Rientrai a casa. O almeno nel luogo a cui davo il concetto di casa. A piedi scalzi e sporco di terra con i sogni sporchi sul pavimento. La mia piccola baita, dove non sarebbe mai potuto entrare nessuno ad infettarmi, qui le mie speranze erano e lo sono ancora, pure. Dalla stanza fuoriusciva un odore di legna bruciata, di un camino costruito con il tempo e la fatica, che riusciva a bruciare ogni sorte di malinconia. Non avevo cibo con me, non l'avrei mai portato. Tenevo in mano libri, preparandomi alla cultura che forse mai si sarebbe per davvero affacciata a quest'universo. Dalle finestre fatte di legno intravedevo i primi fiocchi di neve. La strada fuori iniziava a diventare gelata. Il calore del camino invadeva la stanza e la mia anima, fino al punto che volevo esplodere per diventare un tuttuno con il mondo.
Sparire.
Nell'istante in cui comincia a crederci. Un silenzio dolcissimo, composto dai passi fieri della consapevolezza di chi non giudica, ma ama, si avvicinò verso la mia baita con parole di comprensione. La porta era chiusa. Ma anch'io, anima peccatrice di questo universo, avevo bisogno d'amore. L'aprì. Con la consapevolezza, che da quella meravigliosa malattia, non ci sarebbe mai stata la cura definitiva. E la lasciai entrare.