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Autore: Deruchette    26/10/2020    3 recensioni
[La storia segue lo svolgersi degli eventi dall'epilogo di "Hunger Games" all'epilogo di "Mockingjay"]
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Katniss e Peeta, gli Innamorati Sventurati del Distretto 12, i vincitori della 74esima edizione degli Hunger Games.
La loro storia è sotto gli occhi di tutti ma solo in pochi sanno che, in realtà, si tratta solo di finzione. La mossa strategica che li ha portati via dall'arena è costretta a continuare anche adesso che il sipario inizia a calare sull'ultima edizione dei giochi.
E se ad un certo punto la finzione si trasformasse in realtà?
Cosa succederebbe se gli Innamorati Sventurati fossero realmente innamorati?
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Dal capitolo 6:
"È evidente, chiaro come il sole, che è tutto cambiato. Che il ragazzo che all’inizio di quest'avventura consideravo un semplice amico, un alleato, adesso è diventato qualcos’altro. Per settimane mi sono chiesta se non fosse sbagliato nei suoi confronti recitare la parte della brava fidanzatina conoscendo la reale portata dei suoi sentimenti, sapendo che io non provavo la stessa cosa. Non sarebbe tutto più semplice se ti amassi?, la domanda che ronzava costantemente nella mia testa.
Ora lo so. Non solo è più semplice, più normale. È diventato anche necessario. Necessario come l’aria che respiro."
Genere: Drammatico, Generale, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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In The Still Of The Night - 24

Siamo arrivati esattamente a metà percorso; questo capitolo ed il prossimo faranno da spartiacque tra la prima e la seconda parte della fanfiction :)
Ci leggiamo nelle note di fine capitolo – non saltatele, mi raccomando ;)

 

 

 

In the still of the night

 
 

 

 

 

24.

 

Ho la testa in fiamme. Tutto il mio corpo è in fiamme. Il braccio mi fa male nel punto in cui Johanna ha conficcato il suo coltello. Perdo l’equilibrio e cado in ginocchio, sulle mani. Cerco di rialzarmi, ma un conato di vomito mi assale e sono costretta a fermarmi mentre rigetto la mia ultima cena.
È chiaro, ormai: non sopravviverò oltre questa notte.
Il piano è andato a puttane, letteralmente a puttane. Forse non c’è mai stato un vero piano: è di nuovo tutto chiaro, e avrei dovuto arrivarci prima. Ma ero così cieca, così fiduciosa sulla sincerità di chi mi circondava, da non avergli dato il peso e l’importanza che necessitava davvero. Mi sono fidata di Haymitch e del braccialetto che lui ha consegnato a Finnick: se si era fidato così tanto di lui da convincerlo a diventare mio alleato, allora avrei dovuto farlo anche io.
Ma Finnick non ha mai avuto la seria intenzione di essermi amico.
Tutto procedeva secondo i piani, fino a che Beetee non ha proposto a me e a Johanna di srotolare il filo lungo tutto il settore dell’arena, fino ad arrivare alla spiaggia. Aveva appena finito di preparare l’albero, e l’onda delle dieci si era già abbattuta sull’arena con tutta la sua forza. Mancava sempre meno all’ora decisiva.
- Siete le più agili, a muovervi nella giungla – ha detto.
Peeta si è opposto alla sua decisione, naturalmente. – No, vado io con Johanna. Katniss potrebbe non essere abbastanza veloce.
- Nemmeno tu lo sei, Peeta. E tu mi servi qui per fare la guardia.
- Basta! Il piano è di Beetee, quindi dobbiamo seguire le sue indicazioni senza discutere – la voce seccata di Johanna ha messo a tacere ogni altra lamentela, e ha preso la spoletta di filo dalle mani di Beetee per enfatizzare il messaggio.
Peeta mi ha guardata come se non credesse a ciò che stava succedendo. Neanche io ero felice della nuova svolta: allontanarmi da Peeta significava perderlo di vista. Avrebbe potuto voler dire perderlo, se qualcosa fosse andata storta. Non averlo sotto gli occhi ogni secondo mi rendeva ansiosa. E per lui era la stessa identica cosa. L’ultima volta che ci siamo divisi ho subito l’attacco delle ghiandaie chiacchierone; il settore delle quattro è ancora lontano, però potremmo incappare in qualcosa di altrettanto spiacevole, se non pericoloso.
Ho voluto fidarmi lo stesso, stupidamente aggiungerei. Mi sono fidata del piano. Mi sono fidata dei miei alleati.
- Va bene così, Peeta – ho detto. Mi sono avvicinata a lui e gli ho dato un bacio sulle labbra. Ho sorriso contro di esse, cercando di mostrarmi tranquilla e fiduciosa. Peeta mi ha stretta forte a sé e ha baciato il mio sorriso. Non lo ha ricambiato, però.
- Fa attenzione – ha detto, la voce carica di tensione.
Ci vediamo a mezzanotte – gli ho sussurrato prima di allontanarmi insieme a Johanna.
Lei era agile davvero, mentre procedeva nel buio della giungla srotolando il filo passo dopo passo. Io la seguivo, a passo incerto, e mi guardavo intorno con una freccia già incoccata nell’arco e pronta all’uso. Ero più ansiosa per ciò che lasciavamo all’albero… per chi lasciavamo all’albero. Ma siamo avanzate comunque, guadagnando terreno, mentre i minuti scorrevano. Il tempo scorreva, anche se non sapevamo se in modo lento o veloce.
- Meglio che ci sbrighiamo – ha detto Johanna. – Voglio mettere un bel po' di strada tra me e l’acqua prima che cada il fulmine. Nel caso Lampadina abbia sbagliato qualche calcolo
Ed è stato allora che qualcosa è cambiato. Il filo metallico, che avevo appena preso per dare il cambio a Johanna, è diventato più lento. Non c’era più nulla, dall’altro capo, ad opporre resistenza, e quello che avevamo srotolato fino a quel momento ha cominciato ad ammucchiarsi attorno ai nostri piedi. Non poteva essersi spezzato accidentalmente. Era stato tranciato di netto.
Insieme al filo, giunsero i rumori dei passi che si avvicinavano a noi.
Ho fatto cadere a terra la spoletta e mi sono voltata, la freccia già incoccata e pronta a colpire.
- Scusa – ha detto Johanna alle mie spalle.
La spoletta mi ha colpito alla testa. Sono caduta di peso, colpendo il terreno sotto di me con forza. Ho iniziato a perdere la vista e, forse, anche conoscenza. Deve essere stata una questione di secondi, o istanti, perché Johanna era ancora accanto a me quando ha iniziato ad armeggiare col mio braccio. Un dolore lancinante è andato a sommarsi con quello che già provavo alla testa. Ho provato ad urlare, ma mi sembrava di aver perso anche la voce. Non è uscito nulla dalle mie labbra, a parte un rantolo.
- Zitta! E sta giù! – mi ha sibilato lei, premendo una mano viscida sulla mia bocca.
Si è rialzata e due secondi dopo è già sparita, lasciandomi stesa a terra in mezzo alle piante. Nonostante la confusione in cui mi ha fatta sprofondare – perché è stata lei, a colpirmi con la spoletta -, sono riuscita a percepire il sangue che lasciava il mio corpo dalla ferita al braccio. Sentivo il sangue che ha cosparso sul mio viso, bagnato e caldo. Riuscivo a sentire i passi di chi mi si stava avvicinando. Nemici? Alleati?

Ma ci sono ancora delle persone, qui dentro, che posso definire alleati?, la domanda che vorticava veloce nella mia testa.
Non mi sono mossa quando le gambe di due persone mi sono corse davanti. Si sono soffermate per poco su di me e sullo stato in cui, apparentemente, vertevano le mie condizioni.
- È praticamente morta – ha detto Brutus alla sua compagna. Hanno ripreso a correre, seguendo la scia disordinata che si è lasciata dietro Johanna scappando.
Sto morendo? Davvero? L’ho desiderato così tanto, ultimamente, che non mi sembra vero. Sta succedendo davvero. Sto morendo. Peeta non me lo perdonerà mai
Peeta.
Il suo nome è l’unica cosa che mi fa rimettere in piedi. O almeno ci provo. La vista ondeggia, la testa pulsa, il braccio brucia. E quando mi sollevo, facendo forza sulle mani, una morsa di dolore invade il mio ventre. Boccheggio, cercando di respirare dal naso. Ho i denti contratti per impedire a me stessa di urlare. Non devo urlare, non posso farlo. Se urlo, i Favoriti capiranno che non sono ancora morta e torneranno indietro per finirmi. Ma non posso morire prima di aver raggiunto Peeta. Prima di avergli dato l’addio. Glielo devo, almeno questo…
Riesco ad alzarmi e a fare pochi passi prima di vomitare. Cado carponi, e resto così per un po', aspettando che passino sia la nausea che la fitta alla testa. Inizio a risalire la collina, quasi strisciando sul terreno. Mi devo fermare appena mi accorgo dei passi che si avvicinano. Altri passi. Sono davanti a me, e sono velocissimi. Non possono essere i Favoriti, loro sono scesi più in basso… no, può essere eccome uno di loro. Solo che non l’ho mai considerato tale fino a cinque minuti fa.
Può essere una persona sola.
Ed è Finnick, infatti. Mi appiattisco contro il terreno, lieta di avere davanti una sorta di siepe a coprirmi ulteriormente. Strizzo gli occhi mentre cerco di metterlo a fuoco, e mi mordo una mano quando un’altra fitta, forse anche più forte della prima, trafigge la mia pancia. Ancora una volta, non devo urlare. Finnick non deve sapere che sono qui, non ora che l’alleanza è finita. Non vedendomi, non mi ucciderà.
- Katniss! Johanna! – sussurra, guardandosi intorno. Quando capisce che non siamo lì, torna a discendere la collina a rotta di collo.
Ansimo, tornando a guardare il folto della giungla che si dirama ondeggiando davanti ai miei occhi. Ricomincio la salita, ma stavolta riesco a farlo come si deve: riesco ad alzarmi, e avanzo usando e prendendo qualsiasi cosa come appiglio. Alberi, foglie, il mio stesso arco… devo fermarmi più e più volte perché le fitte alla pancia non mi danno tregua, e arrivano ad intermittenza. Più vicine, per di più: sono sempre più vicine.
- No – grugnisco, graffiando il terreno, quando capisco cosa sta succedendo. Non puoi farlo proprio ora, penso. Non posso perderti proprio ora. – Perché… – mormoro.
L’ho pensato così tante volte. L’ho detto così tante volte da esserne ormai pienamente convinta. Ero sicura di questo, ormai. Ero più che sicura che non avrei mai, mai avuto l’opportunità di portare a termine la gravidanza, che non avrei mai avuto la possibilità di metterla al mondo come invece merita. Sapevo che non sarei mai riuscita a salvare la mia bambina dall’orrore di questo mondo. Pensavo che se fosse dovuto accadere sarebbe stato molto prima di adesso: il bagno di sangue, la nebbia velenosa, le scimmie. La mia caduta in acqua… ci sono state così tante occasioni in cui avrei potuto perderla e mi sono illusa, in qualche modo, che se non era ancora accaduto avrebbe potuto essere un buon segno.
Buon segno di cosa?
Ma adesso che sta succedendo, mi sento persa. Ho paura. Ho paura, e non voglio che succeda. Non voglio sentire la sua vita che scivola via, che mi abbandona. Non voglio perderla.

Non succederà, mi autoconvinco. Non sta succedendo. La mia bambina non sta morendo.
Continuo ad avanzare con questo mantra impresso nella mente, tra le fitte che continuano ad invadere il mio corpo e i capogiri che annebbiano la mia vista. Quando raggiungo l’albero dei fulmini, penso che sia una sorta di miracolo. O di miraggio. Entrambe le risposte sono accettabili, arrivati a questo punto.
Non c’è nessuno attorno al tronco ricoperto di filo dorato. Non ci sono né Beetee né Peeta. Finnick è da qualche parte più in basso, impegnato a cercare me e Johanna.
Il colpo di cannone mi fa sobbalzare ed urlare allo stesso tempo. Non so chi è morto. Non saprò mai chi è morto. Forse, tra non molto, lo incontrerò io stessa, e allora capirò di chi si tratta.
Un mugolio, proveniente da un punto non molto distante dall’albero, mi trascina fino a lui. – Peeta – mormoro, ma scopro che è Beetee. È incosciente ed irrigidito in una strana posa, ad occhi chiusi. Se non fosse per i mugolii sommessi che si fa scappare ogni tanto, penserei che il cannone ha sparato per la sua morte. Ma Beetee è vivo, è ancora vivo. A morire è stato qualcun altro.
Stavolta non trattengo le urla quando il dolore arriva. Mi accascio su me stessa, impotente, e premo con le mani sulla parte inferiore del mio corpo come se, in questo modo, potessi riuscire a fermare il tutto, ma sembra anche peggio. Il dolore della contrazione è peggiore.
È inutile ignorarne il nome quando sai alla perfezione di cosa si tratta. È inutile provarci, come se evitare di pronunciare quel nome, o non vederle per quello che sono in realtà, le rendano meno spaventose. Sono contrazioni, quelle che annunciano l’inizio di un parto prematuro. O di un aborto. Entrambe le opzioni sono terrificanti.
Qualcosa di bagnato mi cola tra le gambe.
- No – mi lamento, mettendo le mani in quella roba liquida che viene assorbita dal terreno. È troppo buio per constatare se si tratti di sangue o altro. In entrambi i casi, può portare con sé un solo significato.
La mia bambina sta morendo.
Ed io non ho nessuna speranza di salvarla.
Sto ancora piangendo, raspando il terreno con le dita, quando le mie mani incontrano la lama di un coltello. Un coltello legato al filo metallico di Beetee. Perché il filo è legato ad un coltello? Cosa stava cercando di fare Beetee? È per colpa di questo coltello che si è ferito?
Mille domande mi attraversano la mente, ma non so dare loro una sola, misera risposta. Non riesco a pensare a null’altro che non sia la vita che sta abbandonando il corpicino di mia figlia. Ma devo smettere di pensare anche a questo, nel momento in cui sento troppe cose avvenire contemporaneamente. La voce di Peeta che urla il mio nome, il cannone che spara di nuovo, e il fruscio della vegetazione che viene spostata da dei corpi in movimento.
- Peeta! – lo chiamo a mia volta. – Peeta!
Come se stessero aspettando solamente il mio segnale per rivelare la loro presenza, Finnick ed Enobaria appaiono a pochi metri di distanza, l’uno che insegue l’altra. Non mi notano, nascosta come sono dal tronco dell’albero. E questo vantaggio che ho su di loro mi permette di puntare una freccia proprio nella loro direzione, pronta a scoccarla al primo momento buono. Posso ucciderli entrambi senza che nessuno di loro abbia la minima idea di chi sia stato a mandarli al Creatore, così Peeta avrà due tributi in meno a cui pensare. Sarà più vicino alla vittoria, con due nemici in meno.
Nemici.

Ricorda chi è il vero nemico.
Abbasso la freccia. Smetto di provare ad uccidere Finnick ed Enobaria. Le parole di Haymitch sembrano così vere, come se lui fosse qui accanto a me, a pronunciarle dritte nel mio orecchio. Lo rivedo, davanti all’ascensore, mentre ci saluta prima di ritirarsi per la notte. La notte prima dell’inizio dell’Edizione della Memoria.
Nemico. Ricorda chi è il vero nemico.
Guardo il coltello, guardo il filo dorato che ne avvolge il manico. Col respiro pesante, guardo la fitta vegetazione alla mia sinistra. A pochi metri da dove ci troviamo io e Beetee c’è il campo di forza. Nel punto più alto riesco a vedere lo sfarfallio, il pannello scoperto, il punto debole, come lui mi ha insegnato a riconoscerlo al centro di addestramento. Un tuono annuncia l’arrivo della tempesta di fulmini. Guardo le nubi scure riunitesi sopra alla mia testa, oltre le fronde degli alberi, e capisco cosa ha cercato di fare Beetee. Capisco cosa devo fare io adesso.
Tutto, improvvisamente, acquista un senso.
Sciolgo il filo e inizio ad avvolgerlo attorno all’estremità della mia freccia, trattenendo a stento un urlo per l’arrivo di un'altra contrazione. Riesco a cogliere il momento in cui Finnick capisce che mi trovo lì, a diversi metri di distanza da dove si trova lui.
- Katniss! Vattene via da lì! – urla, sovrastando il ringhio di Enobaria che approfitta proprio del suo attimo di distrazione per riprendere ad attaccarlo. – Allontanati da quell’albero!

No che non mi allontano.
Col volto rigato dalle lacrime, in preda al dolore e alla paura, mi sollevo sulle ginocchia e tendo l’arco, puntando la freccia contro il campo di forza, contro il pannello rivelatore. Aspetto, conto i secondi che mancano al prossimo tuono, certa che porterà con sé anche il primo fulmine della mezzanotte. Certa di poter portare a termine ciò in cui non è riuscito Beetee.
- Katniss, allontanati!
Avviene tutto in fretta.
Lancio la freccia nell’esatto istante in cui il cielo si illumina di pura luce bianca, nell’esatto istante in cui sento la contrazione invadermi le viscere e che mi fa urlare dalla disperazione. Nell’esatto istante in cui il fulmine colpisce l’albero, la freccia svanisce attraverso il campo di forza. Per un secondo non accade niente. E poi…
La potenza dell’impatto è tale da sbalzarmi via dal punto in cui ero accasciata. Sbalza via tutto ciò che ha intorno, compresi Finnick ed Enobaria. Il mio corpo urta il suolo, sento qualcosa che si rompe. Ma non mi interessa scoprire cosa si è rotto. Nulla ha più importanza.
Ho gli occhi pieni di luce mentre muoio.

 

Morire è strano.
Non ci sono rumori, non c’è luce. Non c’è assolutamente niente, quando muori. Non c’è più nemmeno il senso del tempo o dello spazio. La sensazione che si ha è quella di vagare nel buio, e non hai la possibilità di toccare nulla, o di camminare. I miei piedi non toccano il suolo, le mie mani non incontrano nulla da sfiorare. Mi muovo, ma se non lo facessi sarebbe la stessa, identica cosa. Non sento il mio corpo muoversi, non sento i miei occhi aprirsi, la mia bocca parlare. Non vedo nulla, e dalle mie labbra non esce nessun tipo di suono.
È questa, allora, la morte?
Come si fa a trascorrere l’eternità in un posto del genere?
Come posso anche solo cercare di cavarmela in questo vuoto aldilà?
Mi sposto come se stessi nuotando in un mare nero, un mare che non ha calore né gelo, un mare che non bagna la pelle. Esiste ancora, la mia pelle? O il mio intero corpo è andato perduto per sempre? Forse i corpi non sono ammessi, qui nell’aldilà. Forse, quando muori, nient’altro può seguirti se non la tua anima, la tua coscienza. È per questo che non lo percepisco più. Niente corpo, niente peso. Forse il mio corpo era troppo compromesso per seguirmi nella morte.
Mi dispiace. Se non ho un corpo, non posso toccare la perla di Peeta. Non posso avere con me il suo ultimo regalo. Mi avrebbe rassicurata, sentire quella piccola sfera stretta tra le dita.
La perla prende improvvisamente forma davanti ai miei occhi. Mi sorprendo. Riesco a vedere! Ma il resto cambia poco: non sento altro. La sorpresa svanisce così com’è arrivata. Mi lancio in avanti e nuoto, cerco di avvicinarmi alla perla per afferrarla, ma è tutto inutile. Quella rimane a debita distanza da me. Non mi sono mossa affatto. Sono impotente, esterrefatta da questa consapevolezza.

Perché non riesco a muovermi?
Deve essere un brutto scherzo, per forza. Non può essere davvero l’aldilà, questo posto. Non posso passare l’eternità a guardare una perla che non riuscirò mai ad afferrare.
Guardo in alto, in basso, in ogni direzione in cui mi è possibile voltare la testa, e tutto ciò che vedono i miei occhi è il buio. L’unica punta di colore è rappresentata dalla perla. Quella dannata perla, che adesso si sta muovendo.
Si sta allontanando da me.
- No! – urlo, o provo ad urlare. Non lo so. La mia voce non esiste, qui.
Corro, nuoto, salto in avanti. Compio tutti i movimenti possibili ed immaginabili per provare a starle dietro, ma la perla è più veloce di me e scivola via ad una velocità impressionante. Non la vedo più, ad un certo punto. È di nuovo tutto buio.
- Aiuto! – urlo. Le mie orecchie non sentono niente. – C’è qualcuno? Aiutatemi!
Non posso essere l’unica persona presente, qui. Ci deve essere per forza qualcun altro! Dove sono finiti gli altri tributi morti nell’Edizione della Memoria? Dov’è Mags? Dov’è Wiress? Dove sono… dove sono andati tutti quanti?
Li chiamo a gran voce, ma nessuno giunge in mio aiuto. Chiamo Rue, chiamo Mags, chiamo mio padre. Chiamo tutte le persone che ho conosciuto e che hanno lasciato il mondo tempo prima di me, ma invano. Sono sola, qui. Completamente da sola. Ma non voglio arrendermi. Mi intestardisco, come al solito quando qualcosa non va come dico io.
- Papà! – esclamo. – Rue! Mags!
Questo non è un luogo adatto per riposare. Questo deve essere il mio inferno personale.
- Peeta! – urlo il suo nome, ben sapendo che lui non può essere qui con me.
Peeta è vivo, è sicuramente vivo. Sono morta io al suo posto, come avevo deciso sin dal principio. Lui non aveva nessuna colpa per essere di nuovo condannato agli Hunger Games: se si è ritrovato di nuovo nell’arena lo dovevo solo a me, e a me soltanto. Peeta vive, io muoio: il patto che ho stretto con Haymitch.
Anche Haymitch deve essere vivo. Effie e Cinna: anche loro sono vivi? La mamma, Prim, Gale, tutti quelli del Distretto 12… sono tutti vivi?
- Prim! – quello di mia sorella è il primo della lunga lista di nomi che comincio ad urlare senza sapere se li sto pronunciando nel modo giusto. Qui è impossibile capire alcunché.
Ma nel farlo, qualcosa muta.
Ho di nuovo la sensibilità. È concentrata solo sulla punta delle dita, ma è un cambiamento, un grande cambiamento rispetto al nulla totale di poco fa. Anche la mia voce inizia a sentirsi. O forse lei c’è sempre stata, e sono semplicemente le mie orecchie che, come una radio, hanno raggiunto la giusta frequenza per captarla. Continuo a chiamare i nomi dei vivi.
La sensibilità aumenta, si propaga alle mani, alle braccia… lentamente, avviene la stessa cosa sulle dita dei piedi, e poi alle gambe. Sembra un’eternità, ma alla fine ho di nuovo un corpo: un corpo pesante, un corpo che fa male ad ogni movimento che compio. L’ultima cosa che riacquisto è il senso della vista. All’inizio è offuscata, ma diventa più chiara ad ogni battito di ciglia. Ci vedo di nuovo. Forse, la perla di prima non era una vera immagine captata dai miei occhi.
Sono nuda, in questo buio uniforme. Ma oltre a me non c’è nessun’altro, quindi la nudità è proprio l’ultimo dei miei problemi. Le mie braccia sono piene di graffi e lividi, le mie mani sono sporche di sangue. Di chi è questo sangue? Chi ho ucciso?
L’ultima cosa che ricordo è la freccia che ho scagliato contro il campo di forza. Non posso aver ucciso un campo di forza, è impossibile: non hanno sangue, non sono vivi. Continuo a guardare le mie mani, confusa e orripilata allo stesso tempo. Smetto di respirare mentre penso a come ho rimediato questo sangue. Solo che non respiro. Ci provo, ma i miei polmoni non inglobano aria. Il mio petto non si gonfia e non si abbassa, perché i polmoni hanno smesso di compiere il lavoro che era stato loro affidato. Non ho più bisogno di respirare, qui. Poso una mano sul petto e ciò che mi aspettavo di sentire contro il palmo, un cuore pulsante, non arriva. Non c’è nessun battito. Il mio cuore è fermo.

Sono davvero morta.
Guardo in basso, scoprendo altre ferite e altro sangue. Tagli, segni di ustioni, lividi… e tanto, tanto sangue sulla parte inferiore del mio corpo. C’è un morso sul mio polpaccio, e delle macchie rosse tra le cosce. C’è del sangue che circonda le mie parti intime.
E capisco a chi appartiene questo sangue.
Perché dove fino a poco fa c’era una persona, custodita all’interno del mio corpo, adesso c’è soltanto un addome vuoto e piatto.
- No! – è il mio urlo disperato. Inizio a piangere, ma non ci sono lacrime a lasciare i miei occhi. In questo posto non esistono le lacrime.

È davvero il mio inferno personale.
Il mio inferno personale mi sta ricordando che ho condannato a morte la mia figlia non ancora nata.
- Peeta! – chiamo l’unico nome che potrebbe aiutarmi in questo momento, l’unico che vorrei davvero qui con me. L’unico a cui potrei aggrapparmi, adesso che so che è accaduto l’inevitabile, l’impensabile. Adesso che la nostra bambina non c’è più. Ho bisogno di lui, anche se è vivo.
Anche se volerlo qui con me significa vederlo morire.
- PEETA!
Una luce accecante ed un calore improvviso invade i miei occhi e sono costretta ad usare le mani per schermarla almeno un poco. La luce proviene da un piccolo, insignificante puntino che si staglia nell’orizzonte buio. Come può un puntino del genere scatenare una tale luce?
La luce mi attira a sé. Cerco di puntare i piedi, di aggrapparmi a qualcosa, adesso che ho di nuovo un corpo da usare, ma qui non c’è nulla a cui aggrapparsi. Scivolo, anzi, vengo trascinata via da questa forza inspiegabile e sovrannaturale. Urlo, vedendo la luce aumentare ed il puntino ingrandirsi. Diventa sempre più grande. È un sole, non è più un puntino di luce innocua.
Sto andando verso il sole.
Urlo, coprendomi la faccia con le braccia.
Penso a Peeta durante l’impatto.

 

Fa male. Tutto fa male, persino respirare. Uno strano odore mi riempie le narici. Una forte luce mi acceca gli occhi che tengo ancora chiusi. Provo a girare la testa per evitarla, ma la testa è pesante, ed il collo non sembra voler collaborare. Provo allora ad alzare una mano per coprire gli occhi, perché questa luce è davvero troppo fastidiosa e amplifica il mio mal di testa, ma c’è qualcosa che fa opposizione ed impedisce il mio movimento.
- Non muoverti, tesoro – mormora una voce.

Questa voce. La riconoscerei sempre, anche in mezzo ad altre migliaia di voci. Pensavo che non l’avrei più sentita in vita mia, questa voce…
- Mamma? – è un pigolio sommesso, il mio.
- Sono qui – risponde mia madre.
Mia madre è qui? Com’è possibile? Se si trova insieme a me, allora…
- Sei… morta…
- Non è morta – dice un’altra delle mie voci preferite. – E non sei morta neanche tu, Katniss.
- Prim?
La risposta arriva sotto forma di carezza sul dorso della mia mano. Entrambe le donne della mia vita sono qui, poste ai due lati del mio corpo, e mi stanno stringendo le mani. Com’è potuta accadere una cosa del genere? Combatto contro la luce e sollevo appena le palpebre, creando un piccolo spiraglio, ma è abbastanza per vedere i loro volti. Mia madre sta sorridendo, il sorriso lacrimoso di chi non ha più lacrime da versare. Forse posso prestargliene un po' delle mie… ma qui non posso piangere. Me lo stavo dimenticando. In questo posto non ci sono lacrime.

Non sei morta neanche tu, Katniss, ha detto Prim. Quindi vuol dire che sono viva? Ma sono stata all’inferno, l’ho visto! Come posso essere ancora viva?
- Cosa… è successo? – farfuglio, strizzando gli occhi.
- Non ora, tesoro. Devi riposare, è tutto ciò di cui hai bisogno adesso – mi zittisce la mamma, posando una mano sulla mia testa. La sento, leggera, sfiorare appena la pelle della mia fronte. – C’è tempo per le domande.
Gli occhi si stanno abituando alla luce e non sentono più il fastidio di poco fa. Riesco a tenerli aperti quasi del tutto, adesso, fissi su un soffitto alto e grigio. È un soffitto di cemento? Alla mia destra, proprio dietro la testa di Prim, c’è una tenda tirata, anch’essa di colore grigio. Ci sono un sacco di macchinari, attorno a me, che ronzano ed emettono tanti “bip”.
In quale strano posto sono capitata?
Guardo davanti a me e vedo che sono sdraiata su un letto; di fronte al mio ce n’è un altro, ma è vuoto. Le lenzuola con cui mi hanno coperta – grigie – emettono uno strano fruscio quando provo a muovere i piedi e le gambe. È bello scoprire che rispondono ai miei comandi, anche se fanno male. Non è come all’inferno, all’inizio, quando non riuscivo a sentire nulla e pensavo di non avere più un corpo da comandare. Quell’inferno non era reale… o almeno, gran parte di esso non lo era.
C’è solo una cosa vera, sia all’inferno che qui, nella realtà.
La pancia vuota.
Mugolo, tentando di mettere abbastanza forza nelle mie braccia da eludere la presa di mia madre, o quella di Prim, ma nessuna delle due me lo lascia fare. I singhiozzi arrivano, forti, a squassare il mio petto. Il dolore si intensifica e lo accolgo con piacere, perché ho bisogno di sentire il dolore. Mi merito tutto il dolore che sto provando. Merito di morire per quello che le ho fatto. Perché non mi hanno lasciata morire insieme a lei?
- Katniss – Prim cerca di calmarmi mettendo le sue mani sulle mie spalle. – Non fare così, ti prego.
- Dov’è… - biascico, mentre un singhiozzo più forte mi mozza il fiato nei polmoni. – Dov’è lei? Dov’è la mia bambina…
- Tesoro mio, mi dispiace tanto – bisbiglia mia madre. Inizia a stringere con ancora più forza la mia mano.
Punto gli occhi nei suoi e cerco di trovare, attraverso di essi, una risposta diversa da ciò che ho davanti. Cerco, ma non trovo altro che dolore. I suoi occhi, che credevo non avessero più lacrime da versare, adesso ne sono di nuovo pieni. Alcune scivolano giù, lungo le guance.
- Ti prego… – è una supplica, la mia, una supplica che si spezza insieme alla mia voce. Ti prego, dimmi che non è vero. Dimmi che non è morta.
La mia supplica non riceve la risposta sperata. Ne riceve un’altra. E fa male, sentirla, fa male come se qualcuno stesse affondando, lentamente, un coltello fin dentro al mio cuore. Il lamento che esce dalle mie labbra accompagna le sue parole.
- Mi dispiace così tanto – mormora, baciandomi la testa. – Lei non c’è più.

Lei.
La bambina di Peeta.

Non sono riuscita a proteggere la bambina di Peeta.

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So che non è ciò che vi aspettavate. So anche che non è facile da digerire. Non è stato facile neanche per me, credetemi.
Sento, però, di dovervi una spiegazione per ciò che avete appena finito di leggere.
All’inizio, quando questa storia ha cominciato a prendere forma, nella mia testa si sono delineate anche alcune linee da seguire: tante, a dire la verità, e purtroppo non potevo utilizzarle tutte. Però volevo, al di sopra di tutto, proseguire prendendo spunto dalle ipotesi che la stessa Collins ha inserito nei suoi libri: il matrimonio, la gravidanza… e la perdita del bambino.
“- Spargeremo la voce che ha perso il bambino per la scossa elettrica subita nell’arena – replica Plutarch. – Molto triste. Molto deplorevole.” – capitolo 6 de Il canto della rivolta.
La scelta di far perdere la bambina a Katniss nasce anche per via di un altro motivo: è una mia riflessione personale che ho maturato mentre facevo ricerche online sugli eventuali tributi in stato interessante che partecipavano agli Hunger Games. L’arena è già di per sé un luogo inospitale e pericoloso per una persona forte ed in salute, e la maggior parte di chi sopravvive ne esce traumatizzata; per una ragazza incinta tutto questo si moltiplica di non si sa quante volte. E come può una ragazza incinta sopravvivere, o cavarsela senza riportare traumi, conseguenze o ferite gravi, o anche solo sperare che il suo bambino ne esca incolume? Semplicemente, non può.
Lo so, è una visione molto pessimistica ma abbastanza logica.
È stato un passo difficile da seguire e spero di non essere sembrata indelicata nell’affrontare una tematica così importante – l’esperienza onirica di Katniss in questo mi è stata di grande aiuto. Ci ho messo tutta me stessa.
Grazie per essere arrivati fin qui

D.

   
 
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