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Autore: lightvmischief    04/12/2020    0 recensioni
Una ragazza.
Un gruppo.
La sopravvivenza e la libertà.
Le minacce e i pericoli della città, delle persone vive e dei morti.
Prova a sopravvivere.
Genere: Azione, Drammatico, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: AU | Avvertimenti: Violenza
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CAPITOLO 44

KAYLA

«Datemi solo un antidolorifico e starò bene.»

«Mi dispiace» sussurro, ancora in preda allo shock della pessima notizia, mentre gli passo un’intera pastiglia di antidolorifico e dell’acqua; si merita almeno di non soffrire.

«Dobbiamo continuare a muoverci.» Elyse dà una pacca sulla spalla a Leon, prima di salire sul suo cavallo. «Forza, andiamo.»

«Stai davanti» dico a Leon, dopo aver guardato il suo giovane viso per istanti interminabili. Metto il piede nella staffa, dandomi lo slancio per salire dietro di lui, mentre Calum sale dietro ad Elyse.

Dopo averci detto di essere stato morso, Elyse, Calum ed io abbiamo dibattuto a lungo so cosa avremmo potuto fare per salvarlo. La risposta è stata semplice: nulla. Di tagliare la gamba non se ne parlava: sarebbe morto dissanguato o, nel breve tempo in cui sarebbe rimasto vivo, avrebbe preso una brutta infezione. Eravamo troppo lontani dal campo per tentare qualsiasi cosa. Non c’era via d’uscita per lui. Gli abbiamo almeno disinfettato la ferita. Gesto inutile, fatto solo per farci sentire meglio. Ed ecco un’altra morte che si aggiungerà presto alla lista di persone morte per causa mia. Quanto è ironica la vita.

«Aspettate,» dice proprio Leon con voce rauca, schiarendosi la gola subito dopo, «so dove siamo.»

«Sei sicuro? Sei sotto shock, Leon, forse ti stai confondendo-»

«Non posso dimenticare il posto dove sono cresciuto» ribatte senza indugi, guardandosi attorno con aria malinconica. «Cavolo, questo posto fa schifo!» Ridacchiamo alle sue parole, anche se più per compassione che per altro. 

«Facci strada, allora» gli intima Calum, rivolgendogli un sorriso carico di rimpianto, anche se ben celato. Ho imparato a osservarlo bene, ormai.

«Non manca molto a Lancaster, una decina di minuti, credo.»

Continuiamo il percorso verso la città in silenzio, l’atmosfera aggravata dal pensiero di due perdite: quella di Wayne e quella di Leon, che ha deciso di usare in modo più che utile le sue ultime ore di vita prima di trasformarsi in qualcosa che gli assomiglierà solo per l’aspetto fisico, ma che non sarà più lui. Sta sopportando bene il dolore e ancora meglio l’idea della sua morte.

Ci impieghiamo più del previsto ad arrivare, ma poi vediamo finalmente un grande cartello verde decadente ricoperto di sporcizia con indicato il nome di Lancaster. Il paesaggio muta visibilmente e nettamente: da grandi prati a piccole abitazioni ed infine ai palazzi nascosti dal verde della città, con i rami degli alberi, che sembrano ossa di cadaveri, che abbracciano le costruzioni di cemento e metallo.

Passiamo davanti a negozi di parrucchieri, estetisti, vestiti di ogni nome e genere, oltre che a tantissimi ristorantini di ogni etnia con le finestre rotte, gli arredamenti rovesciati a terra o impolverati e rovinati, le insegne decadenti con i fili dell’elettricità che spuntano da ogni dove. Accompagnati dal solo rumore degli zoccoli dei cavalli e dai leggeri mugolii di Leon ad ogni sussulto dell’animale, arriviamo nel vecchio centro della città: le diverse corsie del traffico sono impegnate da semafori caduti, rottami di ogni genere, lampioni, cartelli stradali, poster pubblicitari consumati dall’acqua, tombini saltati e… cadaveri. Alcuni, carbonizzati sull’asfalto stesso, hanno creato un’aureola di fuliggine attorno ai loro corpi; altri sono in strada da così tanto tempo che ne è rimasto solo lo scheletro e rimasugli di stoffa dei vestiti che portavano.

«Non mi piace» esordisce Elyse, facendo cenno con il capo alla sua destra, l’espressione contrita dalla tensione.

Sposto lo sguardo nella sua direzione. All’incrocio tra quattro strade, lateralmente a pochi metri da noi, passiamo un enorme ammasso di corpi in decomposizione con una nube di mosche e moscerini, accompagnati soltanto da uccelli e un branco di cani randagi a cibarsi dei loro resti. Saranno almeno una centinaia, uno sopra l’altro.

«Sembra una fossa comune» dice Calum, deglutendo la saliva con aria disgustata.

«Ugh… Credo di dare di stomaco» interviene Leon, voltando la faccia dalla parte opposta, spostandosi la felpa su sul naso e bocca, tenendo una mano davanti ad essa.

«Occhi aperti» avviso, scambiando un cenno di comprensione con Elyse. Almeno sulle questioni pratiche ci siamo quasi sempre capite al volo.

Sembra che sia appena passata la festa di Halloween per le strade e che le abbiano addobbato a dovere con tutti questi cadaveri, è ancora più inquietante dei Morti stessi. Qualsiasi cosa sia successa qui, non voglio rimanerci più del dovuto. Spero solo di non aver fatto tutta questa fatica per nulla e che Wayne non si sia sacrificato per un pugno di polvere.

«Dove siamo diretti?» chiedo a Leon, provando a distrarlo dallo spettacolo immondo e dal dolore del morso, anche se mi accorgo che non ha più fatto versi doloranti. L’antidolorifico deve aver fatto effetto.

«L’ospedale. Alcuni reparti potrebbero essere ancora ben forniti.» Annuisco; potremmo trovare molte cose di cui abbiamo bisogno.

«Venivi a scuola qui?» 

«Sì… un postaccio, a ripensarci. Era bello solo per gli amici» ribatte con una punta di malinconia nella voce. «Ah… sì. Quelli erano tempi semplici.»

«Parli come un uomo con la crisi di mezza età» lo punzecchio, ridacchiando. 

«Beh, credo di esserci appena entrato» ribatte, schiacciandomi l’occhiolino, anche se il suo sguardo ritorna subito serio quando si sposta sulla sua coscia intrisa di sangue.

«Avrei dovuto lasciarti al campo.»

«Sì, avresti dovuto.» Rialza lo sguardo, controllando la strada come se stesse guardando l’ora. «A sinistra. Prendiamo la metropolitana, risparmieremo un sacco di tempo.»

«Agli ordini, capitano!» risponde Calum, facendo il saluto militare.

Arrivati davanti all’ingresso della metro, scendiamo da cavallo. Alla fine delle scale vedo solo buio.

«Per fortuna abbiamo queste.» Calum mi lancia alla sprovvista una torcia, facendola rimbalzare sul mio petto e poi cadere con un tonfo a terra. «Dovresti rivedere la tua coordinazione mano-occhio, Kayla!» Gli mostro il medio, sorridendo sarcastica, chinandomi per raccogliere l'oggetto.

«Ah, siete così divertenti, ragazzi. Vorrei davvero restare con voi più a lungo, per conoscerci meglio, sapete-»

«Basta con le chiacchere. Muoviamoci.»

«Non credo sia una buona idea addentrarci tutti e quattro lì dentro. Non sappiamo cosa potremmo trovare» dice Leon prontamente, interrompendo Elyse, la quale alza prontamente gli occhi al cielo e stringe la mascella.

«Cosa suggerisci?» 

«Io e Kayla andiamo là sotto, vediamo cosa ci aspetta; se è tutto apposto, torneremo a prendervi.» Leon scende lentamente da cavallo. Una volta giù, apre le braccia e guarda Elyse. «Se siete d’accordo.»

«Purchè non ti abbia più tra i piedi, per me va bene» annuisce controvoglia Elyse, incrociando le braccia al petto.

 «Riesci a camminare?» chiedo apprensiva a Leon al mio fianco, in equilibrio sulla gamba sana.

«Ce la farò, in qualche modo.» Il ragazzo muove qualche passo incerto e decido allora di porgli la mia spalla come supporto. «Sono l’unica possibilità che avete di non perdervi lì sotto.»

«Sì. Quindi, muovetevi. Non rimane molto tempo» ribatte Elyse con poco tatto, facendo cenno con la mano verso gli scalini dell’entrata. Le lancio un’occhiata in tralice e per tutta risposta alza le spalle.

«State attenti. Questa cosa è molto più rischiosa di quanto non pensiate, okay?»

«Stessa cosa per voi qui fuori.» Schiaccio l’occhiolino a Calum e faccio un cenno del capo ad Elyse. «Ci vediamo tra poco.»

E così, cominciamo a scendere. Leon si appoggia con forza alla mia spalla per fare i gradini a saltelli per evitare di stancare subito la gamba ferita. Lancio un’occhiata alla garza con cui l’abbiamo fasciato: è già intrisa di sangue. Spero solo non muoia qui sotto, per quanto mi sento in colpa al solo pensiero, non voglio rimanere da sola in una intricata rete di cunicoli sotterranei.

«È... acqua?» chiedo incerta a metà scale, muovendo la torcia a destra e sinistra e più in profondità per cercare di capire su cosa si riflette la luce.

«Così parrebbe. Avrebbe senso, non fanno manutenzione da anni qui sotto. Le infiltrazioni avranno eroso tutto il resto» appura Leon, chinando il capo per osservare con maggiore attenzione.

«Carino» ribatto ironica, alzando le sopracciglia alla notizia. Perchè ho pensato che fosse una buona idea?

Il tonfo del piede di Leon non appena entra in contatto con l’acqua produce un rumore che rimbomba sulle pareti, oltre che schizzare le mie gambe, facendomi rabbrividire. Oltre ad essere congelata, non ha un buon aspetto: non voglio nemmeno pensare a cosa ci sia finito dentro. Non è molto alta, arriva appena sopra alle caviglie; del resto non siamo ancora scesi al livello dei treni.

«Non credo siano percorribili, Leon...» dico, esprimendo i miei dubbi, lanciando un’occhiata verso la luce proveniente dall’entrata alle mie spalle, dove abbiamo lasciato Calum ed Elyse. «Dovremmo tornare su, trovare un’altra str-» 

Mi interrompo bruscamente, sentendo un rumore sospetto, come una specie di ronzio e subito dopo un suono disturbato, come quello di una televisione su un canale che non prende. Faccio saettare lo sguardo da ogni parte, tentando di tenere la torcia ferma nella mano.

Lancio uno sguardo a Leon, ma vengo catturata da una lucetta arancione alla sua cintola, proprio dove tiene il suo walkie-talkie. Non ci ho mai fatto troppo caso, non fino ad ora. Ma con un battito di ciglia, la luce svanisce. Forse è stato solo il riflesso della torcia. Forse me lo sono immaginata.

«Che cos’era?» sussurro, provando a concentrarmi. Se non posso neanche fidarmi della mia mente, non andremo molto lontano. Non devo farmi impressionare dalla situazione.

«Qualsiasi cosa fosse, credo che dovremmo muoverci.» Guardo incerta Leon. «Almeno fino ai binari. Se la cosa non funziona, torniamo su.»

Annuisco e cominciamo a muoverci. Non voglio rimanere qui sotto più del necessario se questa via dovesse rivelarsi impraticabile. Questo posto mi mette i brividi, a cominciare dal fatto che è completamente buio, se non per il piccolo cono di luce emesso dalla mia torcia. Prendo un respiro profondo, cercando di rilassare le spalle. Siamo arrivati alla biglietteria: fin qui tutto bene.

«Dobbiamo attraversare» bisbiglia Leon vicino al mio orecchio, prendendomi la mano con la torcia per puntarla verso la parte opposta alla nostra e poi alzarla sul cartello con a scritta “treni”, con una freccia che indica per quella parte. Lo spazio è piuttosto largo: del resto doveva ospitare una marea di gente proveniente da dentro e fuori città. «Sarò i tuoi occhi, non posso essere molto altro...»

Lancio un’occhiata incerta a Leon, non riuscendo a fidarmi completamente della sua vista qui sotto e dei suoi riflessi, ma devo correre il rischio, non c’è altro modo; devo sapere se i binari dei treni sono percorribili.

«D’accordo.» Lascio andare un rumoroso sospiro, facendo capire a Leon con uno sguardo eloquente quanto non mi piaccia tutto questo. 

Cedo la torcia al ragazzo in modo da avere entrambe le mani libere in caso di attacco. Passo il coltello da una mano all’altra, nervosa, mentre cominciamo a muoverci per attraversare lo spazio, l’acqua che rimbalza gelida sulle caviglie ad ogni movimento. A ciascun passo che facciamo si insidia dentro di me il freddo dei sotterranei e l’umido penetra fino alle ossa, così come il costante pensiero che questa sia una pessima idea. Continuo a lanciare sguardi frenetici da una parte all’altra dello spazio, incontrando solo il buio, dato che Leon tiene la luce fissa sulle scale mobili che dobbiamo raggiungere. Questo posto mi mette i brividi.

Finalmente, arriviamo intatti alla destinazione. Leon lascia andare un respiro di sollievo, mentre io continuo a sentire i muscoli tirare dalla tensione: non è ancora finita. Forse il peggio ci aspetta proprio in fondo al buco nero che sono queste scale.

«Togliamoci il pensiero» dico, ruotando le spalle e cominciando a scendere i gradini a due a due. Mi accorgo dalla luce tremolante che Leon fa piuttosto fatica a starmi dietro e mi tocca rallentare di nuovo il passo. 

Siamo a metà scale. Devo fare attenzione a come mettere i piedi per non scivolare. Dopo estenuanti minuti, siamo finalmente all’ultimo gradino e poi la mia gamba atterra nell’acqua, se possibile, ancora più gelida. Arriva fino alle mie ginocchia, il contatto fa salire una scia di brividi su per il mio corpo.

«Alla tua destra!»

Non faccio in tempo a voltare la testa che Leon punta la torcia sul corpo di un Morto a pochi centimetri dal mio, accecandomi dalla luce improvvisa, ma non ho bisogno della vista per sentire la punta del mio coltello attraversare la sua guancia gonfia. Le mie braccia hanno agito d’istinto. Con uno spintone, lascio cadere il cadavere, che atterra con uno sonoro “sciaf” nell’acqua, sollevando schizzi da ogni parte, mentre il rumore continua a rimbombare tra le pareti.

«Vedi altro?»

«Sì, quella parete di roccia proprio davanti a noi.» Il ragazzo zoppica fino al mio fianco, sposta la torcia davanti ai nostri occhi, dove un'intera parete deve essere crollata su se stessa a bloccarci la strada verso i treni, e poi la ripunta sul mio viso, accecandomi per la seconda volta. «Scusa! Scusa, non l’ho fatto apposta.»

Strizzo gli occhi, sbatto più volte le palpebre prima di tornare ad aprirle e venir infastidita dalla scia di luce rimastami nelle pupille. È così goffo che mi viene da imprecare, ma mi trattengo dal farlo per la nostra incolumità.

«Aspetta! Guarda là, in alto.» Punta con l’indice un’apertura tra le macerie, a un metro dal pavimento allagato. Alzo le sopracciglia, guardandolo da testa a piedi.

«Apprezzo il tuo aiuto, Leon, ma non credo che tu riesca a scavalcare quella parete nelle tue condizioni.» Sussurro, lo sguardo a intermittenza tra lui e la parete. «Sarà sicuramente allagato, non c’è più nulla da fare. Torniamo su dagli altri e non perdiamo altro tem-»

Vengo presa da dietro alla sprovvista e lancio un urlo scappato al mio controllo. Mi divincolo dalla presa, quasi inciampando sui miei stessi passi e lancio fendenti da una parte all’altra; non vedo nulla.

«La luce!» urlo tra i denti digrignati dallo sforzo di tener lontano da me ciò che credo un altro Morto. 

Tasto il corpo per trovare la faccia e il pollice mi finisce dentro alla bocca, strusciando sui denti. Cerco di trattenere un conato di vomito e con l’altra mano gli pugnalo il cranio. Sento il corpo cadere nell’acqua. 

Sono ancora al buio.

Proprio mentre provo a girarmi verso Leon, vengo presa alla caviglia e strattonata improvvisamente. Finisco con un tonfo nell’acqua, sbattendo con violenza il busto e il mento a terra, il dolore che comincia ad espandersi a macchia d’olio, mentre cerco di riprendere possesso del mio corpo. Il dolore al mento rimbomba per tutto il mio viso e la mancanza improvvisa di ossigeno mi annebbia i sensi.

Dimeno le gambe, riuscendo finalmente a liberarmi dalla presa, faccio leva sulle mani e torno finalmente a respirare e a vedere. La luce! Finalmente Leon sta puntando quella dannata torcia nella direzione giusta. Un Morto è piegato in acqua, dimena le braccia; un altro proprio al suo fianco è già pronto all’attacco.

Mi alzo con uno scatto repentino, faccio per stringere i coltelli nelle mie mani ma mi accorgo di non averli più. Mi guardo attorno disperata, senza alcun riscontro. 

Schivo il braccio del Morto, riuscendo a mettere a segno un pugno al suo petto, facendolo indietreggiare. Lancio un calcio al collo dell’altro, piegato a terra, facendogli finire la testa sott’acqua. Sposto il piede più su, schiacciandogli la testa e salendoci sopra con tutto il mio peso finchè non si sfracella.

Fuori uno.

Il mio braccio viene tirato all’indietro, facendomi sbilanciare e quasi perdere l’equilibrio, di nuovo. Con il gomito libero, colpisco l’aggressore alle mie spalle e sento la pelle affondare in qualcosa di molle ed umido: un altro Morto.

«Non morirò qui sotto!» 

Con un calcio ben assestato al ventre del Vagante, lo faccio cadere in acqua come fosse un oggetto inanimato, gli schizzi che si alzano e mi piovono addosso. Tiro un pugno al mento dell’altro Morto rimasto in piedi, piegandogli la testa in modo disumano. Lo spintono indietro da me e va a sbattere contro una parete, rimbalzando.

Con un urlo liberatorio, lo tengo fissato alla parete con il piede, piego il ginocchio, sentendo la suola dello scarpone affondare nelle sue membra. Grazie alla luce di Leon, vedo lo scintillio del coltellino nel mio calzino: lo tiro fuori rapida e con un movimento agile, lo conficco nell’occhio del Morto. Lascio che il corpo cada ai miei piedi, mi volto e pianto la lama sporca nel cervello del Vagante in acqua.

Fuori tre. 

Ho chiuso con questo posto.

Mi rialzo dalla posizione piegata con il fiatone, la mano che tiene il coltello tremola dall’adrenalina. «Andiamocene di qui- Leon?» Quando alzo lo sguardo da terra il ragazzo è scomparso e con lui la luce della torcia.

Dannazione.

Comincio a sentire i brividi percorrere il mio corpo da testa a piedi, mentre il terrore inizia a insinuarsi dentro di me. Che abbia già iniziato la trasformazione? Non può essere stato attaccato, avrebbe urlato altrimenti.

Vengo spinta con forza in avanti e finisco nell’acqua gelida. Non riesco nemmeno a uscire con la testa che vengo girata a faccia in su e due mani si stringono attorno alla mia gola, facendo pressione per tenermi sott’acqua. Ho gli occhi spalancati, mi dimeno ma non riesco a sfuggire alla presa mortale. Mi aggrappo ai polsi dell’assalitore, riuscendo a diminuire la presa alla base del collo. Finalmente, riesco ad alzare la testa nonostante la continua pressione. 

D’improvviso vengo accecata, serro gli occhi, finendo di nuovo sott’acqua. Mi bruciano i polmoni, i pensieri non scorrono come dovrebbero, mi sento affogare. Continuo a dimenarmi, provo a lanciare calci e finalmente colpisco qualcosa con il piede. La presa al collo diminuisce brutalmente; riemergo dall’acqua con un verso strozzato, tossendo e prendendo respiri veloci. 

Non ho tempo per pensare, sferro un colpo al gomito dell’assalitore, liberando il mio collo dalla stretta mortale. Apro e chiudo i palmi, pensando di trovarci il coltello, la mente ancora offuscata.

«Cerchi questo?»

Dolore. 

Dolore e ancora dolore. 

Lancio un urlo lancinante, la spalla destra che pulsa e comincia a perdere sangue. Mi ha pugnalato con il mio coltello.

«Leon?!» Toglie la lama, girandola nella ferita, facendomi tirare un grido disumano. «Che cazzo fai?!» Porto una mano tremante alla spalla, provando a mettere a fuoco la vista. 

«Ciò che devo.» Si illumina il volto con la torcia, ruotandosi il coltello nella mano con un sorriso arrogante a rovinargli la faccia, mentre io non riesco a far altro che pensare al dolore alla spalla, provando a tamponare l’uscita di sangue con il palmo della mano. 

Lo guardo sconvolta da terra dove sono, non riesco nemmeno ad alzarmi in piedi. Una lucina arancione lampeggia costante alla sua cintola: allora non me l’ero immaginata. Non faccio in tempo a guardare oltre, nemmeno a difendermi, quando mi colpisce alla tempia con il manico del coltello. Finisco come un sasso in acqua, annebbiata dal dolore straziante.

«Siamo qui.» 

Sono le ultime parole che gli sento dire prima che tutto diventi nero.

   
 
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