Fanfic su artisti musicali > Bangtan boys (BTS)
Segui la storia  |       
Autore: AnnabethJackson    11/12/2020    0 recensioni
[VMIN - molti accenni SOPE]
Seoul, estate.
Taehyung, rampollo di buona famiglia, deve consegnare un progetto di fotografia per uno stupido corso a cui lo ha iscritto la madre. Si trova sulla banchina della metropolitana, la macchina fotografica in mano. Basta uno scatto e si trova a guardare gli occhi vivi di un ragazzo, impressi nella fotografia.
Occhi che parlano e che significano tutto per lui.
Ma quando alza lo sguardo per cercarlo, quel ragazzo è sparito.
Sei anni dopo la vita di Jimin si trova in una fossa. Un turbine di eventi l'hanno scosso nel giro di pochi anni, gettandolo in un vortice nero senza fine fatto di sensi di colpa e odio verso sé stesso. Malgrado fuori paia spensierato, forze non ne ha più.
Quando un ragazzo lo ferma, il suo unico pensiero è che è in ritardo per il lavoro. Il ragazzo gli restituisce il libro che ha dimenticato sulla metropolitana e poi si ferma a fissarlo.
Guarda Jimin come se possedesse la chiave dei suoi pensieri più intimi, come se lo conoscesse. Eppure, Jimin è sicuro di non averlo mai visto prima.
E poi, nello stesso modo in cui è comparso, quel ragazzo se ne va, senza dire una parola.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jeon Jeongguk/ Jungkook, Kim Taehyung/ V, Min Yoongi/ Suga, Park Jimin
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A


5.CIAO

 

Taehyung cominciava davvero a odiare sé stesso. O meglio, a odiare il suo corpo, e in particolare quello stupido orologio biologico che sembrava essere intrinseco nel suo cervello.
Fin da bambino aveva avuto quella sorta di benedizione-maledizione che lo portava a svegliarsi con una regolarità quasi imbarazzante. Bastava veramente poco perché il suo corpo si abituasse a certi orari. Il che poteva essere comodo durante i giorni feriali – soprattutto per persone simili a suo fratello, che avrebbero preferito passare il resto dei loro giorni nel letto.
Per lui, invece, era un vero e proprio fardello, soprattutto quando si trovava il sabato mattina a fissare il soffitto della sua camera mentre fuori nemmeno il sole era sorto.
Vero, era ormai quasi dicembre e le giornate si stavano accorciando a vista d’occhio, ma per esserci ancora le tenebre doveva essere davvero molto presto. Almeno, molto presto per essere la prima giornata in cui non doveva alzarsi per infilarsi una scomoda cravatta e andare in ufficio.
Quella appena passata era stata la settimana più stancante e avvilente della sua vita.
Ed era tutto dire.
L’unica cosa che aveva concluso era che la sua vita, da quel momento in poi, sarebbe stata di una monotonia mortale. Se avesse dovuto associare un colore agli ultimi giorni, non avrebbe esitato a nominare il grigio. Un grigio scuro, tetro, noioso e assolutamente anonimo.
Perché era esattamente così che ci si sentiva ad entrare in quell’ufficio la mattina presto, stare seduti dietro a una scrivania di vetro, compilare scartofie, rispondere a telefonate di gente assolutamente noiosa – ma che si credeva d’importanza vitale per l’umanità – e tornare poi a casa nello stesso modo e a un orario tale da non aver la possibilità di vedere nemmeno uno spiraglio di luce prima del sorgere della luna.
Un grande e noiosissimo strazio.
E non poteva nemmeno prendersela con qualcuno per sfogare la frustrazione che sentiva accumularsi dentro di sé: l’unico cretino da incolpare era sé stesso e medesimo. Per l’ennesima volta, avrebbe aggiunto.
Aveva mai combinato qualcosa di buono nella sua vita?
La risposta a quella domanda lo spaventava, per cui per la maggior parte del tempo cercava di non pensarci. Si limitava a trascinarsi in giro, fare quello che le persone si aspettavano da lui, e a vedere nello specchio sé stesso diventare una brutta copia di ciò che era.
Ma, più di tutte, erano le responsabilità che gli avevano caricato sulle spalle ad annichilirlo. Perché, se c’era una cosa che aveva imparato negli ultimi ventiquattro anni di vita, era che voleva tranquillità. Una tranquillità che quel lavoro non avrebbe mai potuto dargli.
Avrebbe fatto a meno di tutti i soldi del mondo e il prestigio sociale pur di acquistare quel minimo di serenità che agognava disperatamente.
Sdraiato sul letto, le gambe allargate sulle lenzuola sfatte e un braccio piegato sotto la testa, spostò lo sguardo fuori dalla finestra dove, finalmente, il sole stava cominciando a sorgere. O almeno, una parvenza di luce tingeva di un azzurro più chiaro l’esterno, di cui Tae riusciva a scorgere solo un albero spoglio e palazzi in lontananza.
Gli era sempre piaciuta quella vista, un po’ forse perché era uno dei pochi angoli dell’intera Seoul in cui si sentiva tranquillo, in cui riconosceva una familiarità che sapeva di casa. Un po’ perché aveva passato tanto di quel tempo in quel posto da averci costruito la sua vita intera praticamente.
Sospirò prima di scalciare via le coperte e sedersi sul materasso, le gambe scivolate a toccare terra. Si alzò e guardò il cielo, rimanendo qualche istante immobile.
Vedere l’alba sorgere lo riempiva come null’altro al mondo. Era come caricare le batterie in vista di una nuova giornata.
Il suo sguardo venne poi attirato dalla scrivania, posta poco lontano, su cui spiccava la sua macchina fotografica. Lo stava chiamando, la sentiva, la percepiva fino nell’anima. Era quella la sua cura, qualcosa che avrebbe potuto davvero risanarlo dal grigiume che aveva accumulato in pochi giorni.
Che altro aveva da fare, dopotutto? Il cielo era sgombro di nuvole, quindi si apprestava ad essere una bella giornata invernale.
Erano settimane che non scattava. Erano settimane che non percepiva quella sensazione sotto le dita, la consapevolezza di aver catturato un istante unico nell’universo che non sarebbe più tornato. Erano settimane che non si sentiva sé stesso.
Impiegò poco ad indossare i primi vestiti comodi che trovò nell’armadio, una semplice tuta calda e scura, con uno grosso maglione spesso a collo alto. Non fece nemmeno una sosta in bagno: a chi poteva interessare che i suoi capelli fossero un disastro e che le occhiaie gli arrivavano quasi sotto ai piedi?
L’unica cosa che importava, al momento, era tornare a essere Taehyung, almeno per l’istante di una fotografia.
Si chiuse la porta della camera alle spalle e uscì.
 

[…]

 
Stava per uscire sul pianerottolo, quando un leggero ticchettio sul legno del pavimento lucido attirarono la sua attenzione. Passò un istante prima che una grossa massa pelosa si gettasse tra le sue gambe, avvolgendolo immediatamente di un calore familiare e piacevole.
Abbassò lo sguardo sulla figura di Sup che gli stava sfregando il muso sulle cosce, la lingua a penzoloni e l’entusiasmo che solo un cane poteva avere a quell’ora del mattino, e sorrise automaticamente. Provava un bene dell’anima per quell’animale.
Impiegò poco per recuperare il guinzaglio dall’aggancio posto vicino all’entrata e ad assicurarlo al collare. Forse, un po’ di compagnia poteva solo che fargli bene.
Mentre si apprestava ad uscire di casa, stringendosi nelle spalle nel tentativo di reprimere un brivido causato dal freddo, tornò a guardare il cielo. Era ancora troppo presto per scattare. La luce che cambiava così velocemente d’intensità in prossimità dell’alba poteva essere emozionante da documentare, ma risultava un piccolo problema quando voleva concentrarsi su altri soggetti.
Non che avesse idee precise quella mattina.
Sup si era fermato al suo fianco, guardandolo dal basso con il capo piegato, quasi a domandargli che cosa stesse aspettando.
Tae accennò un sorriso e con un leggero scatto scese i gradini del pianerottolo e si immise nella strada ancora deserta. Non aveva una meta precisa, per cui si limitò a seguire le proprie gambe – o meglio, a seguire il volere di Sup, il quale gli trotterellava davanti, il naso raso terra e la coda scodinzolante.
Sorrise, ricordando il momento in cui Sup era entrato a far parte della sua famiglia, quasi dieci anni prima ormai. Era un cane di grandi dimensioni, ma all’epoca non era che un batuffolo di pelo chiaro tremolante e dallo sguardo completamente perso.
Era stato proprio Taehyung a trovarlo in una delle tante notti insonni che aveva vissuto. All’epoca aveva appena iniziato le superiori e, più che per casualità, la notte rimaneva sveglio a studiare. Non perché amasse chissà quanto lo stare sui libri, ma anche allora era oppresso da aspettative molto più grandi di lui, che tuttavia voleva adempiere e soddisfare.
Quella notte in particolare, per un motivo che non ricordava più, si era messo a guardar fuori dalla finestra il temporale che infuriava all’esterno. Era stato quando un fulmine aveva tagliato in due il cielo, illuminando per un breve – ma sufficiente – istante il paesaggio, che Taehyung lo aveva visto. Lì, dall’altra parte della strada, poco fuori dalla proprietà della sua famiglia, c’era una piccola figura chiara raggomitolata e indistinguibile.
Aveva tentennato un solo istante prima di fiondarsi all’esterno, incurante della pioggia torrenziale, e confermare il timore che era sorto in lui: quella piccola figura era un cagnolino dal pelo inevitabilmente sporco e il corpo tremante.
Taehyung lo aveva portato immediatamente al sicuro e al caldo, dentro casa. Se ne era preso cura per tutto il resto della notte, pulendolo, nutrendolo e lasciandolo riposare tra le proprie braccia, chiedendosi chi avesse potuto abbandonare una creatura del genere per strada – anche se, purtroppo, erano situazioni che in quella città capitavano molto spesso, soprattutto in determinati quartieri.
L’affetto per quell’esserino era stato immediato.
La mattina seguente, però, al risveglio del resto della famiglia erano arrivati i guai: come aveva temuto Tae, sua madre non voleva saperne di adottare un cane e, con sua somma sorpresa, anche Yoongi si era opposto. La ragione era da ricercarsi nel brutto episodio che quest’ultimo aveva avuto da bambino con un cane randagio, conclusosi con una grossa benda su una mano e un’intrinseca paura di qualsiasi bestiolina da tratti somatici affini.
Tae però si era impuntato come mai nella vita, facendosi furbo e, insieme, opera di convincimento: la madre era stata stranamente l’anello più debole. Era bastato ricordarle che un cane da guardia faceva sempre comodo e che tutte le sue amiche ne avevano almeno uno.
Con Yoongi, invece, c’era voluto quasi un mese. Un mese durante il quale Taehyung non aveva perso occasione di portarsi appresso quel batuffolo di pelo morbido, dai grandi occhi scuri e un carattere molto affettuoso, ogni qualvolta suo fratello si spostasse.
Solo dopo centinaia di leccate bavose in faccia e teatrini demenziali organizzati da Tae, che avevano visto protagonista il cagnolino entusiasta, Yoongi aveva ceduto. Era diventata addirittura la persona preferita di Sup e l’affetto era reciproco, sebbene suo fratello avesse sempre cercato di nasconderlo. Non per altro, Sup dormiva quasi tutte le notti ai piedi del letto di Yoongi.
Perso nei ricordi, Taehyung non si accorse di essere arrivato nei pressi di Seoul Forest.
Rimase stupito perché casa sua distava quasi un’ora a piedi dalla posizione attuale. Non si era accorto di aver camminato tanto a lungo. Alzando lo sguardo al cielo constatò che sì, era passato tanto tempo da quando era uscito di casa perché ora la luce aveva invaso tutto l’ambiente, interno ed esterno, sovrastando la maggior parte delle tenebre. Inoltre, attorno a sé, la strada si era riempita di persone e macchine, dirette chissà dove.
Sup non aveva smesso un istante di tirare il guinzaglio, puntando all’entrata del parco. Tutto quel verde era un richiamo irresistibile per lui.
Taehyung lo accontentò, addentrandosi in quel piccolo angolo di mondo ai suoi occhi magico e a sé stante rispetto al resto della città. Non era la prima volta che ci andava, anzi, ma in ogni sua visita era in grado di ricreare quella magia quasi infantile che lo galvanizzava completamente.
Era il posto perfetto per scattare.
Slegò il guinzaglio dal collare di Sup, permettendogli di scorrazzare in giro liberamente, sicuro che non si sarebbe allontanato troppo, né che si sarebbe messo a importunare le altre persone. Su una cosa sua madre era stata irremovibile all’epoca, ovvero l’addestramento al rispetto da parte del componente peloso della famiglia.
Si mise a trafficare con la macchina fotografica, in modo tale da fissare le giuste impostazioni per l’effetto che voleva ottenere: vedendo quella mattinata luminosa svilupparsi davanti ai suoi occhi, voleva provare a catturarne l’atmosfera.
Scattò un po’ di immagini, ai laghetti, agli alberi, al cielo, a un insieme di tutte quelle cose, e alle persone che camminavano e correvano qua e là. Nulla di tutto quello che comparve sullo schermo digitale dell’apparecchio lo soddisfò. Per un motivo o per l’altro, c’era sempre qualcosa, un dettaglio o un colore che rendevano le foto assolutamente scialbe e sbagliate.
Sentiva dentro di sé montare della frustrazione, pensando anche al fatto che era voluto uscire a fotografare proprio per scaricarsi, e invece si trovava solo ad accumulare ancora più stress.
Camminò ancora un po’ in giro, fermandosi nella zona dei laghi, e alzò la macchina fotografia, ponendola di fronte all’occhio sinistro.
Fu in quel momento che, dall’altra parte della lente, lo vide.
Lo scatto che fece con la testa per guardare con i propri occhi la realtà, quasi gli stirò i muscoli del collo. Sicuramente, il suo cuore aveva fatto un balzo non indifferente da qualche parte lì, nel petto.
Osò sbattere le palpebre solo per assicurarsi che sì, ci vedeva ancora bene e che sì, quello era proprio lui.
Correva forte, le gambe che spingevano alla massima potenza e lo sguardo fisso davanti a sé. Taehyung non avrebbe nemmeno dovuto riconoscerlo, nello stato in cui riversava al momento, eppure ormai aveva rinunciato a chiedersi come facesse a sapere che fosse sempre lui. Lo sapeva e basta.
Era coperto da capo a piedi da vestiti scuri, pantaloni aderenti e una grossa felpa larga. I capelli chiari erano invece celati per la maggior parte da un cappello di lana rosso, con un piccolo buffo pon-pon che rimbalzava al ritmo della cadenza dei suoi passi.
Tae non esitò un istante di più, anche se avrebbe avuto numerosi motivi per non farlo. Con la macchina fotografica in una mano e il guinzaglio nell’altra, gli si affiancò, cominciando a correre.
Per quanto lo riguardava, quello era uno dei gesti più impulsivi che avesse mai fatto: Taehyung odiava correre, i vestiti che indossava erano tutto fuorché adatti e la sua preziosa macchina fotografica rischiava la morte per sua stessa mano. Senza contare che il suo carattere lo aveva sempre precluso dal compiere simili gesti avventati.
Eppure, eccolo lì.
Si rese davvero conto di quanto quel ragazzo fosse immerso nella corsa quando non diede segno di essersi accorto della sua presenza. Impiegò parecchi secondi, un tempo abbastanza lungo perché Tae cominciasse ad ansimare e a chiedersi se fosse il caso di compiere un ulteriore gesto impulsivo.
La figura alla sua destra si bloccò all’improvviso.
Taehyung fece altrettanto, appena in tempo per vederlo inciampare nei propri passi e quasi capitolare a terra. Ma Tae aveva dei buoni riflessi: allungò il braccio velocemente per prendere quello del ragazzo e lo salvò da caduta certa.
Il vero problema sorse l’istante successivo. Quello in cui si ritrovarono faccia a faccia, a una vicinanza tale da poter vedere tutte le goccioline di sudore che imperlavano il suo viso. Una in particolare attirò lo sguardo di Tae: appesa sul limitare della guancia per effetto della tensione superficiale, stava scivolando con velocità estenuante verso l’angolo di quella bocca, incredibilmente rossa e delicatamente aperta a formare una piccola “o” di sorpresa.
Taehyung sentiva il petto del ragazzo dilatarsi e comprimersi velocemente contro la sua scatola toracica. La ragione era sicuramente da attribuirsi alla corsa forsennata, ma a che scusa poteva attingere Taehyung per giustificare la propria mancanza di fiato?
Non osò alzare gli occhi per incrociare il suo sguardo.
Quanto stava durando quel momento?
Tae si accorse di quello che stava facendo un tempo troppo lungo da potersi considerare socialmente accettabile. Con un moto di sorpresa verso sé stesso, lasciò andare il braccio del ragazzo, allontanandosi di due passi e ristabilendo lo spazio vitale che necessitava per tornare a respirare normalmente.
Avrebbe dovuto provare imbarazzo? L’unica cosa che sentiva al momento era una grandissima confusione, mista a un’inaspettata felicità intrinseca.
Quando trovò il coraggio per guardarlo in faccia, ad attenderlo c’era uno sguardo sorpreso e vagamente spaesato.
«Ciao.»
Tae non riusciva a credere che quella parola fosse uscita proprio dalla sua bocca. Non riusciva nemmeno a credere che fosse la prima parola in assoluto che gli avesse detto. Era stato così… facile.
«Ciao.»
Taehyung era perfettamente consapevole della confusione che stava crescendo sempre più in quello sguardo che lo fissava, così come era perfettamente consapevole che gli episodi del passato avrebbero richiesto una sorta di spiegazione da parte sua. Ma, di giustificazioni non ne aveva nemmeno per sé stesso come già aveva concluso la settimana precedente, se non ammettere che fosse stato un cretino.
Quella era la sua occasione per rimediare. E quale modo migliore di rimediare se non nascondere la testa sotto il terreno e far finta di nulla?
In una vita passata doveva essere stato un coniglio.
«Ti sei fatto male?» gli domandò sinceramente preoccupato, ricordandosi che fosse quasi caduto a terra per colpa sua. Non gli diede tempo di rispondere. «Vieni a sederti su quella panchina, prendi fiato. Sembri molto affaticato.»
Poco lontano da loro, sul perimetro della pista pedonale, vi erano una serie di sedute di legno scuro, poste l’una a poca distanza dall’altra in modo che puntassero verso la riva del fiume Han. Infatti, anche se il litorale era occupato da grandi strade trafficate, da quella posizione era possibile godersi una vista mozzafiato della città e dei suoi palazzi attraverso gli alberi spogli.
Quello sì che era un buon posto per scattare fotografie anche se, al momento, le fotografie erano il suo ultimo pensiero.
Non attese una risposta, consapevole che la sua proposta fosse probabilmente fuori luogo e facilmente declinabile. Non poteva permettersi di lasciarsi sfuggire l’ennesima occasione.
Senza pensarci, lo prese delicatamente per la manica della felpa larga, e lo trascinò con sé, lasciandolo solo quando entrambi si furono accomodati sulla panca umida e fredda.
Il silenzio tornò a ricoprire il ruolo di terzo incomodo tra loro. Quella volta però era un silenzio diverso, molto meno pesante e molto più avvolgente, forse anche grazie all’atmosfera frizzantina di quella mattinata.
Sup scelse proprio quel momento per tornare da Taehyung, saltellando in giro tutto contento e annusando l’erba qua e là. Nel vedere il nuovo arrivato accanto al suo padrone, si avvicinò di gran carriera, con la chiara intenzione di fargli le feste e scoprire il suo odore.
Tae era in procinto di fermarlo, non sapendo se a lui avrebbe potuto creare dei problemi, ma a sorpresa vide il suo volto accendersi letteralmente mentre assecondava i movimenti festaioli di Sup. Gli accarezzò il pelo fulvo, mentre il cane posava le zampe anteriori sulle sue gambe e gli lasciava una lunga striscia di bava umida sul volto – giù bagnato in precedenza dal sudore.
Le orecchie di Taehyung si bearono del suono melodioso proveniente dalle sue labbra, da cui era appena sfuggita una risata sincera e cristallina. Quel suono gli arrivò dritto nello stomacò, mozzandogli momentaneamente il fiato.
Respirò profondamente.
«Scusa.»
La parola uscì piano dalla sua bocca, una via di mezzo tra un sussurro e un bisbiglio. Ma si propagò con una potenza non proporzionale, tale per cui venne udita dal diretto interessato, sebbene questo fosse ancora distratto nell’accarezzare Sup.
«Mi dispiace,» aggiunse ancora Taehyung, non sapendo nemmeno lui dove volesse andare a parare. Per che cosa si stava scusando esattamente?
Guardò attentamente il suo volto, mentre questo si girava lentamente nella sua direzione, piegandosi leggermente verso destra in un’espressione sorprendentemente neutra. Se Taehyung sperava di ricevere dei segnali su come proseguire, doveva ricredersi.
Perlomeno non lo aveva ancora mandato a quel paese. Era già una piccola vittoria.
Doveva proseguire nell’opera di perdono e rischiare di aggiungere qualcosa che lo avrebbe fatto ricadere in una fossa? Nemmeno lui sapeva cosa gli fosse preso all’epoca, per cui cosa avrebbe potuto dirgli?
Quella volta era sicuro che non si sarebbe pentito della scelta di ripiegare sul silenzio.
«Vieni spesso qui a correre?»
Poteva comportarsi da stupido a volte, ma persino lui sapeva che il miglior modo per evitare domande indesiderate era porne altrettante. Il trucco stava nel tempismo.
Passarono qualche istanti di silenzio, durante in quali il ragazzo tornò a grattare lo spazio dietro le orecchie di Sup, sedutogli davanti con la lingua a penzoloni. Taehyung era sicuro che avesse udito la sua domanda, ma non poteva vantare la medesima certezza in una sperata risposta.
«Sì, quasi tutti i sabati mattina e alcune volte anche in settimana.»
Non lo stava ancora guardando, per cui Tae si concesse la possibilità di sorridere brevemente con le labbra, accorgendosi solo in quell’istante di aver trattenuto il fiato.
«Deve piacerti molto correre per alzarti così presto alla mattina e con queste temperature,» sottolineò Taehyung. Non poteva permettere che la conversazione soffocasse come un fuoco privato dell’ossigeno.
Lo vide stringersi nelle spalle e fare un cenno con il capo, senza mai distogliere lo sguardo dall’animale.
Taehyung non riusciva a comprendere cosa gli passasse per la testa. Sentiva l’occasione scivolargli via dalle mani come una fune, senza possibilità di appigliarcisi.
Si morse le labbra, indeciso se arrendersi o se uscirsene con l’ennesima frase di rito, per esempio su quanto bella fosse quella giornata e che bel sole fosse appena sorto. Roba da vecchietti in fila al supermercato, insomma.
Abbassò lo sguardo sulle proprie mani che stavano giocherellando nervosamente con la macchina fotografica.
«Sei un fotografo?»
Tae alzò gli occhi sorpreso. Il suo sguardo era puntato sulla macchina fotografica, ma quasi subito si sollevò per incontrare quello di Taehyung. In quelle iridi vi era una sincera curiosità.
Tae aveva desiderato quell’interesse reciproco, ma ora si trovava ad essere bloccato, perché era una domanda che, sorprendentemente, lo colpiva più di quanto gli piacesse ammettere. Non c’era margine di argomentazione da parte sua, un sì o un no erano più che sufficienti. E la risposta vera era solo una. Ma non era quella che avrebbe voluto.
«No,» disse. Alzò la macchina fotografica e ci passò una mano sopra, quasi come una carezza. «È una sorta di passatempo per i momenti di noia. Non sono nemmeno molto bravo.»
Non sapeva nemmeno lui cosa avesse voluto dire con quella frase perché, se c’era una cosa in cui non aveva mai avuto problemi, era l’essere obiettivo verso sé stesso e le proprie capacità. Sapeva di essere bravo, sapeva di avere delle capacità in quell’arte nello stesso modo in cui sapeva di avere una strana connessione con quel ragazzo.
Era istinto, e l’istinto non aveva bisogno di giustificazioni.
Eppure, lì in quel momento, sentiva di non essere all’altezza, sentiva che non sarebbe mai stato abbastanza per poter essere chiamato tale. Fotografo.
Percepiva lo sguardo del ragazzo su di sé, ma non aveva più voglia di incrociarne gli occhi. Temeva di mostrarsi vulnerabile.
Taehyung sentì accanto a sé un rumore e si girò appena in tempo per vederlo lanciare un’occhiata all’orologio che teneva al polso e alzarsi di scatto.
«Scusa, devo proprio scappare,» disse toccandosi nervosamente il cappello ben calato sulla testa. «Sai, il lavoro…»
Lasciò la frase in sospeso mentre si osservavano. Taehyung, ancora seduto, annuì con il capo.
«Beh, allora… ciao» continuò l’altro. Però non si mosse subito, oscillò sui propri piedi spostando lo sguardo un paio di volte da Tae a Sup. Sembrava volesse aggiungere qualcosa, ma alla fine si voltò, allontanandosi in direzione della pista.
E, all’improvviso, Tae scattò.
«Ehi, aspetta!»
Taehyung corse per la seconda volta – di troppo – quella giornata, che tra l’altro era appena iniziata. Si fermò solo quando si ritrovarono a pochi metri di distanza.
«Come ti chiami?»
Il ragazzo, che aveva girato solo il capo per guardarlo rimanendo di spalle, sorrise lievemente.
«Jimin. E tu?»
«Taehyung.»
Jimin annuì, mentre con le labbra pronunciava silenziosamente quello che pareva essere il nome di Tae, quasi a volerne assaporare il peso sulla bocca. Poi fece nuovamente un cenno col capo e riprese a correre, allontanandosi con sorprendente velocità.
 

[…]

 
Chiuse la porta di casa dietro di sé con un leggero tonfo e vi si appoggiò contro con tutto il corpo. Serrò gli occhi e reclinò il capo, in modo che il suo volto puntasse verso il soffitto. Infine, rilasciò il fiato, lentamente, riaprendo con estrema lentezza le palpebre dopo qualche istante.
Cosa cazzo era appena successo?
Jimin sentì qualcosa all’altezza dei polpacci. Abbassando il capo trovò Erri intento a fargli le fusa – o meglio, a richiedere disperatamente attenzioni. Jimin sapeva benissimo quale fosse il suo bisogno, dopotutto quel gatto faceva solo due cose nella sua idilliaca vita d’animale domestico: mangiare e dormire. E se, al momento, non era nascosto da qualche parte in camera sua a sonnecchiare e a premeditare un nuovo modo per riempirgli di peli i vestiti, significava solo che era venuto in cerca di cibo.
Si piegò sulle gambe in modo da potergli grattare il capo. Erri sembrò apprezzare solo per i primi tre secondi, dopo i quali si mise a fissarlo. Se avesse potuto parlare, gli avrebbe detto di muovere le sue chiappe umane verso la cucina per accontentare la sua richiesta – Jimin ne era certo.
Guardò la propria mano, immersa in quel pelo morbido e per il suo cervello fu automatico tornare indietro nel tempo di appena un’ora, quando aveva davanti a sé un bellissimo cane e accanto a sé uno stranissimo ragazzo.
Un ragazzo che ora aveva un nome.
Taehyung.
Un mistero. Il suo mistero.
Perché quel giorno gli era sembrato una persona completamente diversa da quella che si era trovato a fronteggiare nei loro due trascorsi. Era rimasto talmente destabilizzato da aver a malapena spiccicato parola. Non avrebbe saputo dire se a lasciarlo senza voce fosse stato l’incontro stesso, il fatto che avesse provato a intavolare una conversazione, le scuse… oppure quell’istante – quello in cui i loro corpi si erano trovati improvvisamente vicini.
Certo, lo aveva salvato da caduta certa, evitando che finisse faccia a terra – come già si era immaginato al rallentatore mentre inciampava. Lo aveva preso appena in tempo per il braccio, ma quello che era seguito non faceva parte del pacchetto “salva Jimin da una figura di merda certa”.
Era successo qualcosa. Qualcosa che forse poteva trovare spiegazione negli occhi di Taehyung che si erano abbassati sulle sue labbra. Jimin lo aveva visto e non aveva potuto far altro che imitarne il gesto.
Poi – grazie al cielo – era potuto tornare a respirare dell’aria non condivisa.
Quella che era seguita era stata la conversazione più strana e incomprensibile della sua vita. Aveva provato a inquadrare quel ragazzo, così diverso e allo stesso tempo così familiare all’immagine che gli aveva associato nella sua testa.
Non poteva negare che dopo la mostra d’arte gli avesse affibbiato l’etichetta di persona snob, alla pari di molta gente presente come pubblico quella sera. Con quella statura alta che si ritrovava, gli abiti chiaramente firmati e il profilo marmoreo, si inseriva perfettamente nell’ambiente. Per cui era stato facile trovare una spiegazione più o meno sensata al suo comportamento – o, per meglio dire, al suo non comportamento.
Ma quella mattina…
«Koibito? Sei tu?»
La voce di sua nonna proveniva dalla cucina. Jimin si diresse in quella direzione, sapendo che Erri lo avrebbe seguito. Ciò che si trovò davanti agli occhi, una volta varcata la soglia della stanza, avrebbe dovuto stupito, ma ormai si era finalmente abituato alle stranezze di sua nonna, abbastanza da limitarsi ad alzare un sopracciglio.
«Cosa stai facendo?» domandò dopo un istante di silenzio.
Nonna Mae era seduta a terra, su un tappetino di gommapiuma dalle tonalità verdastre, e aveva assunto una posizione che qualcuno avrebbe ritenuto impensabile per una persona della sua età. Le gambe erano piegate in modo tale che le ginocchia puntassero all’esterno e uno piede fosse posato sopra la coscia opposta. Con la schiena dritta, le mani erano sollevate all’altezza del petto, congiunte davanti a sé in una sorta di preghiera, mentre il volto era una maschera di concentrazione pacifica.
Al naso di Jimin arrivò una zaffata di profumo di portata tale da scatenargli una leggera e passeggera nausea. Solo allora si accorse che, sparse per tutta la cucina, vi erano quelle che a occhio e croce erano un centinaio di candele di svariate dimensioni e colori – e, a considerare dall’odore, anche di diverse fragranze.
«Meditazione mattutina, koibito,» rispose in un sussurro nonna Mae. Indicò con un gesto elegante della mano la piccola e vecchia televisione posta sul ripiano della cucina, sul cui schermo c’era un uomo di stazza imponente nella sua medesima posizione.
Jimin si passò una mano sotto il naso, in uno scarso e vano tentativo di mascherarsi dall’odoraccio.
«Come è andata la corsa?»
«Bene, grazie,» rispose lui. Doveva ancora decidere se anche l’incontro fosse classificabile come una cosa buona, ma nel mentre non c’era motivo di approfondire.
«Hai fame? Ti ho preparato del riso e del pesce alla griglia, bisogna solo riscaldarli,» continuò sua nonna con lo stesso tono di voce basso, appena udibile.
Gli occhi di Jimin corsero sul piatto bianco posto sopra al tavolo, coperto da un altro piatto del medesimo servizio. Si svegliava sempre presto per andare a correre e non mangiava mai nulla, se non un bicchiere d’acqua per rimediare al sudore che avrebbe prodotto. Il motivo era attribuibile a un sicuro malore, in quanto era consapevole di cosa il suo stomaco potesse o meno sopportare spingendo il corpo alla velocità a cui lo sottoponeva molto spesso.
Dopo, solitamente mangiucchiava qualche avanzo della sera prima o, comunque, qualsiasi cosa trovasse di commestibile, un po’ per mancanza di tempo, un po’ per mancanza di voglia. E poi c’erano quelle altre volte, quelle in cui il cibo era il suo ultimo pensiero. Quelle volte semplicemente evitava la cucina e si chiudeva in stanza a studiare o andava al lavoro.
E quella mattina era una di quelle.
«Grazie nonna, mangerò dopo» rispose mentre si dirigeva verso la dispensa. Prese un bicchiere di croccantini e li versò nella ciotola del cibo di Erri, che era già lì ad aspettarlo con un’espressione di palese attesa. Se solo Erri avessero potuto parlare…
«Ora vado a fare la doccia e poi corro a lavoro, tornerò tardi.»
«Va bene, koibito,» rispose sua donna con un sorriso in viso, ma gli occhi ancora chiusi. «Ricordati però di divertirti! Alla tua età passavo più ore fuori casa con tuo nonno che a dormire,» aggiunse con una risatina rivolta più a sé stessa che altro.
Jimin fece finta di non aver udito quell’ultima parte mentre usciva dalla cucina scuotendo la testa. L’ultima cosa che voleva fare era occupare la testa di certi pensieri riguardanti i suoi nonni da giovani. Il suo cervello era già saturo di ben altro…
Si spogliò di quei vestiti impregni di sudore, gettandoli nel cesto della biancheria sporca – dove sarebbe rimasti finché non fosse stato costretto a pensarci per mancanza di abiti puliti – e aprì il getto d’acqua. Guardò la propria immagine allo specchio finché il bagno non cominciò a riempirsi di un vapore latteo.
Che miseria.
Con un sospiro si decise ad entrare nella doccia e a togliersi di dosso lo sporco e anche quelle brutte sensazioni nate durante la notte e accresciutesi nelle ore di veglia. Il sogno che aveva fatto…
Scosse la testa, spargendo attorno a sé le gocce d’acqua raccoltesi tra i suoi capelli.
Basta.
Uscì dalla doccia cautamente e, mentre passava l’asciugamano sul suo corpo e sfregava la pelle del braccio destro, sentì uno strano calore, lieve, nascere in un punto preciso, esattamente dove lui lo aveva toccato.
Rialzò lo sguardo sul proprio riflesso e incrociò gli occhi confusi e vagamente preoccupati che lo stavano fissando allo specchio.
Che cosa cazzo era successo?


 





Note del testo:

1 – Il nome del cane della famiglia Kim, Sup, significa bosco in coreano. Non ho scelto il nome per un motivo preciso, ne ho solo apprezzato il suono e ho pensato potesse essere una buona soluzione per un cane di grandi dimensioni e peloso. So benissimo che il vero cane di Taehyung ha un nome diverso – e anche una fisionomia opposta – ma la mia intenzione non è quella di utilizzare tutti i fatti reali.
2 – Mi sono informata un po’, e a quanto pare a Seoul, malgrado sia una città più che modernizzata e all’avanguardia, vi sono ancora numerosi cani randagi che scorrazzano liberi.
3 – Seoul Forest è il terzo parco più grande della città di Seoul, situano nel gu Seongdong. Vi invito a cercarlo in internet per bearvi della bellezza di questo piccolo angolo di mondo nel mezzo di una grande metropoli.
4 – Il fiume Han attraversa tutta la città di Seoul. Non ho la minima idea se ci siano davvero delle panchine nel punto in cui ho immaginato l’incontro, probabilmente no. Voi fate finta che ci siano lol.
5 – Premetto che sono tutt’altro che esperta di meditazione e yoga. La posizione assunta da nonna Mae in cucina dovrebbe essere quella del fiore di Loto, ma con le braccia piegate al petto. Nel caso, correggetemi pure ahaha
6 – In Corea non è strano mangiare a colazione le stesse cose che si mangiano negli altri pasti, tendenzialmente riso, carne, pesce, zuppe e contorni di verdura. Nonna Mae è una pur sempre una persona tradizionale – anche nella sua eccentricità ahaha – e a certe abitudini ci tiene.
7 – Questa più che una nota del testo, era per dire che è normale se al momento non capire assolutamente nulla di quanto sia accaduto verso la fine del capitolo. Chiarirò più avanti, promesso. Spero solo che il tutto risulti coerente ai vostri occhi ^^


 

 UN COMMENTO ARZIGOGOLATO PER LO SCRITTORE E' UN DONO GRATO  
"HIDEAWAY" ON WATTPAD  

© Copyright - All rights reserved

  
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Bangtan boys (BTS) / Vai alla pagina dell'autore: AnnabethJackson