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Autore: Brika    07/11/2020    0 recensioni
Emma è una ragazza italiana, in vacanza a Miami insieme al proprio fidanzato. Oltre che per diletto, la coppia si trova in America per poter aprire il locale dei sogni di Nicolò, ma quando lui rivela le sue reali intenzioni, Emma si troverà davanti ad un bivio: tornare a casa o continuare con il suo progetto di vita?
E cosa ne sarà del misterioso ragazzo che le offre il suo aiuto?
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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La rabbia mi ribolliva nelle vene come mai aveva fatto prima.
Presi dall’armadio la mia valigia e iniziai a buttarci dentro tutte le mie cose, alla rinfusa. Ero stufa di essere trattata come una pezza da piedi e quello era il momento adatto per uscire dalla scena.
Mentre preparavo, o meglio, riempivo alla rinfusa, la valigia, calde lacrime iniziarono a bagnarmi le guance, lente ed inesorabili. Ma sapevo che non mi sarei potuta fermare, non lì, non in quel momento. Se lo avessi fatto, non sarei più andata via, non mi sarei salvata nemmeno quella volta.
Il cambiamento non arriva mai come per magia, non se non lo vogliamo. Lo avevo imparato a mie spese, nel peggiore dei modi: sulla mia pelle.
Mi asciugai le guance e iniziai a trascinare la valigia fuori dalla stanza e lungo il corridoio. Arrivata nella hall mi guardai intorno spaesata e il coraggio mi venne meno; dove sarei andata a stare? Cosa ne sarebbe stato della mia vita, visto che tutto ruotava intorno a lui?
I muri sembrava che si stessero rimpicciolendo ed io iniziai a sentirmi soffocare. Corsi fuori, sulla strada, con gli occhi di tutti che mi fissavano interrogativi, non capendo da cosa stessi scappando.
Il sole mi abbagliò e portai la mano davanti agli occhi per proteggermi. Nel farlo notai la piccola striscia pallida sul mio anulare in mezzo alla mia mano abbronzata lasciato dall’anello che avevo tolto. L’avevo lasciato sul mio comodino, oramai vuoto, solo, senza una lettera o un biglietto.
Non volevo che mi scrivesse, chiamasse o trovasse, non in quel momento almeno. Volevo stare sola, o forse volevo solamente stare lontana da lui?
La vita delle persone intorno a me continuava imperterrita, ignare del mio dramma e di quello che stava succedendo nella mia vita. Tutti intorno a me ridevano, chiacchieravano e si dirigevano verso la spiaggia dalla bianca sabbia e il mare cristallino che si estendeva, calmo e tiepido a perdita d’occhio.
Nessun taxi in vista che mi potesse portare in aeroporto e questo mi scoraggiò maggiormente. Perciò iniziai a camminare lentamente, con la mia valigia gonfia e pesante che mi seguiva, fino ad una panchina nascosta all’ombra di una grossa palma.
Mi sedetti ed estrassi il pacchetto di sigarette dalla borsa e, mentre ne accendevo una, il peso di tutta quella situazione mi crollò addosso ed io iniziai a piangere.
Mi sentivo completamente persa e spaesata, quando mi sentii toccare la spalla con fare leggero. Mi voltai e con gli occhi gonfi di lacrime, riuscii ad intravedere una figura alta e snella che mi porgeva qualcosa.
"Ehi, è tutto ok?" mi chiese il ragazzo, in inglese, con una certa incertezza, forse spaventato da quella che era la situazione in cui mi trovavo, o forse non era certo che parlassi la sua lingua, vedendo la mia valigia con il tag dell'aeroporto di Torino attaccato alla maniglia.
"Se lo fosse, non sarei qui a piangere!" gli risposi, probabilmente troppo sarcastica per quelli che erano I suoi standard. Il ragazzo fece un incerto passo indietro, credendo di essere motivo di fastidio. Lo guardai meglio e notai che stava reggendo un fazzoletto; mi asciugai gli occhi con il dorso della mano e mi decisi a guardarlo in faccia. Come I miei occhi incontrarono I suoi, mi fece un enorme sorriso, talmente contagioso, che non potei fare a meno di ricambiare.
"È per me?" gli chiesi indicando il piccolo pezzo di carta con un dito.
"Oh, certo che si!" e me lo appoggiò sul palmo. La mia improvvisa gentilezza lo aveva stupito, glielo si poteva leggere in faccia. Io, intanto, mi ero asciugata le lacrime dalle guance e potei osservare più dettagliatamente la persona davanti a me. Era un ragazzo alto, davvero tanto alto, con la figura slanciata e spessi capelli neri. Gli occhi erano scuri come I capelli ed avevano quell'incurvature comune a tutte quelle persone che sorridono tutto il giorno. Indossava una canotta blu abbinata ad un costume da bagno a bermuda rosso con delle palme blu disegnate.
"Stai bene?" mi chiese, visibilmente preoccupato. Non riuscivo a spiegarmi come mai un completo sconosciuto si potesse interessare di me e di come stessi.
"Io… non lo so. La mia testa è così piena di pensieri che credo che mi possa scoppiare." lasciai andare un grosso sospiro e le lacrime cominciarono a scendere nuovamente.
"Scusami, non riesco a smettere di piangere" arrossii dicendolo. Il ragazzo mi sorrise dolcemente e mi porse una mano.
"So io cosa ti serve, vieni con me." probabilmente feci una strana smorfia perché si affrettò ad aggiungere: "Tranquilla non sono un maniaco!" facendone seguire una risata contagiosa.
Presi la sua mano e mi alzai, afferrando la maniglia della valigia.
"Dalla a me, la facciamo mettere in camera mia e la riprendi dopo." ogni singola cellula del mio corpo stava urlando di non fidarmi di quel ragazzo tanto gentile, ma il mio cuore faceva ancora più rumore nel dirmi che era la cosa giusta da fare e che fosse esattamente quello di cui avevo bisogno.
Seguii il misterioso ragazzo dal primo fattorino libero dell'hotel a cui porse la mia valigia, un biglietto da 20 dollari e chiese di portarla nella sua camera, indicandone numero e piano.
Con la mia mano sempre stretta nella sua, mi guidò fino a un piccolo locale a dieci minuti dall'albergo, un po' scostato dalla spiaggia. Era un posto intimo e tranquillo, con alcuni tavolini all'esterno, all'ombra di grandi ombrelloni bianchi.
Mi fece sedere ad un tavolino per due persone e il contatto con il metallo fresco della sedia mi fece venire I brividi lungo tutta la schiena.
Con un cenno della mano richiamò l'attenzione del cameriere che venne a prendere la nostra ordinazione.
"Ciao Milo, cosa vi porto di buono oggi?" chiese cortesemente al mio accompagnatore.
"Il solito, ma per due questa volta!" un altro grosso sorriso proruppe sulle labbra di Milo e mi sentii scaldare nuovamente il cuore.
Quando il cameriere lasciò il tavolo, l'attenzione di Milo tornò a focalizzarsi su di me e con I gomiti appoggiati al tavolo e le mani a reggergli il mento mi chiese, nella più dolce delle maniere:
"Dai, dimmi cosa succede."
La sua presenza mi calmava e non potei fare a meno di raccontargli quello che era successo.
 
Ero arrivata a Miami due sere prima, insieme al mio ragazzo storico, dall'Italia. Avevamo deciso di unire l'utile al dilettevole e di fare una piccola vacanza mentre lui veniva a conoscere un possibile nuovo datore di lavoro per aprire un ristorante. Sembrava che il nostro sogno si stesse avverando. Nicolò aveva sempre desiderato aprire un locale in America ed ora che il suo locale a Torino stava raggiungendo degli alti profitti aveva pensato di reinvestirli proprio lì a Miami.
Il primo giorno avevamo deciso di riposarci e riprenderci dal viaggio passando la giornata in spiaggia. Lì avevamo conosciuto un'altra coppia, residente a Miami, con la quale eravamo subito andati d'accordo. Lui lavorava come responsabile della sicurezza in un grosso centro commerciale, mentre lei era la proprietaria di un piccolo chiosco di frullati sulla spiaggia.
Di comune accordo avevamo deciso di vederci quella stessa sera al bar dell'hotel, per poter passare la serata insieme e farci raccontare come fosse effettivamente la vita lì a Miami.
Tutto sembrava andare liscio, ma l'alcool scorreva a fiumi ed il mio ragazzo, forse preso dalla contentezza di essere dov'era, si lasciò trascinare e bevve un po' troppo.
La cosa non mi dava neanche troppo fastidio se non che, alla domanda riguardo al mio futuro a Miami, le cose degenerarono.
"Pensi di lavorare nel ristorante di Nick?" così lo chiamava la coppia, trovando qualche difficoltà a pronunciare il suo nome completo.
"Il mio sogno sarebbe quello di aprire un piccolo negozio per l'attività che ho già avviato in Italia." Rose, così si chiamava la ragazza, stava per rispondere, ma fu interrotta da Nicolò che proruppe in una grossa e sonora risata.
"Tu quella la chiami attività? Passi la giornata a creare cagate e a venderla a povere sfigate che si credono alternative perché indossano ciarpame personalizzato e fatto a mano! Vedi di farti furba e trovarti un lavoro vero anche qui, che sono stufo di mantenerti." Sentii il sangue raggelarsi nelle vene. Rose e suo marito Carl mi guardarono interdetti dato che non avevano capito cosa avesse detto ed aspettandosi una traduzione da parte di uno dei due. Traduzione che non arrivò mai.
Chiesi gentilmente al mio compagno di abbassare la voce perché eravamo in un luogo pubblico e di bere un bicchiere d'acqua per calmarsi un attimo.
"Tu devi stare zitta e non ti devi permettere di dirmi cosa fare!" potevo vedere la rabbia nei suoi occhi, mentre si avvicinava a me col volto e sbatteva un pugno sul tavolo, facendo voltare le poche persone che non ci stavano ancora osservando.
Mi alzai in silenzio e chiesi scusa alla coppia di fronte a me per la mia decisione ad andarmene. Rose mi fece un timido sorriso; seppur non capendo le parole che mi aveva rivolto, aveva inteso il tono e si vedeva che fosse dispiaciuta per me.
 
 
 Il mio racconto fu interrotto dall'arrivo del cameriere che portava due enormi hamburger e due frappè giganti.
"Spero tu non sia vegetariana, perché non ci ho proprio pensato." ammise Milo, leggermente a disagio.
"Se lo fossi ti offenderesti?" gli chiesi, per capire che tipo di persona fosse. Lo vidi sgranare gli occhi e arrossire. Si voltò e fece per chiamare il cameriere. Lo bloccai subito, rassicurandolo.
"Ehi, tranquillo! Non c'è il minimo pericolo che io sia vegetariana, anzi, forse mangio fin troppa carne!" scoppiammo entrambi a ridere e chiesi delucidazioni sul lauto pranzetto che mi trovavo davanti.
"È un hamburger con bacon, cheddar, e jalapeños freschi, accompagnato da un frappè alla vaniglia. Ti consiglio di provarli insieme." Presa dalla curiosità mi affrettai ad addentare quel succulento panino e un sapore eccezionale ed inatteso esplose nella mia bocca. Deglutii e rapidamente presi una sorsata di frappè; il gusto fresco e dolce si mescolò perfettamente con il sapore caldo e piccante del panino creando un abbinamento eccezionale nella mia bocca.
Ringraziai Milo perché era davvero quello di cui avevo bisogno. Nel momento in cui avevo addentato il panino, tutti I problemi sembravano scomparsi, la rabbia svanita e la tranquillità rinata.
"Ho notato che non ti ho nemmeno chiesto come ti chiami. Io sono Milo." sussultò per la sua sbadataggine.
"Io sono Emma, molto piacere." gli tesi la mano unta dal panino e lui allungò la sua, altrettanto sporca, e strinse la mia.
"E dimmi Emma, cosa ci facevi in Italia?" riuscivo a percepire la sua curiosità.
"Io sono in italiana, sono qui in vacanza." Milo sgranò gli occhi ed iniziò a scrutarmi con uno sguardo interrogativo.
"In che senso sei italiana?" mi chiese
"Nell'unico senso possibile…" fu la prima risposta che mi venne in mente e feci scoppiare a ridere il ragazzo seduto di fronte a me.
"Ma com'è possibile? Parli inglese così bene! Sembra che sia la tua lingua madre!" lo stupore di Milo oramai trapelava sia dalla sua espressione, sia dalle sue parole e dal tono con cui le pronunciava.
"Ma perché ogni volta che sentite un italiano parlare in una qualsiasi lingua che non sia la loro, vi stupite tutti?" Milo sollevò le mani in alto, in segno di resa.
"Hai ragione, ti chiedo scusa, è solo che non hai il tipico accento italiano, anzi hai decisamente un accenno britannico, che unito al colore aragosta che ha preso la tua pelle a stare al sole, mi ha fatto pensare che fossi una londinese chic." scoppiai a ridere.
"Vedo che non sono l'unica a crearsi I castelli mentali quando conosce qualcuno di nuovo. Comunque, no, non sono inglese, sono un'italiana doc laureata in lingue che vive nell'uggioso e nebbioso nord Italia."
"Credevo che in Italia facesse caldo come qui. Non pensavo che ci fosse una parte fredda e nuvolosa anche da voi."
"Allora ti tocca venire a trovarmi quando tornerò a casa, così che potrò farti conoscere la parte buia e fredda del Bel Paese."
"È una proposta allettante, credo che la sfrutterò sicuramente. Ho sempre voluto visitare l'Italia." ammise il mio commensale.
Finii di gusto il mio panino e il mio frullato e mi accesi una sigaretta. Subito dopo aver aspirato mi sentii subito più rilassata. Ne offrii una anche a Milo che la accettò volentieri. Si accese la sigaretta e si appoggiò allo schienale della sua sedia, osservandomi attentamente.
Soffiò il fumo fuori dalle labbra e mi chiese di finire il mio racconto.
 
Tornata in camera dopo il litigio con Nicolò, andai in bagno e mi preparai per la notte: mi struccai e applicai un sottile strato di crema idratante. Misi il pigiama e pettinai I capelli in due trecce per fare in modo che non si annodassero durante la notte.
Presi dalla borsa il pacchetto delle sigarette e l'accendino, e dal comodino il mio tablet, per poter leggere qualcosa al chiaro di luna.
Uscii sul terrazzo da cui potevo vedere la strada illuminata con la gente che passeggiava, la costa, circondata dalle sue alte palme e l'oceano che accarezzava dolcemente la spiaggia.
Mi adagiai sulla sdraio ed accesi la mia sigaretta. Intanto sul tablet, avevo aperto il file del libro che stavo leggendo. Mi persi nella lettura e solo il rumore della porta della camera che si apriva mi fece distogliere l'attenzione.
Nicolò entrò nella stanza barcollando, visibilmente alterato dall'alcool e si diresse subito nel letto, senza notare che lo stavo osservando dalla porta a vetri. Finii di leggere il capitolo, finii l'ennesima sigaretta che mi ero accesa, la spensi nel posacenere ed entrai.
Nicolò era profondamente addormentato sulle coperte, le scarpe e I vestiti ancora addosso; il suo russare pesante avrebbe potuto svegliare l'intero corridoio, ma decisi di coricarmi lo stesso vicino a lui.
Chiusi gli occhi e mi addormentai velocemente.
La mattina mi svegliai presto. La testa mi faceva male e la stanchezza era ancora presente. Un senso di oppressione e fastidio mi appesantiva lo stomaco e la sola vista del mio ragazzo che dormiva al mio fianco mi fece venire il voltastomaco.
Mi chiusi in bagno e aprii l'acqua della doccia. Mi svestii lentamente ed entrai sotto il getto di acqua bollente. L'acqua però non riuscì a lavare via la pesantezza che provavo.
Mi lavai velocemente, facendo attenzione a non bagnare I capelli.
Quando uscii dalla doccia sentii dei rumori provenire dalla camera da letto e feci un lungo sospiro prima di obbligarmi ad uscire dal bagno.
"Buongiorno." lo salutai composta, con la voce piatta che non faceva trasparire nessun sentimento.
"Buongiorno? Hai davvero il coraggio di pensare che sia un buongiorno? Dopo che hai rovinato la serata ieri, hai anche avuto la fantastica idea di disturbarmi mentre dormivo per fare una diavolo di doccia! Ma che cosa ti passa per il cervello? Sempre che tu ne abbia uno!" iniziò ad inveire nei miei confronti, mentre io lo ascoltavo in silenzio.
"Che fai, adesso hai perso la voce? Però per dire le cagate davanti ai miei amici ne hai, eh! Meno male che sei bella, perché di testa non vali proprio niente!"
"Anzi, sai cosa ti dico? Non sei nemmeno tutta questa grande bellezza, sei bassa e in carne, forse ti salvi per le tette. Devi ancora spiegarmi com'è possibile che tu sia grassa ma abbia il culo piatto!"
"Quindi perché stai con me?" chiesi indifferente. Avevo già preso la mia decisione come aveva iniziato ad urlare contro di me.
"Beh, per I tuoi genitori ovviamente! Non tutti possono dire di aver collaborato con il famoso Enrico Rossatelli!" il suo tono sprezzante mi dava il voltastomaco. Era solo grazie ai miei genitori se aveva trovato qualcuno che investisse nel suo primo ristorante e non gli avevano mai chiesto un solo euro indietro. I miei erano affezionati a lui, lo avevano preso sotto la sua ala protettiva e gli avevano insegnato tutto quello che oggi sapeva e che lo rendeva uno dei più giovani chef del mondo.
"Credo che a questo punto te ne debba andare. Non ha più senso che tu stia qui." gli suggerii tranquillamente.
Al solo sentire le mie parole si alzò di scatto dal letto e mi venne incontro, fermandosi a pochi centimetri dalla mia faccia. Mi afferrò il braccio e iniziò a scrollarmi urlando:
"Io dovrei andarmene? Dovresti farlo tu essere inutile. Avrai anche pagato la camera ma io ho pagato il resto del viaggio. Non mi interessa di cosa pensi. Io sono qui per lavoro, tu perché sei qui?"
Mi lasciò andare e, infilate le ciabatte da spiaggia uscì dalla camera dicendo che sarebbe andato a cercare qualcosa da mangiare.
Come la porta si chiuse le lacrime riempirono I miei occhi, il braccio mi pulsava e lo stomaco mi faceva malissimo. Mi guardai allo specchio e vidi la persona più miserabile del mondo con addosso solo un asciugamano. I segni delle sue dita svettavano violacei sulla mia pelle già scottata dal sole. Mi vestii e andai sul balcone ad accendermi una sigaretta.
Mentre fumavo la tristezza e lo sconforto furono rimpiazzati dalla rabbia. Finii la sigaretta che oramai provavo una sola cosa.
Rabbia.
 
"Questo è quanto." dissi sconfortata. Ricordare quanto era successo non era d'aiuto e mi sentivo un po' stupida a raccontarlo ad un completo estraneo.
 
"Mi dispiace…" la voce di Milo era bassa e confortante.
"Ti ha fatto molto male?" mi chiese accennando alle mie braccia.
Sollevai lentamente la manica della mia camicetta e mostrai I segni che capeggiavano viola sul mio braccio. Ruotando il braccio, si riuscivano a vedere distintamente I contorni delle dita che mi avevano stretto quella mattina.
"Nulla di insopportabile, dovrebbe andare via tra qualche giorno." spiegai, cercando di minimizzare la questione e di non passare per la vittima del caso.
"Dovresti denunciarlo, non è normale quello che ha fatto."
"Lo so bene, ma ho altre idee. Devo tornare in albergo però."
Milo si offrì di pagare il pranzo, benché insistetti per essere io a farlo, per ringraziarlo della sua generosità. Ci avviammo tranquilli in albergo, dove, una volta arrivata, avrei sistemato le cose.
 
   
 
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