Sotto un cielo sereno…
L’ultima
cosa che vedi prima di sparire sono i suoi occhi – un azzurro irreale, troppo
intenso e troppo vivo per appartenere ancora a questo mondo.
L’ultima
cosa che vedi prima che sparisca sono i suoi occhi – un castano morbido,
profondo e nuovamente così pieno di vita malgrado il mondo a cui appartiene.
Un nodo alla gola. Una lama di ghiaccio nel cervello. Una
pressione così forte allo sterno e alla bocca dello stomaco che quasi fa
vomitare. Buio e poi luce e poi buio e poi, ancora, definitivamente, luce.
I grattacieli di Tokyo svettano lungo la
linea dell’orizzonte, salendo in alto, sempre di più, quasi volessero
raggiungere il cielo per poi fondersi con esso; magari anche superare i pesanti
e cupi nuvoloni che ora lo impregnano, impedendo al sole di portare almeno un
po’ di speranza.
Sotto di te – troppi metri dividono ora la solida terra da questa navicella aliena
– macerie, fango, terra brulla. Disperazione, angoscia, terrore. Morte. Sono
concetti che conosci fin troppo bene, che ormai fanno parte di te come poche
altre cose. Trovi quasi rassicurante averli davanti, perché sono la normalità
della tua quotidianità da anni. Qualcuno potrebbe trovarla inquietante come
visione delle cose, ma hai imparato che la qualsiasi emozione, sia essa
positiva o negativa, è solo definita dalle esperienze personali. Chi ha vissuto
la tua vita, chi ha vissuto il tuo mondo,
la penserebbe esattamente come te.
Davanti a te Profondo Blu, i suoi occhi
gelidi e crudeli. Davanti a te il corpo ormai inerme di Kisshu,
il corpo segnato e il sangue a macchiarglielo. Davanti a te una Mew Mew, una ragazzina, di rosa vestita, coda e orecchie da gatto e lo
sguardo pericolosamente in bilico tra la disperazione e la risolutezza.
Ricordi bene quel giorno, questo giorno!; ricordi ogni singola parola, ogni
lacrima e ogni ferita. Ricordi, soprattutto, di averlo vissuto, ma vedersi da
esterni è qualcosa che difficilmente potrai mai spiegare.
“Ero
davvero così, allora? Erano davvero questi, i miei occhi?”
Saranno gli anni passati, o la
consapevolezza delle scelte compiute, o magari il rimorso e il senso di colpa –
probabilmente sarà un insieme di tutto
questo – ma in questa ragazzina non riesci a riconoscerti.
“Mewberry…”
Un nome, un’identità, che non è più tuo da molto tempo. L’hai abbandonato
per tua scelta, vinta dalla disperazione della resa e dalla consapevolezza
della sconfitta. L’hai abbandonato, forse, anche per semplice vigliaccheria,
per incapacità e per debolezza; magari solo per un’ingenuità disillusa senza
pietà, gettata nella polvere e calpestata con violenza.
“Eravamo
le Mew Mew. Dovevamo
proteggere la Terra, combattere i Chimeri e sconfiggere gli Alieni. Eravamo
delle Eroine.”
Che sciocche. Che sciocca. Un gruppo di
ragazzine gettate nel turbinio degli eventi da un altro ragazzino, cresciuto
troppo in fretta, che giocava a fare l’uomo e viveva nel terrore che non fosse
abbastanza, che vi succedesse qualcosa.
“Folli
sciocchi innamorati di un Sogno, e dai sogni prima o poi ci si sveglia…”
È stato un risveglio fin troppo amaro, il
vostro. Un risveglio che ha portato con sé una scia di morte.
Profondo Blu alza improvvisamente gli occhi
e per un assurdo istante hai la sensazione che stia guardando te – uno sguardo gelido e crudele, arrogante come
pochi e schifosamente fastidioso; strano come riesci ad analizzarlo così
freddamente, considerato che allora avevi tremato sotto di esso.
Sorridi mesta e poi scuoti la testa,
divertita.
“No,
non puoi vedermi. Io non sono qui, anche se ci sono.”
Sposti lo sguardo dall’alieno senza più
alcun interesse e lo punti su Mewberry.
In ginocchio sulla fredda pietra; le braccia a ricadere
pesanti lungo i fianchi; la testa bassa; gli occhi vuoti e poi pieni – vuoti di
ogni volontà; pieni di acqua a sale.
È straziante, per te, quest’immagine. Non
c’è una Mew Mew, davanti al
tuo sguardo, ma solo una ragazzina chiamata a svolgere un compito non
richiesto, non voluto, che con la sola forza della cocciutaggine e
dell’ingenuità ha creduto di poter vincere questa guerra.
Ti fa tenerezza, e malinconia. Questa è una
te stessa che hai amato e odiato in
egual misura, ossia troppo.
“Se
tu fossi stata diversa… Se io fossi stata diversa… No! Ora basta! Finisce qui!
Finisce oggi!”
Hai rischiato ogni cosa, per essere qui. Hai vomitato sangue e bile; hai
portato il corpo e la mente al punto di non ritorno; hai rinunciato a
quell’unico scorcio di felicità, di amore, di serenità concessoti – piccolo, minuscolo frammento di una vita che
avrebbe potuto essere tua se tu stessa non l’avessi fatta a pezzi con le tue
mani.
“Non
è più tempo di recriminare.”
Tempo… Non ti sarà concesso – non
eccessivamente comunque.
Hai solo un istante. Né di più, né di meno.
Un istante può essere anche troppo, a volte; altre troppo
poco.
Un istante può durare una vita intera; o essere così breve da
non venir nemmeno percepito.
Ti avvicini a passo sicuro a Mewberry, ma nessuno si accorge della tua presenza.
“Io
non ci sono, anche se ci sono.”
T’inginocchi davanti a lei e le prendi il
viso tra le mani. Lei trassale, scossa nel profondo da un brivido viscerale; le
sue lacrime si fermano e quando alza lo sguardo questo si spalanca, stupito e
terrorizzato.
“Cosa…”
“Va
tutto bene. Va tutto bene.” Sussurri
bloccandola immediatamente e regalandole un sorriso dolce e materno. Sai di
doverla rassicurare, sai che è spaventata, ma sai anche di non poter fallire. A
prescindere da quanto verrà.
“Tu…” Ancora un sussurro, sempre flebile e
sempre tremante. Ha capito – in un modo astruso e complicato che non hai tempo
di spiegare – chi tu sia.
Sorridi mestamente prima di abbassare il
cappuccio che ti ha in parte celata per tutto il tempo.
Capelli vermigli inframezzati da fili argentei; viso stanco,
smunto; lineamenti affilati dall’età e dal tempo; pelle pallida, tirata, a
tratti viola vicino agli zigomi; occhi castani, profondi e stanchi.
È una descrizione orribile, quella del tuo
volto. È la descrizione del viso di una vecchia, non di una ragazza di appena
vent’anni.
Mewberry trassale e istintivamente si scosta,
inquietata.
“Non
avere paura. Non voglio farti del male.” Sussurri ancora, sempre con quel tono materno. È qualcosa che
ormai è facile da trovare, da usare; è qualcosa che è dentro di te, da anni, e
che è stato quanto di più naturale potessi immaginare.
Mewberry ti guarda ancora, con quegli occhi così
limpidi da perforare quasi l’anima. Ryo te l’ha
raccontato spesso, questo sguardo, ma vederlo dal vivo è qualcosa che quasi ti
destabilizza. Trovi straziante pensare come occhi così belli possano essersi
distrutti, annichiliti, spezzati.
“Tu
sei… me…” Il gorgoglio roco
di questa ragazzina ti riporta alla realtà, a dove ti trovi. Alla guerra.
Sorridi piano – un’azione che ti costa fatica, ormai; è quasi più una smorfia – e
così facendo le dai la conferma di quanto ha appena affermato.
“Ma…
Come… Io…”
“È
difficile. Lo so.” La
rassicuri ancora, con tono dolce. “È
assurdo, per certi versi. Inconcepibile, strano e a tratti folle. Ma quando si
cerca di compiere un miracolo è così. Sempre.”
Un miracolo… Sì, in definitiva è per questo
che sei qui. Perché solo un miracolo potrebbe cambiare le cose; perché solo
qualcosa che si ritiene impossibile può essere la soluzione.
“Se funziona sarà un miracolo.”
“Allora sarà un miracolo.”
Il ghigno divertito di Ryo; il tuo
sguardo risoluto.
“Ma
tu… Da dove vieni?” Chiede
Mewberry ritrovando la voce, e anche la lucidità.
“Non
dove, ma quando.” Precisi
preparandoti a quella che sarà la parte più difficile. “Vengo dal futuro, Mewberry. Da sette anni
avanti ad oggi.”
“Cosa?”
Quasi ridi, a quell’espressione allibita, a
tratti incredula e anche un filino spaventata. Ecco, questo invece è qualcosa
che ricordi bene; quando qualcosa ti sconcertava, o succedeva all’improvviso,
eri solita reagire così. Ma ora non è tempo di perdersi nei ricordi – non c’è mai tempo.
“Vorrei
che fosse più facile.”
Sussurri abbassando lo sguardo, consapevole di cosa stai per fare e di cosa
porterà. “Vorrei, soprattutto, che fosse
esente dal dolore che verrà. Ma non posso. È il dolore a darci la forza che ci
serve, Mewberry; è il dolore che patiamo e al quale
sopravviviamo a renderci più forti, più risoluti, capaci di alzarci una volta
ancora e continuare a vivere. È il dolore che ci insegna a combattere.”
“Io…” Il terrore sul viso di questa ragazzina,
che non comprende e che per questo vorrebbe solo scappare il più lontano
possibile.
“Ho
bisogno che tu ascolti la mia voce, e che guardi con i miei occhi. Ho bisogno
che tu sia più coraggiosa e forte di quanto non sia mai stata io.”
“Perché
dovrei farlo?” Domanda lei
senza voce, in un sussurro flebile e tremulo. In cuor suo vorrebbe solo che
tutto questo non fosse mai successo, che la vita non avesse preso questa
svolta; vorrebbe non essere diventata una Mew Mw, aver conosciuto le proprie compagne ed essere ad un
punto morto della storia, dove anche la più piccola decisione può portare o
alla vittoria e alla fine di tutto o alla distruzione di ogni cosa conosciuta.
La comprendi. Comprendi questi sentimenti,
questa paura, questa vigliaccheria. E non puoi fargliene una colpa. E vorresti
essere gentile, magari indorarle un po’ la pillola; mentirle anche, se
servisse. Ma non ti è concesso.
“Perché
spetta a te, pagare per i miei errori, per i miei crimini. Perché sarà compito
tuo, mondare i miei peccati. Perché tu sei me, e io sono te.”
I suoi occhi ora sono lucidi e pieni di
lacrime di paura; le sue mani tremano e quasi si trova a scattare indietro,
lontana da te. Non ti arrabbi per questo, né provi delusione: è solo una
ragazzina, spaventata, che gli eventi stanno obbligando a qualcosa di
terribile.
“Ma
tu… Tu chi… Chi sei davvero?”
Domanda con un singulto, la voce roca.
“Io
sono solo un fantasma, Mewberry. Io sono un’eco della
coscienza di Ichigo; sono un frammento infinitesimale
della sua persona, della mia persona.”
“Ma…”
“Se
mi ascolterai, se guarderai, tutto ti sarà finalmente chiaro. Ti prego.”
Occhi gemelli che s’incontrano, si scrutano, si studiano e
poi, per un istante sfuggevole, si riconoscono.
Due persone diverse, che sono la stessa.
È
difficile raccontare, mostrare, per la sola ragione che è difficile ricordare.
Non perché le memorie siano evanescenti, opache, più simili a incubi dai
contorni sfocati che alla concretezza della realtà; non perché la tua memoria
inizia a fare scherzi, provata da anni e anni di logoramento. No, niente di
tutto questo. È difficile per un più semplice e banale motivo: fa male.
Non
è il tipo di dolore al quale sei ormai abituata, quello con cui hai instaurato
almeno una civile convivenza data dalla resa più che dalla consapevolezza o
dalla maturità; non è quel dolore sordo, sottile eppure perforante che fa parte
di te, che è una parte di te, che è tuo compagno di giorno e di notte. No, è
qualcosa di più profondo, di più radicato e di esponenzialmente più
distruttivo. Quel dolore è generato dal ricordo, e a sua volta il ricordo
stesso ha generato altro dolore. Un circolo vizioso, come un cane che si morde
la coda; un’ellisse perfetta, senza inizio né fine, ma solo in costante
movimento circolare.
È
qualcosa da cui non si esce.
Prendi il viso di Mewberry
tra le mani e chiudi gli occhi. Lo sforzo sarà enorme, e ti prosciugherà di
quelle poche energie che ancora ti sono rimaste. Lo sai. Lo hai saputo
dall’inizio, ma non hai avuto alcuna remora.
Appoggi le vostre fronti l’una contro
l’altra ed è dolore, come una lama di ghiaccio nel cervello; ed è mancanza di
ossigeno, quasi i polmoni fossero in apnea; ed è un colpo secco e violento alla
bocca dello stomaco, che fa boccheggiare e quasi vomitare. Poi è solo un mondo
che si apre, che spalanca le proprie porte, e trascina giù e giù e giù, fino
all’abisso.
“Sette
anni fa eravamo esattamente dove e quando ti trovi tu adesso: nel pieno dello
scontro contro Profondo Blu…”
Inizi così un racconto che sai di dover concludere, malgrado il dolore che ne seguirà.
Mostri a Mewberry ogni cosa, le fai sentire ogni
parola e le fai provare ogni emozione, perché sai che saranno queste a renderla
davvero cosciente della situazione e del suo e tuo ruolo.
“Quel
giorno, in un attimo, sono stata la responsabile della fine di ogni cosa. Il
mondo in cui vivo, da cui vengo, è figlio della mia stupidità. O puoi chiamarla
vigliaccheria, se preferisci.”
“Perché
dici questo? Cos’hai fatto di tanto grave?” Domanda Mewberry con un filo di
voce e con gli occhi fissi sulle immagini dei tuoi ricordi. Non riesci a dire
se sia terrorizzata o sconvolta.
“Cos’ho
fatto? Cosa non ho fatto, vorrai
dire.” Sputi fuori con
rabbia, i pugni che si stringono e le nocche che sbiancano. Gli occhi
dell’altra sono ora puntati sul tuo volto dai lineamenti induriti e pieni di
rabbia verso te stessa. “Ho dato ascolto
al mio cuore di tredicenne, all’amore infantile per Masaya;
mi sono convinta che questo sarebbe bastato – il mio amore! – per salvarlo e
riportarlo da me. Lo rivolevo al mio fianco, con forza, spinta dall’ingenuità e
dall’egoismo. E per questo mio desiderio non ho guardato in faccia nessuno, e
ho sputato sopra l’affetto, l’amore e la fiducia di chi c’era stato quando
nessun altro c’era, quando nessun altro avrebbe potuto capire.”
“Io…”
“Ho
esitato, Mewberry, prima. E dopo mi sono rifiutata di
alzare la mia arma, di colpire il nemico. Kisshu
un’opportunità me l’aveva data, e io l’ho buttata via perché il mio amore per Masaya – perché Masaya! – era più
importante dell’intera umanità.”
Ci sono solo rabbia, disprezzo e disgusto
nella tua voce, ora. Non riesci a perdonarti. Non vuoi perdonarti. Più
probabilmente non vuoi il perdono in generale.
“Ma
tu…”
“Quello
che non ho fatto è stato uccidere Profondo Blu quando ne ho avuta l’occasione.
E lui ha distrutto ogni cosa.”
Macerie. Rottami. Città in rovina. Sangue.
Cadaveri. Deflagrazioni dei missili. Bombardieri, caccia, navi d’assalto e
carrarmati. Famiglie distrutte, vite distrutte. Il mondo divenuto rosso di
sangue e nero di morte e grigio di cenere.
Mewberry crolla a terra, sconvolta, disperata,
disgustata. Quello che sta vedendo non è altro che il mondo creato da
quell’esaltato di Profondo Blu, dalla sua volontà di soggiogare e dominare;
quello che vede è il mondo creato dalla tua incapacità di comprendere e di
accettare, dalla tua infantile e stupida testardaggine, dalle tue effimere e
sciocche illusioni.
“Questo…
Tutto questo… Lui…”
Non riesce a parlare, Mewberry.
È solo ancora una ragazzina, e tutto questo è troppo per lei. È stato troppo
anche per te.
Le immagini proseguono, i ricordi si
rincorrono per allinearsi nella sequenza corretta. Un urlo ti fa socchiudere
gli occhi e incassare il dolore che ora ti stritola il petto. E sono davanti a
te – a voi – i corpi senza vita di Mint, Retasu, Purin
e Zakuro.
“No…
No… NO!”
Il grido di negazione di Mewberry è una stilettata al cuore: è lo stesso grido
straziante che è uscito anche dalle tue labbra, allora. E ti è rimasto
attaccato addosso, si è impigliato nella tua memoria con tale forza che la sua
eco non ha mai smesso di risuonare.
“La
prima a cadere è stata Retasu, poco dopo lo scontro
con Profondo Blu…”
Sussurri deglutendo a forza e ingoiando così anche la bile che ti è risalita
lungo la gola. Non hai più lacrime per loro, andatesi a esaurire tempo fa.
Neanche la consolazione del pianto, ti è rimasta.
Socchiudi gli occhi e poi li punti su Mewberry; è ancora inginocchiata, piangente, e scuote la
testa ripetendo quel ‘no’ in una nenia quasi fastidiosa.
“Non
staccare lo sguardo.” Le
dici con più durezza di quanta avresti voluto in realtà.
“Non
voglio più guardare… Non voglio più vedere…” Balbetta con i singhiozzi che spezzano le parole e le mani a
tenersi il capo. Improvvisamente alza lo sguardo su di te ed esplode. “Perché? Perché? Perché tutto questo? Perché
farmelo vedere?”
Urla, isterica, con gli occhi gonfi di
pianto e la voce stridula. Si dimena, strepita e poi urla ancora, ma stavolta
non riesci a cogliere quasi nulla delle sue parole.
“Perché
questo sarà quello che succederà, se le tue scelte saranno le mie.” Dici guardandola dritta negli occhi.
Lei si calma di colpo, le lacrime si
arrestano e la bocca tace. Ti guarda e tu le permetti di scavare nei tuoi
occhi, dentro la tua anima, sino agli angoli più remoti e oscuri di te stessa,
sino all’abisso che custodisci nella parte più nascosta.
Trassale, Mewberry,
portandosi una mano alla bocca e nuovamente i suoi occhi si fanno lucidi. Che
dolce, piange per il dolore che hai provato tu. Ti eri dimenticata di essere
così empatica un tempo.
“Continuiamo?” Le chiedi allora, spostando lo sguardo dal
suo.
Ti fa male guardarla. Ti fanno male i suoi
occhi e, soprattutto, ti fa male vedere all’interno di essi la persona che eri
e che avresti potuto essere.
La vedi annuire con la coda dell’occhio e
cerchi di riprendere la calma.
“La
prima è stata Retasu, poi Zakuro,
Mint e infine, dopo due anni, Purin…”
Le hai viste cadere tutte, una dopo
l’altra; le hai viste morire sotto i tuoi occhi, e ogni volta una parte di te è
morta con loro.
Ricordi molte cose, di quei due anni,
alcune delle quali non sai nemmeno perché le ricordi; altre non hai nemmeno
idea che siano accadute, e non te ne importa più di tanto.
Il mondo aveva preso a girare troppo
rapidamente, e le regole del gioco erano cambiate in maniera repentina.
Compresa la gravità della situazione – Tokyo era praticamente stata rasa al
suolo in meno di sessanta secondi – i governi mondiali avevano deciso che
starsene in disparte non era più possibile. Per la prima volta nella storia
l’umanità nella sua totalità aveva messo da parte le proprie beghe: economia,
politica, religione non contavano più. Un fronte comune, un muro compatto, si
alzò a difesa delle genti tutte, scagliandosi contro l’invasore. Non fu abbastanza – così come non foste abbastanza voi,
le Mew Mew, le Paladine
della Giustizia.
“Angeli
protettori della Terra custodi… Che immensa sciocchezza!”
Non siete state capaci di proteggere voi
stesse, né le vostre famiglie; non siete state in grado di guardarvi le spalle
e salvarvi a vicenda. Con quale coraggio vi siete elevate a protettrici del
vostro mondo? Quale arroganza vi ha spinte a credervi delle salvatrici, delle
eroine? Eravate delle ragazzine, solo delle ragazzine, a cui il destino aveva
deciso di giocare uno scherzo finito nel peggiore dei modi. Né più, né meno.
“Se
fossimo state delle Guerriere, io ora non sarei qui.”
“Purin…”
Sussurra Mewberry in un singhiozzo, e tu sei
nuovamente obbligata a lasciare da parte le elucubrazioni.
Purin… Il corpo mutilato, sporco di sangue e
fango. Purin che si era lanciata come una furia
contro il nemico, che aveva fatto della vendetta personale il suo solo
obiettivo, dopo che la sua famiglia era stata distrutta. Purin
che si era battuta come una leonessa, che era rimasta in piedi anche quando il
corpo aveva deciso di cedere, che aveva dato fondo a tutte le sue energie,
anche alla sua vita, pur di placare il dolore sordo che la divorava. Purin che, a ben vedere, aveva solo dodici anni quand’era
morta.
Ricordi di aver pianto, disperata,
straziata, stringendo a te il suo corpo di bambina; ricordi di aver implorato,
supplicato, pregato qualcuno – chissà
chi! Chiunque! – di renderla a te, di riconsegnarla al tuo abbraccio.
Nessuna risposta era arrivata.
“Ryo…”
“Sì,
Ryo.” Annuisci
senza vergogna, senza paura, mentre un sorriso caldo e amaro al contempo ti
dipinge le labbra.
Ryo che c’era quel giorno come c’era sempre
stato; Ryo che malgrado tutto, malgrado il senso di
colpa che lo attanagliava nei vostri confronti, aveva portato avanti la lotta; Ryo che non ti aveva mai giudicata, anche quando sarebbe
stato suo diritto farlo, e aveva continuato a guardarti da lontano. Ryo che, quel giorno, ti aveva strappata con forza dal
corpo di Purin e ti aveva stretta a sé, bloccata tra
le sue braccia, e aveva pianto nascosto dai tuoi capelli. Ryo
che ti aveva portata via, ti aveva trascinata via, a forza, fino a quella che
era ormai la vostra base, il vostro accampamento – e Keiichiro,
pochi passi dietro a voi, con la piccola Purin tra le
braccia.
“Lui…”
“Lui
c’è stato, sempre. Lui è stato una parte del mio tutto, quella notte e negli
anni che sono seguiti. E chissà, se le cose fosse andate in maniera diversa,
forse lo sarebbe stato anche in un mondo più convenzionale.”
Mewberry ti guarda e non capisce, glielo leggi
negli occhi. Non comprende qualcosa di così complicato e semplice al contempo,
qualcosa di così effimero e resistente insieme. Poi storna lo sguardo sui tuoi
ricordi e arrossisce nascondendosi il volto tra le mani. Ridacchi a quella
visione prima che un pensiero squisitamente banale ti sovvenga.
“Lo
avrei fatto anch’io. Anch’io avrei reagito così, se solo la mia vita fosse
stata un’altra.”
Quella notte, la prima notte che tu e Ryo avete trascorso insieme – la prima di molte altre che
sono venute.
Strepitavi e ti dimenavi come una furia,
per poi diventare improvvisamente apatica e fissare il muro davanti a te senza
realmente vederlo. E Ryo, dopo un’ora buona passata
così, ti aveva presa per le spalle e semplicemente ti aveva baciata. Irruento.
Dolce. Disperato. Innamorato.
Lo hai capito con quel bacio; lo hai
percepito in quel bacio. Amore. Ryo ti amava, ti aveva sempre amata, anche se solo da
lontano. Ryo che aveva vegliato i tuoi passi e ne
aveva percorsi altri al tuo fianco; Ryo che, magari
anche solo infastidendoti, ti aveva sempre spronata ad andare avanti, a fare di
più; Ryo che, in una maniera che solo in quel preciso
istante avevi capito, era stato la tua roccia, il muro che ti aveva protetta e
le braccia che ti avevano sorretta.
Avevi sentito qualcosa rompersi dentro di
te, e poi colare liquido e scaldarti. E lo hai stretto a te, sempre di più. Sei
affogata nei suoi baci e hai lasciato che le sue labbra ti guidassero,
rapendoti i sensi; hai affondato le dita nei suoi capelli e gli hai graffiato
la schiena con le unghie; hai sentito le sue mani esplorarti, avide, e hai
spinto le tue a fare lo stesso.
Con il senno di poi ti chiedi come sia
stato possibile che, in quella notte, non una volta il dolore e la disperazione
si siano impossessati di voi e vi abbiano trascinati giù. Ma no, non è
successo. Ryo ti ha accarezzata, quella notte; ti ha
cullata, protetta e desiderata. Ryo ti ha amata. E
tu hai fatto lo stesso – anche se questo lo avresti capito solo un po’ più
tardi.
Sposti lo sguardo su Mewberry
e la trovi ancora rossa, con gli occhi sfuggevoli e la confusione e la
negazione ben dipinte sul volto. Ridacchi nuovamente.
“Io…
Cioè… Non…”
“Ci
sono cose che non prevediamo, che non mettiamo in conto. A volte,
semplicemente, le neghiamo per principio, perché non vogliamo ammettere
l’errore commesso. Ryo è stato una di queste cose. Ma
credimi se ti dico che è stato meraviglioso.” Le spieghi con pazienza, sorridendole.
“Ma…”
“L’amore
è una cosa complicata, Mewberry, e al contempo molto
semplice. Può sembrare un’affermazione banale, ma è così.”
“Amore?” Domanda lei sgranando gli occhi e
irrigidendo le spalle. E per un momento hai voglia di sospirare, sconsolata, e
di alzare gli occhi al cielo; poi ti ricordi di com’eri a tredici anni, della
tua assoluta certezza nell’amore per Masaya e ti dici
che no, non puoi biasimarla per quell’espressione sconvolta e dubbiosa.
“Ryo mi ha amata, sempre. Prima di quella notte, durante
quella notte e dopo quella notte. E io l’ho amato a mia volta. Ammetterlo, alla
fine, è stato più semplice del previsto. Non è stato un rimpiazzo, non
crederlo.” Aggiungi poi,
certa che quell’idea si sia fatta largo nella mente di Mewberry.
“Non è stato come con Masaya.
Non è stato lo stesso sentimento; è stato opposto nelle emozioni e nel modo in
cui l’ho vissuto.”
Lei ti guarda ancora, sempre più confusa, e
tu comprendi che dovrai sforzarti di più, dovrai farle sentire quello che intendi.
Le prendi la mano e gliela stringi forte,
sorridendole incoraggiante. Lei sobbalza, presa in contropiede, mentre le tue
emozioni fluiscono in lei, rapide, devastanti e dirompenti.
“Avevo
tredici anni quando amavo – quando credevo di amare – Masaya.
Ero solo una bambina che della vita aveva conosciuto così poco e in maniera
così delicata; una ragazzina che sognava ad occhi aperti e viveva respirando favole,
credendole la realtà. Arrossivo per un abbraccio; arrossivo per un sorriso;
credevo che non ci fosse nulla di più della mia mano stretta in quella del mio
ragazzo.
“Ho
scoperto l’amore per Ryo a sedici anni, dopo aver
distrutto me stessa e tutto il mondo con le mie stesse mani e piangendo la
morte di un’amica. Ero ancora una bambina, forse; forse era solo l’ennesima
illusione che non volevo lasciar andare. Ho amato Ryo
come una donna; ho scoperto la passione e la sensualità; ci sono stati momenti
in cui l’unica cosa che volevo erano le sue labbra sulle mie. Ho amato Ryo di un amore sconvolgente, travolgente, impossibile da
negare o arginare. Ho amato Ryo e so che, anche se
tutto questo non fosse mai successo, l’avrei prima o poi trovato sul mio cammino
e me ne sarei innamorata comunque.”
Mewberry abbassa gli occhi e si porta una mano al
petto; il suo cuore batte furiosamente, quasi volesse uscirle dal petto. Oh, la
conosci bene quella sensazione.
Glielo hai fatto provare, quell’amore; le
hai fatto provare qualcosa che forse non ha comunque compreso, bambina com’è
ancora. Ci riuscirà, prima o poi, chissà dove e chissà quando. I suoi occhi
tornano sui tuoi e tu alzi le sopracciglia. C’è qualcosa che le sta frullando
nella testa, di questo sei certa.
“Cosa
c’è?” Domandi infatti,
curiosa di sapere.
“Perché
mi hai fatto vedere questo? Intendo… Perché mi hai fatto vedere…”
Il tuo ridacchiare la blocca, un po’
infastidita. Le fai un cenno con la mano, quasi a scusarti per quel
comportamento, ma non puoi farci nulla: vederla annaspare nelle parole,
cercarle, nel tentativo confuso di riuscire a parlare di qualcosa che la
imbarazza tanto è troppo divertente. Non lo fai con cattiveria, davvero,
dopotutto lei è te e tu eri come lei un tempo.
La guardi ancora, e improvvisamente ti
senti prendere dall’inquietudine. È stato difficile arrivare a questo punto del
racconto, ma ora potrebbe esserlo molto di più.
“Perché
per farti davvero comprendere era necessario anche questo. Era necessario per
farti conoscere la vera ragione che mi ha spinta qui, oggi.” Sussurri spostando lo sguardo, puntandolo
lontano.
“Non
capisco.” No, ovvio. Non
può certo capire. “Non sei qui per…
cambiare il passato e… salvare il mondo?”
“Sì,
certo. Sono qui anche per questo, ma non solo. Principalmente…” Respiri a fondo e poi storni lo sguardo
sulle immagini dei tuoi ricordi. “Dopo
quella notte me ne sono andata, prima che arrivasse la mattina. Non ho lasciato
niente, dietro di me, nemmeno un biglietto; mi sono semplicemente alzata e ho
voltato la schiena a Ryo e a quello che era
successo.”
“Perché?”
Ti chiede Mewberry con gli occhi fissi sulle tue memorie. Ti guarda
mentre cammini nel nulla, nella desolazione causata dalla guerra; ti osserva in
quel vagabondare che è durato due mesi, più o meno, mentre tieni perennemente
gli occhi bassi e ti lasci scivolare di luogo in luogo, senza una meta, senza
uno scopo, senza niente.
“Non
è stata cattiveria, la mia; non è stato nemmeno ripensamento, o rimpianto per
aver amato Ryo ed essermi lasciata amare da lui.
Semplicemente non ero pronta.”
“A
cosa?”
“Ad
affrontare quello che sentivo dentro di me, quell’amore che aveva acceso un
lumino di gioia nel mio cuore. Non volevo quella felicità, perché credevo di
non meritarla.”
Tu eri stata la causa di tutto il dolore
che trasudava ovunque, della disperazione che si rispecchiava negli occhi dei
pochi sopravvissuti a quel massacro, a quel genocidio. Non meritavi la
felicità, per quanto piccola ed effimera essa potesse essere. Non meritavi
nulla al di fuori dell’odio delle persone, e del senso di colpa che ti
stritolava la gola impedendoti di respirare.
“Ma
poi sei tornata.” Intuisce
Mewberry guardando una te stessa più giovane di
qualche anno, inginocchiata tra le macerie di chissà quale città, stretta in te
stessa in un abbraccio disperato e protettivo al tempo stesso. “Perché?”
“Perché
non ero più sola. Perché malgrado tutto, in un angolo remoto della mia
coscienza, avevo appena trovato qualcosa che non fosse odio, rabbia,
frustrazione e dolore: avevo trovato qualcosa per cui valesse la pena
ritornare, vivere magari. La stessa ragione che mi ha spinto, un anno dopo, a
iniziare il progetto che mi ha portata qui, da te.”
“Una
ragione per vivere. Una ragione, anche, per morire.”
Le immagini del tuo viaggio solitario
sfumano, e dalla tua memoria fa capolino Tokio – la tua Tokio; ciò che ne era rimasto; ciò in cui si era trasformata.
“Sei…
Tornata…” Respira Mewberry riconoscendo quella che era la vostra base.
“Sono
tornata a casa, sì.”
E c’era Ryo ad
aspettarti, seduto scompostamente su delle macerie e con lo sguardo puntato
all’orizzonte. Lo avresti scoperto solo tempo dopo, quando Keiichiro
te l’avrebbe confessato senza giri di parole: ogni giorno Ryo
si sedeva lì e guardava lontano, aspettando di veder comparire la tua figura;
lui sapeva – sperava! – che saresti
tornata da lui.
Si era piazzato davanti a te e aveva
sollevato una mano per sfiorarti, ma tu l’aveva bloccata intrappolandola tra le
tue e l’avevi guidata verso il tuo grembo, appoggiandola sopra. I suoi occhi
sgranati, sconvolti, confusi; i tuoi liquidi di acqua e sale e speranza. Poi un
sorriso timido, sottile, fragile come nient’altro. Il primo sorriso da anni. E Ryo era scivolato a terra, in ginocchio, le braccia a
stringerti forte e il viso premuto contro il tuo ventre.
“Ma
tu…” Mewberry
ti guarda con il volto incastrato tra le mani e gli occhi agitati e confusi. Le
sorridi serena e ti accarezzi inconsapevolmente la pancia.
“Non
è stato facile.” Ammetti
guardando lontano, guardando ai tuoi ricordi; guardando quella pancia che
cresceva sempre di più, le mani di Ryo che la
accarezzavano e le sue braccia che ti cullavano. “Forse è stata follia, ma l’amore è anche questo. E quella piccola
creatura che cresceva in me l’ho amata dal primo istante, senza remora o dubbi.
Forse si potrebbe pensare che siamo stati degli egoisti, degli ipocriti, a
voler far nascere qualcuno in un mondo che ormai non aveva più speranze, che
sopravviveva nell’apatia per quei pochi attimi che lo separavano
dall’inevitabile fine, le cui genti si arroccavano nelle poche città non ancora
completamente crollate, stringendosi nell’attesa che arrivasse la morte a dar
loro la pace. Eppure… Eppure non mi sono mai pentita,
né ho mai rimpianto un solo singolo giorno nel quale ho potuto stringere a me
la mia bambina. Mai.”
“Una
bambina…”
E Mewberry riesce
a vederla, ora, quella figlia che in una certa misura è anche sua. Una rada
peluria bionda sulla testa e due occhioni castani grandi, splendenti e ridenti.
È identica a te, Ryo te l’ha sempre fatto notare con
un sorriso felice. Sì, felice. Perché siete stati felici, insieme, sempre.
Respiri a fondo e lasci che Mewberry sia testimone di quei momenti che sono stati la
motivazione, la chiavetta d’ignizione, che ha dato il via a tutto, che vi ha
fatti ripartire con un nuovo progetto e con una nuova volontà. Lasci che scorga
i sorrisi aperti, le risate vere; le permetti di assaporare la gioia, la
serenità e l’amore che via avevano riempiti. Incredibile come una sola bambina
abbia potuto cambiare radicalmente la vostra vita, trasformarla in qualcosa per
cui valeva la pena di tentare ancora, di nuovo.
“È una follia!”
Le parole di Ryo alterate, infastidite; la sua voce troppo alta, troppo
disillusa.
“Lo so. È una
follia.”
Le tue
arrendevoli alla realtà dei fatti, eppure così piene di volontà.
“Ichigo… Io non credo che…”
I sospiri di Keiichiro, dubbioso.
In tutti e tre
la paura di fallire nuovamente.
“Potrebbe essere
impossibile, me ne rendo conto. E anche ammesso che funzioni, che sia
fattibile, potrebbe in ogni caso essere inutile. Potremmo fallire per noi, è
vero. Ma potremmo riuscire per loro.”
“Ichigo… Il tempo non è lineare, lo sai.”
“Sì, Kei, lo so. Cambiare il passato potrebbe non cambiare il
presente, il futuro. Ma io…”
“Perché Ichigo? Perché?”
La domanda di Ryo, che tuttavia già conosceva la risposta. E no, non era
solo senso di colpa, il tuo. Non era solo desiderio di rimediare, di fare la
cosa giusta stavolta.
I vostri occhi
incatenati, legati indissolubilmente. Niente avrebbe potuto spezzare quel
legame. Mai.
“Perché voglio
che almeno lei possa crescere sotto un cielo sereno.”
Un desiderio per tua figlia, ecco c’è stato
a portarti qui. La volontà di dare a lei qualcosa di meglio, qualcosa che
avrebbe sentito suo.
“L’hai fatto… Per… Per lei…” Il sussurro di Mewberry
ti riporta nuovamente alla realtà, e ti obbliga a guardarla ancora una volta. E
sorridi apertamente, stavolta. I tuoi occhi brillano e la mano corre nuovamente
ad accarezzare quella pancia ora vuota, fredda.
“Sì, l’ho fatto per mia figlia, per Hope.” Per la prima volta pronunci il suo nome.
Quel nome che tu e Ryo avete scelto insieme; quel
nome straniero, americano, in onore della patria di lui; quel nome volto a
rappresentare con delle semplici lettere qualcosa di effimero, che pure quella
bimba era riuscita ad incarnare. “Il desiderio di una madre.”
E Mewberry, ora,
riesce a vederlo. Sei una madre. Le vedo nei tuoi occhi, nel tuo sorriso, nei
tuoi gesti. Scorge nelle tue iridi quell’amore incrollabile, indistruttibile,
così diverso da quello che ti ha legata a Ryo, ma
altrettanto coriaceo e infinito.
I tuoi occhi si spostano nuovamente.
“Abbiamo iniziato allora. Abbiamo passato
mesi a cercare un modo, a trovare una soluzione. Alla fine, ironicamente,
questa è arrivata ripartendo dal fulcro di tutto, dal progetto Mew originale.”
Ryo non era stato d’accordo, all’inizio. Keiichiro nemmeno. Certo, avevi ancora la voglia e i
poteri, ma era troppo rischioso. Avete passato ore e ore a litigare, a
discutere e anche ad urlare. Alla fine è stata la tua
volontà a spuntarla. “Non sapevo quanto sarebbe stato difficile, o doloroso.
Nessuno di noi sapeva quanto sarebbe stato deleterio. Non potevamo nemmeno
immaginarlo ancora.”
Riconvertire i tuoi poteri affinché
funzionassero in un’altra maniera. Era stata dura, ci avevate perso anni. E
molte volte il tuo fisico non reggeva, indebolito dalla vita che facevi. Keiichiro ti aveva chiesto più volte di fermarti, dopo che
collassavi, il corpo in preda a spasmi violenti, o dopo che ti trovavi a
vomitare anche sangue dallo sforzo. Non l’hai mai degnato di una risposta.
Ryo, invece, aveva ormai sventolato bandiera
bianca. Si limitava a restarti accanto, a stringerti, a tenerti i capelli
quanto rigettavi ogni cosa tranne la testardaggine. Aveva capito che non ti
saresti fermata davanti a niente, neanche se fossi andata in pezzi. Questa
volta non avresti vacillato.
Un flebile rumore ti riscuote. Mewberry ora piange senza singhiozzare, le braccia immobili
lungo i fianchi e le lacrime che scorrono già dalle guance, schiantandosi a
terra.
“Questa è…”
“Sì, questa è stata l’ultima notte. Io e Ryo l’abbiamo passata a fissare Hope finché non si è
addormentata.” E poi avete
fatto l’amore, ancora, finché non è sopraggiunta l’alba.
“Non andare.”
La supplica di Ryo, l’ultima, sussurrata talmente piano quasi avesse paura
di dirla.
Gli avevi
accarezzato il volto un po’ ispido di barba e lo avevi baciato piano.
“Devo.”
“Non posso
farcela da solo. Non posso perderti.”
“Non mi perderai
mai. Solo, stavolta, dovrai cercarmi negli occhi di nostra figlia. Sarò sempre
lì.”
“Hope ha bisogno
di te, di sua madre. Io non posso bastare.”
Ti eri
sollevata, il lenzuolo era scivolato via lasciando il tuo seno libero,
scoperto. Non provavi imbarazzo per questo.
“Sei un
brav’uomo, Ryo. Un padre ancora migliore. Mi hai
regalato una vita assurda, ma meravigliosa. E mi hai donato lei, una figlia da
stringere al petto. Ora lascia che sia io, a regalare voi, un po’ di gioia.”
Il tuo racconto finisce qui, con l’ultima
immagine che hai visto prima di scomparire: i suoi occhi.
Ti volti a guardare Mewberry,
inginocchiata a terra, tremante, angosciata.
“Ora sai tutto.” Lo dici senza un motivo apparente, forse
solo per rompere il silenzio che vi ha inglobate.
“Io… Io…” Non sa cosa dire, lei. E se lo sa non conosce le parole
giuste, o adatte. Non che ce ne siano, in realtà.
“Ora spetta a te, Mewberry.
Ora la scelta è tua.”
“Scelta? Non me ne hai lasciate, di
scelte.” Sbotta lei,
arrabbiata, alzandosi e fronteggiandoti. Almeno ha ritrovato un po’ di grinta.
“Invece sì.” Le dici con forza, fissandola dritta negli
occhi. La vedi trasalire. “Io ti ho solo mostrato le conseguenze di una
scelta, la mia. Non posso però sapere se, scegliendo altro, non possa esserci
qualcosa di peggiore. E non posso obbligarti a qualcosa per la quale odierai te
stessa e questo mondo per sempre. A ben vederla, effettivamente, qualunque sarà
la tua scelta, questa non sarà esente dal dolore. L’unica cosa che ti è data,
alla fine, è decidere se patire da sola o meno.”
Questa è la verità. L’hai saputo dacché hai
deciso di provarci. Non sei venuta qui per schioccare le dita e scrivere un
eterno e fiabesco “e vissero tutti felici e contenti”. Non è qualcosa
che esiste. Non è qualcosa di reale. Non è la vita.
Senti una fitta improvvisa al petto e la
tua mente inizia a farsi lontana, mentre tutto intorno a voi si sfalda.
“Cosa…”
“Tempo scaduto.” Le spieghi guardando le tue mani che
iniziano a scomparire. Stai svanendo, probabilmente per sempre.
“Ma tu…”
“Io non appartengo a questo mondo, Mewberry. Non appartengo a questo tempo. E non si può
giocare con le regole dell’universo in eterno, e senza aspettarsi delle
conseguenze. Questo non scende a patti con gli sciocchi desideri dei mortali.
Anche se stavolta, forse, un po’ di grazia è stata mostrata.”
“Cosa ti succederà?” Ti chiede lei gridando, provando a
sfiorarti ma fallendo. Sei quasi completamente incorporea ormai.
“Scomparirò.” Così come sapevi che sarebbe successo dal
primo momento.
“E tua figlia? Ryo?
Keiichiro…”
“Le hai visto prima, no?” Le rammenti con un sorriso sulle labbra,
spingendola a ripercorrere i tuoi ricordi. Lei pare capire. “Se almeno a lei
sarà concesso crescere sotto un cielo sereno, non avrò rimpianti.”
E scompari, lasciando solo il fantasma di
un sorriso sereno dietro di te.
Riaprire gli occhi non è mai stato così
faticoso, o doloroso.
L’aria s’incanala malamente nei polmoni, la
gola brucia e la testa pulsa fastidiosamente. La luce pare insopportabile per
le tue iridi, che faticano a restare aperte, così riabbassi le palpebre. E
piano piano inizi a sentire la realtà intorno a te, che non è altro che dolore
che ti permea ovunque, muscolo, osso legamento.
Con uno sforzo immane sollevi piano una
mano, e nel tuo campo visivo appare un accesso venoso e un tubino trasparente.
Una flebo? Sei forse in ospedale? La mano ricade sul letto con un leggero tonfo
e un sospiro spezzato ti esce dalle labbra. Fa male.
“Ichigo?” Una
voce sorpresa chiama il tuo nome, ma non hai la forza di voltare lo sguardo per
vedere chi è. Pure le orecchie ronzano. “Ichigo!”
E il viso di Ryo
entra nel tuo campo visivo. Ha la mascella contratta, i capelli spettinati e
gli occhi rossi, forse di stanchezza forse di lacrime versate senza farsi
vedere. Il suo volto sembra quasi indemoniato in questo momento.
“Co… Cos…” Non ce la fai a parlare, non
ancora. La gola è così secca che anche un semplice respiro gratta ed è
doloroso.
“Stai tranquilla. Fai piano. Ci vuole
tempo.” Ti dice Ryo con calma, accarezzandoti i
capelli con una dolcezza che non gli avresti mai associato. E tu decidi che ha
ragione, che questa volta non puoi avere fretta. Richiudi gli occhi e rimani in
silenzio, lasciando che il tempo scorra.
Forse sono minuti, forse ore, forse giorni,
ma quando finalmente riapri gli occhi questi finalmente on bruciano, e la mano
di Ryo è ancora lì, ad accarezzarti dolcemente.
Lo fissi negli occhi – cielo e terra
– e improvvisamente ogni cosa ritorna. La battaglia, l’altra te, i suoi
ricordi, e la tua scelta finale. Alla fine, hai fatto l’unica cosa che il tuo
cuore poteva fare.
Socchiudi gli occhi e cerchi di alzarti.
Immediatamente un braccio di Ryo passa sotto la tua
schiena ti stringe, aiutandoti. Appoggi una mano sul suo petto e le testa
nell’incavo tra la spalla e il collo, nascondendo il viso. E sono lacrime,
fiumi di lacrime. Per te, per lui, per Masaya; per
l’altra te, per l’altro mondo che non hai che conosciuto attraverso i ricordi
di una te stessa che forse non sarai mai, per l’altro Ryo
e l’altro Keiichiro; per tutte le famiglie che a loro
volta piangeranno; per Hope.
Ryo non comprende, non appieno. Si aspettava
una crisi di nervi, un crollo rumoroso e grida e anche qualche pugno forse. Ma
il tuo è un pianto silenzioso, decoroso, delicato come nient’altro. E allora
non gli resta che stringerti a lui, affondando il viso nei tuoi capelli e
rimanendo là, in silenzio, a cullarti nel calore di un abbraccio e senza
chiedere nulla.
Quando tutto si esaurisce è come se una
bolla scoppiasse, riportandovi alla realtà. Ti scosti da lui ma la sua presa
non si scioglie, e la tua nemmeno.
“Le altre?” Chiedi piano, perché malgrado
tutto la tua mente è ancora annebbiata e hai paura di esserti persa alcuni
pezzi.
“Sono salve. Un po’ malconce, ma salve.
Sono di sopra.” Abbozzi un sorriso sollevato e poi ti guardi intorno,
riconoscendo il laboratorio nascosto sotto al Caffè Mew
Mew. “Non ci pareva una buona idea portarti in
ospedale, e poi qui avevamo tutti i macchinari necessari.”
Annuisci piano e poi socchiudi gli occhi
per un momento, respirando a fondo.
“Ichigo. Come…” Ryo si blocca a metà della domanda, un po’ per paura di
fartela un po’ perché è davvero idiota. Ma tu scuoti piano la testa.
“Non sto bene.” Ammetti allora, perché
mentire non avrebbe senso. “Non so quando tornerò a stare bene, se mai mi sarà
concesso dopo quello che ho fatto. Ma… è stata una mia scelta. E il dolore sarà
il prezzo da pagare. Almeno stavolta lo porterò solo io questo peso.”
Non sai perché l’ultima frase ti sia
uscita, tantomeno davanti a Ryo che ora ti fissa con
sguardo perplesso.
“Cosa…”
“Un giorno, forse, ti racconterò una
storia. Ma non oggi.”
No, oggi ancora no. È troppo presto. Le
ferite sono ancora aperte, e bruciano. Oggi è un giorno di silenzi, di lacrime,
di ricordi e di qualche abbraccio. Non è il giorno delle parole e delle verità.
Ryo ti guarda ancora, stupefatto e anche un
tantino ansioso che questa sia tutta una maschera, che tu non abbia davvero
afferrato la situazione, e che crollerai in mille pezzi a breve. Eppure i tuoi occhi non mentono, e la quieta consapevolezza
che vi legge dentro gli fa capire che qualcosa è effettivamente
successo, e che ti ha cambiata.
Per questo si limita a stringere
maggiormente la tua vita, attento a non procurarti dolore, e ti lascia un lieve
bacio tra i capelli.
“Non so cosa sia stato, ma se avrai
bisogno, quando vorrai, potrò portare quel peso con te.”
Ti guardi allo specchio e fatichi a
riconoscerti. Eppure, ti vedi ogni giorno.
I capelli più lunghi, gli occhi più adulti,
i lineamenti più affilati; il seno più pieno, le gambe più lunghe. E quella
pancia, un tempo piatta, ora arrotondata.
Ti guardi e ti cerchi nei ricordi di
un’altra te. Simili, certo, ma non identiche. Le vite che avete vissuto vi hanno
mutate. E anche se siete la stessa persona, non lo siete davvero.
Due mani si poggiano improvvisamente sulla
tua pancia e un lieve bacio ti sfiora il collo, facendoti sorridere. Ti appoggi
completamente a quel petto ampio e forte e reclini la testa a cercare le sue
labbra. Ti bacia piano, lento, mentre le sue mani accarezzano quella nuova vita
che a breve vedrà la luce del sole.
“Come stai?” Ti chiede piano, quasi a non
voler spezzare il silenzio.
“Bene.”
“E lei?”
Sorridi appoggiando le mani sopra le sue,
intrecciandole. Due scintillii brillano timidamente alle dita.
“Bene: non fa che scalciare. È piena di
energia.”
“Questo l’ha preso da te.”
Ridi apertamente alla sua presa in giro e gli molli un leggero schiaffo sul braccio.
Poi i tuoi occhi stornano e tornano allo
specchio, che vi raffigura abbracciati. Sorridi piano.
“Cosa c’è?” Ti chiede lui perplesso,
curioso di sapere perché improvvisamente hai messo su quell’espressione. Fissi
i suoi occhi riflessi.
“La chiamiamo Hope?” Gli chiedi con
un sorriso strano, quasi lo stessi recuperando dalla memoria. Lui inarca un
sopracciglio.
“Non che non mi piaccia, ma perché Hope?
Sai cosa significa?”
“Speranza.”
Lui annuisce e ti guarda ancora. Ti giri
nel suo abbraccio e gli prendi una mano.
“Ti ricordi? Tanti anni fa ti ho detto che
un giorno ti avrei raccontato una storia.”
“Mi ricordo.”
“Facciamo che sia oggi quel giorno?”
Ti guarda e legge nei tuoi occhi una
serenità assoluta, insieme all’amore. E capisce che quel qualcosa che è
stato, quando ti sei svegliata dopo la battaglia finale, sta per esserti
rivelato. E sa anche che sarà qualcosa di grande, di assurdo e di folle. Forse
un miracolo.
Ti lascia un ultimo bacio sulle labbra e si
avvia verso il salotto, precedendoti. Lo segui quasi subito, dopo aver spostato
lo sguardo fuori dalla finestra, e ad un azzurro senza fine.
“Crescerà sotto
un cielo sereno…”
Bene, direi di iniziare questo 2021 con una
bella iniezione di depressione, giusto per portarci dietro qualche strascico
del 2020.
Questa storia credo di averla scritta
inizialmente una decina di anni fa, almeno nella mia testa e su vari fogli
sparpagliati. L’avevo buttata già sul PC 4/5 anni fa, più o meno, e mai più
toccata. L’ho ripresa in mano quasi per caso, in questi giorni di ferie in cui,
tra un tempo schifoso e la zona rossa, non è che ci sia proprio tantissimo da
fare (a parte annegare nei libri e nelle serie tv). A conti fatti è come se
l’avessi riscritta completamente, perché anche se la struttura di base e la
storia sotto mi piacevano, la tipologia di scrittura è decisamente cambiata in 10 anni. Sono rimaste solo alcune frasi che proprio non mi
andava di cambiare, un po’ perché ci stavano bene e un po’ perché mi ci ero
affezionata.
Detto questo, potete iniziare a lanciare
i pomodori e le uova vista l’enorme allegria di questa storia xD Niente di meglio per iniziare un nuovo anno! xD