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Autore: Eneri_Mess    29/12/2020    1 recensioni
FINE (Prima parte)
Con il segreto che nasconde, Yokohama è una città dove non si possono dormire sonni tranquilli.
Dal Preludio:
Una mano di Dazai gli strinse il braccio, mentre le dita dell’altra si aggrapparono alla sua camicia sgualcita sul petto. Il nemico barcollò, ma si rimise in piedi, recuperando una delle proprie pistole.
«Chuuya...» ridacchiò Dazai, fuori luogo. «Di nuovo: ho mai sbagliato nel formulare un piano?»
«Smettila!» e la prima nota di supplica si mischiò alla richiesta. «Non sei lucido!»
Genere: Azione, Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Chuuya Nakahara, Osamu Dazai, Sakunosuke Oda
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Capitolo 10

Crawling in the past







 

Show me what it's for
Make me understand it
'Cause I've been crawling in the dark
Looking for the answer
Is there something more
Than what I've been handed?
'Cause I've been crawling in the dark
Looking for the answer

[Crawling in the dark - Hoobastank]





 

Haruno si chiuse la porta della sala riunioni alle spalle, dopo aver distribuito acqua e tè per tutti i presenti. La stanza era piena. 

Fukuzawa era seduto a capotavola, dal lato della porta, braccia conserte ed espressione attenta. Alla sua destra e alla sua sinistra erano distribuiti i detective ancora operativi, mentre all’altro capo, con un braccio fasciato al collo, Ango non era al meglio della propria forma. Le cattive notizie gli si leggevano in faccia. 

«Sono qui in via ufficiale per esporvi un caso della massima urgenza.»

Ai due fascicoli del caso delle chiavi se ne era aggiunto un terzo, durante la notte in cui lui, Dazai e Chuuya fuggivano da Odasaku. 

«Perdonate la brevità» iniziò, spingendosi gli occhiali sul naso. 

«Escluso il microchip che avete recuperato, non abbiamo altre prove del coinvolgimento di Dostoevskij in questi casi, ma tutto ci porta a credere che le azioni di Red Hood e questi omicidi siano collegati e abbiano come scopo ultimo impadronirsi del Libro.»

I detective si allungarono a prendere le copie dei fascicoli. Tanizaki, Kenji e Kyouka sfogliarono il primo, quello della gioielleria, con la foto della prima chiave rubata e della vittima. Di fianco a loro, Ranpo restò indifferente, lo stecco di un lecca lecca gli spuntava dalle labbra ma non dava l’idea di goderselo. Dall’altro lato del tavolo, Kunikida prese il secondo file, della galleria d’arte, e Atsushi si accostò a lui per guardare, anche se entrambi, con la coda dell’occhio, registrarono l’indifferenza di Dazai al loro fianco. Il caso più recente fu aperto da Fukuzawa. 

«A ogni omicidio corrisponde il furto di una chiave. Due sere fa è stato ucciso un impiegato di banca. Quando il suo nome è stato immesso nei nostri sistemi, quel fascicolo» e con un cenno si riferì al caso tra le mani del Presidente, «è arrivato sulla mia scrivania. Ancora non abbiamo capito lo schema con cui questi file sono stati archiviati e quanti altri ce ne siano» continuò con la frustrazione di chi si sente preso in giro. 

«Non abbiamo idea di quante chiavi esistano, né cosa aprano, ma sono connesse al Libro. Sono un modo per entrarne in posseso.»

«Cosa avete scoperto su questi» iniziò Kunikida, fermandosi a cercare la parola giusta per definirli. «Custodi di chiavi?»

L’espressione stanca di Ango mostrava pienamente il conflitto che aveva con quella domanda. 

«L’unica certezza che li accomuna è il loro passato inesistente. Sembra che la loro identità precedente ai quindici anni sia stata completamente cancellata. Nessuno di loro aveva un oggetto di infanzia, o riconducibile a un momento precedente. Quello che posso ricostruire con la mia abilità non porta comunque a nulla. È come se facessero tutti parte di un programma di protezione di cui non troviamo traccia in alcun archivio o database.»

«Possibile che nessuno al governo sappia o faccia qualcosa?» commentò Tanizaki sovrappensiero, in uno sfogo spontaneo che attirò più di uno sguardo, compreso quello di Ango. 

«Senza offesa» aggiunse imbarazzato, rivolto a quest’ultimo, incalzato da un'occhiata fulminante di Kunikida.  

«Compartimentazione» replicò Ango, appoggiandosi allo schienale e massaggiandosi il braccio bloccato. 

«Questa è la linea del governo. Nessuno condivide i segreti perché nessuno li conosce tutti. Non ho idea di chi sappia qualcosa di questa storia. Se è ancora vivo. Il Capo Taneda stesso non ha tutti i pezzi.» 

«Come è possibile?» 

La confusione di Atsushi era condivisa dalla maggior parte dei suoi colleghi. 

«Una questione così importante come quella del Libro è lasciata al caso?»

«È una scommessa» lo corresse Ango, per niente contento di spiegarsi. 

«Basata sui segreti. È scommettere sul fatto che questi terroristi non riusciranno a mettere mano a tutti gli indizi.»

«Ma se ci riuscissero, allora…?»

«Se loro sono in grado di farlo, lo saremo anche noi.»

Nessuno si aspettò che a recidere il discorso fosse Fukuzawa. Fermo e deciso, chiuse il fascicolo che aveva davanti, infilandosi le mani nelle maniche del kimono. 

«I cittadini di Yokohama si trovano di nuovo coinvolti in uno scontro che metterà a rischio le loro vite. Trovare il nemico e fermarlo è nostro dovere, anche se significherà cercare queste chiavi.» 

«Yosano-sensei ha la priorità.»

L’affermazione di Ranpo fu altrettanto secca e gelida. Seguì un silenzio denso e uno scambio di sguardi tra lui e il Presidente che mise sulle spine quasi tutti i presenti. 

«La vita di Yosano-sensei è la nostra priorità» concordò Fukuzawa, chiudendo gli occhi. 

«Ma per salvarla dovremo conoscere ogni dettaglio del nostro avversario ed essere pronti a fermarlo.» 

«Ciò che deve rimanere segreta è l’esistenza del Libro» sospirò Ango, intromettendosi. 

«La gente comune ha iniziato ad accettare la presenza di persone dotate di potere, ma siamo ancora lontani dall’equilibrio. Quelli come noi sono sempre stati visti come individui pericolosi, portatori di sciagura e morte, motivo per cui le organizzazioni segrete e criminali hanno proliferato, nutrendo le proprie schiere.» 

Il discorso toccò dei tasti che Atsushi non credeva di possedere, ma prima che potesse chiedere qualcosa, Ango riprese a parlare. 

«Non è facile cambiare una visione ancora oggi così consolidata, ma in questo l’Agenzia ha contribuito alla causa in larga scala, dimostrando che possono esistere utilizzatori di abilità capaci di agire per il benessere del prossimo. Portare alla luce un oggetto come il Libro creerebbe il panico e distruggerebbe tutto il lavoro fatto in questi anni.»

«Quindi torniamo al punto di partenza» sospirò Kunikida, incrociando le braccia. 

«Come facciamo a fermare sia Red Hood che il Ladro di Chiavi?»

«Interroghiamo Dostoevskij?» tentò Tanizaki, cercando consensi con lo sguardo. «Ci sarà un modo per farsi dire la verità.»

Sebbene Ango rivolse uno sguardo a Dazai, quest’ultimo rimase a fissare un punto imprecisato del muro, con l’attenzione annoiata di chi si fa scivolare i discorsi addosso. 

«L’unico che potrebbe parlare con Dostoevskij è Dazai.» 

Anche nominarlo non sortì alcun effetto, ma Ango continuò. 

«Non sappiamo quale sia la sua abilità, ma fino ad adesso si è dimostrata letale per chiunque. Tentativi di interrogatorio fino ad adesso non hanno portato da nessuna parte.»

L’ex spia si tolse gli occhiali, stropicciandosi gli occhi stanchi. 

«C’è anche da considerare che non è facile ottenere il permesso di incontrare un prigioniero rinchiuso a Mersault. È una prigione gestita da più nazioni e l’argomento Libro è un tabù. Rischieremmo di scatenare una guerra fredda.» 

Sul suo viso si aprì un’espressione ironica, mentre scuoteva la testa. 

«Paradossalmente, sarebbe più facile far arrestare Dazai e farlo chiudere nella cella davanti a Dostoevskij.»

«Non abbiamo neanche modo di capire come faccia a comunicare con l’esterno e coordinare Red Hood e il Ladro di Chiavi?» chiese Kunikida, anche lui rivolgendo uno sguardo di fianco a sé, a Dazai, ma senza aspettarsi una risposta. 

«Vi siete fatti un’idea di che abilità possieda?» domandò Ango, riferendosi al ladro e assassino. Si arrischiò a lanciare un’occhiata a Ranpo, ma come Dazai, anche lui non pareva interessato alla conversazione, come un bambino imbronciato in attesa della fine della punizione. 

«Ancora nulla» replicò Kunikida. 

«Il suo modus operandi è caotico, ma abbiamo escluso un complice per adesso. Anche se sono stati usati più tipi di armi, sembra che ad agire sia sempre la stessa persona. Ma è un vicolo cieco… le prove continuano a sparire.»

Ango guardò un’altra volta in direzione di Dazai, ma desistette subito, stringendo le dita a pugno. 

«Come facciamo a trovare Yosano-sensei?» chiese Atsushi. Avvertiva ancora sottopelle la sensazione di non star facendo abbastanza, che, come aveva sottolineato Ranpo, la dottoressa dovesse rimanere il loro primo pensiero. 

Con un po’ di difficoltà per colpa del braccio bloccato, Ango depositò sul tavolo un altro fascicolo. Era più spesso degli altri, con più di un rattoppo e qualche macchia. Ango lo fissò con un’occhiata combattuta, come se cedere quella manciata di fogli fosse qualcosa di molto importante. 

«Per chi di voi ancora non ne fosse a conoscenza, più di quattro anni fa mi fu chiesto di infiltrarmi all’interno della Port Mafia. Il mio obiettivo principale era riuscire a schedare gli utilizzatori di abilità ancora sconosciuti al governo. In quel periodo, durante il conflitto della Testa di Drago, ho conosciuto Dazai e Odasaku.»

Dover rimanere nei binari e rilegare le emozioni in fondo all’anima era qualcosa di cui Ango era capace, eppure non riusciva a distogliere gli occhi e le dita da quel fascicolo, da quell’Odasaku che aveva scritto a penna quattro anni prima sulla copertina. 

«Dopo che la mia copertura è saltata e sono tornato alla Divisione, ho sistemato tutte le informazioni ricavate. Quelle su Odasaku...» deglutì, avvertendo delle spine in gola. 

«Il report su di lui non era più indispensabile, ma avevo bisogno che non fosse solo un numero su un fascicolo.»

Aprì il plico. Una copia tagliata della fotografia scattata al bar Lupin era appuntata con una graffetta, ritraendo solo Oda. 

«Ho raccolto tutte le informazioni possibili, anche se in realtà sono davvero poche. Non sono riuscito a fare luce su interi pezzi della sua vita, del suo passato. E non so che utilità potrà avere...» 

Di nuovo, le sue dita di chiusero a pugno. 

«L’Odasaku che stiamo affrontando è una persona totalmente diversa da quella che ricordo. Ed è sfuggente. Non c’è nulla che attesti come sia sopravvissuto quattro anni fa, dove sia stato, cosa abbia fatto… cosa gli abbiano fatto. Il lavoro è stato meticoloso.»

«Il quadro non è incoraggiante, ma esamineremo la documentazione finché non troveremo qualcosa» ribatté Kunikida, accettando il fascicolo di Oda. 

Con la coda dell’occhio, Atsushi si accorse della rigidità nelle spalle di Dazai. Il suo senso di disagio si rimescolò nello stomaco. Se fosse stato nei panni del proprio mentore, sapere che la vita di una persona tanto importante stava per essere passata al microscopio gli avrebbe dato la nausea. 

«Se invece seguissimo la pista dei luoghi appartenenti alla mafia?» propose a bruciapelo, sperando di cambiare qualcosa. 

«Sono troppi» disse Kunikida, spegnendo le sue speranze. 

«Troppi per mobilitare pattuglie o agenti, e attaccare Red Hood in solitaria si è già rivelato rischioso.»

«Ma se… se...» 

Atsushi tentò di pensare in fretta, spinto dal bisogno di riempire quei vuoti in cui le sue mani continuavano ad affondare senza stringere nulla. 

«Se riuscissimo a seguirlo e… e capire dove si nasconde, dove sia il quartier generale dei terroristi, troveremmo anche Yosano-sensei...»

«E se Red Hood sfruttasse il posto dove viveva prima?» lo seguì Tanizaki con fervore. 

Il silenzio della risposta cadde addosso a Dazai, come tutti gli sguardi. Si apprestò a replicare, ma non senza un sorriso cattivo e amaro. 

«Odasaku teneva i bambini al piano superiore di un ristorante. Il proprietario è morto ed è abbandonato da allora» e nel dirlo si strinse brevemente nelle spalle. 

«Non è lì, ho già controllato.»

L’espressione allarmata che Kunikida gli lanciò parlava chiaramente per un Come ti viene in mente di andare in un posto del genere da solo!? 

«Lo stesso vale per casa sua» riprese l’ex Dirigente della Port Mafia, giocherellando con una penna. 

«Era in affitto. Il proprietario ha venduto l’appartamento un mese dopo la… be’, quella cosa che fino a due giorni fa era la sua morte» e accennò una risata che non divertì nessuno, prima di appoggiare i gomiti sul tavolo, intrecciare le dita e poggiarci sopra il mento con un’aria fintamente pensierosa. 

«Poi non sono dell’idea che mettere una base in un luogo che io conosco sia una mossa utile. A meno che lo scopo di Dostoevskij non sia prendere me? Ma Odasaku ha fatto intendere che non sono indispensabile al loro piano, quindi...» 

Lasciò la frase in sospeso, tornando a concentrarsi sulla parete di fronte. 

«Penso abbiano un quartier generale non facilmente riconducibile ai ricordi di Odasaku. Anzi, da come operano, direi che i nascondigli siano almeno due. Che ne pensi, Ranpo-san?»

L’atmosfera era una corda di violino. 

«Concordo con Dazai.»

Quest’ultimo fece un gesto vago, a sottolineare la validità della propria tesi appena approvata dal loro detective di punta. Finì poi con lo stiracchiarsi, continuando a esibire una presenza che cozzava del tutto con le vibrazioni che emanava. 

«Non sono davvero così utile. Ora avete anche il fascicolo di Ango, quindi penso che andrò a farmi una dormita.»

«Dazai» lo richiamò Kunikida, prima che potesse mettere la mano sulla maniglia. Il partner ci mise qualche istante di troppo a voltarsi, con un sorriso solo all’apparenza cordiale. 

«Sì, Kunikida-kun?»

«Come dovremmo muoverci?»

Era palese che a Dazai non importasse, ma finse di sì, picchiettandosi il mento con un dito e l’aria di chi sta vagliando delle opzioni. 

«Se fossi in Dostoevskij credo che avrei già raggiunto il mio scopo: far credere a tutti che ci sia un giustiziere in città, arrivare poi al colpo di scena in cui si scopre la verità e lasciare a brancolare nel buio i miei nemici, perché il mio campione non solo è forte, ma intacca anche la loro armonia.»

Le sue parole non erano che un altro vicolo cieco, stretto, soffocante e senza fondo. 

«Non penso che siamo neanche vicini al climax di questa storia. Probabilmente sarà quando Red Hood attaccherà e distruggerà del tutto una delle torri di difesa.»

Atsushi colse la metafora, memore della loro chiacchierata sul tetto. Il riferimento alla Port Mafia gli fece battere il cuore di una nota stonata. 

«Sappiamo chi è il campione, ma solo di nome, essendo una persona completamente diversa» proseguì Dazai, facendo scivolare le mani in tasca. 

«Sappiamo chi c’è dietro. Sappiamo che c’è un’altra pedina in gioco che sfrutta sia il diversivo, sia la testardaggine del governo nel non fornirci informazioni. Sappiamo qual è il loro scopo.» 

Ancora una volta, il sorriso di Dazai fu intriso di un veleno dolciastro. 

«In effetti, conosciamo davvero tutto il quadro generale, eppure è inutile e frustrante. Forse dovremmo solo aspettare e sperare di trovarci al posto giusto nel momento giusto? Oppure aprire delle trattative con la Port Mafia e collaborare, salvo che in quel caso il coltello dalla parte del manico ce l’avrebbero i nostri nemici, perché così porterebbero l’equilibrio dalla loro parte: un passo falso e, se saltasse fuori un nostro accordo con la mafia, dopo quello del Cannibalismo che siamo riusciti a insabbiare, manderemmo all’aria anni di reputazione… oh, potrebbe essere un altro tassello nella strategia del nemico.» 

I suoi occhi si fissarono su Fukuzawa per un momento, come un guanto di sfida che il Presidente non raccolse, restando impassibile. 

«Anche se ufficialmente chi ha il piede nella fossa è Mori-san, sono sicuro che, in un eventuale accordo, non si lascerebbe sfuggire l'occasione per calcare la mano e ottenere qualcosa da noi… o qualcuno, chissà?» e Dazai lo disse poggiandosi teatralmente la mano sul petto, in un gesto che ricordava l’uomo in questione. 

«In definitiva, penso che siano riusciti a incastrarci e a metterci in panchina in sole due mosse. Non c’è veramente qualcosa che possiamo fare. Insomma, Kunikida-kun!» vociò esasperato, ma ancora con uno sguardo troppo cupo per essere in linea con quell’allegria che millantava. 

«È davvero una domanda difficile a cui rispondere, dovrei proprio dormirci su.»

Con quelle ultime parole, Dazai abbandonò la sala riunioni, lasciando dietro di sé un’atmosfera pesante e sfiduciata. 

 

* * *

 

Dazai dormì davvero, crollando così profondamente sul divano degli ospiti che non ebbe neanche il sentore degli sguardi e della presenza degli altri quando passarono a fine riunione. La stanchezza accumulata negli ultimi giorni fu un insieme di dita strette intorno alla sua mente, in grado di soffocare la sua coscienza. 

Tra tutti, Atsushi fu quello più vigile, tendendo il proprio udito soprannaturale di tanto in tanto per ascoltare le variazioni di respiro e farsi trovare pronto quando Dazai si fosse svegliato. 

Questo nonostante la sua mente fosse occupata dalla discussione appena conclusasi. Non sapeva da quale punto iniziare, mentre sistemava fogli di segnalazioni e presunti indizi, ma era stata una delle riunioni più pesanti da digerire. E sentire Dazai dormire di un sonno così sincero gli diede un miscuglio di emozioni complicate tra cui scegliere. Si sentiva in una zona così sicura da poter riposare tranquillamente? Oppure era davvero così al limite che ogni posto andava bene? 

Quale delle due fosse l’opzione giusta, in entrambi i casi Kunikida non brontolò mai a un tono alto nemmeno una volta. Di contro, Atsushi lo aveva invece notato a fissare a più riprese la scrivania vuota del suo partner, mentre tra le mani aveva il fascicolo di Oda. 

Fu intorno all’ora di pranzo che Dazai riprese coscienza. L’Agenzia era immersa in un silenzio un po’ fuori luogo, ma, quando aprì gli occhi, Atsushi fu lì con un bicchiere d’acqua in mano. 

«Dazai-san» salutò, risparmiandogli qualsiasi convenevole che fosse un hai dormito bene? colmo di disagio. 

«Andiamo a prendere il pranzo insieme?»

 



 

Dazai rovesciò con le bacchette ul gyoza nel piattino, non mostrando alcuna intenzione di volerlo mangiare. Era seduto a uno dei tavolini del locale, in attesa che Atsushi finisse di comunicare gli ordini da asporto. Il proprietario - un uomo che avevano aiutato a uscire da un problema con la mafia - li aveva accolti con un gran vociare allegro, offrendo loro stuzzichini e sakè per ingannare l’attesa. 

Un’attesa incorniciata da un’altra giornata mite, dall’aria primaverile, che non aiutava i pensieri di Dazai a rimanere quieti e lontani dall’idea che Odasaku fosse in un raggio di appena qualche chilometro, senza memoria e compagno di Dostoevskij. 

«… dice che ci vorranno venti o trenta minuti.»

Atsushi scostò la sedia e si sedette, guardando per un istante il proprio piattino coi gyoza intonsi ed esprimendo una voracità che non avrebbe risparmiato neanche la ceramica, per poi accorgersi del proprio mentore e del raviolo rovesciato su un lato. 

«Non hai fame, Dazai-san?»

«Non adesso» fu la replica pacata e onesta, con un accenno di sorriso. Prendere una boccata d’aria non gli stava dispiacendo, e la presenza di Atsushi era lenitiva. 

«Quando sentirai i profumini buoni del pranzo ti verrà!» affermò il ragazzo con una genuinità spontanea che strappò una risatina a Dazai, mentre tornava a torturare il gyoza.   

«Chissà. Cosa avete ordinato?»

«Aspetta...» 

Atsushi si frugò in tasca, ritirando fuori il fogliettino stropicciato. 

«Del gyūdon, tempura di verdure, e poi… donburi, del curry...»

«Chi ha ordinato il curry?» lo interruppe Dazai. 

«Uhm… non ho segnato i nomi...»

«Capisco.»

«Dazai-san?»

«Era il piatto preferito di Odasaku.»

Atsushi continuò a guardarlo, impacciato, anche quando Dazai distolse gli occhi e fissò fuori dalla vetrata del ristorante con aria assente. 

«Io...» ricominciò il giovane detective dopo un po’, stropicciando nervosamente il foglietto con gli ordini. 

«Io non ho mai mangiato il curry.»

Sembrò essere la frase giusta da dire al momento giusto. Dazai riportò l’attenzione su di lui con una faccia incredula. 

«Scherzi? Mai mai mai?»

Le guance di Atsushi si colorarono di un rosa acceso. 

«In orfanotrofio mangiare era sempre una lotta e… uhm… non c’è stata mai occasione dopo.»

Dazai si alzò di scatto, spaventandolo, e si rivolse direttamente al proprietario, che spuntava dalla cucina a vista. 

«Ossan! Aggiunga una porzione extra di curry!» e non si preoccupò del tono di voce che attirò gli altri commensali. Atsushi si fece piccolo piccolo per l’imbarazzo. 

«Da-Dazai-san non c’è bisogno.»

«Sì, invece. Non sarà il curry preferito di Odasaku, ma da qualche parte bisogna iniziare» spiegò rimettendosi seduto, più leggero di prima, tanto da dare il colpo di grazia al gyoza con un unico boccone. 

«Terribile! Terribile!» cincischiò melodrammatico, masticando. 

«Com’è possibile che non hai mai mangiato del curry!? Devo prendermi meglio cura di te.»

Atsushi aveva la fronte corrugata, non sapendo da quale domanda iniziare. Nel mentre, l’espressione di Dazai tornò ad ammorbidirsi, con qualche punta di malinconia. Intinse un secondo raviolo nella soia, ma lo tenne sospeso a sgocciolare. 

«Una delle ultime cose che mi disse Odasaku era di prendermi cura degli orfani. Stare dal lato delle persone che aiutano gli altri significa anche questo, no? Un po’ quello che tu hai fatto con Kyouka-chan, senza battere ciglio.» 

La sua voce si fece più bassa, come a voler parlare di un segreto, di un desiderio fragile da mettere a parole. 

«Penso che tu e Odasaku sareste andati d’accordo.»

Dopo i discorsi sentiti quella mattina, e la discussione avuta con Chuuya, Atsushi avvertì uno spiacevole groppo in gola a sentire quanto fosse diverso il tono con cui Dazai parlava di Oda. 

«Sembra che lui fosse davvero… una brava persona» commentò la Tigre Mannara un po’ a disagio. 

I racconti di Chuuya del giorno prima ancora vibravano nella sua mente, ma riuscire a immaginare il rapporto di Dazai con quell’uomo che Atsushi aveva visto solo in foto, e che indossando una maschera rossa aveva tentato di ucciderlo, non era facile. Non era facile in generale pensare al suo mentore come Dirigente della Port Mafia. L’idea gli provocava in testa uno stridore fastidioso, totalmente sbagliato. 

Immaginare poi Dazai coinvolto in una relazione con qualcun altro aveva solo il potere di farlo morire di imbarazzo.

«Vuoi chiedermi qualcosa su Odasaku?»

Atsushi alzò di scatto le mani, scuotendo la testa, sentendosi colto in flagrante. 

«No! No, cioè… penso che, ecco, questa mattina sia bastato… con quel fascicolo.»

Avere un segreto da nascondere a Dazai era strano, soprattutto se questo riguardava una scommessa proprio su di lui. Tuttavia, per una volta, l’ex Dirigente della Port Mafia sembrava troppo distratto per subodorare che qualcosa gli veniva omesso. 

«Ce l’ho con Ango, ma per altri motivi» spiegò Dazai, riferendosi ai discorsi che aveva finto di ignorare per tutta la mattina. 

«Raccogliere e catalogare informazioni è il suo lavoro e una parte di me sapeva che doveva avere un fascicolo su Odasaku. L’ironia è che non pensavo che un giorno sarebbe servito… se servirà davvero a qualcosa.» 

Accompagnò la fine della della frase con un sorso secco di sakè

«Scavare nel passato sarà una perdita di tempo. L’Odasaku che conoscevamo noi… quello riportato nel report, non è lo stesso che ora ci spara addosso. Red Hood è un’altra persona.»

Il racconto del Presidente gli graffiò ancora una volta quel sentimento all’altezza del petto che aveva riposto quattro anni prima, e che ogni tanto si era sentito di toccare, per pochi istanti, solo nei momenti che passava al cimitero. Ripensare alla tomba su cui aveva trovato conforto anche interi pomeriggi gli faceva solo salire la nausea. 

«Lo salveremo, giusto?»

Dazai alzò gli occhi su Atsushi, senza capire la domanda. 

«Penserai a un piano per fermare Dostoevskij e per… ecco, fare in modo di allontanare Oda-san da lui, vero?»

Se la fiducia avesse potuto manifestarsi in un volto, avrebbe scelto quello di Atsushi. Fu quasi abbagliante, tanto che per un istante Dazai sentì il petto irrigidirsi, ma più per contenere un sentimento bislacco come la speranza. 

Ignaro, il proprietario arrivò a interromperli, lasciando che la risposta di Dazai si perdesse tra le chiacchiere.



 

* * *

 

L’apparente calma che l’Agenzia stava dimostrando nel gestire il caso delle chiavi, il rapimento di Yosano e l’avanzata di Red Hood subì un violento scossone circa due giorni dopo, quando la voce di Ranpo riecheggiò dall’ufficio di Fukuzawa per ogni stanza. Ignorarlo fu impossibile, persino per Kunikida che perseverò nel lavoro finché le sue dita non smisero di digitare sul computer. 

Stavano fallendo

Ranpo aveva ragione. 

Il suo sfogo stava dando corpo ai pensieri che fino a quel momento avevano cercato di mettere a tacere. Era passata troppi giorni dalle tre esplosioni nelle società di comodo della Port Mafia e dal conseguente rapimento di Yosano. Non avevano indizi, non avevano piste, non avevano niente, e nel mentre Red Hood aveva chiuso un altro cerchio di attacchi, guadagnando terreno. 

Kunikida aveva ormai imparato a memoria il fascicolo di Oda, ma nulla di ciò che c’era scritto si stava rivelando utile. Interpellare Dazai sulla questione era un campo minato. La tensione tra loro due si era dilatata, tanto che Atsushi era continuamente presente, pronto a mitigare l’una o l’altra parte, un groppo soffocante in gola nel sentirli discutere sfiorando la litigata. 

Nell’aria si respirava la cosiddetta calma prima della tempesta

Gli sguardi inseguivano le lancette degli orologi, aspettando che si manifestasse sotto qualsiasi forma la “prossima mossa”. Un’attesa inevitabile e sfibrante, deteriorata dalla mancanza di risultati.

Era una di quelle sere in cui non avevano stretto nulla. A mano a mano tutti stavano lasciando l’Agenzia, a cominciare da Naomi che si era impuntata per portare via il fratello, dopo che questo si era addormentato sul centesimo rapporto inutile della giornata. A loro erano seguiti Kyouka e Kenji, accompagnati da un Dazai che aveva appena accennato un saluto con la mano. 

Per quanto Atsushi avesse sentito forte l’impulso di alzarsi e seguirli, dando retta a quella sensazione nello stomaco che gli diceva di non perdere d’occhio il proprio mentore, era rimasto per finire di controllare i fascicoli che gli mancavano. 

Lui e Kunikida lavorarono in un silenzio privo di interazione, come due impiegati qualsiasi che condividevano le scrivanie per caso.

I segni della stanchezza erano ben visibili anche sul detective più retto dell’Agenzia. Il breakdown di Ranpo, insieme al sentire anche Fukuzawa alzare la voce, lo avevano scosso abbastanza da fargli fare errori di distrazione continui durante tutta la giornata. Unito all’aspetto più disordinato, con i capelli scarmigliati, senza gilet e con le maniche della camicia arrotolate ad altezze diverse, non restituiva la solita aura di sicurezza. 

La goccia colmò la misura quando prese la tazza di tè abbandonata vicina al pc. Ne sorbì un sorso, ma dall’espressione disgustata si accorse delle ore che erano passate da quando gli era stato portato caldo. 

«Atsushi, puoi andare a casa.»

Il ragazzo alzò di scatto la testa neanche fosse stato un ordine. 

«Ho quasi finito» assicurò, riprendendo a digitare più velocemente. 

Kunikida lo fissò con i suoi occhi segnati dal poco sonno, per poi spostare lo sguardo sulla scrivania vuota del proprio partner. 

«Ehi, ragazzo… come sta Dazai?»

Atsushi fu preso in contropiede dalla domanda. Ci mise qualche istante a elaborarla, per poi posare a propria un’occhiata alla sedia che ormai Dazai usava di rado. 

«Starà bene.»

Non seppe dire se fu una bugia detta con le migliori intenzioni, o solo la traduzione di un desiderio che sentiva dentro. 

Kunikida chiuse lo schermo del portatile, rabbuiato. 

«Non abbiamo nulla tra le mani e non sappiamo come e quando attaccheranno di nuovo… Dazai non-» si interruppe, stringendo le dita sul computer, lo sguardo fisso sulla miseria del loro stato attuale. Avrebbe potuto continuare la frase in cento modi diversi, dando sfogo alla frustrazione, alla rabbia, alla preoccupazione, ma nessuna di quelle emozione gli poteva restituire una risposta che valesse più di uno sfogo. Ranpo era crollato, Dazai non era più Dazai, Yosano poteva essere perduta, e lui- 

«Kunikida-kun» lo fermò Atsushi, privo di tentennamenti. Prese un lungo respiro.

«Troveremo una soluzione. Dazai-san penserà a qualcosa. Lo starà facendo anche ora, solo che… ecco, ha bisogno di più tempo questa volta, per capire come affrontare il suo amico senza che qualcuno...» 

Le parole di Chuuya riecheggiarono nella sua mente, ma lo aiutarono solo a essere più deciso in quello che voleva dire. 

«Senza che qualcuno si faccia male sul serio.»

L’espressione di Kunikida si ammorbidì per via della sorpresa. Si concesse qualche istante per riflettere, finché non buttò fuori una boccata d’aria che gli alleggerì il petto. 

«Come mai quando si tratta degli altri hai tutta questa fiducia, ma non per te stesso?» 

Atsushi restò interdetto e imbarazzato, non aspettandosi una replica del genere. 

«Io-» 

«Spegni tutto» lo interruppe il detective senior di nuovo, mentre si sistemava la camicia e recuperava il gilet. 

«Finirai domani, hai bisogno di riposare anche tu.»

«Davvero, mi manca-»

«In piedi e fuori di qui, ora.» 

Era tornato il vecchio Kunikida che non ammetteva repliche. 



 

* * *

 

L’aria pungente della sera non smorzò le energie di Atsushi. Si incamminò verso casa, ma senza la reale motivazione di tornarci. Sentiva di poter fare altro, di poter continuare a lavorare, ma Kunikida rimase fermo davanti all’ingresso dell’Agenzia, gli occhi fissi sulla sua nuca per assicurarsi che non tornasse in ufficio. Un comportamento paradossale dal più stacanovista dell’Agenzia, ma Atsushi poteva percepire la sua stanchezza come un oggetto fisico. 

Per questo procedette un piede davanti all’altro, per quanto la testa rimase a rimuginare come in ogni secondo libero in cui non si stava adoperando per riportare Yosano a casa. Le possibilità, le teorie, le piste. 

Aveva iniziato a sperimentare i mal di testa da stanchezza, lievi ma martellanti, la deconcentrazione quando si ritrovava a leggere lo stesso appunto tre volte senza riuscire a memorizzarlo. Era frustante quanto le ore che passavano senza risultati. Più accumulava pesi nella testa, più questi incrinavano le sue certezze, già poche di partenza, che si riducevano a spiragli da cui poi gli spifferi penetravano portando con sé la voce del Direttore dell’orfanotrofio. 

Era sovrappensiero e non si accorse della persona che aveva davanti e con cui finì a scontrarsi. 

«Mi dispiace!» esordì, massaggiandosi di riflesso il braccio. Sbarrò gli occhi quando si accorse chi avesse davanti. 

«Non fare casino.»

C’era poca gente per strada, ed erano così vicini che nessuno prestò attenzione ai lembi di stoffa nera che si avvinghiarono intorno ai polsi della Tigre Mannara e si strinsero sulla sua bocca, imbavagliandolo. 

Del tutto imperturbabile all’occhiata allarmata e poi combattiva del detective, Akutagawa iniziò a camminare verso un vicolo, mani in tasca. Atsushi fu costretto a seguirlo, tirato da Rashoumon

La stradina che stavano percorrendo era stretta, lunga e vuota, ma nessun tentativo fu sufficiente per liberarsi. Quando le mura dei palazzi finirono, davanti a loro si aprì uno spiazzo e una porzione di porto poco illuminata, ma da cui le luci della costa si vedevano nitidamente. Una visione appagante, se non fosse stato per i modi bruschi con cui Akutagawa lo aveva appena rapito. Senza smentirsi, per liberarlo usò la stessa delicatezza, sbattendo il giovane detective contro una parete. 

«Era necessario!?» 

Atsushi si massaggiò il retro della testa dolorante, sentendo le vene ribollire di frustrazione. 

«Nakahara-san mi ha detto di andarci leggero con te» spiegò il cane della mafia, guardandolo fisso e assottigliando lo sguardo. 

«Finché la vostra scommessa sarà valida.» 

Il famigliare tono disgustato e indignato si fece strada tra le sue parole, come se l’altro ragazzo gli avesse rubato qualcosa. 

«Perché mi hai portato qui?»

Il dubbio era lecito. Non c’era anima viva intorno a loro e sembrava il posto perfetto per ammazzarlo e buttarlo in mare. Non rispecchiava minimamente quell’andarci piano

La risposta tardò ad arrivare. Akutagawa si voltò verso il mare, ma senza dare l’impressione di riflettere su cosa potesse dire per giustificarsi. Le spiegazioni non erano il suo forte. Gli attacchi feroci e improvvisi sì, e Atsushi sentiva di essersi quasi abituato ad aspettarsi uno scontro. Così, quando vide Rashoumon animarsi, tese i muscoli e si preparò a parare, ma il fendente si piantò nel terreno, in un moto di frustrazione accompagnato da un vago ringhiare. 

«Devi annullare la promessa!» abbaiò Akutagawa, perdendo del tutto la compostezza e voltandosi con una minaccia precisa in faccia. 

«Oppure affrontami qui e ora!» 

Il sussulto di Atsushi si spense in fretta. 

«Ancora questa storia della promessa?» 

Il suo commento innescò la furia di Akutagawa. Due fendenti scattarono, ma la Tigre Mannara li evitò con un balzo, per poi bloccarli con le mani quando puntarono a inseguirlo. 

«Finché non potrò uccidere sarò inutile alla mafia!» 

Akutagawa non sembrava in sé, come ogni volta che l’argomento veniva fuori. Questo gli costò la concentrazione per mantenere l’attacco e permise ad Atsushi di liberarsi di Rashoumon

«Te l’ho già detto! La promessa che mi hai fatto non è una debolezza!» 

I lembi di stoffa si moltiplicarono e attaccarono alla rinfusa, ma anche se imprevedibili e scoordinati, Atsushi riuscì a vederli ed evitarli tutti, finché quel bisticcio insensato non li portò a separarsi col fiato corto. 

«Red Hood… Oda-san… è su un altro livello!» perseverò il giovane detective. 

«Non lo fermeremo solo scontrandoci con lui! E non possiamo ucciderlo! Dazai-san...» 

Atsushi avrebbe voluto imprecare e scrollare Akutagawa per fargli entrare in testa il concetto. 

Quest’ultimo imprecò davvero, tirando un pugno a una parete. 

«Tu non c’eri… tu non sai nulla!» disse con acredine, come se un vecchio veleno sopito nel suo corpo si fosse risvegliato per risalirgli fino alla bocca. 

«L’umiliazione di essere paragonato a un tuttofare… al grado più basso della mafia… sentirsi dire di poter essere ucciso solo facendolo arrabbiare come se fosse un dio sceso in terra...» 

Atsushi ingoiò quella confessione, ma mantenne la lucidità. 

«Ti ostini a usare la tua forza solo per passare sopra agli altri!»

«Cosa credi di sapere, Jinko? Credi di conoscere Dazai-san?»

«Lui è cambiato!»

L’uno sostenne lo sguardo dell’altro, in una situazione in cui il divario di pensiero tra loro sembrò concretizzarsi in un muro denso e invalicabile, per quanto invisibile. 

«Cambiato?» 

Akutagawa esibì un sorrisetto macabro, al limite del sarcastico. 

«Sputa la verità, Jinko: cosa hai provato vedendo Dazai-san spararmi addosso? Perché io ti ho sentito trasalire. Ho visto il tuo sguardo. Ho fiutato la tua paura. Volevi scappare, ma sei rimasto pietrificato.» 

Il suo tono si smorzò e perse di intensità, lasciando intendere che alla fine quel discorso non lo divertisse. 

«Pensavo avessi capito, ma è evidente che mi sia sbagliato.» 

Atsushi scrollò la testa per allontanare il pensiero. 

«Dazai-san mi ha salvato. Si è preoccupato per me quando nessun altro lo avrebbe fatto.»

Akutagawa fu imperturbabile, sentendosi alle prese con un bambino incapace di cogliere il messaggio. 

«Sai come sono entrato nella mafia, Jinko?»

Fu inaspettato e Atsushi rimase immobile, senza fiatare, come se il solo respirare avesse potuto intaccare quell’inaspettato momento di confessione. 

Il pensiero che Akutagawa potesse avere un passato da raccontare non lo aveva mai sfiorato. Osservò la propria nemesi come se per la prima volta qualcuno avesse acceso una luce nuova sopra di lui. Il suo sguardo era diverso, occhi che stavano guardando nei propri ricordi, ma la Tigre Mannara non avrebbe saputo descrivere il sentimento che vi si rifletteva. 

Akutagawa osservò una manica del proprio cappotto nero.

«Io e mia sorella siamo stati abbandonati dopo che ho trasformato per la prima volta una parte dei miei vestiti.»

Bastò quell’incipit a far chiudere lo stomaco ad Atsushi. 

«Non ricordo nemmeno che volto avessero i nostri genitori. Si sbarazzarono di entrambi come immondizia.» 

Nel raccontarlo, le dita della sua mano si strinsero a pugno così forte da farlo tremare. 

«Se mia sorella è cresciuta per strada e non in una casa, vivendo una vita normale, la colpa è mia. Per paura che anche lei fosse come me è stata buttata via.»

Nelle parole di Akutagawa non c’era rimorso o rabbia, ma il senso di una constatazione fredda, ponderata, come se la sua colpa, il possedere un’abilità, nel tempo fosse diventata un dato di fatto certo, indubbio. 

«È successo una notte» riprese l’altro ragazzo, infilandosi le mani in tasca. 

«Gli altri orfani con cui condividevamo tutto furono sterminati da alcuni contrabbandieri. Ho cercato vendetta… e ho trovato Dazai-san ad aspettarmi.»

Le parole continuavano a morire sulle labbra di Atsushi a ogni dettaglio. La sua mente cercava di figurarsi un Akutagawa bambino, orfano, calpestato dalla vita, di fronte a un Dazai della Port Mafia. 

Le sue dita strinsero la stoffa dei pantaloni e se ne accorse solo quando le unghie graffiarono la pelle sottostante. C’era uno strano sentimento che si agitava in lui, qualcosa che cominciava con la compassione e finiva nella comprensione per un passato di cui poteva intuire gli incubi. 

«Dazai-san uccise i contrabbandieri come dono per me» riprese Akutagawa, ignorando cosa si agitasse nella mente della Tigre Mannara. 

«Fu la sua offerta per chiedermi di entrare nella mafia. Quella o la libertà di vivere senza più pensieri.»

«Cosa...?»

«Se avessi rifiutato la sua proposta mi avrebbe dato il necessario per fare vivere me e Gin senza bisogni, promettendo di non cercarmi più. Se invece avessi accettato, mi avrebbe dato qualcosa da cercare…» 

Akutagawa lasciò in sospeso la frase come sembrava essere rimasta anche dentro di lui, incerto ancora di quale dovesse essere la risposta. 

«Dazai-san fu chiaro. Accettare avrebbe significato avere una vita più infernale di quella che già vivevo per le strade di Yokohama. È stato di parola.»

Un sorriso sarcastico, eppure sincero, spuntò sulle sue labbra. 

«Rifarei tutto da capo probabilmente.»

«Perché… ti ha dato una ragione per vivere» mormorò Atsushi, plasmando finalmente uno dei centinaia di pensieri che gli graffiavano la mente. 

Akutagawa gli lanciò un’occhiata penetrante, ma entrambi rimasero in silenzio, sempre più consapevoli di quante sfaccettature delle loro vite si stessero mescolando. 

«Non annullerò la promessa.»

Atsushi aveva bisogno di buttare fuori il caos che gli stava urlando in testa. Non riusciva a guardare Akutagawa, perché qualcosa era cambiato e non riusciva ad avere lo stesso appiglio di odio nei suoi confronti. Si sentiva pesante, come se la presenza dell’altro gli stesse gravando addosso ignorando i metri che li separavano. La parte peggiore era che, nonostante quella pesantezza, una parte di lui spuntò con il proposito malsano di sostenerlo. Di dirgli che il peggio, l’abbandono, la vita da orfano, appartenevano al passato. 

Non seppe come interpretare quel pensiero, se non affrontandolo girando i tacchi e andandosene. Si sforzò di essere ragionevole, di rimanere sui binari della coerenza. 

«Non si tratta di essere utili alla mafia o fermare Red Hood… ma riguarda Dazai-san.» 

Guardò Akutagawa negli occhi, anche se brevemente, troppo per riuscire a cogliere il sentimento che li animava. 

«Se Red Hood dovesse morire per mano tua non dimostreresti di essere forte… non dimostreresti proprio niente. Dazai-san ne soffrirebbe.»

Da quando aveva parlato con Chuuya, Atsushi si era ritrovato a doversi ripetere quelle frasi più e più volte, cercando la convinzione per continuare a sostenere il cambiamento di Dazai nonostante tutto il resto urlasse il contrario. Tuttavia, in quel momento, era Akutagawa il fulcro del discorso. 

«Hai fatto delle cose orribili» ricominciò, con un sapore in bocca che sapeva di falso. 

«Hai usato Kyouka-chan, l’hai manipolata e l’hai mandata a morire… hai quasi ucciso Tanizaki e Naomi… Tu fai male alle persone per dimostrare di essere forte.» 

Avvertì Akutagawa irrigidirsi, mettersi sulla difensiva, eppure Atsushi non riusciva a pensare di attaccarlo, non per quella sera, non dopo le parole che stava per dire. 

«… ma hai anche dimostrato di saper proteggere.»

Si fissò la mano, la stessa che, durante il Cannibalismo, era stata avvolta da Rashoumon

«Hai protetto Yokohama dalla Gilda. Hai fermato il piano di Dostoevskij… hai collaborato con me più volte e mi hai detto che le parole del mio passato non hanno nulla a che vedere con ciò che sono ora...»

«Dove vuoi arrivare, Jinko?»

Atsushi scosse la testa per scrollarsi quell’interruzione, anche se lecita. 

«Non lo so, ma Dazai-san è cambiato. Ha scelto un’altra strada.»

«Dovrei farlo anche io? Dovrei cambiare?»

La voce di Akutagawa era di un’amarezza pungente, fatalista, con un odio sordo meccanico. Più un riflesso condizionato. 

«Vuoi dimostrare che se non uccido posso essere diverso?»

Atsushi chiuse a pugno la mano che aveva continuato a fissare. Aveva provato cosa volesse dire avere Rashoumon ad avvolgerlo. Si era sentito protetto. Si era sentito forte. Aveva ribaltato le carte in tavola in uno scontro che aveva visto lui e Akutagawa perdenti, ma che insieme li aveva resi vincitori. 

«Non annullerò la promessa» ripeté Atsushi in tono definitivo, stanco. 

«Se tra sei mesi vorrai affrontarmi come hai detto e… andare oltre, allora non ucciderai Red Hood. Lo affronteremo e lo fermeremo, ma senza ucciderlo.» 

Abbassò lo sguardo ancora una volta. 

«Dazai-san te ne sarà grato, perché sa quanto per te sarà difficile non cedere.»

Furono le sue ultime parole, mormorate più a se stesso, a quel pezzo di vita che stava imparando a conoscere e a sostenere per non esserne travolto. 

Si voltò e tornò a casa. 



 

To be continued.




 

Spazio autore 

 

Ultimo capitolo per quest’anno =) Totally a random di Martedì XD 
Lascio queste due righe per ringraziare chi sta commentando *love* e chi sta leggendo, augurandovi che l’anno prossimo sia decisamente più positivo di questo!

Riguardo a questo capitolo, volevo lasciare una nota al discorso di Ango che inizia con “Compartimentazione” perché è una citazione a Nick Fury dell’MCU, anche se la verve è decisamente diversa XD Ma rivedere The Winter Soldier mi ha dato diversi spunti. 

Detto questo, siamo quasi alla metà della prima parte =) 

E sono sempre più presa dal voler andare avanti *fight*!  

 

Ci si rivede dall’altra parte ~

 

Pagina autore su FB: Nefelibata ~ @EneriMess




Prossimo capitolo → The Room of Madness

 
   
 
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