sembrare chilometri e chilometri.
«Va bene lo stesso. Verrò a trovarti quando posso, la sera, credo, quando stacchi…»
Parlavo e mi organizzavo piani, quando in realtà non conoscevo il suo turno di lavoro, i suoi ritmi.
«Allora ripariamo?» arrossì sorridendo.
Capii al volo cosa intendeva, e di risposta lo abbracciai leggero.
«Sì, ripariamo.» sussurrai al suo orecchio.
Sciolti dall’abbraccio, ci guardammo un po’ negli occhi, poi fece per andare via.
«Forza, devo andare. In cucina mi aspettano.»
Annuii con calma e pensai a quanto potesse essere bello riaverlo vicino. Senza accorgermene, mi era mancato.
«Ah, papà!» lo chiamai quando era arrivato al pianerottolo di spezzo. «Levami ‘na curiosità.»
«Dimmi tutto, Strega.»
Assaporai per un attimo quel soprannome che tanto avevo amato da piccola, e anche adesso, ripensandoci.
«Chi ci abita accanto a me?»
Rise sotto i baffi e la cosa mi convinse molto poco, poi aggiustando la piega alle maniche, parlò: «La direttrice.»
«Cosa mi stai dicendo?!» sbraitai sconvolta. «Sei serio?»
«Serissimo.»
«Uh mammà.» mi lasciai sfuggire.
Rise ancora, poi salutò con la mano e scomparve giù per le scale.
Credevo in un vicino migliore, e invece mi sarei accontentata del capo dell’albergo. Almeno era una donna, e almeno era grazie a lei se in quel momento mi trovavo davanti a quell’appartamento, vicino a mio padre.
  
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