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Autore: Fauna96    04/12/2020    3 recensioni
«Hai dormito questa settimana, Eustace?»
«No» risponde lui con sincerità. Eustace ha imparato subito che dove può è meglio dire la verità. Siccome un abbondante ottanta percento di quello che gli è successo è off-limits, restano poche verità da dire. E comunque, nel caso presente, basta guardarlo in faccia e ammirare le sue occhiaie bluastre per sgamarlo.
***
Finire in un regno magico, salvare il principe di suddetto regno e avere epifanie su se stessi tramite un leone parlante è esattamente eccitante come sembra. Meno eccitante è tornare a casa e avere il ritmo circadiano completamente sballato, sedute psicoterapeutiche a cui andare e una cotta piuttosto evidente.
~Modern!AU Jill/Eustace e un pizzico di Eustace & Edmund che si diverte a fare il cugino vecchio e saggio~
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edmund Pevensie, Eustachio Scrubb, Jill Pole
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Let not them hear
(the mutterings of all your fears)
the fluttering of all your wings


 
Nota vergognosamente lunga dell'autrice: Mesi fa mi era venuta nostalgia di Narnia e in particolare di questi due; approfittando della regione rossa e del fatto di non dover prendere il treno e portarmi dietro un mattone di libro, me lo sono finalmente riletto dopo secoli e mi sono resa conto dei traumi che Lewis fa subire a otto bambini, e ho dovuto scriverci su qualcosa. Mi sono anche resa conto di shippare Eustace e Jill già a dieci anni e che evidentemente non mi era passata.
Un paio di avvertenze: nella storia parlo di Sindrome da stress post-traumatico e di codipendenza affettiva. Siccome non sono un’esperta, sono argomenti trattati molto brevemente, e mi sono fatta aiutare da un’amica che studia psicologia. Chiedo scusa per imprecisioni varie ed eventuali.
Questa fic è una Modern!AU nel senso che è ambientata al giorno d’oggi in Inghilterra, ma i fatti avvenuti a Narnia sono pari pari al libro; unica cosa diversa è la gestione del tempo, ovvero passa più di qualche secondo nel nostro mondo mentre i nostri sono a Narnia. Plot reasons. Sempre per la plot, qui Eustace e Jill hanno sedici anni, più o meno, anche perché l’autrice non sa scrivere dal punto di vista di bambini di dieci anni, per quanto maturi possano essere, e perché Eustace per me avrà sempre la faccia di Will Poulter, che ho scoperto l’altro giorno essere più grande di me. Quindi è andata così.
Eustace porta occhiali per leggere perché sì, mentre è deliziosamente canon che Jill abbia gli incubi su Eustace che cade dalla montagna.
Titolo tratto da The Horror and the Wild degli Amazing Devil, che vi prego di ascoltare perché la band è straordinaria (ascoltatevi anche Wild Blue Yonder per questa storia, vogliatevi bene) e perché la canzone in sé mi lancia parecchie vibes di drago!Eustace e anche di driade!Jill.





Ogni tanto a Eustace sembra di avere denti troppo lunghi e troppo affilati per la sua bocca, e una lingua troppa lunga e qualcosa di bollente e impetuoso in fondo alla gola. Allora deglutisce, inciampa sulle parole che cerca di pronunciare, ricomincia da capo. Gli insegnanti gli chiedono di ripetere e di non mangiarsi le parole. La psicologa gli chiede, la prima volta che succede in sua presenza, se abbia avuto qualche difficoltà nell’imparare a parlare da piccolo, al che Eustace sbuffa (e, per un attimo, può giurare che gli esca un sottile filo di fumo dalle narici) e dice no, proprio no, il mio problema è sempre stato non saper tenere la bocca chiusa. La psicologa ride, e cambia argomento.
Ci tornano sopra quando succede la seconda volta; lei nota che si era dimenticata dello strano balletto che ogni tanto fanno le parole per uscirgli dalla bocca.
«Ti sei imbarazzato?» chiede, anche se la domanda non era affatto imbarazzante.
«No» risponde Eustace «succede a caso. Ogni tanto le parole si incastrano, ma non c’entra l’argomento o la persona con cui parlo». È una cosa fisica, vorrebbe dirle Eustace, a volte il mio corpo si scorda di non essere più quello di un drago. Non può farlo e quindi si limita a stringersi nelle spalle e a fare un sorrisetto e a chiedersi cosa ci sarà scritto negli appunti.
 
(«Quando tornammo la prima volta, mi scordavo di non essere più adulto. Tornare a essere bassi è stato uno shock» dice Edmund mentre Eustace si fissa allo specchio cercando una scaglia, una prova che gli ricordi quello che è successo. Non è che abbia dei dubbi, ma certe abitudini sono dure a morire).
 
E non gli manca essere un drago, per l’amor del cielo, ma ci sono volte in cui vorrebbe avere la coda solo per sbatterla qua e là quando è irritato. Tipo ora.
In sé, gli incontri con la psicologa non sono fastidiosi e sono anche giustificati, molto più giustificati di quanto la psicologa in persona, Harold e Alberta possano credere. Naturalmente però c’è un problema di fondo. Oggi, poi, è irritato perché sa già che arriverà in ritardo da Pole ed entrambi non sopportano le persone poco puntuali; il che da parte di Pole è piuttosto ipocrita, ma così stanno le cose.
«Hai dormito questa settimana, Eustace?»
«No» risponde lui con sincerità. Eustace ha imparato subito che dove può è meglio dire la verità. Siccome un abbondante ottanta percento di quello che gli è successo è off-limits, restano poche verità da dire. E comunque, nel caso presente, basta guardarlo in faccia e ammirare le sue occhiaie bluastre per sgamarlo.
La psicologa infatti non appare minimamente sorpresa. «Sai perché?»
Eustace lo sa, la psicologa lo sa, tutti e due sanno che l’altro sa; probabilmente, però, ammetterlo c’entra qualcosa con il fatto di prendere coscienza dei propri problemi eccetera. Quindi Eustace si stringe nelle spalle e risponde: «Perché senza Pole non riesco a dormire».
Semplice e onesto. Eustace non ci vede un grande problema, o forse il problema è proprio non vederci un problema. Mmm.
Ok, questa è una bugia: Eustace razionalmente sa che non può andare avanti così; ma, vista e considerata la causa di tutto ciò, potrebbe essere molto peggio. E poi, gli incubi sono parecchio diminuiti, e Pole finalmente riesce a prendere la metro senza vomitare o avere attacchi d’ansia (gli tiene comunque la mano dalle scale mobili fino alle altre scale mobili, ma a Eustace questo va abbastanza bene. No, non desidera commentare quest’ultima affermazione).
La psicologa lo guarda e sospira. Eustace sa alla perfezione che sui suoi appunti c’è scritto qualcosa tipo “codipendenza causata da stress post-traumatico” ed è abbastanza sicuro che lo psicologo di Jill scriva la stessa cosa. Ma i loro psicologi non hanno rischiato di essere mangiati dai giganti, di morire congelati o schiacciati metri sottoterra con solo l’un l’altra e un paludrone menagramo come supporto emotivo (si fa per dire). Non hanno visto Rilian uscire con le unghie e con i denti da una manipolazione magico-mentale, non hanno subito la stessa manipolazione neanche dieci minuti dopo da parte di una donna capace di tramutarsi in un orrendo serpente. Non hanno menato colpi su colpi contro suddetto serpente finché il sangue nerastro non ha coperto il pavimento, e tutto sembrava irreale tranne il viso bianco di Pole e le sue dita che gentilmente gli scioglievano la presa sull’elsa.
E mettiamoci pure dentro quel po’ di trauma irrisolto dell’estate scorsa, e Eustace diventa uno dei soggetti più interessanti su cui fare terapia. Se potesse raccontare tutto, è ovvio.
 
Nel “loro” mondo era calata la notte: erano passate poco più di dodici ore da quando erano scappati da Quelli. Li avevano trovati stretti l’uno all’altra nel boschetto dietro la scuola, entrambi con qualche traccia di lacrime sulle guance e miracolosamente non assiderati o disidratati (miracolosamente per i medici, i pompieri, gli insegnanti, i loro genitori, chiunque tranne loro).
Li avevano comunque portati in ospedale “per accertamenti”, e Eustace non sapeva bene se per disattenzione o per caso o perché Aslan ci aveva messo la zampa, ma li avevano sistemati nella stessa stanza.
«Scrubb» aveva bisbigliato Jill, quando finalmente se n’erano andati tutti, e aveva allungato una mano verso di lui. «Stai bene?»
«Credo di sì» aveva bisbigliato lui di rimando, stringendole forte le dita. «È strano, lo so».
«Sì» gli occhi di Jill erano enormi nella penombra ormai grigia della stanza. Senza dire una parola, si era alzata e si era infilata nel suo letto, schiena contro schiena. E avevano dormito.
Il problema era arrivato a casa. Il letto era troppo caldo, le lenzuola troppo profumate (ridicolo) e appena chiudeva gli occhi vedeva quell’orrendo serpente-donna. E poi gli mancava Pole.
Verso le tre, quando si era rassegnato a non dormire (se non altro, aveva una settimana di convalescenza a casa da scuola, se era quello il termine giusto) aveva ricevuto una chiamata da parte di una Pole in piena crisi di panico. Dopo dieci minuti era riuscito a cavarle fuori che aveva sognato la caduta di Eustace e che «è tutta colpa mia, continuavi a urlare e non sapevo che fare…». Neppure Eustace sapeva come calmare un attacco di panico e l’unica cosa sensata che gli era venuta in mente era stata fare una videochiamata. Incredibilmente, aveva funzionato; si erano addormentati parlando intorno alle cinque del mattino, e Eustace si era svegliato qualche ora dopo, intontito, la faccia schiacciata contro il telefono ancora miracolosamente acceso. Nello schermo si vedevano i capelli e la nuca di Jill, come aveva visto ogni mattina, al risveglio in mezzo alla brughiera, per mesi.
Ci avevano riprovato.
Le notti migliori erano quelle passate in bianco; le peggiori… be’, Eustace aveva una vasta gamma di incubi da cui scegliere.
Un sabato pomeriggio, era andato a prendere un caffè con Edmund per raccontargli tutto di persona, compresi i problemi di sonno, panico eccetera.
«Non capisco» aveva brontolato Eustace «quest’estate… non dovevo starvi appiccicato per dormire». Certo, aveva avuto qualche incubo e gli mancava terribilmente Ripicì e tutti e tre avevano camminato ondeggiando per un paio di settimane, ma niente di drammatico. 
Edmund aveva sorriso con quella sua aria da vecchio saggio. «Forse perché questa volta eri senza di noi. Per Jill era la prima volta, quindi eri tu a doverla sostenere e a guidare. E poi» qui il sorriso era tornato a essere quello di suo cugino Ed, non quello di re Edmund il Giusto «la prima volta eri troppo impegnato a rompere a tutti per renderti pienamente quello di quello che succedeva».
Eustace avrebbe voluto protestare, ma effettivamente era stato un dito al culo per settimane sul Veliero, quindi si era limitato a infilzare con la forchetta la torta e non la mano di Edmund, che rideva sotto i baffi.
«Comunque» aveva proseguito Ed «per qualcosa come mesi noi quattro non riuscivamo a separarci, era quasi imbarazzante. Io ebbi un attacco di panico una volta uscito da scuola perché si era messo a nevicare, sai? Solo Peter riuscì a calmarmi. E l’estate scorsa… Peter e Su, che erano soli… be’, diciamo che sarà l’ultima volta che ci separiamo completamente. Meglio viaggiare in coppia, almeno».
 
(«Ah» dice Edmund con un sogghigno, quando si rivedono e gli viene presentata Jill. «Finalmente ci conosciamo! Eustace non la smette mai di parlare di te».
«Oh» dice Jill, ed è davvero ingiusto che la sua carnagione caffelatte e le lentiggini le mascherino il rossore, mentre Eustace è più bianco del latte e arrossisce con una facilità imbarazzante.
«Solo cose brutte, Pole, stai tranquilla» sibila, facendo gli occhiacci a Edmund, che se la ride. Bastardo).
 
Dopo qualche mese, Eustace è diventato molto bravo a studiare di notte e pisolare di giorno, specialmente a scuola. Altrimenti, lui e Pole passano le nottate a parlare su Skype e a prendersi per sfinimento, per svegliarsi la mattina dopo col computer scarico ancora sul materasso. Non è come dormire veramente con Pole e in più i fili delle cuffie hanno rischiato di strozzarlo più volte nel sonno, ma è qualcosa.
C’è anche una terza opzione, ovvero il divano gigante e morbidissimo di Pole, che resta sola in casa per gran parte dei pomeriggi: suo padre lavora, sua sorella scompare, loro due cascano dal sonno, per cui c’è pochissima indecisione sul da farsi.
Eustace quasi non fa in tempo ad accomodarsi, gambe sul pouf (un pouf. Che meraviglia) e Jill raggomitolata sulla sua spalla che crolla per un paio d’ore.
Quando si risveglia, fuori sta calando la sera e sul divano c’è solo lui; ma sente Pole fare casino in cucina e canticchiare qualcosa di non meglio identificabile, e lui è non poco rilassato.
Il viso di Pole si affaccia sulla soglia. «Tè?» Eustace annuisce, anche se lui e Pole bevono tè tragicamente diversi, e lui sa già che dovrà annegare il suo con latte e zucchero per ignorare il milione di fiori ed erbe degli infusi che Pole gli propina. I biscotti almeno sono decenti.
Jill gli allunga la sua tazza ed è rassicurante constatare che in casa Pole ci sia una “sua” tazza (c’è disegnato sopra un bradipo con degli occhiali che somigliano in maniera sospetta ai suoi da lettura) così come nella credenza di casa sua Eustace tiene una scorta di caffè normale solo per Pole (i suoi gli hanno inculcato la mania del decaffeinato e ad Eustace non dispiace, tutto sommato. Tanto è questione di effetto placebo, restare svegli). I loro psicologi non sarebbero d’accordo, forse, sul “rassicurante”, ma pazienza.
I capelli di Jill sono tirati su a metà da una specie di coda e sotto l’occhio sinistro ci sono le tracce di mascara sbavato. Eustace sa che sul colletto della camicia e sul maglione troverà tracce nere lasciate dalle ciglia di Jill. Alberta non ne sarà troppo contenta, perché Jill non le piace, ma le piace ancor meno non poter fare nulla al riguardo. Dopo aver passato tutta la vita a sostenere l’indipendenza dei figli in generale e del suo in particolare, non può saltar su e proibirgli di vedere la sua migliore amica; in più, è stato caldamente sconsigliato di separare Jill ed Eustace, almeno finché la terapia è ancora allo stadio iniziale (resterà lì ancora un bel po’, pare). E comunque, Eustace ha passato prima l’infanzia e ora l’adolescenza a fare più o meno ciò che gli andava, pur nei limiti della legalità (su questo Harold e Alberta sono sempre stati irremovibili) e non ha intenzione di smettere proprio ora, quando finalmente ciò che fa e ciò che vuole gli piace sul serio. Stare con Jill gli piace. Jill gli piace.
«Scrubb» dice Jill, e fissa con insistenza gli unicorni sulle proprie calze, il mento sulle ginocchia. «Sai quando ho fatto la scema e tu sei finito giù da un dirupo?»
Eustace alza un sopracciglio. Non è sua intenzione riprendere una conversazione piena di sensi di colpa, ma certo che se lo ricorda. «Certo che me lo ricordo».
Pole annuisce. «Ok. Ora farò qualcosa di altrettanto stupido».
E prima che Eustace possa chiedersi e chiederle se per caso nel tè c’era qualche erba strana, Jill si è allungata verso di lui e l’ha baciato.
Eustace è sicuro di avere in faccia l’espressione più idiota di questo mondo, di Narnia e di quanti altri universi si nascondano qui e là.
Jill lo fissa. «Com’era?» chiede, manco gli avesse preparato qualcosa da mangiare con le sue mani (sconsigliabile. Pole ha molte e belle qualità, ma cucinare non è tra queste).
«Non… non saprei» balbetta Eustace, un po’ perché è durato mezzo secondo e un po’ perché, uh, non è che abbia baciato molta gente in vita sua. La parte di cervello rimasta razionale gli ricorda che dovrebbe raccogliere qualche altro campione prima di trarre conclusioni.
Quindi, anche se sta acquisendo una sfumatura magenta, prende Jill per le spalle e stavolta è lui a baciarla. Dura un po’ di più, stavolta, e i denti cozzano un po’ tra loro e sicuramente Eustace ci mette troppa lingua, quindi è un bacio disordinato e poco elegante. Ma siccome Jill non protesta né gli molla un ceffone, ma gli sfiora con le dita (gelide, nervose) i polsi, i gomiti e alla fine gli si aggrappa al maglione, evidentemente non è così male. E la lingua ce la mette anche lei, quindi.
Quando si staccano, Jill fa un risolino e gli passa le dita fra i capelli. Non è certo la prima volta, stanno letteralmente appiccicati tutto il giorno e Jill, ha scoperto, non si fa scrupoli nello strapazzare le persone a cui vuole bene con tocchi che vanno dall’affettuoso al violento (le due cose, quando è lui l’interessato, si confondono facilmente); e poi, hanno appena limonato (oh Dio, hanno limonato sul serio), ma Eustace comunque sente un brivido scendergli lungo la schiena e deglutisce.
«Credo che questo non faccia parte della terapia» dice Jill con un sorriso talmente malizioso che Eustace ha voglia di baciarlo e ricominciare di nuovo. Siccome sono ancora mezzo abbracciati e non ha avuto il fegato di farlo quando pensavano di stare per morire sottoterra e nemmeno quando erano sani e salvi e avvoltolati nella stessa coperta, lo fa ora.
«Hai le labbra secchissime» le dice dopo un indefinito lasso di tempo, e Jill gli molla uno spintone. «Davvero, dovresti comprarti uno di quei cosi al burro di karité che le ragazze si portano sempre dietro».
«Vaffanculo» risponde Jill, elegantemente. Ha i capelli completamente sciolti adesso ed è molto, molto bella. Non che prima fosse brutta, anzi, Eustace ha sempre trovato che fosse carina anche prima di Narnia, prima di conoscerla sul serio. Anche prima che togliesse l’apparecchio, ma quello non glielo dice. Non ancora almeno.
Punzecchiare Jill è quasi bello quanto baciarla, e anche questo non glielo dice, però crede sia, be’, evidente. Quando finiscono di lanciarsi frecciatine e calci poco convinti (da parte di Eustace; Pole è cattiva) se ne stanno lì seduti, spalla contro spalla e Jill gli prende piano la mano.
«È perché eri un drago che sei sempre caldo?»
La domanda lo coglie di sorpresa. «No. Cioè, non lo so. Sono caldo?»
Jill annuisce, gli stringe le dita. «Anche in mezzo alla neve in qualche modo eri caldo. E a volte, quando la luce ti colpisce gli occhi, le tue pupille sono diverse. Più sottili». I polpastrelli sulle sue palpebre sono lievi come fiocchi di neve.
«È una cosa… brutta? Cioè, ti dà fastidio? Insomma, i draghi non sono… e io non ero…»
Jill gli lancia un’occhiata stranita. «Sei scemo? No che non è brutto. Mi piace. Cioè, è strano, ma mi piaci tu, e questa cosa del drago sei sempre tu, e quindi mi piace». Stavolta il rossore sotto le lentiggini si vede eccome, e Eustace potrebbe fare qualcosa di molto stupido, tipo riempirle la faccia di baci o dichiararle il suo amore eterno lì su due piedi. Quest’ultima cosa è molto narniana, fra l’altro.
Siccome non sono più a Narnia e lui, nonostante tutto, rimane Eustace Scrubb, si limita a stamparle un solo bacio sulla guancia bollente.
«Comunque mi piaci anche tu, Pole».
Lei gli lancia un’occhiata da sotto le ciglia che significa “Be’, chiaramente”. Eustace le tira un ricciolo in risposta e si chiede (col cuore che batte forse un po’ più forte del solito) se davvero debba aspettare di tornare a Narnia per compiere gesti narniani.


 
  
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