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Autore: Moriko_    04/11/2020    1 recensioni
Due compleanni, due persone, un'unica data: 12 Marzo.
Lo straordinario cammino della vita dai primi passi alla maturità, verso più grandi ed importanti traguardi.
[Il titolo, che riassume il tema dell'intera opera, è ispirato a una citazione di Jean Paul, scrittore e pedagogista tedesco: "I compleanni sono piume sulle ampie ali del tempo."]
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Alan Croker/Yuzo Morisaki, Nuovo personaggio, Shingo Aoi
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Fanfiction
Nn6Ap51

Legami fraterni.

{Tre anni | Morisaki's side}

 

 

BGM: Simply Three - Rain

 

 

 

[12 Marzo. Nankatsu, prefettura di Shizuoka.]

 

Nelle strade della piccola città di Nankatsu i fiori dei ciliegi iniziavano a sbocciare in una soffice fioritura dal color bianco e rosa. Quell’anno la primavera sembrava essere arrivata in anticipo: un leggero vento riscaldava ogni cosa con il suo tepore, e le poche nuvole bianche nella volta del cielo non sembravano essere foriere di giornate di intensa pioggia.

A Noboru piaceva molto quell’atmosfera primaverile nella sua cittadina natale: gli metteva addosso la stessa serenità che aveva da bambino quando passeggiava con suo fratello proprio sotto quegli alberi di ciliegio, e una carica sempre più crescente che gli serviva per la mansione che svolgeva ogni giorno: il lavorare presso un punto vendita, in un centro commerciale, in un luogo aperto sette giorni su sette con un solo giorno di riposo che capitava in giorni casuali, soprattutto nel periodo autunnale e invernale era sempre più pesante e difficile da sopportare. Egli amava il lavoro presso lo Shimizu Soccer Shop: era una sorta di costola di ciò che aveva fatto nei primi tempi quando era fresco di università e vari corsi di abilitazione, e quello era anche un modo per supportare la squadra che tanto amava, la Shimizu S-Pulse; a volte ciò che faceva non era così eccitante come poteva sembrare ai tanti visitatori che ogni giorno affollavano il centro commerciale. Si trattava comunque di un negozio, di un luogo chiuso tra quattro mura e pieno di persone che a volte potevano essere anche maleducate e invadenti; per fortuna ve ne erano poche di quel tipo, ma per lui era difficile mantenere tutti i giorni un volto colmo di gioia e cortesia.

Per questo motivo, il recarsi a Nankatsu in occasione del compleanno del suo terzo nipote era rigenerante, come un’improvvisa fresca brezza estiva in una giornata rovente. L’annuncio della primavera, attraverso quei boccioli rosa che picchiettavano i rami degli alberi, lo rendeva felice di essere ancora vivo e in salute, per gustarsi ancora una volta quel meraviglioso spettacolo della natura.

Noboru parcheggiò la macchina nei pressi di uno degli asili presenti nella città. Come era avvenuto tre anni prima, anche quella volta non era di turno al centro commerciale, per cui si era offerto di dare una mano a Izumi e alla sua famiglia: del resto quello era un giorno speciale, e poteva approfittarne per stare di più con i suoi tre nipotini. Così, di comune accordo con Hideki, Noboru si era incaricato di accompagnare e di andare a prendere all’asilo Ken'ichi e Takaji, per permettere alla loro mamma di badare a Yuzo.

Per il maggiore dei piccoli di famiglia, quelli sarebbero stati gli ultimi giorni di asilo prima delle vacanze primaverili: avendo compiuto sei anni da poco, a breve avrebbe iniziato le scuole elementari. Viceversa, al secondo mancavano ancora dodici mesi per concludere quel breve ciclo di tre anni che aveva sancito il suo ingresso nella comunità, perciò dei due fratelli era quello più spensierato: essendo ancora piccolo, Takaji non aveva ancora il pensiero della scuola ed era felice di poter giocare ancora con i suoi amichetti alla fine delle vacanze. E, se dopo qualche settimana Ken'ichi sarebbe andato alle elementari, a colmare la sua assenza ci sarebbe stato il loro fratellino minore, Yuzo; di certo, in questo modo Takaji non avrebbe risentito molto della mancanza del maggiore nel suo ultimo anno di asilo.

Come vola il tempo... pensò Noboru.

I suoi nipotini stavano crescendo in fretta. Da una parte gli sembrava di essere tornato indietro nel tempo, ai tempi ormai lontani nei quali lui e suo fratello Hideki avevano intrapreso lo stesso percorso; dall’altra, gli sembrava fosse trascorso poco tempo dalla nascita del suo primo nipote, quasi come se fosse stato il giorno prima di essere lì, all’ingresso di quell’asilo. Noboru si ricordava ancora distintamente del momento in cui aveva tenuto in braccio Ken'ichi, e lo stesso era per gli altri due bambini: di ciascuno di loro si ricordava ogni singolo dettaglio, del fatto che appena nati sembravano essere così piccoli e indifesi, e che mesi dopo erano già pronti a saltargli addosso e a giocare con lui.

Quel giorno, erano trascorsi tre anni esatti dalla nascita di Yuzo e anche con il suo terzo nipote Noboru stava avendo lo stesso, identico pensiero. Quel bimbetto stava crescendo, forte e sano, e non soltanto in altezza: giorno dopo giorno, mese dopo mese imparava sempre di più, giocando con i suoi genitori e anche con Ken'ichi e Takaji quando non erano all’asilo.

I tre fratelli erano molto legati tra loro e, anche se a volte non andavano d’accordo, si volevano bene. Se Ken'ichi era quello più tranquillo dei tre, gli altri due lo battevano in fatto di vivacità, in modo particolare Takaji che con il suo carattere elettrico cercava sempre di essere al centro dell'attenzione di tutti, arrivando spesso ad importunare gli altri due fratelli anche quando volevano restare in disparte. Ma per quanto Takaji e Yuzo avessero sconvolto i pacifici equilibri della loro famiglia, ben presto per loro il fratello maggiore era diventato un punto di riferimento: i due bambini erano quasi diventati la sua ombra, seguendolo dappertutto e stando attenti a tutto ciò che diceva o faceva. D’altro canto lo stesso Ken'ichi, che nei primi due anni di vita quasi arrivava a litigare con il mezzano perché era stato il primo a sottrarre parte delle attenzioni che i suoi genitori gli davano, divenne sempre più felice nel vedere prima Takaji e poi anche Yuzo che lo osservavano sempre con un sorriso e che erano ben disposti a stare con lui.

Nei ricordi di Noboru era ben vivo il giorno in cui i tre fratelli avevano iniziato a interagire tra loro, tutti insieme. Egli era in cucina, intento a preparare la merenda per i bambini seguendo le istruzioni che la loro mamma aveva lasciato in un biglietto sul frigorifero, e ad un tratto aveva sentito Ken'ichi chiamarlo a squarciagola: pensando che i suoi due marmocchi avessero combinato un’altra delle loro marachelle, Noboru si era subito precipitato nel soggiorno per vedere cosa fosse successo. Nulla di ciò che temeva, tutt’altro: Takaji era di fronte al passeggino dove lo zio aveva lasciato il piccolo Yuzo che dormiva, e che ora stava ridendo di gusto per le buffe smorfie che il fratello maggiore gli stava rivolgendo.

«Guarda, zietto!» aveva detto Ken'ichi con grande entusiasmo, prendendo lo zio per il braccio e trascinandolo verso il passeggino. «Ride! Il fratellino ride!»

«Certo,» aveva risposto Noboru, «è perché vi vuole bene!»

Da allora erano trascorsi circa due anni, e la situazione non era affatto cambiata. I tre bambini erano diventati quasi inseparabili, giocando sempre insieme quando erano tutti a casa... così come stava per accadere quel giorno.

Di fronte a quei dolci ricordi, con un sorriso Noboru scese dall’automobile e indossò il marsupio che aveva riposto sul sedile.

E ora... andiamo dalle mie piccole pesti!

 

 

 

Sulla cima di quella montagna Izumi si stava asciugando la fronte grondante di sudore. Nonostante fosse abituata a percorrere tutta la scalinata in pietra che portava fino in cima, immersa in una fitta foresta, giunta a destinazione le mancava sempre il fiato: ciò accadeva per due motivi, oltre la fatica.

Il primo era il panorama che si poteva ammirare da lassù. Ogni giorno tutti erano abituati a percorrere quella strada per arrivare al cosiddetto “belvedere”, un’ampia piazzetta posta circa a metà percorso e dalla quale era visibile la valle dove si trovava la cittadina di Nankatsu. Da lì, tuttavia, in pochi proseguivano ogni giorno il resto del cammino che collegava il belvedere alla cima della montagna: un sentiero non molto curato e circondato dalla vegetazione della foresta sempre più fitta, quasi incolta. Chi lo faceva era spinto principalmente per una ragione: quella della necessità.

Alla fine di quel percorso impervio vi era un santuario. In uno spazio che sembrava quasi incontaminato, il cui ingresso era dominato da un torii di colore rosso fuoco, si erigeva il jinja dedicato agli yama-no-kami, le sacre divinità della montagna. Prima di percorrere l’ultima scalinata in pietra che portava al jinja, dalla zona del torii si apriva un panorama ancora più spettacolare del belvedere amato dagli abitanti della cittadina: da lì non solo era visibile la valle di Nankatsu, ma anche gli altri territori limitrofi fino ad arrivare - non molto distante da lì - alla montagna sacra per eccellenza dell'intero Giappone, il monte Fuji.

Tutto ciò si collegava al secondo motivo per il quale a Izumi stava mancando il fiato: le emozioni suscitate dalla bellezza di ciò che la stava circondando. Rispetto al belvedere quel paesaggio era davvero mozzafiato, degno delle stampe dell’ukiyo-e[1] con il suo stile elegante e vivace, e ogni volta Izumi si fermava ad osservarlo, prima di riprendere il cammino.

Quel giorno, però, la donna non riuscì a fermarsi per più di un minuto: dopo aver osservato insieme a lei il panorama, il suo terzogenito corse lungo la scalinata in pietra che portava a destinazione. Izumi aveva lasciato inavvertitamente la sua mano, e suo figlio ne aveva subito approfittato per allontanarsi da lei a passo svelto: come qualsiasi bambino, Yuzo non vedeva l’ora di correre liberamente, sempre più in alto, quasi a voler toccare il cielo con un dito in cima a quella montagna.

«A... aspetta, non allontanarti senza di me!» esclamò lei. Ma ormai era troppo tardi: il piccolo era svanito dietro l'ultimo gradino di quella scalinata, lungo il sandō che portava all’haiden.

E ora chi lo sente mio suocero? - aggiunse la donna in pensiero, iniziando anche lei a percorrere quell’antica scalinata.

 

«Zio Hotaka, mi prendi in braccio? Non ci arrivo, non ci arrivo!»

Alla fine di quel percorso, Izumi trovò suo figlio che stava saltellando allegramente verso un ramo più alto di un sakaki[2]: al suo fianco vi era un giovanotto all’incirca dell’età di suo marito, con indosso un bianco saifuku e un’azzurra hakama[3]. Dai capelli neri che gli arrivavano sulle spalle, Hotaka stava sorridendo nel guardare suo nipote che si era intestardito a voler raggiungere quel ramo così alto per lui.

«Dai, Yuzo,» gli disse il giovane con gentilezza, chinandosi verso il bambino e prendendo tra le dita uno dei rami che sporgevano dalla parte bassa dell’incrocio dei tronchi. «Non ti piacerebbe giocare con questi amichetti? Sono così bassi perché aspettano i piccolini come te: si sentiranno soli...»

«No! Voglio quello!» Suo nipote mise il broncio e incrociò le braccia al petto. «E io non sono piccolo, sono grande!»

Hotaka non si lasciò rabbuiare di fronte all’atteggiamento testardo del bambino, anzi: il giovane uomo stava mostrando uno sguardo ancora più sereno di prima, piuttosto amorevole, come se Yuzo fosse stato suo figlio. E in un certo senso era proprio così: quel bambino era figlio di suo cugino Hideki, era sangue del suo sangue.

E testardo come tutti: deve essere un marchio di famiglia!

«Hai ragione,» rispose Hotaka con dolcezza. «Dato che oggi è il tuo compleanno, significa che sei diventato più grande... perciò, puoi giocare con i rami più alti!»

Così il giovane si decise ad accontentare il desiderio del piccolo: lo prese in braccio e lo issò sulle sue spalle. Per un attimo a Yuzo piacque trovarsi a quell’altezza insolitamente elevata, alla quale arrivava solo quando erano suo padre e lo zio Noboru a prenderlo in braccio; ma subito il piccolo si accorse che in quel modo non sarebbe comunque riuscito ad afferrare il ramo del sakaki che tanto desiderava, così provò a slanciarsi verso la pianta allungando di nuovo le sue braccia. «Ma io voglio quel ramo!» iniziò a protestare.

Hotaka rise. «Sei stato tu a dire che sei grande, giusto? E i grandi come me e la mamma arrivano proprio a questa altezza...»

Per qualche secondo il piccolo restò in silenzio. Constatò che ciò che aveva detto lo zio era vero: in quel momento sembrava essere alto come il suo papà, se non di più; tuttavia, anche così non sarebbe mai riuscito a sfiorare la pianta del sakaki, in alcun modo.

«Zio... io voglio scendere. Voglio quel ramo!» tornò ad esclamare Yuzo, slanciandosi con impeto verso la pianta; se la presa dello zio non fosse stata salda, probabilmente sarebbe caduto a terra.

«D’accordo, d’accordo...»

Hotaka lo prese in braccio e lo avvicinò al ramo che il nipotino aveva adocchiato con lo sguardo. Vide gli occhi del piccolo brillare di felicità mista a stupore, mentre iniziava a sfiorare con insolita dolcezza le punte delle foglie di quel ramo. «Così va bene, Yuzo?»

«Sì!» rispose il piccolo con grande gioia.

Nel frattempo Izumi stava osservando quella scena di serenità familiare, e all’inizio non osò avvicinarsi. Si limitò a sorridere, vedendo come suo figlio fosse così felice in quel luogo: amava molto la natura, e ogni volta che visitavano quel jinja lui non perdeva l’occasione per gironzolare allegro all’esterno del santuario e arrivare fino all’ingresso dell’haiden, la sala di culto.

Da generazioni quel jinja dedicato agli yama-no-kami, le divinità della montagna, era curato e portato avanti dalla famiglia Morisaki. Correva la voce che a fondarlo fosse stato proprio un loro antenato, per scongiurare una grave catastrofe naturale che incombeva nella valle dove ora sorgeva la cittadina di Nankatsu e che proveniva proprio da quella montagna; da quel giorno non c’erano più stati pericoli di tale calibro, e quel santuario era diventato il simbolo del beneplacito degli dei che vi dimoravano e che avrebbero garantito protezione e sicurezza nella zona che era dominata da esso.

In quel territorio sacro che si estendeva di fronte a Izumi, lungo il sandō che era circondato da due file di bassi sakaki come quello con il quale il piccolo Yuzo stava giocando, si stava avvicinando un signore sulla soglia della vecchiaia, con le braccia incrociate e nascoste tra le maniche del kariginu violaceo, l’abito tipico dei sacerdoti shintoisti. Prima di giungere presso di lei, anche quel vegliardo si soffermò ad osservare la scena che si stava svolgendo tra Hotaka e Yuzo; sorrise divertito, per poi riprendere il suo percorso. «Vedo che tuo figlio è sempre pieno di energie, cara Izumi...»

«Sadao-sama...»

Prima di trovarsi faccia a faccia, la donna rivolse un inchino di rispetto nei confronti del vegliardo. Sadao, il fratello di suo suocero, era il kannushi[4] di quel santuario: a dispetto della parentela Izumi gli portava sempre un profondo rispetto ogni volta che lo incontrava. Per lei Sadao era pur sempre un sacerdote, il sacro custode di un santuario; nonostante la situazione nei santuari fosse cambiata al punto che i kannushi erano diventati solo dei cerimonieri, liberandosi da quel lato sacro che in origine li caratterizzavano, Izumi continuava sempre a considerarli come tramite tra le divinità e gli esseri umani, e per questo degni di rispetto.

«Alza il capo,» disse il vegliardo che subito si portò una mano tra i capelli, rompendo la seria atmosfera che si stava creando tra loro. «Così mi metti in imbarazzo: non sto facendo nulla di speciale!»

Le guance di Izumi si colorarono di un leggero color rosaceo e fece come l’altro le aveva richiesto. Non c’era contraddizione in quell’ordine, appunto: per lei era necessario eseguire tutto ciò che un kannushi chiedeva, anche se in modo amichevole. Izumi non riusciva proprio ad essere informale con Sadao: anche se da anni era entrato a far parte della sua famiglia, per lei quel kannushi continuava ad avere quel “qualcosa in più” che lo contraddistingueva dagli altri esseri umani, con quella caratteristica trascendentale che lo rendeva così diverso dalla norma.

«Vi chiedo scusa,» sussurrò la donna con un leggero sorriso. «Lo sapete: è difficile abituarsi a non seguire le regole... mi trovo pur sempre in un santuario, dopotutto.»

«Non devi essere così rigida con te stessa, cara Izumi,» sentenziò Sadao con sguardo sereno. «A lungo andare, l’essere rigidi chiude l’uomo in una gabbia dalla quale è difficile uscirne.»

I due si incamminarono lungo il sandō, verso Hotaka e Yuzo. La prima cosa che subito notò Izumi fu il fatto che suo figlio si fosse addormentato tra le braccia del giovane, che nel frattempo stava cantando quella che, dalle parole, sembrava essere una canzone religiosa: un inno per la benedizione di una foresta, per l’augurio di una crescita prosperosa e duratura.

«A quanto pare mio figlio si sta preparando bene per diventare il prossimo kannushi...» commentò il vegliardo con sguardo di ammirazione verso Hotaka che subito gli sorrise.

«Più che altro adoro questa canzone, padre.»

Nel vedere il piccolo così calmo e tranquillo, Izumi trattenne le risate. «Sei un tesoro, Hotaka. Non so come tu faccia, ma sei uno dei pochi che riesce “a quietare questa piccola furia della natura”!»

«Proprio come nella canzone che stavo cantando,» rispose il giovane. «A quanto pare funziona non solo con i piccoli spiriti maligni che disturbano il riposo delle divinità, ma anche con i bambini. Se non riuscirò a passare l’esame di gon-negi[5], quasi quasi faccio domanda in un asilo... e questo piccoletto potrà garantire per me!»

Hotaka guardò per un istante il volto di Yuzo che dormiva placidamente, poi cercò in quello di Izumi un cenno di approvazione per le ultime parole che aveva detto. La donna scosse la testa e sorrise: sapeva molto bene che quel suo cugino acquisito avrebbe superato a pieni voti quell’esame, e che un giorno - che sembrava ancora essere così lontano - sarebbe diventato un impeccabile kannushi di quel santuario.

«Ascolta,» sussurrò Izumi. «Se davvero ti fa così piacere occuparti dei più piccoli, posso portarti qui Yuzo quando non riesco ad addormentarlo. Ti assicuro che nelle ultime settimane è diventato davvero difficile fare una cosa del genere: è quasi un’impresa titanica!» Poi si rivolse a Sadao, e continuò: «Shigeru-sama e gli altri sono qui?»

Il vegliardo annuì e iniziò a guardarsi intorno, indicando il tempio che si trovava a pochi passi da loro. «Mio fratello si sta occupando della cura dell’haiden, mentre Michi e mia moglie... oh! Eccoli là!»

Proprio in quel momento, tre persone stavano uscendo dal grande edificio che era appena stato nominato dal kannushi. C’era un signore vestito con un kariginu, all’incirca dell’età di Sadao, che stava reggendo in mano un bastone che utilizzava per salire e scendere i tre scalini dell’ingresso principale dell’haiden; l’uomo era seguito da due donne sue coetanee che stavano conversando. Non appena tutti e tre notarono gli altri presenti in quell’area, li raggiunsero in fretta e salutarono Izumi.

«Lo sapete: per me è un onore salire questa montagna per incontrarvi,» disse la donna con ossequioso e devoto rispetto. Era naturale: di fronte a lei vi erano Shigeru e Ayaka, i genitori di suo marito Hideki, e Michi che era la moglie del kannushi; tutti e tre avevano deciso di trascorrere il resto della loro vita dedicandola pienamente alla cura del jinja di famiglia, insegnando ogni giorno a Hotaka tutto ciò che sapevano sulla vita all’interno di un santuario shintoista.

Per questo motivo Izumi non potè trattenersi dal chinare il capo anche nei loro confronti, al punto che Sadao si portò una mano sul volto e iniziò a ridere sommessamente. «Addirittura tale atteggiamento con i tuoi suoceri... cara Izumi, non cambierai mai!»

Dopo aver fulminato suo fratello con uno sguardo di rimprovero, Shigeru si avvicinò a sua nuora e le appoggiò una mano sulla spalla in segno di solidarietà. «Alza il capo... e ignoralo, per favore. Da una parte ha ragione, ma se non siamo noi i primi a seguire le regole, come potremo ingraziarci le divinità?»

Senza smettere di sorridere, Sadao si portò le mani dietro la schiena e alzò gli occhi verso le fronde degli alti alberi secolari della foresta nella quale era immerso il santuario. «Quanto siete rigidi, voi due... quando imparerete a godervi la vita senza queste frivole preoccupazioni?»

 

 

 

«Zietto!»

Dai sedili posteriori dell’auto dove erano seduti, Ken'ichi e Takaji avevano urlato in coro per richiamare l’attenzione dello zio, interrompendo all’improvviso il loro gioco con i peluche che si trovavano al loro fianco e che Noboru stesso aveva portato per farli distrarre durante il tragitto.

«Ditemi tutto!» disse lo zio, rivolgendo un rapido sguardo nello specchietto retrovisore prima di guardare di nuovo la strada.

«Oggi resti a casa?» chiese il maggiore dei piccoli.

«Ma certo! Giocheremo insieme per tutto il giorno!»

«Evviva!»

Entusiasti per la grande notizia, i due bambini si rifugiarono di nuovo nel loro mondo dei giochi. Il tempo che trascorrevano con lo zio Noboru non era molto, e spesso chiedevano ai loro genitori perché non vivessero tutti insieme, sotto lo stesso tetto: erano molto affezionati a lui e ogni volta che si sentivano per telefono gli dicevano sempre che a loro mancava molto - e la cosa era reciproca. Quando stavano con Noboru, i due bambini si sentivano più liberi di fare ciò che volevano: lo facevano anche con i loro genitori, che non ponevano molti freni al loro entusiasmo, però il momento del gioco era tutta un’altra cosa se al loro fianco c’era quello zio che adoravano alla follia, proprio come stava accadendo in quel momento.

Con grande euforia Takaji lanciò verso il fratello il piccolo squalo di stoffa che aveva in mano, quasi con l’intenzione di colpire il volto dell’altro, ma per fortuna Ken'ichi riuscì a prenderlo in tempo: il mezzano aveva inavvertitamente sbagliato la direzione del tiro, e quel giocattolo stava per finire sui tappetini dell’automobile.

«Ti ho detto che non devi lanciarlo così!» borbottò il maggiore, incrociando le braccia. «Altrimenti non te lo do più!»

Takaji ridacchiò di gusto e indicò il fratello. «Sei buffo quando ti arrabbi!»

«Cosa?»

«Sei buffo, sei buffo!» Il mezzano scoppiò a ridere, lanciandogli un altro pupazzo a forma di cammello. «Dai, giochiamo! Ora sei tu il lupo!»

Ken'ichi guardò il peluche che aveva in mano, e subito si rivolse all’altro con esitazione. «Come faccio il lupo? Questo è un cammello!»

«Eddai, fai finta!» rispose Takaji. «Eddai!»

Il maggiore restò un attimo in silenzio, pensando che in effetti non poteva averla vinta lui. In un certo senso Takaji aveva ragione: nell’automobile dello zio non c’era un pupazzo a forma di lupo, per cui si dovette accontentare... o quasi. Ken'ichi amava il mare e gli animali che lo popolavano, invece era Takaji quello che amava alla follia lupi e orsi: era come se in quel momento si fossero scambiati le parti che li spettavano. «Ma non voglio essere il lupo!» rispose, e subito rilanciò il cammello verso il mezzano, agitando lo squalo che aveva nell’altra mano. «Voglio essere lo squalo, raaw!»

«Uffa!» Takaji mise il broncio e stette per insistere, ma poi afferrò il cammello che gli era caduto in mezzo alle gambe. In fondo, quella di suo fratello non era una proposta così sconveniente: doveva impersonare quello che era il suo animale preferito, per cui non era niente male. Con grande vivacità esclamò: «Va bene... allora io sono il lupo! Waoon!»

«Ma che dici! Non puoi fare il lupo se io sono uno squalo: i lupi non vivono negli oceani!»

«Eddai! Waoon!»

«Hihiin!»

I bambini si girarono sorpresi verso lo zio, essendo stati colti di sorpresa da quello strano verso acuto che aveva interrotto la loro nascente discussione.

«Zietto... ti senti male?» chiese Takaji.

«Affatto!» rispose Noboru, iniziando a ridere. «Sto benissimo!»

Ken'ichi e Takaji si guardarono silenziosamente negli occhi; poi fu il maggiore, ancora incredulo per la risposta dello zio, a prendere subito la parola. «E... e perché hai fatto quel verso?»

La risposta di Noboru non tardò ad arrivare: «Perché voglio partecipare anch’io al gioco degli animali! Posso, piccoletti?»

Takaji strabuzzò gli occhi. «Ma io non ho capito che animale sei...»

«Nemmeno io zietto,» aggiunse Ken'ichi. «Hai fatto l’animale che sta male?»

Lo zio si portò una mano dietro la testa, un po’ sorpreso per ciò che aveva sentito. «Dai, provate ad indovinare che animale è! Hihiin!»

«Io lo so, io lo so!» rispose Takaji alzando la mano. «La sirena della polizia!»

«Ma no!»

I due bambini scoppiarono a ridere mentre Noboru, un po’ sconsolato per la sua pessima “performance” del cavallo, fermò mestamente l’automobile nel piccolo parcheggio della casa di suo fratello. L’uomo fece crollare la testa sul volante, quasi sul punto di esplodere per l’imbarazzo: come al solito non era riuscito a spuntarla sui due nipotini, molto furbi e arguti al punto di riuscire a trovare sempre a rispondere a tono.

«Siamo arrivati!» esclamò il giovane zio e, scendendo dal mezzo, mormorò tra sé e sé: «Guarda un po’ che tipi! La sirena della polizia... incredibile!»

 

 

«Mamma, mamma!»

Non appena vide la madre che era intenta ad innaffiare le piante del cortile, Takaji corse ad abbracciarla, subito seguito da Ken'ichi. Izumi era tornata da circa un’oretta, percorrendo la scalinata in pietra con Yuzo in braccio che ancora dormiva: per fortuna il jinja non era molto distante dal quartiere in cui abitavano e aveva lasciato il passeggino nella postazione del belvedere, ma si sentiva stremata per il percorso che aveva intrapreso per andare a trovare i suoi parenti proprio in occasione del compleanno del suo terzogenito; dopo aver messo a letto Yuzo, quell’ora di pausa le era servita per rigenerare le sue energie in attesa della seconda ondata di vivacità e allegria rappresentata dagli altri suoi figli.

«Ecco qui!» esclamò Noboru. «Li ho riportati a destinazione, capo: sani e salvi!» Poi lanciò le chiavi dell’auto alla donna, che subito le afferrò.

Izumi diede un leggero sbuffo, mentre sulle sue labbra si delineò un sorriso beffardo rivolto al cognato. «Ecco da chi ha preso Takaji nel lanciare le cose. Tale zio, tale nipote!»

«E tale mamma, dato che è peperino proprio come te!»

«Ne sei sicuro?» sussurrò la donna, con una smorfia divertita. «Non è ai tuoi livelli di testardaggine perché lui si lascia convincere più facilmente, ma quando si mette in testa una cosa è difficile smuoverlo! Grazie al cielo che non è come te... ricordi ancora come è andata a finire la storia della nostra televisione, vero?»

«Touché

Noboru si grattò la nuca, lasciando trasparire il suo imbarazzo. Gli tornò alla mente il momento in cui, anni addietro, aveva aiutato il fratello con la sistemazione della casa: Hideki si era sposato da poche settimane e sua moglie era incinta del loro primogenito, per questo gli aveva chiesto una mano; lui aveva accettato ma, ad un certo punto, i due fratelli avevano iniziato a discutere sulla sistemazione della televisione in salotto, mentre Izumi era in camera da letto a riposarsi.

«Ma insomma! Se metti la TV sopra quel mobile, come fai a vedere le partite della J.League? I giocatori si vedranno con il binocolo!»

«Per la cinquantesima volta, Noboru: no! A parte che sotto quel mobiletto faremo fatica a vedere proprio tutto perché dovremmo sdraiarci a terra... il bambino potrebbe distruggerla quando inizierà a camminare!»

«E chi se ne frega, Hideki! Leva quel mobiletto storto, allora!»

Allora il salotto della casa di suo fratello aveva una diversa sistemazione, prima di una ristrutturazione avvenuta in seguito a piccoli interventi sugli impianti idraulici. Vi era un mobile che i novelli sposi avevano iniziato ad utilizzare come libreria, dono dei genitori di Izumi e che ora si trovava dalla parte opposta della stanza: aveva la particolarità di correre da una parete all’altra come se fosse un serpente, con un percorso a zig-zag che lasciava pochi spazi per aggiungere quadri o altri oggetti. Hideki ci teneva molto a quella libreria: l’aveva scelta personalmente il padre di Izumi e, anche se a lui non piaceva molto, voleva evitare di fare una pessima figura con sua moglie e, in particolare, proprio con i suoi suoceri; doveva trovare il modo migliore per collocarla all’interno di quella stanza, a qualsiasi costo, e per questo motivo la sua rabbia nei confronti di Noboru era cresciuta ancora di più non appena gli aveva detto di toglierla di mezzo. Suo fratello aveva ragione... ma non poteva far sparire quel mobile nel nulla: come avrebbe giustificato la sua assenza di fronte a sua moglie e a suo padre?

Da quel momento, tra i due fratelli si era scatenata una discussione ancora più accesa di quella che era nata pochi secondi prima.

«Te lo sogni: è un regalo dei miei suoceri, e sta bene dove sta!»

«Allora metti la televisione là, sotto il condizionatore! Il vostro divano è a ferro di cavallo, basta solo che vi sedete all'angolo!»

«Ma sei scemo? Là passano le tubature dell'acqua che portano al bagno: così le bucheremo!»

«Allora mettila là, sopra il divano!»

«Ma non ci penso nemmeno! Vuoi farci venire il torcicollo?»

«Senti un po’: se non ti va bene sotto il mobiletto, prendo subito la scala e te la monto proprio sopra di te, lassù!»

«Idiota, chi ha una televisione sulla testa?!»

Tanto a lungo era durato il loro discutere, al punto che era giunta anche Izumi per mettere la parola fine a quel chiassoso vociare. Con un gesto secco e fiero, la donna aveva indicato il posto dove collocare la loro televisione: in un angolo della stanza, proprio in uno spazio vuoto accanto a quel mobile che era stata la causa di quella discussione. «Là va bene: così chi vuole può guardare la J.League, le soap opera, i reality, i documentari, e tutti gli altri programmi di questo mondo. Se per voi va bene, smettetela di litigare e montate questa benedetta televisione. In silenzio.»

Izumi aveva pronunciato quelle ultime due parole con un tono che all’apparenza sembrava piuttosto infastidito, prima di voltare loro le spalle e andare via. Noboru aveva fatto in tempo ad udire una risata soffocata provenire dalle labbra della cognata, e fu a quel punto che aveva capito che quella donna, in fondo, si stava divertendo nel sentirli discutere.

Ad ogni modo, da quel giorno Izumi aveva iniziato a prendere bonariamente in giro suo cognato per la sua testardaggine. E come si poteva darle torto: tra i due fratelli, era proprio lui quello più cocciuto!

 

Il flusso dei pensieri di Noboru, che si era ricordato della storia di quel mobile per lui sgangherato, venne interrotto dal piccolo Ken'ichi che lo aveva preso per il braccio e stava cercando di trascinarlo dalla madre.

«Zietto, dobbiamo preparare la festa per Yuzo...» disse il piccolo sottovoce.

Noboru serrò gli occhi. Suo nipote aveva ragione, era il motivo per il quale anche lui si trovava in quel luogo, al di là della solita uscita per vedere la sua famiglia: insieme a Izumi e ai suoi figli, tutti insieme dovevano allestire il salotto della casa con decorazioni e leccornie mentre qualcuno doveva distrarre il piccolo festeggiato.

Ma chi tra loro avrebbe avuto questo difficile compito? Tenere a bada un bambino di appena tre anni per alcune ore nella sua cameretta non era un'impresa facile... e di certo Yuzo non costituiva un’eccezione. Tra i tre fratelli, infatti, l’ultimo arrivato di casa Morisaki sembrava essere quello più scatenato: aveva un’energia pazzesca dentro di sé, senza smettere di giocare dalle prime ore dell'alba fino alla sera prima di andare a dormire; in assenza di Ken'ichi e Takaji, spesso anche la mamma faceva fatica a stargli dietro, soprattutto quando lei doveva preparare il pranzo e il piccolo non sembrava essere affatto stanco, continuando a correre da un lato all’altro della cucina, simulando di essere un calciatore che doveva fare un grande tiro in porta. L’unico momento della giornata in cui Yuzo si fermava era subito dopo il pranzo... e anche in quel caso riuscire a farlo addormentare non era affatto semplice.

Insomma, quel giorno lo sforzo era doppio: bisognava non solo assicurare che continuasse a dormire, ma anche cercare di trattenerlo il più possibile nella sua cameretta; il che non era facile, considerato il fatto che a differenza dei suoi fratelli al piccolo piaceva molto giocare all'aria aperta, nel cortile della loro casa.

Ricordandosi di tutto ciò, Noboru mise Ken'ichi sulle sue spalle e si avvicinò a Izumi e Takaji: chinò le ginocchia per simulare un inchino, facendo ben attenzione a suo nipote che nel frattempo si stava divertendo da quell’altezza. «Ragazzi, sono a vostra disposizione. Dobbiamo preparare una super festa, anche se non abbiamo molto tempo!»

 

 

Mentre Izumi si trattenne nel salotto con i suoi due figli, Noboru salì al primo piano dell’abitazione e di soppiatto aprì una delle stanze, dando una rapida sbirciata. Accertatosi che la situazione in quella stanza era tranquilla, scese le scale e raggiunse gli altri. «Credo che Yuzo si sia addormentato,» commentò. «Sta buono buono, con gli occhi chiusi e le braccia spalancate... mi sa che ne avrà ancora per molto.»

«Non sottovalutarlo,» rispose Izumi. «Non sembra, ma è molto furbo: basta che sente un minimo rumore e si sveglia di colpo. È vero che con tuo cugino si è appisolato, ma–»

«Allora, bambini: chi di voi vuole stare con il fratellino?»

La donna spalancò gli occhi per la sorpresa. Noboru aveva palesemente ignorato il suo avvertimento, e di certo non era la prima volta che lo faceva: quando era con i suoi adorati nipotini, quell’uomo era in grado di dimenticare tutto ciò che lo stava circondando. «Noboru, ma ti sembra il caso di...»

Takaji rispose subito alla proposta dello zio: alzò la mano, con un sorriso scherzoso. «Io, io!»

Noboru si sfregò il mento e sorrise soddisfatto. «Beh... va bene! Non vedo perché no!»

«Scusa, non sarebbe meglio se andassi tu?» chiese Izumi. «Non preoccuparti per me, qui posso cavarmela da sola!»

«Non ci pensare!» rispose lui con un sorriso. «Ho promesso a Hideki che ti avrei dato una mano con i preparativi, e così sarà!»

«Guarda che nel pacchetto è incluso anche il badare a un certo bambino che oggi compie tre anni, sai?»

«Quello è un extra che faccio ben volentieri quando si sveglia!» aggiunse Noboru, prendendo la mano di Takaji e accompagnandolo verso le scale. «Piccoletto, sei pronto? Se fai il bravo e riesci a convincere Yuzo a restare nella sua cameretta, la prossima volta lo zio vi porta tutti al Kakegawa Kachouen, va bene? Ma non dire ancora niente a Yu–»

«Evviva!»

Takaji esultò per la felicità. Per lui che amava la natura e che voleva sempre stare a contatto con gli animali, il Kakegawa Kachouen era uno dei suoi posti preferiti: l’aveva visto per la prima volta in televisione e da allora, ogni volta che ne vedeva qualche immagine, sognava di poterci andare un giorno: il poter toccare con mano pappagalli e pinguini - gli animali che sin da quando era piccolo aveva visto nei libri sulla natura che gli avevano regalato i suoi genitori - lo entusiasmava.

L’offerta dello zio sembrava allettante, di più di qualsiasi cosa che gli avevano promesso nella sua breve vita: senza pensarci due volte, Takaji lasciò la mano dello zio che provò - invano - ad afferrarlo, e corse sulle scale.

«A... aspetta! Fai piano, così svegli tuo fratello!»

Izumi soffocò una risata nel vedere Noboru in difficoltà, che quasi stava cadendo a terra quando aveva tentato di fermare suo nipote; si portò le mani sui fianchi con sguardo colmo di allegria. «Guarda, guarda! Ora chi è quello che non ascolta?»

Il cognato alzò le mani in un gesto di resa e con un sorriso rassegnato abbassò leggermente la testa. «Mi arrendo, capo: hai ragione tu!»

 

 

A dispetto della sua giovane età, da quel momento Takaji cercò di fare tutto il possibile per soffocare qualsiasi azione che gli sarebbe venuta in mente e che, di certo, avrebbe svegliato il suo fratellino. A cominciare dalla prima: aprire la porta della cameretta di Yuzo, senza far rumore.

Takaji era solito entrare nelle varie stanze con euforia, spalancando le porte e urlando i nomi delle persone che cercava, che fosse la mamma o i suoi fratelli; tuttavia, se voleva andare al Kakegawa Kachouen, quel giorno non poteva permettersi di comportarsi come sempre.

La casa era molto grande, per cui i genitori dei tre fratelli avevano pensato fin da subito di creare per ciascuno di loro una cameretta, dove i bambini avrebbero potuto ritagliarsi uno spazio tutto per loro fin dai primi anni anche se, essendo ancora molto piccoli, trascorrevano sempre insieme buona parte della giornata. La cameretta di Yuzo si trovava in fondo al corridoio abbastanza spazioso del primo piano, a fianco di quella del piccolo Takaji che, contrariamente al modo in cui aveva salito le scale, si stava avvicinando alla stanza del fratello di soppiatto.

Giunto a destinazione, Takaji afferrò la maniglia. Come dice la mamma? Piano... piano...

Lentamente la abbassò e aprì la porta; entrò in punta di piedi, per poi richiudere la porta dietro di sé, avendo cura di non sbatterla.

Il piccolo si trovò in una stanza simile alla sua, leggermente più piccola ma che sembrava spaziosa per la disposizione del mobilio presente al suo interno. Di fronte a lui si apriva un’ampia finestra dalle doppie ante, nella quale vi era una semplice tapparella che in quel momento era socchiusa e lasciava filtrare poca luce dai suoi spazi; a sinistra vi era un piccolo armadio scorrevole e, poco distante, una scrivania con una libreria che la faceva da cornice; sulla destra, il lettino futon sul quale stava riposando Yuzo, che in quel momento stava rivolgendo le spalle all’ingresso.

Takaji camminò piano verso il lettino, rivolgendo lo sguardo verso il pavimento con grande attenzione: se per caso suo fratello avesse lasciato qualche giochino per terra, lui doveva essere attento a non calpestarlo per evitare di fare rumore o, peggio, di scivolare e cadere sul pavimento. Il mezzano tirò un sospiro di sollievo quando arrivò vicino a Yuzo: il piccolo stava ancora dormendo, con uno sguardo molto sereno, e sembrava che non si fosse ancora accorto di nulla.

Takaji lo osservò per molto tempo, restando il più immobile che poteva; d’un tratto, stufo di stare lì senza far nulla, si voltò e camminò fino alla piccola scrivania, dove si sedette. «Vediamo un po’...» mormorò sottovoce. «A cosa posso giocare?»

Aprì un libro che si trovava sul piano della scrivania. Vi erano degli animali sulla copertina e, sfogliandolo, notò che vi erano diverse figure bianche, solo contornate da una spessa linea nera: era un album di quelli da colorare, e il piccolo sorrise soddisfatto quando trovò una pagina già scarabocchiata.

Eheheh... Yuzo è ancora piccolo, non se ne accorgerà mai! E poi la maestra dice sempre che sono bravo a colorare!

Così Takaji iniziò a prendere una ad una le matite colorate che si trovavano vicino al libro, in un portapenne fatto a incastri di blocchetti di legno come un puzzle, dono dello zio Noboru ai tre bambini di un viaggio che aveva fatto nel nord del Giappone: ne aveva regalato uno ciascuno, per cui quel portapenne non era mai stato oggetto delle loro contese.

Man mano che usava le matite, il mezzano non ebbe cura di riporle al loro posto e ben presto si ritrovò con i colori sparsi per tutta la scrivania. Quando, infine, afferrò l’ultimo, involontariamente urtò il gomito contro tutti gli altri colori che erano vicini ed essi finirono a terra, facendo un gran rumore.

Oh no!

Subito Takaji si voltò verso il fratellino, che in quel momento iniziò a muoversi.

Che guaio!

In men che non si dica il bambino chiuse il libro e lo ripose al suo posto; poi si precipitò a terra e afferrò le matite che erano cadute, per poi rimetterle nel portapenne.

Nel frattempo Yuzo aprì lentamente gli occhi, svegliato da quel baccano: come aveva ben profetizzato sua madre era bastato poco per ridestarlo dal suo sonno. Il piccolo si stropicciò gli occhi e diede un profondo sbadiglio; poi si voltò attorno e, non appena capì di non avere più la mamma accanto a sé, iniziò a frignare: sembrava non essersi accorto nemmeno della presenza del fratello, proprio a pochi passi dal suo letto.

A quella vista Takaji si allarmò: se sua madre e lo zio avessero sentito il fratellino piangere, lui poteva dire addio al Kakegawa Kachouen! Così tornò da Yuzo e cercò di calmarlo: non sapeva come, ma ci avrebbe provato in tutti i modi, pur di non vederlo in lacrime. «No... fratellino... ti prego, non piangere: giochiamo insieme... ma smettila di piangere, ti prego...»

L’altro sembrò calmarsi, al punto che Takaji fu sul punto di rassenerarsi. Ma suo fratello, dopo averlo guardato negli occhi per qualche secondo, tornò a frignare.

«Uaaah! Voglio la mamma!»

«Su... dai... smettila...»

«Mamma!»

Niente da fare: qualsiasi cosa Takaji gli stesse dicendo, non aveva alcun effetto su Yuzo. Il mezzano stette quasi per rassegnarsi... finché, ad un tratto, ebbe in mente un’idea: tirò un profondo sospiro e urlò a squarciagola, come se si fosse fatto molto male.

Yuzo si fermò, incuriosito da ciò che stava accadendo: anche se stava ancora singhiozzando, guardò il fratello maggiore con grande sbigottimento. «Ti... ti sei fatto male?» gli chiese.

«Eheheh!»

Takaji sorrise di gusto: era riuscito ad attirare l’attenzione del fratellino con grande successo. Si sedette sulle coperte e sussurrò nell’orecchio di Yuzo: «Stammi bene a sentire! Stiamo tutti facendo un gioco, e adesso arriverà la mamma: rimettiti subito a letto e dormi, ok?»

Il piccolo continuò a singhiozzare. «Ma io non ho sonno...»

«E allora fai finta di dormire! Devi farti trovare a letto fermo fermo e con gli occhi chiusi chiusi, se vuoi vincere il primo premio!»

«Quale premio?»

«Te lo dico dopo, ora rimettiti a letto!»

«E tu? Non giochi?»

Takaji tirò un sospiro, inventandosi su due piedi l’ennesima bugia di tutta quella storia. «Io ho perso subito...» mormorò con uno sguardo molto triste. Poi arruffò i capelli del fratellino e con determinazione continuò: «Ma a te non succederà! Ti aiuterò a vincere il gioco: dai, ora chiudi gli occhi e fai finta di dormire!»

Contento di aver trovato in Takaji un valido alleato per quell’improvviso gioco di cui non aveva capito molto, Yuzo fece come gli aveva detto, mentre il mezzano tornò velocemente presso la scrivania.

Proprio in quel momento si aprì la porta della cameretta. Nel vedere Yuzo che apparentemente stava ancora dormendo e Takaji che era seduto e lo stava osservando con lo stesso atteggiamento di un falco verso la sua preda, la loro mamma ne fu sorpresa: giurò che l’urlo che aveva appena udito proveniva proprio da quella stanza, ed era del suo secondogenito. Anzi... la donna poté anche giurare di aver sentito l’altro figlioletto piangere disperato; però la scena che stava vedendo era completamente diversa dalle sue aspettative.

«Takaji, ma... mi hai chiamato?» chiese Izumi sottovoce.

L’altro scosse la testa senza dire una parola.

«Non fare il bugiardo: ti ho sentito urlare... Cos’è successo qui?»

«Uuuuh, mamma...»

Takaji si alzò e raggiunse la madre; poi le fece cenno di chinarsi su di lui e mormorò: «Volevo prendere uno dei libri sulla scrivania... e mi è caduto sul piedino... però non mi sono fatto male, guarda!»

Il mezzano allungò la gamba verso di lei, agitandola senza problemi, e aggiunse: «Hai visto, mamma? Ho urlato, ma il fratellino non si è svegliato!»

Izumi alzò lo sguardo verso il lettino: il figlio era girato di spalle, e sembrava stesse ancora dormendo profondamente. Tornò a guardare Takaji, ora con l’animo rassicurato. «Va bene,» disse, arruffando i capelli del piccolino. «Io torno giù. Per qualsiasi cosa chiamami, ok?»

«Sì, mamma.»

La porta si richiuse, e Takaji poté tirare un altro sospiro di sollievo. La gita al Kakegawa Kachouen era ancora salva, per sua fortuna!

 

«Fratellone... ho vinto?»

Non appena sentì il rumore della porta che si era appena chiusa, Yuzo si girò sull’altro fianco mentre suo fratello tornò da lui. Entrambi si sedettero sul lettino, e Takaji sorrise.

«Non ancora,» rispose l’altro sottovoce. «Ora inizia il bello del gioco! Da adesso, qualsiasi cosa mi dici... dovrai dirla zitto zitto come sto facendo io, così la mamma non tornerà qui prima della fine del gioco!»

«Davvero?» chiese Yuzo, cercando di parlare con tono sempre più basso.

«Certo! E sai cosa si vince?»

«Cosa?»

«Una gita al Kakegawa Kachouen

«Ka... kake... che cos’è, fratellone?»

«È un luogo dove ci sono tanti uccelli colorati, e un sacco di fiori!»

«Tanti tanti?»

«Sì!»

Al più piccolo brillarono gli occhi e subito esplose di gioia. Esattamente come il fratello mezzano anche Yuzo amava molto la natura, con i suoi ampi e verdi spazi che ospitavano gli abitanti dalle mille forme e colori: il correre libero e indisturbato degli animali che la popolavano lo affascinava, e tra i tanti sogni che aveva nella sua mente c’era quello di voler camminare fianco a fianco con loro, parlare con loro e forse - chissà - anche dormire insieme a loro, se ci fosse stato un modo per farlo. «Che bello! Voglio andarci, voglio andarci!» esclamò con le mani verso l’alto, incurante del fatto che avesse improvvisamente alzato la voce.

Takaji gli sorrise e subito lo intimò di parlare in silenzio, con un semplice gesto, avvicinando l’indice alle labbra. «Sì, ma solo se farai il bravo... d’accordo?»

«Va bene!»

Yuzo scese dal letto e, di soppiatto, si avvicinò ai giochi che erano sparsi sul pavimento. Prese due peluche, una giraffa e una tigre, e diede quest’ultima al fratello. «Giochiamo a calcio!»

«Eh?»

«Sì!» esclamò il piccolo, afferrando anche una piccola palla di stoffa che la loro mamma gli aveva cucito. «Dai, giochiamo!»

Yuzo tornò sul lettino e, muovendo la giraffa, lanciò la palla verso suo fratello che la respinse con la tigre che aveva in mano. Dopo qualche passaggio, senza volerlo Yuzo lanciò la palla verso il portapenne che si smontò con l’impatto al suolo.

Il piccolo si avvicinò all’oggetto e cercò di rimettere insieme i pezzi, ma non ci riuscì. Li lasciò cadere a terra e piagnucolò: «Si è rotto...»

«Non si è rotto, fratellino! Lascia fare a me!»

Takaji scese dal letto, prese tutti i pezzi e aiutò il fratellino a rimontare il portapenne; quando ebbero finito lo rimise sulla scrivania, e mostrò uno sguardo pieno d’orgoglio.

«Visto? Come nuovo!»

Yuzo guardò con ammirazione il portapenne che ora era di nuovo al suo posto, sulla scrivania.

«Grazie, fratellone!» disse a Takaji, prendendolo per mano e trascinandolo verso il lettino. «Ora torniamo a giocare!»

«Sì!» rispose il mezzano con allegria. «E se dovesse rompersi qualcosa, io ti aiuterò ad aggiustarlo!»

Yuzo annuì, e rise di gioia. «Va bene!»

 

In quel momento la porta della cameretta si aprì leggermente. Izumi, che nel frattempo era rimasta nelle vicinanze, diede una fugace occhiata ai due bambini che erano tornati a giocare.

Con un sorriso richiuse la porta, avendo cura di non fare rumore per evitare di attirare l'attenzione dei suoi figli, e si allontanò scuotendo la testa con fare sereno.

Allora non mi ero sbagliata. Avevo ragione io: che piccoli furbetti!

 

 

 

Qualche ora dopo, la famiglia Morisaki si era radunata nel soggiorno. All’appello mancavano i genitori di Hideki, i quali - come ogni anno - non potevano lasciare incustodito il jinja di famiglia, e quelli di Izumi che quell’anno erano fuori dal Giappone per una crociera. Gli assenti, però, avevano avuto premura di consegnare a Izumi i regali per il loro nipotino che, non appena li aveva visti, non ci aveva pensato due volte a scartarli e a lacerare la carta regalo come un avvoltoio.

Per questo motivo Hideki, che era appena rientrato dal lavoro, si rifugiò nella cucina dopo aver salutato suo fratello Noboru e i suoi figli che giocavano con lui e si divertivano rincorrendosi a vicenda; giunto là, si tolse di spalle il borsone che aveva con sé sin dal mattino, lo aprì e prese un pacco che teneva ben nascosto, posandolo in un angolo della stanza e facendo ben attenzione a non essere visto dai bambini, soprattutto da Yuzo.

Izumi era invece intenta con gli ultimi preparativi del tavolo dei festeggiamenti: tovaglioli, piatti e bicchieri adornavano un piccolo tavolo in legno che avevano preso dal ripostiglio, che utilizzavano solo in occasione dei compleanni dei piccoli; l’intera stanza era un miscuglio di colori tra lunghe decorazioni in carta che penzolavano dagli angoli dei mobili e ghirlande di origami sparsi qua e là lungo le pareti.

Non appena terminò l’allestimento Izumi si diresse in cucina, prese la torta che aveva preparato e, tornando nel soggiorno, richiamò l’attenzione dei presenti. «Venite tutti qui, vicino al tavolo!»

Yuzo fu il primo a raggiungere la postazione. Noboru, che in quel momento aveva due dei suoi tre nipotini avvinghiati alle sue gambe, iniziò a muoversi a fatica verso il tavolo: doveva stare attento sia a non cadere, a non fare del male a quelle scimmiette che non si decidevano a lasciarlo libero.

«Dai, bambini...» sussurrò lo zio, cercando di essere il più gentile possibile con loro, «... potreste mollare la presa per un secondo? Così non arriveremo mai al tavolo!»

«No!» esclamò Takaji, stringendosi ancora di più alla gamba sinistra.

«Tutti insieme, vicini vicini!» affermò Ken'ichi, tenendosi ben stretto alla gamba destra.

«Ahahah, che lumache!» disse Yuzo, ridendo di gusto. «Io sono già qui, io sono già qui!»

«Dai, zietto: più veloce, più veloce!»

«Ha ragione il fratellino, sei lento!»

Noboru diede un profondo sbuffo, ma era felice di poter giocare ancora una volta con i suoi nipotini... nonostante la situazione di grande svantaggio nella quale si trovava. Con quei piccoletti finiva sempre in quel modo: quando tutti e tre erano d’accordo, era impossibile riuscire ad imporre la propria volontà. «Datemi tregua...» commentò lo zio con un sorriso, mentre a stento riuscì a raggiungere il tavolo.

A quel punto Hideki, che si trovava vicino alla porta d’ingresso, spense l’interruttore delle luci del soggiorno, lasciando che le candele accese della torta illuminassero la stanza. Tutti iniziarono a intonare la canzone di buon compleanno, mentre Izumi posò la torta di fronte a Yuzo.

«Tanti auguri a te, tanti auguri a te...»

Il piccolo festeggiato si divertiva ad essere al centro dell'attenzione, con gli occhi puntati solo su di lui: ogni volta che accadeva, quel momento diventava magico perché intorno a lui c’erano le persone che gli volevano bene, e questo sentimento era reciproco. Ebbe la tentazione di correre da ognuno di loro e abbracciarlo, ma sentiva che doveva restare fermo e non interrompere quel momento, solo un altro po’.

«Tanti auguri a Yuzo...»

Ci fu una breve pausa come da tradizione, e Takaji fu subito il primo ad intonare «Tanti auguri a te!» seguito dal resto del gruppo.

«Dai, Yuzo: soffia, soffia!» proseguì il mezzano, incoraggiando il fratellino a soffiare le candeline.

«Così dopo mangiamo la torta!» aggiunse Ken'ichi.

«E invece no: me la pappo tutta io!»

«Papà!»

I tre bambini urlarono in coro, con un’espressione di sbigottimento calata improvvisamente sui loro volti.

Hideki scoppiò in una fragorosa risata e si scusò con loro. «Tranquilli, stavo scherzando! Ma prima Yuzo deve aprire i regali, altrimenti niente torta davvero!»

«Uffa...»

Ken'ichi e Takaji misero su un broncio che fu di breve durata, mentre a Yuzo brillarono gli occhi per quella bella notizia che le sue piccole orecchie avevano appena udito: altri regali era per lui un sinonimo di altri giocattoli con i quali divertirsi, e non vedeva l’ora di scoprire cosa avessero preparato i suoi genitori e fratelli.

Hideki corse in cucina per prendere il regalo che aveva nascosto e lo portò nel soggiorno. «Ta-da! Questo è per te, Yuzo!»

Al piccolo si illuminarono gli occhi e tese le braccia per cercare di afferrarlo; ma per fortuna Noboru sollevò Yuzo prima che finisse sulla torta con risultati disastrosi.

«Ma prima devi esprimere un desiderio e soffiare le candeline!» disse Noboru, tenendolo ancora sospeso per aria.

Yuzo annuì: era, sì, più interessato al regalo, però decise di accontentare lo zio. Prese fiato e spense le candeline con tutta la forza che aveva.

«Bravo!» disse Noboru tra gli applausi di tutti i presenti, e subito prese dietro di sé una busta colorata a forma di sacchetto, per darla a suo nipote. «E questo è il tuo, tanti auguri!»

«Aspetta, fratellino!» disse Ken'ichi, correndo dall'altra parte della stanza e prendendo una piccola confezione di cartone che lui e Takaji avevano nascosto dietro il divano. «Anche questo è tuo: è il mio e di Takaji!» esclamò, porgendo l’oggetto a Yuzo.

Il festeggiato fu contento di tutti quei regali e, mentre la mamma tolse la torta dal tavolo per affettarla, si rivolse a Noboru mostrandogli il suo regalo ancora chiuso. «Zietto, apro questo?»

«Certo! Afferra e distruggi: là dentro non c'è nulla che si possa rompere!»

Senza pensarci due volte, Yuzo strappò la carta regalo che lo avvolgeva: al suo interno trovò un peluche di un coniglio giallo dagli occhi azzurri, dalle orecchie che assomigliavano a due piccole ali, e indosso una divisa color arancione. Non appena lo vide, il bambino aprì ancora di più i suoi occhi: infatti non aveva tra le mani un coniglio qualsiasi, ma era...

«Pulchan!»

Yuzo l’aveva visto qualche volta in televisione: era la mascotte della Shimizu S-Pulse, ma il bambino non sapeva bene cosa ci facesse un gigantesco coniglio su un campo da calcio; ciò che l'aveva colpito fin da subito era, piuttosto, il fatto di essere un coniglio e indossare una divisa da calciatore di colore arancione, e gli era simpatico già dal modo in cui si muoveva sul campo con le sue danze. Da allora il piccolo aveva tormentato il padre per giorni ad avere un Pulchan a casa sua; per fortuna del genitore, lo zio lavorava proprio in un negozio dove vendevano qualsiasi cosa a tema “Pulchan”, per cui Hideki aveva suggerito a Noboru di regalare a suo nipote un peluche, così che poteva giocarci insieme.

Yuzo si voltò e si gettò addosso allo zio, così da abbracciarlo per la gioia. «Grazie, zietto! È bello!»

«Ora apri il nostro!» Ken'ichi e Takaji presero i bordi della maglietta che indossava il loro fratellino, cercando di richiamare subito la sua attenzione. «Dai, dai: aprilo!» continuarono in coro.

Yuzo prese la scatola e, con sveltezza, tolse il nastro che l'avvolgeva. L’aprì e trovò al suo interno altri due peluche: due orsetti, che fino a quel giorno erano dei due fratelli, che avevano addosso due magliette arancioni - opera della loro mamma - con le iniziali “KE” e “TA”.

«Allora...» iniziò Ken'ichi indicando il suo orsetto, «la mamma dice che su questi orsetti ci sono le nostre iniziali...»

«Così penserai a noi anche quando non ci siamo!» aggiunse Takaji.

Yuzo guardò i due peluche con gli occhi colmi di felicità, e strinse Ken'ichi e Takaji in un grande abbraccio. «Sono belli, grazie!»

«E ora...» interruppe Hideki, appoggiando l'ultimo regalo sul tavolo. «Ti manca solo questo!»

Il padre diede una fugace occhiata alla moglie, che nel frattempo si era affacciata dalla cucina. «E sono certo che ti piacerà tanto!»

Subito Yuzo strappò la carta colorata che avvolgeva il regalo e aprì la scatola, trovando al suo interno un’altra scatola. Il piccolo rise per quell'insolita sorpresa, prendendola come un gioco; così aprì anche quella scatola: ne trovò un’altra, e un’altra ancora... fino ad arrivare all'ultima.

«Ok, ci siamo!» esclamò Izumi. «Tutti pronti a fare “Ooooooh...”»

«Ooooooh...» ripeterono i presenti in coro.

Yuzo sollevò il coperchio della scatola, e guardò con sorpresa il contenuto. Non riusciva a crederci: dentro quella scatola, proprio lì, davanti ai suoi occhi... vi era un piccolo pallone da calcio. Lo prese in mano, e i suoi occhi iniziarono a essere sempre più lucidi per la gioia. «Un pallone... un vero pallone! Ed è così grande!»

Hideki e Izumi si avvicinarono a lui, e gli dissero: «Siamo felici che ti piaccia!»

«Sì! Tanto tanto! Grazie!»

Il bambino scese subito dalla sedia e corse verso i genitori per abbracciarli. La coppia aveva sempre cercato di accontentare i desideri dei loro figli con i vari regali di compleanno: a Ken'ichi avevano regalato tutto a tema marino, dai peluche ai libri, soprattutto con i suoi amati squali; a Takaji che, crescendo, sembrava essere più affezionato al mondo della foresta - in particolare agli uccelli e al lupo - nei suoi regali predominavano gli elementi della natura. Ora toccava al piccolo Yuzo che, nonostante fosse ancora piccolo, sembrava già avesse una predilezione per il calcio: il terzogenito quasi si incantava a vedere le partite che si svolgevano nel campetto del parco della città, quando con la mamma o con il papà usciva per una passeggiata. Anche se ancora non capiva molto delle dinamiche di quel gioco, quel mondo sembrava affascinarlo: amava il modo in cui quei ragazzini calciavano la palla, e come sembravano essere felici quando riuscivano a metterla in rete.

Hideki e Izumi erano contenti di vedere il loro figlioletto così pieno di entusiasmo con il suo nuovo gioco: erano riusciti, ancora una volta, nel loro obiettivo.

Stringendo il pallone tra le mani, Yuzo si precipitò verso la porta del soggiorno con il chiaro intento di uscire fuori di casa: era molto emozionato e sempre più impaziente di provare il nuovo gioco che aveva tra le mani. «Vado fuori a giocare, ciao!»

Ma Noboru riuscì a prenderlo in tempo, prima che si dileguasse. «Dove credi di scappare, monellino?» gli disse bonariamente. «Ricordi cosa dobbiamo fare adesso? Dobbiamo...»

«Ah, sì!» esclamò il piccolo, tornando da Takaji. «Lo so, lo so! Fratellone, chi ha vinto il gioco?»

«Quale gioco?» Hideki si avvicinò al fratello, sinceramente incuriosito da quella domanda, e gli sussurrò compiaciuto: «Hai messo in palio qualche bel premio per i miei figli? Che bravo zietto che sei!»

«Beh, veramente...» L’unica cosa che Noboru riuscì a ricordarsi era la promessa che aveva fatto a Takaji. Ma egli non ne aveva ancora parlato con Yuzo, perciò...

In un attimo, come un improvviso lampo nel cuore della notte, gli venne un’illuminazione. Vuoi vedere che quel furbetto...

«Sì!» esclamò Takaji, salendo in piedi sulla sedia dove prima si trovava Yuzo. «Il vincitore è... sei tu, fratellino!»

«Evviva!» urlò il festeggiato e alzò le braccia per esultare, lasciando così che il pallone cadesse a terra. «Ho vinto, ho vinto! Andrò dagli uccelli colorati! Al Ka... Ka... Come si chiama, fratellone? Non ricordo!»

«Kakegawa Kachouen!» esclamò candidamente il secondogenito, voltandosi verso lo zio e dicendogli: «Ce l'hai promesso! Ho fatto il bravo, e anche Yuzo: ci porti al Kakegawa Kachouen

«Al Kakegawa Kachouen?» chiese Ken'ichi. Anche lui aveva subito capito a cosa si stesse riferendo Takaji, sebbene fu sorpreso di udire che si fosse svolto un gioco al quale lui non aveva assolutamente partecipato. «Sì, zietto!» aggiunse, unendosi all’euforica richiesta degli altri due fratelli. «Ti prego, ti prego: andiamo là!»

I tre bambini si avvicinarono al loro zio e iniziarono a tirarlo per la maglietta, continuando a rivolgergli quell’incessante richiesta. Sotto lo sguardo divertito dei genitori, Noboru si rassegnò all’evidenza e annuì, e i tre piccoli lo celebrarono subito con un tripudio di gioia.

Ora che si era diffusa la notizia, egli doveva accompagnare non solo Takaji... ma tutti e tre i suoi nipoti, offrendo loro il biglietto di ingresso: lo avrebbe fatto ben volentieri, però in quel momento venne mortificato dal pensiero che quei tre piccoletti sapessero già dove li avrebbe portati nella successiva uscita di famiglia. Tranne per Takaji e i suoi genitori, per gli altri due nipotini doveva essere una bella sorpresa!

Lo sapevo! - pensò, prendendo in braccio Yuzo che iniziò a giocherellare allegro con i suoi capelli lunghi fino al collo. Quella piccola peste di Takaji... volevo essere io a dirlo a Yuzo: ha rovinato la sorpresa finale!

 

 

Note dell'autore:

[1] L’ukiyo-e è una tipica forma d’arte giapponese del periodo Edo caratterizzata da xilografie incise su blocchi di legno dipinti e utilizzati per le stampe su carta di numerose copie; in genere rappresenta sempre paesaggi, natura, quartieri o soggetti teatrali. Maggiori informazioni qui e qui.

[2] Il sakaki (nome scientifico: Cleyera japonica) è un albero sempreverde che nella religione shintoista è considerato sacro; infatti non è raro che i santuari siano circondati da alberi di sakaki. Nel corso delle varie cerimonie che si svolgono presso i santuari, è d’uso decorare i rami di questi alberi con fettucce di carta per creare i tamagushi, che vengono poi presentati alle divinità.

[3] Gli abiti dei sacerdoti shintoisti (shōzoku) sono tanti e variano in base al ruolo svolto; tra essi c’è il kariginu, il vestito quotidiano dei sacerdoti (e che vedremo a breve), il saifuku e la hakama come nel caso di Hotaka, una toga con tipica gonna a pieghe giapponese che è lunga fino alle caviglie. Maggiori informazioni anche qui.

[4] Il kannushi è la più alta carica sacerdotale che opera in un santuario, incaricato della custodia di un jinja e dell’organizzazione delle cerimonie. In origine il kannushi era una figura carica anche di un profondo significato spirituale poiché tramite tra le divinità e l’uomo, per cui era considerata molto sacra. I kannushi possono avere una famiglia e, come avveniva un tempo, i loro figli possono succedere nel loro ruolo.

[5] Esiste un esame di abilitazione per diventare dei sacerdoti shintoisti (o shinshoku), oppure frequentare anche una scuola approvata dall’Associazione dei santuari shintoisti. Il gon-negi è il ruolo al quale può aspirare Hotaka in questo punto della storia poiché novizio, mentre il più alto rango viene definito gūji.

 

 


 

[Angolo di una piccola pinguina nelle vesti di scrittrice.]

Rieccoci qui: dopo la pausa del Writober, siamo tornati con il terzo capitolo di quest'opera (che di parte in parte inizia ad essere più lunga!) Posso già anticiparvi che da questo punto in poi gli aggiornamenti saranno più regolari - anche se ho iniziato il NaNoWriMo, ma per fortuna non devo pubblicare nulla nell'immediato a parte queste parti che ho già preparato prima dell'inizio di questo evento. Per cui nessun problema: continuerò a tenervi compagnia con questa storia! ;)

Qui iniziamo ad entrare nel vivo della storia di Yuzo: tutti i capitoli, sia quelli su Yuzo che gli altri su Shingo, avranno una differenza tra loro di tre anni per cui si procederà così: tre, sei, nove, dodici... per cui questo e il capitolo successivo riguarderanno i due compleanni dei tre anni di questi pargoletti che adoro. In particolare da qui i due protagonisti sono cresciuti un po', per cui inizieranno ad interagire con la loro famiglia e con il mondo che li circonda...

Come avete visto, in questo caso le note sono state abbondanti perché legate ad un ambiente religioso dell'Oriente, e qui è mio dovere raccontare brevemente di ciò che ha fatto nascere la parte sul santuario dei Morisaki, perché era totalmente assente nella prima stesura dell'intera opera: principalmente la volontà di dare dei nonni a Yuzo, scaturito in seguito ad una conversazione a ruota libera con Melanto. Pensando e ripensando al come inserirli nella storia, mentre stavo scrivendo l'undicesima parte di quest'opera (per cui molto, molto avanti...) e ragionando sul cognome di Yuzo (con quei due kanji di "foresta" e "promontorio" che sono ben in evidenza) mi è venuta in mente l'idea di un santuario posto sulla famosa collinetta del belvedere dal quale Tsubasa lancia il pallone a Genzo.

La storia di quel belvedere è molto complessa e cambia di volta in volta, dal manga all'anime - una volta è la cima del colle stesso, una volta vedi qualcosa che c'è alle spalle... - e per questo non sono stata ad indagare più di tanto ma già da un primo sguardo ho notato qualche differenza. Anche se nel primo capitolo del manga è evidente che il belvedere si trova sulla cima della collina (e lo è ancora di più nel capitolo 44 del World Youth), nella prima puntata dell'anime del 2018 si vede un sentiero non asfaltato che porta ancora più su, verso dove non si sa; tra l'altro, nella prima puntata dell'anime del 1983 si vede la presenza di un edificio che ricorda il classico tempio giapponese (confermato anche da Genzo che lo definisce proprio "jinja" nell'audio originale), elemento ripreso anche nella terza puntata dell'anime J con tanto di scalinata che lo precede... Riassumendo: se nel manga la cosa non è confermata perché su quel colle sembra non esserci nulla di più - o il tempio shintoista è nascosto bene tra gli alberi che si vedono alle spalle - nell'anime sembra che ci sia un accenno alla presenza di un'area sacra dedicata agli dei; il punto è che nell'anime viene rappresentato nelle immediate vicinanze, e in un certo senso ciò contrasta con la filosofia di questi luoghi dove, essendo luoghi di pace, di norma non si può correre o fare molto rumore (per cui è impensabile che per esempio Tsubasa e Taro si divertino a passarsi il pallone davanti al tempio, LOL)

Dunque, quale è stata la soluzione che ho voluto dare a quel luogo? Molto semplice: riprendere lo scenario dell'anime del 2018 e piazzare il jinja (cioè il santuario shintoista giapponese) sulla cima di quel colle che in questo caso diventa più alto, trasformandosi in una montagna quando in origine si tratta di una semplice collina. Anche per questo la mia storia è una What if, no? ;D

Prima di proseguire con il discorso del santuario e del relativo collegamento con i Morisaki, di seguito vi riporto la seconda "appendice" dei nuovi personaggi comparsi qui e direttamente collegati al jinja - non in ordine di apparizione:

 

- Shigeru 「茂」 è il padre di Hideki, e fratello di Sadao. Rigoroso e austero, ma con un lato dolce e affettuoso che mostra raramente e solo nei confronti dei membri della sua famiglia, è uno dei sacerdoti che ogni giorno si prende cura del santuario degli yama-no-kami del territorio di Nankatsu, e guidato da membri della famiglia Morisaki sin dalla sua fondazione. Essendo il primogenito, in principio era destinato a diventare il kannushi del santuario, ma in seguito aveva deciso di lasciare questo importante ruolo a suo fratello, vedendo in lui un legame con gli dei molto più forte del suo. Il suo nome significa "fiorente/lussureggiante" (essendo il primo di famiglia, doveva pur sempre avere un nome beneaugurante... ;D)

- Ayaka 「彩華」 è la moglie di Shigeru. Dolce e sensibile, è una delle due donne che insieme ai fratelli Morisaki gestiscono il santuario di famiglia. Il suo nome significa "petali colorati".

- Sadao 「貞雄」 è il padre di Hotaka, nonché kannushi del santuario della famiglia Morisaki. A differenza del fratello è gioioso ed estremamente scherzoso, e non ama molto le formalità nonostante sia un personaggio profondamente rispettato da tutta la città di Nankatsu. (A questo punto è ovvio che Noboru, che è suo nipote, ha preso da lui e non da suo padre... XD) Il suo nome significa "uomo forte come un fusto d'albero".

- Michi 「道」 è la moglie di Sadao. Insieme ad Ayaka si prende cura del santuario, svolgendo diverse mansioni. Il suo nome significa "sentiero".

- Hotaka 「穂高」 è l’unico figlio di Sadao e Michi. Fin da piccolo ha amato restare accanto ai genitori nella cura del santuario di famiglia, e in questo capitolo sta studiando per diventare un sacerdote shintoista (e futuro kannushi dato che, a quanto pare, è l'unico della discendenza a trovarsi in quel luogo). Il suo nome significa "Passo dopo passo": piccolo fun fact, è lo stesso nome del monte più alto delle Alpi Giapponesi. :3

 

Detto questo, perché proprio i Morisaki? Sia chiaro: non è perché è la famiglia del mio personaggio preferito, ma la storia del santuario di famiglia è scaturita proprio da quel cognome. "Morisaki" 「森崎」 è composto da due kanji, il primo è quello di foresta 「森」 mentre il secondo quello di promontorio 「崎」; letteralmente questa combinazione di kanji si potrebbe interpretare come "la foresta sul promontorio" dunque che si trova su un punto molto elevato - il promontorio è una sporgenza montuosa della costa che si protende nel mare, con sponde ripide, e a volte uno stesso punto di riferimento per i navigatori data la presenza di fari o rocche su di esso. In quella zona di Nankatsu non c'è la presenza di promontori (anche se il mare è vicino) ma quella collinetta alla quale vi ho fatto accenno poco prima potrebbe richiamare qualcosa del genere; così, combinando questo elemento con gli altri dei quali prima vi ho scritto, mi sono inventata la storia della fondazione del santuario ad opera dell'antenato che sale sulla cima di quella montagna e scongiura tale catastrofe. Per cui, ecco qui il santuario della famiglia Morisaki che di generazione in generazione continua a prendersi cura di quel luogo...

Strettamente collegato ad esso vi è la complessa questione degli yama-no-kami, le divinità della montagna. Nella mitologia giapponese queste divinità sono davvero tante e dai tanti nomi che qui non vi elenco, ma sappiate che ogni santuario è intitolato ad una specifica divinità: ad esempio Konohanasakuya-hime (o comunemente conosciuta come Sakuya-hime) è la figlia del dio della montagna Ohoyamatsumi ed è proprio la divinità del monte Fuji, per cui i santuari che si trovano in quel luogo sono dedicati a lei. In generale gli yama-no-kami sono divisi in due gruppi: vi sono gli dei della montagna venerati da cacciatori, boscaioli e carbonai, e gli dei dell'agricoltura che arrivano dalla montagna e venerati dagli agricoltori.

Nel caso di Nankatsu non ho (ancora) inserito uno specifico nome, perché davvero per me è un intero e vasto mondo ancora tutto da scoprire... per cui alla fine ho lasciato le cose in modo generico. Magari chi è più esperto di me può suggerire un nome di una divinità del gruppo degli yama-no-kami con il perché dell'associazione con Nankatsu, cosa ne dite? ;)

Chiusa questa ampissima nota, passiamo alle altre precisazioni che non ho inserito nelle note del lettore:

 

- Il santuario shintoista giapponese (detto anche jinja) è composto da diverse parti che potete visualizzare in questo schema. Il jinja è preceduto da un sentiero spesso non asfaltato e quasi impervio - anche per questo motivo ho preso come riferimento l'immagine del belvedere di Nankatsu dell'anime del 2018 - che giunge al primo e imponente ingresso denominato torii; dal torii solitamente si accede all'area templare attraverso una scalinata in pietra che porta al sandō, la via che a sua volta porta all'haiden, la sala di culto aperta a tutti; dietro all'haiden esiste l'equivalente del nostro Sancta Sanctorum, denominato honden, più piccolo e privo di decorazioni. Nel 1946 è stata fondata l'Associazione dei santuari shintoisti (Jinja Honcho) con lo scopo di amministrare in modo uniforme i santuari shintoisti del Giappone; è la stessa Associazione che si occupa anche dei citati esami di abilitazione per diventare shinshoku, cioè un sacerdote che può operare all'interno del santuario.

- I versi degli animali nella lingua giapponese sono un po' diversi dai nostri, tanto è vero che il nostro "miao" tipico dei gatti diventa "nya" in Giappone. Per il gioco che Noboru fa con i suoi nipotini mi sono ispirata a questa guida sulle onomatopee dei versi degli animali in giapponese, dove "hihiin" è il verso del cavallo - solo che Noboru lo fa talmente male che sembra più la sirena della polizia... XD

- Per chi ancora non lo sapesse, la J.League è il campionato giapponese di calcio professionistico, con tre divisioni (J1 League, J2 League e J3 League) al pari delle nostre Serie A, B e C. Se volete avere maggiori dettagli e masticate un po' di inglese, potete dare un'occhiata al sito ufficiale con tutte le informazioni sulla durata, sui club che partecipano e sul come funziona il tutto. Chi è già avanti con la lettura del manga intuisce anche il perché ogni tanto esce fuori questo argomento, non solo - ovviamente - per offrire uno spaccato di vita quotidiana in stile giapponese (la discussione sulla televisione ne è l'esempio più lampante, come se qui in Italia la frase sarebbe stata "Come fai a vedere la Serie A se metti la TV in quel modo?"). Per cui, forse i più attenti di voi avranno già notato anche il dettaglio del colore delle magliette dei peluche dei due fratelli... ebbene sì, l'ho fatto apposta. ;D

- A proposito dei peluche, una doppia nota. La prima riguarda le iniziali "KE" e "TA", che sarebbero le iniziali dei nomi di Ken'ichi e Takaji; immaginatele scritte in hiragana, per cui su quelle magliette è riportata rispettivamente una cosa del genere: 「け」 e 「た」 (certo: Izumi avrebbe potuto scriverli anche in katakana, ma Yuzo deve ancora imparare tutto il complesso sistema dell'alfabeto giapponese per cui questo diventa anche un'occasione di apprendimento...) La seconda nota riguarda il colore delle magliette. Al di là della questione alla quale vi ho fatto accenno prima, togliendo tutto il contesto di CT dallo sfondo: pensando a Yuzo ho sempre immaginato che il suo colore preferito fosse proprio l'arancione; pensate che nella prima stesura di questa parte, infatti, avevo specificato che le decorazioni del tavolo e del soggiorno fossero proprio di tale colore, perché piaceva molto al bambino. Non chiedetemi il perché di questa scelta (fatta proprio a pelle) ma, giusto per una piccola curiosità, sappiate che uno dei significati del colore arancione è proprio la comprensione e la vitalità - doti che si trovano in Yuzo, in effetti...

- Ho immaginato così l'effettiva lunghezza della libreria dei Morisaki, che occupa quasi tutta la parete. Ora, riguardo la casa dei Morisaki in sé non abbiamo molti dettagli, se non due: uno proveniente dal manga (capitolo 15) e l'altro proveniente dall'anime del 2018 (episodio 13) nei quali si vede Yuzo che guarda la televisione, in quella che sembra essere più la sua stanza che un soggiorno; dunque al momento non abbiamo dettagli delle altre zone della casa dei Morisaki. Detto ciò, la libreria che ho immaginato è così lunga ma del tipo "zigzagata" per cui non c'è molto spazio per collocare una televisione sulla stessa parete se non al fianco di essa (che in questo momento non c'è perché la lunghezza è quella che vi ho segnalato). A meno che, come ha indicato Izumi, non si metta all'estremo angolo... Il mobile è il dono dei genitori di Izumi, cioè i nonni materni di Yuzo e dei suoi fratelli; anche loro hanno un nome, ma dovrete attendere un po' per scoprirlo. ;)

- A proposito della cameretta di Yuzo: in questo caso ogni fratello ha una stanza a sé - come di solito vediamo negli anime e nei manga - situata al primo piano della loro casa. Per questo piccolo terzogenito della famiglia ho immaginato un lettino futon rigorosamente posto a terra, per cui Yuzo non ha problemi a salire e a scendere dal letto (d'altronde, ha già tre anni...)

- Il Kakegawa Kachouen è un parco a tema floreale, dove si trovano anche un sacco di uccelli tra i quali proprio i pinguini (amori miei! **) In giro trovate un sacco di articoli informativi di questo parco, tra i quali il sito turistico della città di Hamamatsu nella prefettura di Shizuoka.

- "Ci fu una breve pausa come da tradizione." Questa frase non è stata scritta a caso perché in Giappone la classica canzone del compleanno è identica alla nostra in tutto e per tutto, tranne per un piccolo particolare: si fa una pausa più prolungata quando pronunciano il nome del festeggiato, come avviene in questo caso (dal minuto 7:38); inoltre solitamente viene cantata in lingua inglese e non in giapponese, anche se qui ho lasciato direttamente in italiano per semplificare il tutto.

- Pulchan è la mascotte della Shimizu S-Pulse, una delle squadre di calcio della J.League, del territorio di Shizuoka. (E qui ammetto di non averla citata a caso, LOL!) Lavorando proprio in un negozio che tra le tante cose vende anche gadget a tema sportivo, per Noboru non è stato difficile reperire un peluche di questa carinissima mascotte dalle orecchie che assomigliano a due piccole ali. Ora, al di là della squadra per la quale simpatizzano i Morisaki (per cui, mettendo il caso che tifano tutti per la S-Pa si potrebbe pensare che anche i genitori di Yuzo abbiano influenzato i loro figli - un po' come avviene anche da noi con intere famiglie che tifano Juventus, Milan, Inter e così via), immaginate negli occhi del piccolo Yuzo l'effetto che fa il vedere un gigantesco coniglio di colore arancione su un campo da calcio: per un bambino della sua età ho immaginato che fosse normale desiderare un peluche a forma di quella mascotte - tra l'altro, trovandosi Nankatsu nel territorio di Shizuoka, è anche normale che una mascotte come Pulchan abbia un impatto maggiore rispetto alle altre... ;D

Il nome può essere scritto in diversi modi: sul web a volte si trova la dicitura "Pal-chan" (come nel caso del sito della J.League) per richiamare la pronuncia del nome che è all'inglese, essendo "Pulse" un richiamo al battito del cuore (e a sua volta un termine della lingua inglese), oppure come "pal" (altro termine inglese) che significa "amico"; a volte il nome della mascotte può essere scritto tutto attaccato, come ho fatto io, oppure con un trattino per separare i termini "Pul" e "chan", quest'ultimo tipico suffisso onorifico giapponese. Qui e qui potete trovare la spiegazione a questa storia di "Pul" e "Pal". In più, questa mascotte è spesso accompagnata da Pical-chan, una coniglietta dal suo stesso colore e stesse orecchie alate.

(Riguardo tutto questo argomento, qui può illuminarci la massima esperta di Yuzo e della S-Pa - indovinate chi? :D - qualora dovesse esserci qualche imprecisione in ciò che ho appena scritto...)

Se volete vedere Pulchan "in azione", qui e qui potete trovare due dei brevi video che circolano sul web. :)

- Infine, ultima nota ma non meno importante: c'è un motivo per il quale il piccolo Yuzo potrebbe sembrare un po' OOC in questa parte. Della serie: "cos'è successo al piccolo Yuzo così tranquillo che vediamo all'inizio della serie di CT? Perché qui è così scatenato; non dovrebbe essere più calmo?" Beh: non dimentichiamoci che a quell'età è del tutto normale essere bambini vivaci e casinisti, ed è altrettanto normale che il comportamento sia quello in presenza di altre due piccole "tempeste"...

...

... circa. Tranquilli che ho previsto anche questo e aggiusterò il tiro nel corso di questa storia: presto vedrete lo Yuzo al quale siete abituati dai primi capitoli di CT. :3

 

Per oggi penso di aver detto abbastanza (forse anche troppo, LOL!), per cui ci vediamo direttamente al prossimo aggiornamento, con un altro piccolo "tornado" pronto ad accogliervi!

A presto!

--- Moriko

 

 

   
 
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