Siamo arrivati esattamente a metà
percorso; questo capitolo ed il prossimo faranno da spartiacque tra la prima e
la seconda parte della fanfiction :)
Ci leggiamo nelle note di fine
capitolo – non saltatele, mi raccomando ;)
In the still of the night
24.
Ho
la testa in fiamme. Tutto il mio corpo è in fiamme. Il braccio mi fa male nel
punto in cui Johanna ha conficcato il suo coltello. Perdo l’equilibrio e cado
in ginocchio, sulle mani. Cerco di rialzarmi, ma un conato di vomito mi assale
e sono costretta a fermarmi mentre rigetto la mia ultima cena.
È
chiaro, ormai: non sopravviverò oltre questa notte.
Il
piano è andato a puttane, letteralmente a puttane. Forse non c’è mai stato un
vero piano: è di nuovo tutto chiaro, e avrei dovuto arrivarci prima. Ma ero
così cieca, così fiduciosa sulla sincerità di chi mi circondava, da non avergli
dato il peso e l’importanza che necessitava davvero. Mi sono fidata di Haymitch
e del braccialetto che lui ha consegnato a Finnick: se si era fidato così tanto
di lui da convincerlo a diventare mio alleato, allora avrei dovuto farlo anche
io.
Ma
Finnick non ha mai avuto la seria intenzione di essermi amico.
Tutto
procedeva secondo i piani, fino a che Beetee non ha proposto a me e a Johanna
di srotolare il filo lungo tutto il settore dell’arena, fino ad arrivare alla
spiaggia. Aveva appena finito di preparare l’albero, e l’onda delle dieci si
era già abbattuta sull’arena con tutta la sua forza. Mancava sempre meno
all’ora decisiva.
-
Siete le più agili, a muovervi nella giungla – ha detto.
Peeta
si è opposto alla sua decisione, naturalmente. – No, vado io con Johanna.
Katniss potrebbe non essere abbastanza veloce.
-
Nemmeno tu lo sei, Peeta. E tu mi servi qui per fare la guardia.
-
Basta! Il piano è di Beetee, quindi dobbiamo seguire le sue indicazioni senza
discutere – la voce seccata di Johanna ha messo a tacere ogni altra lamentela,
e ha preso la spoletta di filo dalle mani di Beetee per enfatizzare il
messaggio.
Peeta
mi ha guardata come se non credesse a ciò che stava succedendo. Neanche io ero
felice della nuova svolta: allontanarmi da Peeta significava perderlo di vista.
Avrebbe potuto voler dire perderlo, se qualcosa fosse andata storta. Non averlo
sotto gli occhi ogni secondo mi rendeva ansiosa. E per lui era la stessa identica
cosa. L’ultima volta che ci siamo divisi ho subito l’attacco delle ghiandaie
chiacchierone; il settore delle quattro è ancora lontano, però potremmo
incappare in qualcosa di altrettanto spiacevole, se non pericoloso.
Ho
voluto fidarmi lo stesso, stupidamente aggiungerei. Mi sono fidata del piano.
Mi sono fidata dei miei alleati.
-
Va bene così, Peeta – ho detto. Mi sono avvicinata a lui e gli ho dato un bacio
sulle labbra. Ho sorriso contro di esse, cercando di mostrarmi tranquilla e fiduciosa.
Peeta mi ha stretta forte a sé e ha baciato il mio sorriso. Non lo ha
ricambiato, però.
-
Fa attenzione – ha detto, la voce carica di tensione.
–
Ci vediamo a mezzanotte – gli ho sussurrato prima di allontanarmi
insieme a Johanna.
Lei
era agile davvero, mentre procedeva nel buio della giungla srotolando il filo
passo dopo passo. Io la seguivo, a passo incerto, e mi guardavo intorno con una
freccia già incoccata nell’arco e pronta all’uso. Ero più ansiosa per ciò che
lasciavamo all’albero… per chi lasciavamo all’albero. Ma siamo avanzate
comunque, guadagnando terreno, mentre i minuti scorrevano. Il tempo scorreva,
anche se non sapevamo se in modo lento o veloce.
-
Meglio che ci sbrighiamo – ha detto Johanna. – Voglio mettere un bel
po' di strada tra me e l’acqua prima che cada il fulmine. Nel caso Lampadina
abbia sbagliato qualche calcolo…
Ed
è stato allora che qualcosa è cambiato. Il filo metallico, che avevo appena
preso per dare il cambio a Johanna, è diventato più lento. Non c’era più nulla,
dall’altro capo, ad opporre resistenza, e quello che avevamo srotolato fino a
quel momento ha cominciato ad ammucchiarsi attorno ai nostri piedi. Non poteva
essersi spezzato accidentalmente. Era stato tranciato di netto.
Insieme
al filo, giunsero i rumori dei passi che si avvicinavano a noi.
Ho
fatto cadere a terra la spoletta e mi sono voltata, la freccia già incoccata e
pronta a colpire.
-
Scusa – ha detto Johanna alle mie spalle.
La
spoletta mi ha colpito alla testa. Sono caduta di peso, colpendo il terreno
sotto di me con forza. Ho iniziato a perdere la vista e, forse, anche
conoscenza. Deve essere stata una questione di secondi, o istanti, perché
Johanna era ancora accanto a me quando ha iniziato ad armeggiare col mio
braccio. Un dolore lancinante è andato a sommarsi con quello che già provavo alla
testa. Ho provato ad urlare, ma mi sembrava di aver perso anche la voce. Non è
uscito nulla dalle mie labbra, a parte un rantolo.
-
Zitta! E sta giù! – mi ha sibilato lei, premendo una mano viscida sulla
mia bocca.
Si
è rialzata e due secondi dopo è già sparita, lasciandomi stesa a terra in mezzo
alle piante. Nonostante la confusione in cui mi ha fatta sprofondare – perché è
stata lei, a colpirmi con la spoletta -, sono riuscita a percepire il
sangue che lasciava il mio corpo dalla ferita al braccio. Sentivo il sangue che
ha cosparso sul mio viso, bagnato e caldo. Riuscivo a sentire i passi di chi mi
si stava avvicinando. Nemici? Alleati?
Ma
ci sono ancora delle persone, qui dentro, che posso definire alleati?,
la domanda che vorticava veloce nella mia testa.
Non
mi sono mossa quando le gambe di due persone mi sono corse davanti. Si sono soffermate
per poco su di me e sullo stato in cui, apparentemente, vertevano le mie
condizioni.
-
È praticamente morta – ha detto Brutus alla sua compagna. Hanno ripreso
a correre, seguendo la scia disordinata che si è lasciata dietro Johanna
scappando.
Sto
morendo? Davvero? L’ho desiderato così tanto, ultimamente, che non mi sembra
vero. Sta succedendo davvero. Sto morendo. Peeta non me lo perdonerà mai…
Peeta.
Il
suo nome è l’unica cosa che mi fa rimettere in piedi. O almeno ci provo. La
vista ondeggia, la testa pulsa, il braccio brucia. E quando mi sollevo, facendo
forza sulle mani, una morsa di dolore invade il mio ventre. Boccheggio,
cercando di respirare dal naso. Ho i denti contratti per impedire a me stessa
di urlare. Non devo urlare, non posso farlo. Se urlo, i Favoriti capiranno che
non sono ancora morta e torneranno indietro per finirmi. Ma non posso morire
prima di aver raggiunto Peeta. Prima di avergli dato l’addio. Glielo devo,
almeno questo…
Riesco
ad alzarmi e a fare pochi passi prima di vomitare. Cado carponi, e resto così
per un po', aspettando che passino sia la nausea che la fitta alla testa.
Inizio a risalire la collina, quasi strisciando sul terreno. Mi devo fermare
appena mi accorgo dei passi che si avvicinano. Altri passi. Sono davanti a me,
e sono velocissimi. Non possono essere i Favoriti, loro sono scesi più in basso…
no, può essere eccome uno di loro. Solo che non l’ho mai considerato tale fino
a cinque minuti fa.
Può
essere una persona sola.
Ed
è Finnick, infatti. Mi appiattisco contro il terreno, lieta di avere davanti una
sorta di siepe a coprirmi ulteriormente. Strizzo gli occhi mentre cerco di
metterlo a fuoco, e mi mordo una mano quando un’altra fitta, forse anche più
forte della prima, trafigge la mia pancia. Ancora una volta, non devo urlare.
Finnick non deve sapere che sono qui, non ora che l’alleanza è finita. Non
vedendomi, non mi ucciderà.
-
Katniss! Johanna! – sussurra, guardandosi intorno. Quando capisce che
non siamo lì, torna a discendere la collina a rotta di collo.
Ansimo,
tornando a guardare il folto della giungla che si dirama ondeggiando davanti ai
miei occhi. Ricomincio la salita, ma stavolta riesco a farlo come si deve:
riesco ad alzarmi, e avanzo usando e prendendo qualsiasi cosa come appiglio.
Alberi, foglie, il mio stesso arco… devo fermarmi più e più volte perché le
fitte alla pancia non mi danno tregua, e arrivano ad intermittenza. Più vicine,
per di più: sono sempre più vicine.
-
No – grugnisco, graffiando il terreno, quando capisco cosa sta succedendo. Non
puoi farlo proprio ora, penso. Non posso perderti proprio ora. –
Perché… – mormoro.
L’ho
pensato così tante volte. L’ho detto così tante volte da esserne ormai
pienamente convinta. Ero sicura di questo, ormai. Ero più che sicura che non
avrei mai, mai avuto l’opportunità di portare a termine la gravidanza, che non
avrei mai avuto la possibilità di metterla al mondo come invece merita. Sapevo
che non sarei mai riuscita a salvare la mia bambina dall’orrore di questo mondo.
Pensavo che se fosse dovuto accadere sarebbe stato molto prima di adesso: il
bagno di sangue, la nebbia velenosa, le scimmie. La mia caduta in acqua… ci
sono state così tante occasioni in cui avrei potuto perderla e mi sono illusa,
in qualche modo, che se non era ancora accaduto avrebbe potuto essere un buon
segno.
Buon
segno di cosa?
Ma
adesso che sta succedendo, mi sento persa. Ho paura. Ho paura, e non voglio che
succeda. Non voglio sentire la sua vita che scivola via, che mi abbandona. Non
voglio perderla.
Non
succederà, mi autoconvinco. Non sta succedendo. La
mia bambina non sta morendo.
Continuo
ad avanzare con questo mantra impresso nella mente, tra le fitte che continuano
ad invadere il mio corpo e i capogiri che annebbiano la mia vista. Quando
raggiungo l’albero dei fulmini, penso che sia una sorta di miracolo. O di
miraggio. Entrambe le risposte sono accettabili, arrivati a questo punto.
Non
c’è nessuno attorno al tronco ricoperto di filo dorato. Non ci sono né Beetee
né Peeta. Finnick è da qualche parte più in basso, impegnato a cercare me e
Johanna.
Il
colpo di cannone mi fa sobbalzare ed urlare allo stesso tempo. Non so chi è
morto. Non saprò mai chi è morto. Forse, tra non molto, lo incontrerò io
stessa, e allora capirò di chi si tratta.
Un
mugolio, proveniente da un punto non molto distante dall’albero, mi trascina
fino a lui. – Peeta – mormoro, ma scopro che è Beetee. È incosciente ed irrigidito
in una strana posa, ad occhi chiusi. Se non fosse per i mugolii sommessi che si
fa scappare ogni tanto, penserei che il cannone ha sparato per la sua morte. Ma
Beetee è vivo, è ancora vivo. A morire è stato qualcun altro.
Stavolta
non trattengo le urla quando il dolore arriva. Mi accascio su me stessa,
impotente, e premo con le mani sulla parte inferiore del mio corpo come se, in
questo modo, potessi riuscire a fermare il tutto, ma sembra anche peggio. Il
dolore della contrazione è peggiore.
È
inutile ignorarne il nome quando sai alla perfezione di cosa si tratta. È
inutile provarci, come se evitare di pronunciare quel nome, o non vederle per
quello che sono in realtà, le rendano meno spaventose. Sono contrazioni, quelle
che annunciano l’inizio di un parto prematuro. O di un aborto. Entrambe le
opzioni sono terrificanti.
Qualcosa
di bagnato mi cola tra le gambe.
-
No – mi lamento, mettendo le mani in quella roba liquida che viene
assorbita dal terreno. È troppo buio per constatare se si tratti di sangue o
altro. In entrambi i casi, può portare con sé un solo significato.
La
mia bambina sta morendo.
Ed
io non ho nessuna speranza di salvarla.
Sto
ancora piangendo, raspando il terreno con le dita, quando le mie mani incontrano
la lama di un coltello. Un coltello legato al filo metallico di Beetee. Perché il
filo è legato ad un coltello? Cosa stava cercando di fare Beetee? È per colpa
di questo coltello che si è ferito?
Mille
domande mi attraversano la mente, ma non so dare loro una sola, misera
risposta. Non riesco a pensare a null’altro che non sia la vita che sta
abbandonando il corpicino di mia figlia. Ma devo smettere di pensare anche a
questo, nel momento in cui sento troppe cose avvenire contemporaneamente. La
voce di Peeta che urla il mio nome, il cannone che spara di nuovo, e il fruscio
della vegetazione che viene spostata da dei corpi in movimento.
-
Peeta! – lo chiamo a mia volta. – Peeta!
Come
se stessero aspettando solamente il mio segnale per rivelare la loro presenza,
Finnick ed Enobaria appaiono a pochi metri di distanza, l’uno che insegue
l’altra. Non mi notano, nascosta come sono dal tronco dell’albero. E questo
vantaggio che ho su di loro mi permette di puntare una freccia proprio nella
loro direzione, pronta a scoccarla al primo momento buono. Posso ucciderli entrambi
senza che nessuno di loro abbia la minima idea di chi sia stato a mandarli al Creatore,
così Peeta avrà due tributi in meno a cui pensare. Sarà più vicino alla
vittoria, con due nemici in meno.
Nemici.
Ricorda
chi è il vero nemico.
Abbasso
la freccia. Smetto di provare ad uccidere Finnick ed Enobaria. Le parole di
Haymitch sembrano così vere, come se lui fosse qui accanto a me, a pronunciarle
dritte nel mio orecchio. Lo rivedo, davanti all’ascensore, mentre ci saluta
prima di ritirarsi per la notte. La notte prima dell’inizio dell’Edizione della
Memoria.
Nemico.
Ricorda chi è il vero nemico.
Guardo
il coltello, guardo il filo dorato che ne avvolge il manico. Col respiro
pesante, guardo la fitta vegetazione alla mia sinistra. A pochi metri da dove
ci troviamo io e Beetee c’è il campo di forza. Nel punto più alto riesco a vedere
lo sfarfallio, il pannello scoperto, il punto debole, come lui mi ha insegnato
a riconoscerlo al centro di addestramento. Un tuono annuncia l’arrivo della
tempesta di fulmini. Guardo le nubi scure riunitesi sopra alla mia testa, oltre
le fronde degli alberi, e capisco cosa ha cercato di fare Beetee. Capisco cosa devo
fare io adesso.
Tutto,
improvvisamente, acquista un senso.
Sciolgo
il filo e inizio ad avvolgerlo attorno all’estremità della mia freccia,
trattenendo a stento un urlo per l’arrivo di un'altra contrazione. Riesco a
cogliere il momento in cui Finnick capisce che mi trovo lì, a diversi metri di
distanza da dove si trova lui.
-
Katniss! Vattene via da lì! – urla, sovrastando il ringhio di Enobaria
che approfitta proprio del suo attimo di distrazione per riprendere ad
attaccarlo. – Allontanati da quell’albero!
No
che non mi allontano.
Col
volto rigato dalle lacrime, in preda al dolore e alla paura, mi sollevo sulle
ginocchia e tendo l’arco, puntando la freccia contro il campo di forza, contro
il pannello rivelatore. Aspetto, conto i secondi che mancano al prossimo tuono,
certa che porterà con sé anche il primo fulmine della mezzanotte. Certa di
poter portare a termine ciò in cui non è riuscito Beetee.
-
Katniss, allontanati!
Avviene
tutto in fretta.
Lancio
la freccia nell’esatto istante in cui il cielo si illumina di pura luce bianca,
nell’esatto istante in cui sento la contrazione invadermi le viscere e che mi
fa urlare dalla disperazione. Nell’esatto istante in cui il fulmine colpisce
l’albero, la freccia svanisce attraverso il campo di forza. Per un secondo non
accade niente. E poi…
La
potenza dell’impatto è tale da sbalzarmi via dal punto in cui ero accasciata.
Sbalza via tutto ciò che ha intorno, compresi Finnick ed Enobaria. Il mio corpo
urta il suolo, sento qualcosa che si rompe. Ma non mi interessa scoprire cosa
si è rotto. Nulla ha più importanza.
Ho
gli occhi pieni di luce mentre muoio.
Morire
è strano.
Non
ci sono rumori, non c’è luce. Non c’è assolutamente niente, quando muori. Non
c’è più nemmeno il senso del tempo o dello spazio. La sensazione che si ha è
quella di vagare nel buio, e non hai la possibilità di toccare nulla, o di
camminare. I miei piedi non toccano il suolo, le mie mani non incontrano nulla
da sfiorare. Mi muovo, ma se non lo facessi sarebbe la stessa, identica cosa.
Non sento il mio corpo muoversi, non sento i miei occhi aprirsi, la mia bocca
parlare. Non vedo nulla, e dalle mie labbra non esce nessun tipo di suono.
È
questa, allora, la morte?
Come
si fa a trascorrere l’eternità in un posto del genere?
Come
posso anche solo cercare di cavarmela in questo vuoto aldilà?
Mi
sposto come se stessi nuotando in un mare nero, un mare che non ha calore né
gelo, un mare che non bagna la pelle. Esiste ancora, la mia pelle? O il mio
intero corpo è andato perduto per sempre? Forse i corpi non sono ammessi, qui nell’aldilà.
Forse, quando muori, nient’altro può seguirti se non la tua anima, la tua
coscienza. È per questo che non lo percepisco più. Niente corpo, niente peso.
Forse il mio corpo era troppo compromesso per seguirmi nella morte.
Mi
dispiace. Se non ho un corpo, non posso toccare la perla di Peeta. Non posso
avere con me il suo ultimo regalo. Mi avrebbe rassicurata, sentire quella
piccola sfera stretta tra le dita.
La
perla prende improvvisamente forma davanti ai miei occhi. Mi sorprendo. Riesco
a vedere! Ma il resto cambia poco: non sento altro. La sorpresa svanisce così
com’è arrivata. Mi lancio in avanti e nuoto, cerco di avvicinarmi alla perla
per afferrarla, ma è tutto inutile. Quella rimane a debita distanza da me. Non
mi sono mossa affatto. Sono impotente, esterrefatta da questa consapevolezza.
Perché
non riesco a muovermi?
Deve
essere un brutto scherzo, per forza. Non può essere davvero l’aldilà, questo
posto. Non posso passare l’eternità a guardare una perla che non riuscirò mai
ad afferrare.
Guardo
in alto, in basso, in ogni direzione in cui mi è possibile voltare la testa, e
tutto ciò che vedono i miei occhi è il buio. L’unica punta di colore è
rappresentata dalla perla. Quella dannata perla, che adesso si sta muovendo.
Si
sta allontanando da me.
-
No! – urlo, o provo ad urlare. Non lo so. La mia voce non esiste, qui.
Corro,
nuoto, salto in avanti. Compio tutti i movimenti possibili ed immaginabili per
provare a starle dietro, ma la perla è più veloce di me e scivola via ad una
velocità impressionante. Non la vedo più, ad un certo punto. È di nuovo tutto
buio.
-
Aiuto! – urlo. Le mie orecchie non sentono niente. – C’è qualcuno? Aiutatemi!
Non
posso essere l’unica persona presente, qui. Ci deve essere per forza qualcun
altro! Dove sono finiti gli altri tributi morti nell’Edizione della Memoria?
Dov’è Mags? Dov’è Wiress? Dove sono… dove sono andati tutti quanti?
Li
chiamo a gran voce, ma nessuno giunge in mio aiuto. Chiamo Rue, chiamo Mags,
chiamo mio padre. Chiamo tutte le persone che ho conosciuto e che hanno
lasciato il mondo tempo prima di me, ma invano. Sono sola, qui. Completamente
da sola. Ma non voglio arrendermi. Mi intestardisco, come al solito quando
qualcosa non va come dico io.
-
Papà! – esclamo. – Rue! Mags!
Questo
non è un luogo adatto per riposare. Questo deve essere il mio inferno
personale.
-
Peeta! – urlo il suo nome, ben sapendo che lui non può essere qui con me.
Peeta
è vivo, è sicuramente vivo. Sono morta io al suo posto, come avevo deciso sin
dal principio. Lui non aveva nessuna colpa per essere di nuovo condannato agli
Hunger Games: se si è ritrovato di nuovo nell’arena lo dovevo solo a me, e a me
soltanto. Peeta vive, io muoio: il patto che ho stretto con Haymitch.
Anche
Haymitch deve essere vivo. Effie e Cinna: anche loro sono vivi? La mamma, Prim,
Gale, tutti quelli del Distretto 12… sono tutti vivi?
-
Prim! – quello di mia sorella è il primo della lunga lista di nomi che comincio
ad urlare senza sapere se li sto pronunciando nel modo giusto. Qui è
impossibile capire alcunché.
Ma
nel farlo, qualcosa muta.
Ho
di nuovo la sensibilità. È concentrata solo sulla punta delle dita, ma è un
cambiamento, un grande cambiamento rispetto al nulla totale di poco fa. Anche
la mia voce inizia a sentirsi. O forse lei c’è sempre stata, e sono
semplicemente le mie orecchie che, come una radio, hanno raggiunto la giusta
frequenza per captarla. Continuo a chiamare i nomi dei vivi.
La
sensibilità aumenta, si propaga alle mani, alle braccia… lentamente, avviene la
stessa cosa sulle dita dei piedi, e poi alle gambe. Sembra un’eternità, ma alla
fine ho di nuovo un corpo: un corpo pesante, un corpo che fa male ad ogni
movimento che compio. L’ultima cosa che riacquisto è il senso della vista.
All’inizio è offuscata, ma diventa più chiara ad ogni battito di ciglia. Ci
vedo di nuovo. Forse, la perla di prima non era una vera immagine captata dai
miei occhi.
Sono
nuda, in questo buio uniforme. Ma oltre a me non c’è nessun’altro, quindi la
nudità è proprio l’ultimo dei miei problemi. Le mie braccia sono piene di
graffi e lividi, le mie mani sono sporche di sangue. Di chi è questo sangue?
Chi ho ucciso?
L’ultima
cosa che ricordo è la freccia che ho scagliato contro il campo di forza. Non
posso aver ucciso un campo di forza, è impossibile: non hanno sangue, non sono
vivi. Continuo a guardare le mie mani, confusa e orripilata allo stesso tempo. Smetto
di respirare mentre penso a come ho rimediato questo sangue. Solo che non
respiro. Ci provo, ma i miei polmoni non inglobano aria. Il mio petto non si
gonfia e non si abbassa, perché i polmoni hanno smesso di compiere il lavoro
che era stato loro affidato. Non ho più bisogno di respirare, qui. Poso una
mano sul petto e ciò che mi aspettavo di sentire contro il palmo, un cuore
pulsante, non arriva. Non c’è nessun battito. Il mio cuore è fermo.
Sono
davvero morta.
Guardo
in basso, scoprendo altre ferite e altro sangue. Tagli, segni di ustioni,
lividi… e tanto, tanto sangue sulla parte inferiore del mio corpo. C’è un morso
sul mio polpaccio, e delle macchie rosse tra le cosce. C’è del sangue che
circonda le mie parti intime.
E
capisco a chi appartiene questo sangue.
Perché
dove fino a poco fa c’era una persona, custodita all’interno del mio corpo, adesso
c’è soltanto un addome vuoto e piatto.
-
No! – è il mio urlo disperato. Inizio a piangere, ma non ci sono lacrime a
lasciare i miei occhi. In questo posto non esistono le lacrime.
È
davvero il mio inferno personale.
Il
mio inferno personale mi sta ricordando che ho condannato a morte la mia figlia
non ancora nata.
-
Peeta! – chiamo l’unico nome che potrebbe aiutarmi in questo momento,
l’unico che vorrei davvero qui con me. L’unico a cui potrei aggrapparmi, adesso
che so che è accaduto l’inevitabile, l’impensabile. Adesso che la nostra
bambina non c’è più. Ho bisogno di lui, anche se è vivo.
Anche
se volerlo qui con me significa vederlo morire.
-
PEETA!
Una
luce accecante ed un calore improvviso invade i miei occhi e sono costretta ad
usare le mani per schermarla almeno un poco. La luce proviene da un piccolo,
insignificante puntino che si staglia nell’orizzonte buio. Come può un puntino del
genere scatenare una tale luce?
La
luce mi attira a sé. Cerco di puntare i piedi, di aggrapparmi a qualcosa,
adesso che ho di nuovo un corpo da usare, ma qui non c’è nulla a cui
aggrapparsi. Scivolo, anzi, vengo trascinata via da questa forza inspiegabile e
sovrannaturale. Urlo, vedendo la luce aumentare ed il puntino ingrandirsi.
Diventa sempre più grande. È un sole, non è più un puntino di luce innocua.
Sto
andando verso il sole.
Urlo,
coprendomi la faccia con le braccia.
Penso
a Peeta durante l’impatto.
Fa
male.
Tutto fa male, persino respirare. Uno strano odore mi riempie le narici. Una
forte luce mi acceca gli occhi che tengo ancora chiusi. Provo a girare la testa
per evitarla, ma la testa è pesante, ed il collo non sembra voler collaborare.
Provo allora ad alzare una mano per coprire gli occhi, perché questa luce è
davvero troppo fastidiosa e amplifica il mio mal di testa, ma c’è qualcosa che
fa opposizione ed impedisce il mio movimento.
-
Non muoverti, tesoro – mormora una voce.
Questa
voce.
La riconoscerei sempre, anche in mezzo ad altre migliaia di voci. Pensavo che
non l’avrei più sentita in vita mia, questa voce…
-
Mamma? – è un pigolio sommesso, il mio.
-
Sono qui – risponde mia madre.
Mia
madre è qui? Com’è possibile? Se si trova insieme a me, allora…
-
Sei… morta…
-
Non è morta – dice un’altra delle mie voci preferite. – E non sei morta neanche
tu, Katniss.
-
Prim?
La
risposta arriva sotto forma di carezza sul dorso della mia mano. Entrambe le
donne della mia vita sono qui, poste ai due lati del mio corpo, e mi stanno
stringendo le mani. Com’è potuta accadere una cosa del genere? Combatto contro
la luce e sollevo appena le palpebre, creando un piccolo spiraglio, ma è
abbastanza per vedere i loro volti. Mia madre sta sorridendo, il sorriso lacrimoso
di chi non ha più lacrime da versare. Forse posso prestargliene un po' delle
mie… ma qui non posso piangere. Me lo stavo dimenticando. In questo posto non
ci sono lacrime.
Non
sei morta neanche tu, Katniss, ha detto Prim. Quindi
vuol dire che sono viva? Ma sono stata all’inferno, l’ho visto! Come posso
essere ancora viva?
-
Cosa… è successo? – farfuglio, strizzando gli occhi.
-
Non ora, tesoro. Devi riposare, è tutto ciò di cui hai bisogno adesso – mi
zittisce la mamma, posando una mano sulla mia testa. La sento, leggera,
sfiorare appena la pelle della mia fronte. – C’è tempo per le domande.
Gli
occhi si stanno abituando alla luce e non sentono più il fastidio di poco fa.
Riesco a tenerli aperti quasi del tutto, adesso, fissi su un soffitto alto e grigio.
È un soffitto di cemento? Alla mia destra, proprio dietro la testa di Prim, c’è
una tenda tirata, anch’essa di colore grigio. Ci sono un sacco di macchinari,
attorno a me, che ronzano ed emettono tanti “bip”.
In
quale strano posto sono capitata?
Guardo
davanti a me e vedo che sono sdraiata su un letto; di fronte al mio ce n’è un
altro, ma è vuoto. Le lenzuola con cui mi hanno coperta – grigie – emettono uno
strano fruscio quando provo a muovere i piedi e le gambe. È bello scoprire che
rispondono ai miei comandi, anche se fanno male. Non è come all’inferno,
all’inizio, quando non riuscivo a sentire nulla e pensavo di non avere più un
corpo da comandare. Quell’inferno non era reale… o almeno, gran parte di esso
non lo era.
C’è
solo una cosa vera, sia all’inferno che qui, nella realtà.
La
pancia vuota.
Mugolo,
tentando di mettere abbastanza forza nelle mie braccia da eludere la presa di
mia madre, o quella di Prim, ma nessuna delle due me lo lascia fare. I
singhiozzi arrivano, forti, a squassare il mio petto. Il dolore si intensifica
e lo accolgo con piacere, perché ho bisogno di sentire il dolore. Mi merito
tutto il dolore che sto provando. Merito di morire per quello che le ho
fatto. Perché non mi hanno lasciata morire insieme a lei?
-
Katniss – Prim cerca di calmarmi mettendo le sue mani sulle mie spalle. – Non
fare così, ti prego.
-
Dov’è… - biascico, mentre un singhiozzo più forte mi mozza il fiato nei polmoni.
– Dov’è lei? Dov’è la mia bambina…
-
Tesoro mio, mi dispiace tanto – bisbiglia mia madre. Inizia a stringere con
ancora più forza la mia mano.
Punto
gli occhi nei suoi e cerco di trovare, attraverso di essi, una risposta diversa
da ciò che ho davanti. Cerco, ma non trovo altro che dolore. I suoi occhi, che
credevo non avessero più lacrime da versare, adesso ne sono di nuovo pieni.
Alcune scivolano giù, lungo le guance.
-
Ti prego… – è una supplica, la mia, una supplica che si spezza insieme alla mia
voce. Ti prego, dimmi che non è vero. Dimmi che non è morta.
La
mia supplica non riceve la risposta sperata. Ne riceve un’altra. E fa male,
sentirla, fa male come se qualcuno stesse affondando, lentamente, un coltello
fin dentro al mio cuore. Il lamento che esce dalle mie labbra accompagna le sue
parole.
-
Mi dispiace così tanto – mormora, baciandomi la testa. – Lei non c’è più.
Lei.
La
bambina di Peeta.
Non
sono riuscita a proteggere la bambina di Peeta.
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So che non è ciò che vi aspettavate.
So anche che non è facile da digerire. Non è stato facile neanche per me,
credetemi.
Sento, però, di dovervi una
spiegazione per ciò che avete appena finito di leggere.
All’inizio, quando questa storia
ha cominciato a prendere forma, nella mia testa si sono delineate anche alcune
linee da seguire: tante, a dire la verità, e purtroppo non potevo utilizzarle
tutte. Però volevo, al di sopra di tutto, proseguire prendendo spunto dalle
ipotesi che la stessa Collins ha inserito nei suoi libri: il matrimonio, la gravidanza…
e la perdita del bambino.
“- Spargeremo la voce che ha perso
il bambino per la scossa elettrica subita nell’arena – replica Plutarch. –
Molto triste. Molto deplorevole.” – capitolo 6 de Il canto della rivolta.
La scelta di far perdere la bambina
a Katniss nasce anche per via di un altro motivo: è una mia riflessione
personale che ho maturato mentre facevo ricerche online sugli eventuali tributi
in stato interessante che partecipavano agli Hunger Games. L’arena è già di per
sé un luogo inospitale e pericoloso per una persona forte ed in salute, e la
maggior parte di chi sopravvive ne esce traumatizzata; per una ragazza incinta
tutto questo si moltiplica di non si sa quante volte. E come può una ragazza
incinta sopravvivere, o cavarsela senza riportare traumi, conseguenze o ferite
gravi, o anche solo sperare che il suo bambino ne esca incolume? Semplicemente,
non può.
Lo so, è una visione molto
pessimistica ma abbastanza logica.
È stato un passo difficile da
seguire e spero di non essere sembrata indelicata nell’affrontare una tematica
così importante – l’esperienza onirica di Katniss in questo mi è stata di
grande aiuto. Ci ho messo tutta me stessa.
Grazie per essere arrivati fin
qui ♥
D.