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Autore: Ksyl    16/11/2020    3 recensioni
Castle e Beckett si sono incontrati solo una volta, durante quell'unico caso risolto durante il Pilot e da lì più nulla. Si rivedono solo alcuni anni dopo. E a quel punto inizia questa storia.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kate Beckett, Richard Castle
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna stagione
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20

Castle si svegliò molto più tardi del solito, quel mattino.
Il passaggio dal sonno a uno stato di presenza appena sufficiente a farlo funzionare fu brutale, come se la sua coscienza ritenesse che poltrire a letto non fosse moralmente accettabile. Dovevano essere vecchie reminiscenze della sua infanzia che curiosamente saltavano fuori quando lo stress oltrepassava il livello di guardia, senza che lui fosse in grado di frenarne la corsa. Aveva il collo dolorante – doveva aver assunto a lungo una posizione che i muscoli cervicali non gli avrebbero perdonato – e un mal di testa incipiente. Dubitava che del caffè, se pure assunto in dosi eccezionalmente elevate, avrebbe migliorato le cose, ma ne bramava l'effetto rigenerante almeno per dissipare la sensazione vischiosa che l'intontimento gli procurava.

Era sabato, quello riuscì a stabilirlo. Grazie a un ulteriore sforzo mentale ricordò che Kate era uscita presto per un'emergenza al distretto – un'evenienza che avveniva di rado e che si era incuneata spiacevolmente nei loro programmi del fine settimana.
Appena prima dell'alba il trillo inaspettato del telefono lo aveva fatto sobbalzare in modo violento, nonostante Kate avesse reagito con una prontezza invidiabile e si fosse allontanata in silenzio per non disturbare la quiete della casa e dei suoi abitanti.
Stoicamente, l'aveva seguita in cucina con lo spirito di un bradipo appena investito da un tifone – sperando però di apparirle almeno adorabile nello stato confusionale in cui versava- e si era messo in moto per prepararle la colazione o almeno una versione vagamente riconoscibile, senza rammentare di preciso se fosse riuscito nel suo intento. Il loft non era andato a fuoco, quindi non aveva combinato disastri. Dopo averla salutata con un bacio – lei traboccante di un'energia che pescava da una fonte ignota, lui a un passo dal tracollo –, si era trascinato verso la loro stanza e si era accasciato sul letto privo di sensi.
Era stata una notte turbolenta, se questo poteva servire come attenuante. Ci avrebbe in messo in mezzo anche l'età, che di certo non aiutava. La sua precedente esperienza paterna lo aveva visto molto più giovane e aitante, soprattutto abituato a fare le ore piccole. Nel frattempo dovevano esserglisi sfalsati tutti i bioritmi.

Tommy era disteso accanto a lui profondamente addormentato, con ancora il segno delle lacrime sul viso arrossato.
A un punto indefinito della notte appena trascorsa li aveva svegliati urlando – loro e l'intero caseggiato – per colpa di un brutto sogno. Smarriti e tachicardici, si erano precipitati nella sua stanza per soccorrerlo e tranquillizzarlo, senza di fatto riuscirci.
Nonostante le ripetute richieste, Tommy si era rifiutato di condividere con loro il contenuto dell'incubo che lo aveva atterrito. Se ne era rimasto tremante a fissare un punto sul muro davanti a lui, senza mostrare di essere cosciente della loro presenza, spaventandolo a morte. Incurante dei loro tentativi di calmarlo, aveva continuato a sfogare il suo malessere con strilli sempre più acuti. Era stato inconsolabile a lungo.

Avendo iniziato nel tempo a percepire i malesseri del bambino come se fossero i propri, Castle si era sentito scosso dagli stessi brividi di terrore, che lo avevano convinto che Tommy stesse vivendo un'esperienza terrificante e fosse incapace di distinguerla dalla realtà. Si era subito offerto di rimanere nella sua stanza fino al mattino, per essere presente nel caso in cui il dramma si fosse ripetuto, anche se sperava con tutto il cuore che non accadesse. Nessuno sarebbe riuscito a tenerlo lontano dal bambino, nemmeno la minaccia di un intervento armato, che era certo sarebbe presto arrivata. Nella concitazione del momento, lo aveva sfortunatamente detto ad alta voce.

Il letto di Tommy non era grande abbastanza per contenerli entrambi, aveva fatto notare seccata la voce della ragione, sconcertata quanto lui – non erano episodi che capitassero spesso, gli aveva confidato –, ma meno portata al melodramma. Era stata lei a usare quel termine, forse non aveva apprezzato la sua precedente uscita. E non pensasse di sdraiarsi sul pavimento, come sapeva benissimo che aveva intenzione di fare. Doveva riposare. Dovevano farlo tutti.
Subito dopo, con suo sommo stupore, aveva sbrigativamente deciso che Tommy sarebbe stato trasferito nel loro letto. Essendo da sempre un argomento sensibile, l'unico su cui avessero opinioni inconciliabili e che generava invariabilmente prese di posizione potenzialmente esplosive - tranne che circostanze eccezionali-, l'inaspettato cambio di rotta gli aveva dato conferma che Kate fosse rimasta turbata quanto lui dal comportamento del figlio.

Dopo un cenno di assenso, Castle aveva raccolto il bambino tra le braccia – gli era sembrato più minuto del solito - e l'aveva trasportato ancora singhiozzante nella loro stanza. Tommy si era fatto silenzioso solo quando era stato al sicuro stretto nel loro abbraccio, ma non era riuscito a rilassarsi. Era caduto in un sonno agitato, continuando a muoversi a scatti ed emettendo qualche occasionale lamento. Li aveva ascoltati tutti. Solo verso l'alba, quando sua madre era uscita e loro due erano rimasti da soli in un letto troppo grande, il respiro di Tommy si era fatto regolare.

Più tardi avrebbero dovuto partecipare alla loro consueta lezione di nuoto settimanale, un impegno a cui tenevano entrambi e che aspettavano sempre con trepidazione al punto da rendersi insopportabili, si lamentava Kate, che non lesinava battute sarcastiche pur di zittirli. Era molto di più che una semplice attività routinaria. Era uno spazio tutto loro, l'unico che non coinvolgesse altri componenti della famiglia e che per questo meritava di essere celebrato e preservato dal cinismo altrui, le aveva spiegato esagerando un po' i toni, lasciandola per una volta senza parole.
Sperava che uscire di casa e immergersi nell'acqua calda della piscina, insieme agli altri bambini con cui aveva ormai stretto amicizia, potesse aiutarlo a cancellare i brutti ricordi della notte appena trascorsa.
Negli ultimi giorni Tommy aveva avuto frequenti episodi di nervosismo, rifletté preoccupato, facendogli scorrere le dita tra i folti riccioli. Tommy si voltò verso di lui e nel farlo appoggiò una manina sul suo viso. Castle gli accarezzò la guancia setosa, chiudendo gli occhi per assaporare al meglio quell'istante di pace perfetta. Aveva dimenticato quanto avesse amato ritrovarsi Alexis nel letto, quando da piccola fuggiva silenziosamente dal piano di sopra alle prime luci del giorno per intrufolarsi nella sua stanza. Non c'era niente che lo rasserenasse di più che avere un bambino addormentato accanto a sé e tutto il tempo del mondo. Mai avrebbe pensato di vivere di nuovo l'eccezionale - ed eccezionalmente faticosa e gratificante - esperienza di crescere un bambino. Era straordinario che gli fosse stata concessa l'occasione di tornare a impersonare un ruolo che gli era sempre calzato a pennello, soprattutto se si consideravano le modalità con cui tutto era avvenuto e la persona che lo aveva reso possibile. I sogni tendevano a realizzarsi in un modo che superava perfino i suoi più grandiosi desideri.

Tommy mugolò, disturbato dalle sue carezze e poi sollevò le palpebre. Castle gli sorrise, senza ricevere in cambio altro che un grugnito indignato che lo fece sorridere dentro di sé.
Lo divertiva un mondo il fatto che nei primi minuti che seguivano il loro risveglio, madre e figlio condividessero la stessa invidiabile, truce disposizione d'animo, doveva essere un tratto ereditario. Per correttezza doveva ammettere che Kate - o meglio, la sua versione mattutina - era molto migliorata da quando si era trasferita da lui, anche se non l'avrebbe fatto sapere troppo in giro. Era convinto che dipendesse dalla sua presenza benefica e i sontuosi banchetti che le preparava. Oltre a darne il merito a qualche altro dei suoi talenti che si esprimeva al meglio quando non avevano ancora abbandonato il tepore delle coperte.

"Vuoi fare colazione?", gli propose a bassa voce, sapendo che quando avesse avuto degli zuccheri in circolo il suo umore sarebbe istantaneamente migliorato. Tommy fece un gesto stizzito che interpretò come un rifiuto, gli si fece più vicino e premette la testa nell'incavo del collo, sdraiandosi scompostamente su di lui. Alzò un braccio per avvolgerlo lungo tutto il corpo e rimase immobile a fissare il soffitto, ascoltando i loro respiri fondersi insieme.
Gli avrebbe concesso ancora qualche minuto. Forse ne avrebbe approfittato per schiacciare anche lui un altro sonnellino. Era stata una lunga notte, avevano bisogno di silenzio e del reciproco conforto, i loro impegni avrebbero aspettato.

...

"Tu sei un papà, vero?", esordì Tommy con aria assorta mentre infilava il cucchiaio dentro la sua tazza preferita, che gli aveva riempito di latte per metà.
Se ne era segretamente procurato alcune copie identiche nel timore che l'originale si rompesse o che finisse per sbaglio in qualche scaffale dimenticato. Era una di quelle cose per cui Kate si sarebbe presa gioco di lui, accusandolo di essere troppo apprensivo e troppo innamorato di suo figlio. Questo era vero, avrebbe fatto qualsiasi cosa per lui. Ma il punto era un altro. Era abbastanza esperto da conoscere in anticipo il genere di tragedia che poteva innescarsi a seguito dell'improvvisa mancanza di un oggetto prediletto. Ci era già passato, si trattava solo di spirito di sopravvivenza.

Si concentrò per qualche istante su quello con cui Tommy se ne era appena uscito. La scelta dell'argomento era piuttosto bizzarra, nonostante fosse abituato all'imprevedibilità dei ragionamenti con cui il cervello infantile poteva prodursi. Doveva esserci dell'altro, che meritava qualche considerazione in più. Tommy si era espresso in modo troppo diretto e sicuro perché si trattasse di considerazione casuale che gli era passata per la mente per chissà quale astruso motivo a cui non sarebbe mai risalito.
Non riusciva a capire dove volesse andare a parare e l'intuito gli suggerì con una certa urgenza che un discorso di quel tipo avrebbe avuto bisogno delle solide direttive di sua madre per poter proseguire senza inciampi. Forse poteva chiamarla al telefono, ma non sapeva che tipo di emergenza si fosse trovata tra le mani una volta arrivata al distretto e non voleva quindi disturbarla. Inoltre, che cosa avrebbe potuto dirle? Tommy vuole conoscere le mie referenze in quanto padre, che linea mi consiglia di mantenere, Vostro Onore?

"Sì, sono il papà di Alexis", confermò in tono neutro, attenendosi ai fatti. Era essenziale farlo, visto che avrebbe dovuto riferire l'intero dialogo per filo e per segno alla severa rappresentante delle forze dell'ordine che li avrebbe raggiunti per pranzo, se le cose in ufficio fossero proseguite senza intoppi.
Tommy si mise in bocca qualche cereale e masticò lentamente, come se stesse ponderando con attenzione quanto aveva appena ascoltato. Castle cominciò a sentirsi nervoso.
"Lei è grande, però. E abita da sola", ribatté Tommy, spiazzandolo. Non capiva il senso del commento, ma il sudore freddo che curiosamente iniziò a scendergli lungo la schiena non era foriero di buone notizie.
"Hai ragione, non vive più con me, ma... io sarò sempre suo padre. Così come nonno Jim lo è della tua mamma, anche se è adulta".

Andava tutto bene, vero? Non aveva detto niente di sbagliato, per quel che poteva giudicare. Doveva proseguire con una panoramica letteraria e psicologica dei legami familiari e della loro tenuta nel tempo? Forse sarebbe stato più saggio deviare l'argomento su qualcosa di più sicuro, come la scelta del costume da indossare per la loro sessione in piscina. Kate gliene preparava sempre un paio la sera prima, ma loro facevano comunque di testa propria, frugando nel cassetto finché non trovavano qualcosa di più soddisfacente. La creatività, le aveva spiegato, si nutre anche di scelte all'apparenza banali, non dovevano frenare il suo gusto estetico, bensì rafforzarlo. L'occhiata che Kate aveva rivolto al cielo gli aveva suggerito che sarebbe stato necessario lavorare anche sulla creatività di qualcun altro.

"Non hai bambini, adesso", puntualizzò Tommy seccato dal fatto che lui non cogliesse il senso del suo discorso. Doveva crederlo particolarmente ottuso. A Castle venne da ridere, comprendendo infine il punto della faccenda. Il problema di Tommy non era l'indistruttibilità degli affetti sul lungo periodo, quanto rimarcare che, in sostanza, lui era attualmente un padre disoccupato.
"Hai ragione, al momento non ho bambini miei". Decise che era meglio assecondare il ragionamento, senza anticipare possibili direzioni argomentative che li avrebbero portati fuori strada.
Ottenuta la conferma che aspettava, Tommy alzò le braccia trionfante, con ancora il cucchiaio in mano, spargendo latte sul bancone. "Ci sono io!", gridò, puntandosi l'indice verso il petto, gongolante come se gli stesse svelando una grande verità finora rimasta nascosta. "Sono un bambino. E tu puoi essere il mio papà. Che cosa ne dici?"
Elementare, Tommy. Mancava solo che si battesse una mano sulla spalla complimentandosi per aver risolto con tanta brillantezza un complicato dilemma filosofico. Era il ritratto vivente dell'autocompiacimento.

Castle si sentì mancare. Peggio, fu come se lo stessero costringendo a forza nell'acqua gelida impedendogli di riemergere. Strinse con forza il bordo del tavolo, paralizzato di fronte a due enormi occhi speranzosi che aspettavano solo il suo consenso, ignari di averlo sepolto sotto una tonnellata di emozioni e sensi di colpa che non sapeva come sbrogliare. E nemmeno se fosse possibile farlo.
Era commosso per la fiducia che Tommy aveva appena mostrato di riporre in lui, anche se il bambino non poteva rendersene conto. Nella solitudine della sua testolina iperattiva aveva messo in fila gli eventi che avevano trasformato la sua vita senza averne voce in capitolo – l'arrivo di un compagno per la madre e il loro trasferimento - e aveva assimilato la complessità della loro situazione uscendosene con una soluzione che doveva considerare la più ovvia. E lo era, in effetti. Sarebbero diventati padre e figlio. Il mondo sarebbe stato un posto migliore se fosse stato possibile agire in modo tanto lineare.

Kate aveva fatto un ottimo lavoro con lui, nel suo continuo sforzo perché si sentisse amato e al sicuro, tanto da rendergli possibile chiedere apertamente quello di cui aveva bisogno e al diretto interessato. Voleva un padre. E aveva scelto lui. Mancava solo una cosa perché potessero vivere tutti felici e contenti, e lui, tristemente, non poteva offrirgliela, nonostante Tommy gli avesse appena fatto l'onore più grande che un essere umano potesse ricevere.
Certo che voleva essere suo padre, al di là di quello che poteva dire la legge a riguardo. Era un ruolo che gli veniva naturale come una seconda pelle, non avrebbe potuto adorare di più quel bambino nemmeno se fosse stato presente fin dal suo primo vagito. Non aveva nessun dubbio su quello che sarebbe stato più giusto rispondere: "Sì, sarò il tuo papà, usciamo e andiamo a sposare la mamma, anche se lei farà qualche resistenza".
Ma non poteva. Non toccava a lui farlo. Il problema era... i problemi erano così tanti che non sapeva da che parte cominciare a elencarli.

Si strozzò nel tentativo di parlare e tossì un paio di volte.
L'ottimismo di Tommy si incrinò, il mento cominciò a tremare impercettibilmente. "Non vuoi essere il mio papà?", mormorò incredulo, come se gli avesse appena spezzato il cuore.
No, no, no. Castle andò in panico. Lui e Kate non si erano preparati a un'eventualità del genere e senza averne discusso prima con lei non era nella posizione di prendere iniziative. Non voleva commettere errori ed era acutamente consapevole che mosse azzardate avrebbero potuto produrre conseguenze durature sulla sua psiche delicata.
La verità era che non sapeva come diamine comportarsi. Vuoto totale. Come poteva abbozzare una reazione poco più che tiepida di fronte a una richiesta eccezionale come quella, che meritava invece una celebrazione entusiastica? La risposta alla sua precisa domanda poteva essere una sola – affermativa e giubilante-, ma lui non aveva il diritto di dargliela. Non era suo padre. Non era giusto fingere che lo fosse, per quanto potesse essere la soluzione che tutti desideravano, lui per primo.

Fu costretto a tergiversare. Gli pulì le labbra con il tovagliolo, mettendoci tutta la cura possibile e lo prese tra le braccia, sollevandolo dalla sua sedia per depositarlo a terra. Azioni meccaniche dettate dalla sola necessità di guadagnare qualche minuto in più, che però non bastò a fargli venire l'ispirazione adatta.
"Tu hai già un papà, Tommy, che ti vuole molto bene".
Il Signore l'avrebbe perdonato per aver abbellito la realtà. Non che stesse tecnicamente mentendo. Era convinto che, a modo suo – un modo discutibile - Josh lo amasse senz'altro, o così era incline a credere per non perdere fiducia nell'umanità. Ma non lo faceva nel modo giusto per un bambino. Avrebbe dovuto arrivarci da solo, Mister Salvatore del Mondo. "Ma io posso essere... un tuo amico speciale. Ti piace l'idea? E ti prometto che vivremo sempre insieme, tu, io e la mamma, proprio come stiamo facendo adesso".
Sarebbe bastato quel patetico tentativo? Non era quello che Tommy aveva chiesto e gli parve un tradimento e un insulto alla sua intelligenza tentare di confonderlo. Una sorta di prevaricazione che gli era permessa solo perché era una adulto e quindi autorizzato a dominare le conversazioni quando l'altro interlocutore era un bambino.

Tommy prese un cuscino e lo lanciò a terra con un gesto di stizza che normalmente non gli apparteneva. "Non voglio che tu sia un mio amico, io ho già degli amici", replicò furente, minacciandolo con lo sguardo. Aveva lo stesso temperamento focoso di sua madre e suo nonno quando si trovavano di fronte a un'intollerabile ingiustizia, anche in quel caso la linea di sangue si era trasmessa intatta.
Cercò di avvicinarsi per rabbonirlo, ma il bambino si divincolò offeso.
"Tommy...", lo blandì, odiandosi per la sua impotenza.
"Non voglio quel papà. È cattivo. Io voglio te!"

La rabbia e la disperazione che gli vennero scagliate contro gli bloccarono il respiro, facendolo quasi piegare su se stesso. Tommy fuggì nella sua stanza piangendo.
È cattivo.
Fu vittima di un capogiro, quando percepì tutta la sofferenza che quelle due semplici parole nascondevano, soprattutto se espresse da un bambino puro come lui. Un bambino affettuoso, gentile e pieno di meraviglia per il mondo. Avrebbe strozzato quel maledetto con le sue stesse mani. Dovette sedersi, per riprendersi. Era lui l'adulto della situazione, ricordò, un adulto che non poteva permettersi di perdere il controllo.

Ecco spiegato il motivo per cui Tommy era stato intrattabile nell'ultimo periodo, la ragione del suo mutismo quando si nominava suo padre, gli incubi notturni. Tutto cominciava ad avere senso.
Naturalmente sia lui che Kate erano consapevoli che il famigerato incontro con il padre aveva prodotto un impressione negativa in Tommy. Solo un cieco non l'avrebbe notato. Ma forse non avevano capito pienamente quanto ne fosse rimasto sconvolto e quanto l'effetto stesse perdurando nel tempo.
Si erano affannati a cercare un modo per tutelarlo e impedire che dovesse rivivere esperienze simili, ma si erano concentrati sulle possibili soluzioni che riguardavano il suo affido, efficaci sul lungo periodo, ma che non tenevano conto delle sue emozioni attuali. Scioccamente avevano ritenuto che bastasse tenerlo lontano da Josh per farlo sentire al sicuro, mentre decidevano il da farsi. Non sapendo che cosa fosse successo, non gli avevano dato gli strumenti adatti per comprendere la situazione e metabolizzarla. Doveva essere stato terribile per lui sentirsi spaventato da una persona che in fondo non conosceva molto bene, senza avere nessuno accanto a cui chiedere aiuto, a cui esprimere i propri tormenti.

E infine aveva cercato rifugio in lui. Lo aveva scelto perché lo proteggesse, piccolo e vulnerabile com'era. Avrebbe voluto assecondarlo e dargli quello che voleva, ma non aveva il diritto di farlo, perché quel padre assente contava più di lui. Strinse i pugni, provando la stessa frustrazione di Tommy, lo stesso senso di intollerabile ingiustizia.
Lo seguì nella sua stanza. Lo trovò con la testa affondata dentro a uno degli enormi peluche che gli piacevano tanto e che avevano rapidamente preso possesso di tutto lo spazio disponibile. Era accaldato e sudato, proprio come quando era tornato dall'appuntamento con Josh. Complimenti Rick, si rimproverò. Non sei migliore di lui.
Prese posto su una poltroncina bassa accanto a lui.
"Tommy, tra poco dobbiamo andare in piscina, non vuoi cambiarti?", gli propose sforzandosi di assumere un tono propositivo, pur sentendosi un idiota. Offrigli il diversivo della piscina per distrarlo quando era ben altro quello che gli serviva. Era ai minimi storici come essere umano. Altro che padre.
Tommy agitò un braccio nella sua direzione, per scacciarlo. "Non voglio andarci", gli comunicò alterato abbracciando un panda innegabilmente più bravo di lui nell'offrire conforto.

Gli toccò una spalla, per convincerlo ad alzarsi di lì, ma Tommy continuò a urlare e a tentare di allontanarlo. Alla fine uno dei colpi andò a segno e Castle fu raggiunto in viso da uno schiaffo a mano aperta, che gli ammaccò il cuore, più che fargli male fisicamente. Tommy era fuori di sé.
"Non ti voglio più", gli sbraitò contro. "Sei uno stupido", lo accusò, prima di crollare in un pianto irrefrenabile.

   
 
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