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Autore: _Unmei_    28/11/2020    0 recensioni
Chissà se qualcuno è riuscito a capirlo, che in ogni colpo di scalpello che ha dato forma a quell'angelo, dietro a ogni lineamento cesellato con pazienza, nei boccoli che gli ricadono sulle spalle, nel morbido drappeggio che gli copre le gambe, nel lievissimo sorriso che gli increspa le labbra… che in ogni piuma delle ali che ho fatto nascere dalla sua schiena, c’è la mia dichiarazione d’amore per lui.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
Capitoli:
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Giardini di Pietra
 
Capitolo 9

 
_______________
 
 
Le mie mani, l’ho già accennato, sono doloranti e deformate dall’artrite; tutte queste pagine, vergate poco a poco in una grafia angolosa, mi sono costate ore di sofferenza fisica, oltre che dell’anima. Negli ultimi dieci giorni non ho scritto per nulla: troppo forte il dolore, impossibile reggere la penna per più di pochi minuti; solo oggi riesco a riprendere la stilografica.
Una cosa però non ho mancato di fare, ogni giorno: recarmi al cimitero, per salutare il mio Florent di marmo… per porgergli le mie scuse, riempirmi gli occhi del suo volto e sfiorare la sua veste. Mi pento, a volte, di non aver mai voluto farci fotografare; in qualsiasi momento avrei potuto rivedere il suo viso, e il mio insieme al suo, ritrovandoci giovani e ancora felici. Ma consideravo la fotografia qualcosa di così freddo e sterile, così privo di anima rispetto a un ritratto, o a una statua, che mai nemmeno lo proposi. Fotografia o no, il suo volto è ben impresso nella mia mente, come se lui fosse ancora insieme a me; a guardare la sua statua, al bianco marco sovrappongo i suoi colori
Sosto davanti a lui a lungo, a volte passano ore senza che io me ne renda conto, poi di solito faccio una passeggiata per il cimitero, leggo epitaffi ipocriti su tombe di sconosciuti, seggo su una panchina, rifletto.
Oggi a quella passeggiata fra le tombe ho dovuto rinunciare, perché mentre ancora ero in raccoglimento davanti al sepolcro, ho sentito una voce conosciuta chiamarmi, intrisa di rimprovero.
Era l’altro cavasangue, quello giovane.
Il mio medico ha una certa età e anela ormai al ritiro, e sta man mano lasciando i pazienti al suo assistente, un giovanotto che non avrà nemmeno trent’anni, e che se è possibile è persino meno accomodante del suo mentore. È alto, ancor più di me; o forse lo è semplicemente quanto lo ero io da giovane, e il suo viso è dipinto in colori nordici: capelli biondo chiaro, occhi di un verde pallidissimo. Ha tratti decisi e una mascella volitiva; solo raramente l’ho visto sorridere, e il suo atteggiamento è distaccato e severo, capace di incutere soggezione, anche se certo non in me. Ha un certo fascino innato, del quale suppongo sia del tutto inconsapevole. Come potrebbero rendersene conto, d’altra parte, quando tutta la sua vita è concentrata sul lavoro, sullo studio, e sul rendere la mia esistenza ancor meno sopportabile?
 
“Signor Varnesi – l’ho sentito chiamarmi – è di nuovo qui! Sa che i suoi dolori peggioreranno, se si ostina a uscire con questo tempo umido! O dovrò forse rifiutarle la morfina, la prossima volta che soffrirà come un cane?”
 
Talvolta ha anche una maniera di esprimersi che poco si addice a un medico. E ditemi se arrivato alla mia età devo patire le prediche di qualcuno che potrebbe essere mio nipote. Avrei voluto ignorarlo, ma sapevo che non si sarebbe fatto scrupolo di trascinarmi via con le brutte maniere. Così, con gli occhi fissi sul mio Florent come a cercare comprensione, gli ho risposto.
 
“Di questi tempi addestrano i medici all’arte del ricatto, pare. Che stranezza. Quand’ero giovane si limitavano a insegnar loro l’arte di far morire la gente anche solo per un’unghia incarnita.”
 
Speravo di irritarlo, ma lui ha risposto placidamente.
 
“Mi risparmi il sarcasmo e mi segua; ho parcheggiato l’automobile appena fuori dai cancelli.”
 
L’automobile. Detesto quei trabiccoli dalla loro prima apparizione sulle nostre strade; avrei preferito tornare a casa a piedi, ma, rassegnato al fatto che quel seccante discepolo di Ippocrate non me l’avrebbe mai permesso, mi sono avviato per conto mio, con uno sbuffo seccato e senza nemmeno degnarlo di uno sguardo. Forse si era presentato a casa mia per controllare come stessi, e la mia governante l’ha pregato di venire a cercarmi per ricondurmi all’ovile; ciò a ulteriore riprova che sia lui che lei sono incapaci di badare agli affari propri.

Sono ingiusto nei loro confronti. Dovrei essere grato per la cura che hanno nei miei riguardi… e in realtà lo sono, ma è come se l’amarezza traboccasse da me in ogni istante, riversandosi sugli altri. Il mio carattere non era così ruvido, un tempo, ma immagino che la vecchiaia abbia esasperato i suoi tratti peggiori. Per una volta ero stato sul punto di scusarmi, ma prima che lo facessi è stato lui a prendere la parola.
 
“Lei viene sempre qui, davanti a quella tomba. Era… era una persona a lei cara?”
 
Non mi aspettavo una domanda del genere da lui, sempre piuttosto taciturno, e discreto riguardo emozioni e sentimenti: non mi ha mai chiesto nulla sulla mia famiglia, o sulla mancanza della stessa. Né sul mio privato, a meno che non riguardasse abitudini che possono avere influssi deleteri sulla mia salute.
 
“È la mia tomba.”
 
Gli ho risposto, piattamente.
Ed è la pura verità. Però lui non può capire, e io non posso spiegare: è una storia troppo lunga, troppo amara per essere raccontata a voce. Scrivere è diverso. Scrivere è una confessione che rivolgo a tutti e a nessuno, e che potrà anche finire tra le fiamme del camino. È uno sfogo e una punizione, perché mettere su carta la mia passata felicità, e la sua fine, è ancor più doloroso che rievocarle solo nella mia mente.
E poi non sopporterei di vedere il biasimo sul volto di quest’uomo, né voglio subire il suo giudizio; non perché abbia paura di ciò che potrebbe pensare, sapendo che ho amato un ragazzo… io temo che possa dirmi ad alta voce ciò che la coscienza mi sussurra da mezzo secolo.
È stata tutta colpa mia.
Posso incolpare soltanto me stesso.
 
Non ho aggiunto altro a quella breve spiegazione, e con una mano ho sfiorato il mio Florent di liscio marmo, promettendogli che sarei tornato il giorno successivo, e ho seguito il mio giovane dottore in silenzio. Un silenzio, teso e pesante, che è durato per tutto il tragitto verso la mia dimora, e che non trovavo la forza o la volontà di rompere. C’è sempre stata questa incomunicabilità, fra noi, e mi rendo conto che è tutta dovuta all’atteggiamento ostile che ho avuto verso di lui fin dal primo momento. Ragionando me ne dispiaccio, perché è un uomo intelligente, e sotto la sua scorza professionale si intuisce un animo sensibile e paziente (e ama la poesia, più di una volta ho visto piccoli libri fare capolino dalla tasca della sua giacca: Shelley, Keats, Coleridge); non ha mai fatto nulla per guadagnarsi la mia antipatia, e anzi ha cercato di instaurare un buon rapporto con me, all’inizio; solo dopo qualche tempo si è adeguato all’atteggiamento freddo che gli rivolgo. Sono consapevole che sarebbe un’ottima persona da avere come amico, e che non ha alcuna colpa dei fantasmi che suscita nei miei ricordi… ma lo stesso non riuscirò mai a guardarlo in faccia senza provare disagio, a discorrere con lui in serenità. È illogico, ma non riesco a farne a meno.
Tutto questo perché lui somiglia in maniera impressionante all’uomo che detestai fin dal primo incontro, cinquant’anni fa.
L’uomo che odiai quanto Florent lo amava.
L’uomo la cui comparsa segnò la mia rovina, perché da insicuro egoista quale fui e sono, non seppi fidarmi e ferii chi non avrei mai voluto addolorare.
 
Il tragitto in macchina verso casa mia è trascorso quasi tutto nel completo silenzio, in mutuo disagio. Mi sono permesso, ogni tanto, di osservare il dottore, ma non penso che ne sia accorto, concentrato com’era sulla guida. Per ironia della sorte non solo somiglia fisicamente a quell’uomo, ma anche il nome è assonante: lui è Daniele, l’altro era Gabriele.
Gli ho detto, secco, a un certo punto:
 
“Siamo quasi arrivati; mi lasci qui, voglio proseguire a piedi.”
 
Visto che non mi ha dato retta, continuando a guidare come nemmeno avessi parlato, ho ripetuto le mie parole, sottolineando che glielo stavo ordinando. Lui ha risposto placido, senza togliere gli occhi della strada.
 
“Non sono il suo autista, quindi non può darmi ordini. Inoltre questa umidità non fa bene alla sua artrite, né il freddo giova alla sua salute in generale.”
 
La sua tranquillità mi ha irritato, e allo stesso tempo ha prosciugato le mie energie; mi sono sentito d’un tratto spossato, di una fiacchezza più mentale che fisica. Stanco di avere a che fare con chi non mi può capire, disperato per la mia incapacità di cercare conforto nella vicinanza di altre persone.
Ho emesso uno sbuffo seccato, nella speranza di non far capire quanto mi sentissi turbato.
 
“Ebbene, anche se peggiorassi che importerebbe? Sono già fin troppo vecchio, e non mi importa più di vivere, poiché non ho più nulla da realizzare. Se vuole veramente aiutarmi perché non mi permette di morire il più in fretta possibile?”
“Smetta di fare discorsi assurdi.”
“Assurdi? Ma non ha gli occhi per vedere che trascino il mio corpo e i miei giorni come inutili fardelli? E lei avrebbe il potere di porre fine a tutto questo con facilità, se volesse… dandomi l’unico aiuto di cui ho davvero bisogno. Certe medicine non servono solo a guarire, o sbaglio?”
 
A ripensarci, mi sembra impossibile d’averglielo chiesto davvero. Di darmi un veleno che ponga fine alla mia vita, a tutti i miei rimpianti, alle mie sofferenze.
Ed è stato lì che lui ha accostato la macchina e si è fermato, voltandosi finalmente a guardarmi con occhi di fuoco; l’ho visto serrare i muscoli della mandibola, e contrarre gli angoli della bocca. E quando ha parlato, il suo tono possedeva una calma gelida che mi ha fatto avvampare.
 
“Non posso accontentarla, signor Varnesi. Eppure lei, nonostante le sue mani sofferenti, ancora si ostina a radersi da solo tutte le mattine… e i rasoi tagliano, o sbaglio? Perché dovrebbe aver bisogno del mio aiuto in questo senso?”
 
Ho taciuto, cercando di mostrarmi impassibile, anche se avrei voluto urlare, e piangere, e confessare… magari dopotutto quest’uomo può capire. Per la prima volta mi sono accorto che anche nei suoi occhi c’è l’abisso, e l’espressione del suo volto è una tavolozza composta di rammarichi e tristezze. Era come se avessi toccato un nervo scoperto, come se le mie parole avessero scoperchiato vecchie tombe, destando i fantasmi che in esse avevano dimora.
Ci siamo fissati ancora qualche secondo, poi si è rimesso sulla strada, proseguendo verso casa, e la cortina del silenzio ci ha separato ancora una volta. Mentre guidava, io riflettevo sulle sue parole, così vere. Ogni giorno potrei farlo io stesso, ho un rasoio affilato, ho persino una pistola. Ho la fantasia del mio funerale impressa nella mente ormai da anni.
E tuttavia, vivo.
Arranco.
È una sorta di autoinflitta punizione? È vigliaccheria?
È l’assurda, impossibile speranza di svegliarmi un mattino di nuovo giovane, e che uscendo per strada, godendo di gambe vigorose, muscoli svelti e polmoni capaci di respirare senza fatica, le mani di nuovo forti e agili, io possa incontrare un Florent altrettanto giovane? E riparare all’errore, percorrere la strada che abbandonai così tanti anni fa.
 
Sono a casa, ora, di nuovo solo. Continuo a scrivere ciò che fu, e dalla finestra vedo cielo scuro, e mare agitato.
 
***
 
Ci fermammo a Venezia altre due settimane, e furono splendide. Non vidi più la tristezza negli occhi di Florent, i suoi sorrisi e il suo entusiasmo tornarono a essere autentici; era come se tutti i demoni fossero stati esorcizzati, e se magari non erano davvero spariti, almeno sembravano profondamente addormentati.
In quei giorni visitammo chiese e palazzi, e talvolta mi fermavo a riprodurre su un album le decorazioni e le statue che ne ornavano le facciate. Girammo la città in lungo e in largo, e la sua bellezza continuava a riempirmi d’ispirazione; ritrassi anche gli angoli per me più suggestivi, e pure Florent ci provò… devo dire, per il disegno non aveva certo lo stesso talento che aveva per la musica, ma era divertito e comunque orgoglioso di quelle opere sbilenche e prive di proporzioni. Le amavo anche io, e amavo l’espressione concentrata sul suo viso, il modo in cui si mordicchiava il labbro, mentre disegnava.
 
Raggiungemmo Murano e Burano e comprammo doni per Matilde, di vetro variopinto e merletto delicato; andammo a Torcello, e al Lido dove passeggiamo su una spiaggia sabbiosa così diversa da quelle a cui ero abituato. Andammo a teatro, per gran concerti e commedie dialettali. Furono giorni felici, e quando venne il momento di ripartire ci promettemmo che saremmo tornati, l’anno successivo.
 
Anche a Genova i nostri giorni furono splendidi, fatti di arte, di amore, di musica.
Già, la musica. Avevo carezzato l’idea di presentarlo alle persone che avrebbero potuto introdurlo a una carriera da violinista, che certo sarebbe stata luminosa, visto il suo talento… lui lo avrebbe meritato.
Invece decisi che non avrei mai fatto niente del genere, perché la notorietà me l’avrebbe rubato, e io volevo che Florent fosse solo mio. Volevo essere tutto, per lui, che nessuno e nulla lo distraesse da me.
E mi assolsi, dicendomi che se lui avesse desiderato qualcosa di più di quel che aveva, me lo avrebbe detto. Che se avesse cercato la fama, sarebbe stato più che capace di ottenerla da solo, anche prima di incontrarmi… gli sarebbe bastato bussare alla porta di un conservatorio per trovare fortuna e riconoscimento.
I giorni trascorsero lievi e bellissimi, senza nemmeno un’ombra a turbarli, e io non potevo desiderare nulla di meglio di ciò che già avevamo.
Sarebbe dovuto essere così per sempre. Forse lo sarebbe stato se, quel giorno, non fossimo usciti, o se avessimo preso un’altra strada.
 
Eravamo a metà di un novembre tiepido e gentile; piazza Banchi era animata come sempre, piena di gente affaccendata e di perditempo, di uomini d’affari e di servette intente alle loro commissioni, che però non mancavano di approfittare dell’uscita per fermarsi a chiacchierare.
Il sole si rifletteva sulle vetrate della Borsa, e a volte il vento ci portava il grido dei gabbiani, dal mare vicino. Avevo intenzione dei comprare dei pennini in una delle botteghe sotto la chiesa di San Pietro, ma prima mi fermai per mostrare una curiosità a Florent.
Già gli avevo raccontato, in un’altra occasione, che in quella piazza, sulla scalinata della chiesa, era stato assassinato il compositore Stradella, forse caduto sotto i sicari mandati dal fratello della sua amante. Già una volte l’uomo era stato accoltellato, per aver ‘rubato’ l’amante a un nobile veneziano… uomo di passioni che non era in grado di contenere o di controllare. In un certo senso lo sono stato anche io.
Ricordo che il giorno successivo Florent volle tornare lì con il violino, e omaggiò lo  sfortunato compositore eseguendo una sua sonata proprio sulla scalinata dove aveva trovato la morte. Catturò l’attenzione di tutti, anche se non so quanti avessero colto il tributo, e quando –
Sto divagando troppo. Non dovrei.
L’assassinio di Stradella, raccontai, non era l’unica storia macabra legata a piazza Banchi, che un tempo lontano era il luogo deputato alle esecuzioni capitali. Gli mostrai, nella pavimentazione, una pietra più scura di tutte le altre, come annerita dal fuoco, che segnava il punto dove era stata arsa una povera donna di nome Cattarina, accusata di stregoneria, più di duecento anni prima.
Leggenda vuole che quella pietra sia sempre calda, gli dissi, brucia, anche d’inverno.
Florent si chinò a toccare la pietra, e mi rivolse un’occhiata scettica da sotto in su, inarcando un sopracciglio.
 
Non brucia. Per niente.
 
E si raddrizzò, spostandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Erano cresciuti visibilmente dal giorno del nostro primo incontro… era passato quasi un anno ormai. La mia mano fremette per il desiderio di accarezzarli, di perdersi fra quelle onde morbide; e poi posarsi sulla sua nuca, attirarlo a me e baciare le sue labbra, ma non era certo cosa che potessi fare in pubblico. Ci scambiammo un lungo sguardo e un sorriso, ed ebbi la sensazione che avesse colto il mio desiderio e che, almeno nelle intenzioni, si lasciasse andare alle mie carezze, ricambiasse il mio bacio.
Poi sembrò vedere qualcosa con la coda dell’occhio. Qualcosa che catturò la sua attenzione e il suo sguardo, che fece esitare il sorriso sul suo volto, e che poi lo cancellò, rimpiazzandolo con un’espressione che… che ancora mi riesce difficile definire.
Sorpresa, incredulità. Speranza, timore. Esitazione, certezza. Tutto insieme, in un’emozione che sembrava averlo paralizzato. Non ottenni la sua attenzione, chiamandolo, dunque gli strinsi leggermente un braccio, e mi accorsi che tremava, ma nemmeno allora mi diede retta. Allora seguii il suo sguardo, ma non riuscii a cogliere chi o cosa stesse guardando.
D’un tratto si liberò della mia pur gentile stretta e corse in avanti, incurante di urtare altre persone, e io gli andai dietro. Lo vidi raggiungere un uomo alto dai capelli chiari, che fino a un momento prima era di profilo, e ora si era voltato e stava allontanandosi. Florent lo raggiunse e lo afferrò per un braccio, lo tirò, costringendolo a voltarsi.
Sul bel volto dello sconosciuto vidi stupore e irritazione, ma durarono solo un istante: appena i suoi occhi si posarono su Florent la sua espressione mutò, e la durezza svanì. La sorpresa, l’esitazione, erano le stesse che aveva dimostrato Florent poco prima, forse anzi erano ancor più accentuate.
Rimasero a fissarsi, riempiendosi gli occhi l’uno dell’altro, e io potevo solo guardare, incapace di intervenire, di chiedere cosa stesse succedendo.
Quando l’uomo parlò, rivelò una voce bella, ma rauca per l’emozione, e un accento che mi era divenuto familiare, a Venezia.
 
“Florent, sei… sei proprio tu?”
 
E come se quella fosse stata la formula magica per spezzare l’incantesimo che aveva immobilizzato l’aria e il tempo intorno a noi, Florent fu scosso da un brivido e gettò le braccia al collo del forestiero, lasciandosi avvolgere dal suo braccio, stringendosi a lui come se mai più lo avesse voluto lasciar andare.
E io lì, intontito, con la bocca secca e un abisso che mi si apriva sotto i piedi, nel vedere quell’uomo che non conoscevo poggiare la guancia contro la testa di Florent, persino lasciare un lieve bacio furtivo sui suoi capelli, e una lacrima che fra essi andò a morire.
 
***
 
Qualche ora dopo, quell’uomo sedeva nel salotto di casa mia, e forse avrete intuito di chi si trattava: Gabriele, l’amico di cui Florent mi aveva parlato quel giorno a Venezia. L’amico che era stato l’appiglio nell’incubo che lo aveva colpito.
Ed era chiaro che quell’amicizia che li aveva uniti era ancora viva e forte, nonostante gli anni di lontananza; vedevo la felicità dell’essersi ritrovati trasparire nei loro sguardi, e sentivo crescere in me un’emozione ostile e distruttiva. Solo pochi mesi prima non avrei mai creduto di poter provare qualcosa di simile. Ascoltavo le parole dell’intruso, e una parte di me vi prestava attenzione, ma un’altra, maligna, deviava la mia mente verso fantasie che mi facevano male; erano immotivate, eppure mi accecavano… mi facevano fremere, a stento mi trattenevo dal serrare i pugni per la tensione.
Ero geloso.
E non di quel sentimento leggero, sciocco e un po’ infantile che è presente in tante relazioni, senza però far danni: la mia era quella gelosia velenosa che brucia e distrugge. Nella mia testa si ripeteva la domanda
… cosa c’era stato davvero tra di loro?
Cosa?
E c’era ancora? Avrebbe potuto esserci di nuovo?
Perché nel loro abbraccio non avevo visto solo amicizia: c’era troppa tenerezza, troppa intimità, troppa commozione. E poi il cercarsi dei loro sguardi, mentre erano seduti fianco a fianco sul mio divano, i sorrisi che si scambiavano, e la felicità sui loro volti…
Quando Florent parlava con lui non usava l’alfabeto manuale che adoperava con me: usava entrambe le mani, compiendo gesti del tutto diversi. Era un modo di comunicare più lesto e fluido, che gli permetteva di esprimersi quasi alla velocità della lingua parlata; era evidente che quei gesti equivalessero a intere parole, non a singole lettere. Non erano un semplice alfabeto, ma un linguaggio, quindi più complesso, probabilmente non facile da imparare. Compresi perché Florent avesse preferito insegnarmi un codice più elementare, all’inizio, ma non mi spiegavo perché non fosse andato oltre; avevamo avuto tutto il tempo, avrebbe potuto istruirmi. E invece…
Provai un senso di tradimento.
Immagini mi sfilavano davanti agli occhi, beffarde.
Del mio Florent sotto i baci e le carezze di quell’uomo, mentre annegava nel piacere datogli dal suo tocco e si avvinghiava a lui, ansimante. Il mio cuore accelerava e sentivo il petto in fiamme, al pensiero di tale passione: un Florent più giovane e inesperto che da quell’uomo apprendeva l’arte di amare, come io l’avevo appresa da Ludovico. I trucchi, le carezze, i movimenti con cui ora mi faceva impazzire… avevo ritenuto poco importante che Florent avesse avuto altri amanti prima di me, ma in quel momento il solo pensiero mi faceva tremare di rabbia cieca.
Maledii l’incontro di quel giorno, maledii me stesso per aver perso tempo in piazza: se, come avevo inizialmente intenzione, avessi prima portato Florent a pranzo in quella locanda in Sottoripa che tanto gli piaceva, Gabriele sarebbe andato per la sua strada, Florent non l’avrebbe visto, io non sarei stato divorato da un demone.
Mi sembrava di avere la gola piena di sabbia, il respiro mi trafiggeva di spilli. Era follia, lo capisco e me ne vergogno, ma a quei tempi non me ne rendevo conto; ero diviso tra il desiderio buttare quell’uomo fuori dalla mia casa e quello di farmi da lui raccontare il più possibile su Florent e sul suo passato, sul loro legame. Consideravo Gabriele un pericolo e un rivale, ma aveva conosciuto un Florent che io non avevo potuto incontrare, e che forse era diverso da ciò che era adesso. Un Florent forse perduto, di cui volevo sapere tutto il possibile.
Quindi forza il mio contegno, ingoiai l’avversione, e spremetti un sorriso.
 
“Voi due sembrate molto legati. La vostra è dunque un’amicizia di vecchia data?”
“Oh, vecchissima, possiamo dire. Florent aveva otto anni, quando lo conobbi – e non dimenticherò mai lo sguardo pieno di protettivo affetto che posò sul mio amato – e io venticinque. Venni assunto da suo padre come maestro di musica.”
 
Vidi la malinconia sul suo volto, mentre sembrava volgere la mente a un passato di cui restava solo cenere, ma che lui doveva rimpiangere. Era stato a fianco di Florent per dieci anni, prima della tragedia, aveva frequentato la famiglia, doveva essersi creato un legame fra loro, e certo anche il suo dolore doveva essere stato lacerante. Forse pure lui ne portava le cicatrici, e nei suoi ricordi doveva esserci impressa, indelebile, quella scena di morte. Ciò però non serviva a farmi provare empatia per lui, ma solo a farmi sentire ancor più escluso dal loro rapporto.
Gabriele guardò Florent, come a chiedergli il permesso di continuare il racconto, e al suo annuire proseguì.
 
“Quando venni assunto non sapevo niente di Florent, tranne le sua età. Ignoravo che non potesse parlare, non ne venni a conoscenza se non nel momento in cui lo incontrai. Forse era un modo per mettermi alla prova, per vedere quale sarebbe stata la mia reazione, come mi sarei comportato con lui. Fu uno strano scherzo del destino, perché a sua volta il padre di Florent non era al corrente che il mio fratello più giovane avesse lo stesso problema. Anzi, lui ha avuto in sorte maggiore sfortuna, perché non può nemmeno udire. A quei tempi Florent era un bambino chiuso, timido... i suoi genitori speravano che la musica lo aiutasse ad aprirsi, a esprimersi. Florent già amava la musica, era affascinato dal violino, e si fidò di me più facilmente del previsto. Era entusiasta di imparare il linguaggio universale delle note e dell’armonia. E così io pensai che avrei potuto insegnargli anche un altro modo di esprimersi… Conoscevo bene l’alfabeto manuale e la lingua dei segni per via di mio fratello: frequentava una scuola per sordomuti gestita da un sacerdote che conosceva molto bene le opere di Ponce de Leon, di Juan de Pablo Bonet, diversi alfabeti, e la lingua dei segni… più di una, in verità. E così pensai che avrei potuto insegnarli a Florent.”
 
Il suo maestro di violino.
Il suo maestro di violino!
 
E io che nei primi tempi mi ero domandato curioso a chi andasse il merito d'aver istruito alla musica Florent, chi avesse affinato il suo talento in modo tanto superbo! Ora che lo avevo davanti avrei dovuto ringraziarlo, ma non ci riuscivo. E sì che non solo per la musica meritava la mia gratitudine, ma anche per avergli insegnato un modo per esprimersi, per aver contribuito a renderlo quel giovane splendido che era.
Intanto lui si era interrotto e aveva rivolto lo sguardo in basso. Restò in silenzio per qualche istante, assorto, e quando rialzò gli occhi li aveva lucidi.
 
“Gli insegnai il semplice alfabeto, prima, e poi un linguaggio più complesso. E istruii, ovviamente, anche i suoi genitori, i fratelli, i domestici, affinché lo potessero capire. Florent era entusiasta, imparò molto in fretta… mi affiancò nell’insegnamento, a un certo punto. Gli altri ci misero un po’ per imparare a leggerlo con scioltezza, ma erano pieni di buona volontà. Fu un periodo davvero felice, nonostante... nonostante certe preoccupazioni.”
 
Poi rievocò episodi sparsi, quasi sempre legati alla musica, a gite, alle bellezze della loro città. Tutti momenti felici, spensierati, e il volto di entrambi rispecchiava quelle emozioni luminose, i loro sguardi brillavano, mentre con i ricordi vagavano nel passato. Gabriele non parlò della caduta in disgrazia della famiglia, non accennò a quella notte fatale che aveva segnato il destino di Florent, e di conseguenza il suo.
E certamente anche il mio.
 
Gabriele era arrivato a Genova il giorno precedente, e vi sarebbe rimasto per una decina di giorni: doveva sistemare alcuni affari riguardo un’eredità che aveva ricevuto. Per me rappresentavano un tempo orribilmente lungo, ma cercai di essere civile e feci buon viso a cattiva sorte: con tutto il garbo che potevo lo invitai a soggiornare a casa mia, in quel periodo.
Con altrettanta cortesia (e se fu simulazione finse meglio di me) egli rifiutò, tra le proteste gesticolanti di Florent. Lui gli afferrò le mani, sorridendo, l’equivalente di zittirlo bonariamente, e gli promise che si sarebbero comunque visti ogni giorno. Di solito aveva impegni, al mattino, ma per il resto del tempo era libero, e gli sarebbe piaciuto visitare la città e i dintorni insieme a noi, se avessimo voluto fargli da guida.
Me ne dissi entusiasta, con sulle labbra il sorriso più falso del mondo.
 
__________

NdA


Il compositore barocco citato nel capitolo, Alessandro Stradella, doveva essere un tipo interessante. Già a vent’anni era molto noto e richiesto; viveva e lavorava a Roma, ma inizio del 1677 fuggì a Venezia, dopo essersi cavato da uno scandalo, che l’aveva portato pure in carcere, per aver cercato di combinare il matrimonio fra una donna comune (leggi “cortigiana di dubbia moralità") e il parente di un cardinale.
A Venezia venne assunto da un nobile, Alvise Contarini, come insegnate di musica per la propria amante, e Stradella trovò che fosse una buona idea intrecciare una relazione con la donna e fuggire insieme a lei a Torino, con l’intenzione di sposarsi.
Nell’ottobre del 1677, in quella che è oggi Piazza San Carlo, venne accoltellato da due sicari, probabilmente inviati proprio da Contarini. Portò a casa la pelle, ma il matrimonio sfumò, e così pure la possibilità di essere assunto alla corte sabauda.
All’inizio del 1678 si trasferì quindi a Genova, dove venne ben accolto e dove compose musica sacra e da camera, musica drammatica e operette, anche su commissione di nobili locali. Continuò pure a impartire lezioni a ricche fanciulle.
Morì accoltellato in Piazza Banchi, sulla scalinata della chiesa di San Pietro, nella notte del 28 febbraio 1682. Il mandato per il suo assassinio venne forse da un nobile della famiglia Lomellini, che sospettava una relazione fra il compositore e la propria sorella, sua allieva. Lomellini venne comunque prosciolto per insufficienza di prove, e c’è chi pensa che i sicari fossero stati inviati ancora una volta dal veneziano Contarini.
Tanto per non farci mancare i fantasmi, si dice che in certe sere si possa sentir risuonare nella piazza la musica di Stradella.
Se volete ascoltare qualcosa di suo, ecco:
 
 https://www.youtube.com/watch?v=nvbLZoiWJeI
Non so voi, mai io sento grande simpatia per quest'uomo, che aveva con evidenza una testa molto dura.
 
Grazie per aver letto fin qui!
 

 


 
   
 
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