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Autore: Always_Potter    14/01/2021    3 recensioni
Quando Ryuk lascia cadere il suo quaderno sulla Terra, l’unica speranza dell'umanità è il primo detective al mondo... e una squadra non troppo scelta di Auror.
°*°*°*°
«No, aspetta, fammi capire. Tu hai passato gli ultimi vent’anni a fingere di non esistere, c’è gente seriamente convinta che tu sia un vampiro, e ho visto Robards sull'orlo delle lacrime perché ti sei rifiutato di apparire davanti al Wizengamot per quattordici volte. Ora lanci minacce in diretta televisiva, prendi il tè delle cinque con sei Auror e vuoi presentarti al primo sospettato? Il prossimo passo qual è? Invitare Kira a prendere parte alle indagini e diventare amici del cuore?!»
«Beh, all’incirca… sì, quello sarebbe il piano a lungo termine. Acuta come sempre».
La strega, allibita, accarezzò l’idea di piantare qualcosa di molto acuto nel cranio del detective. Tipo un coltello da cucina.
O una katana.
Avrebbe fatto un sacco di scena.
°*°*°*°
Un detective dal genio imbattuto.
Una Auror dalle abilità eccezionali.
Una quantità sterminata di bugie.
Il Mondo Magico ha di nuovo bisogno di essere salvato.
Genere: Fantasy, Romantico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: L, Nuovo personaggio
Note: AU, Cross-over, Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 3

Non mi hai dato fastidio

17 dicembre 2003

Chieko Clarke passeggiava di fronte a un negozio di fiori, spiando tra le delicate decorazioni natalizie che incorniciavano la vetrina. Sorrise da dietro il bavero del cappotto, alzato contro l’aria gelida.

Il lungo soprabito color cannella cadeva fino alle caviglie, su un paio di stivaletti dall’aria comoda; si riavviò un ciuffo di capelli neri dietro un orecchio, sistemando appena il berretto calcato sulla fronte. Sembrava un peccato che un negozietto tanto grazioso si trovasse in una zona così periferica... giusto qualche numero civico più in là, un grande magazzino abbandonato sorvegliava un cortile di cemento vuoto e coperto di erbacce.

Chieko sembrò irrigidirsi d’improvviso, gli occhi fissi sulla vetrina; un attimo dopo, però,  entrò nel negozio: salutò a mezza voce l’anziana commessa che le sorrideva da dietro il bancone, perdendosi tra le meravigliose composizioni che affollavano l’ambiente, e scambiò qualche parola con lei.

Poi, con la coda dell’occhio, colse del movimento fuori dalla vetrina: si voltò a guardare le combriccole di adolescenti che sfilavano in strada, la fronte aggrottata sotto il berretto.

«Guarda te, tutti quei ragazzi in giro a bighellonare… e pensare che è periodo di esami!» disse meravigliata.

«Beh… è anche periodo di festa, avranno bisogno di qualche distrazione» le rispose benevola la negoziante; il sorriso raggrinzito, però, sembrava di qualcuno che ridesse di una battuta tutta sua.

La ragazza si congedò poco più tardi, allontanandosi dal quartiere a passo svelto, mentre calava la sera. Passava spesso da quel tratto, essendo la strada più breve per rientrare a casa ma… non poteva fare a meno di sentirsi osservata.

Fu allora che sentì dei passi alle sue spalle, nel silenzio assoluto di quella via, lontana dal traffico di automobili e pendolari di ritorno da qualche stazione.

Innervosita, sembrò cambiare espressione mentre svoltava in una stradina laterale, la mascella serrata e gli occhi stretti in due fessure. Quando sentì nuovamente qualcuno alle sue spalle, guardò gli appartamenti attorno a sé, sparuti ma illuminati da chi stava sicuramente preparando la cena. Fece l’unica cosa che poteva fare, e iniziò a correre.

Accelerò quando la figura dietro di lei la imitò, e si addentrò nel dedalo di intricate stradine di quel quartiere residenziale: prese a svoltare ogni due o tre incroci, imboccando vie totalmente a caso e cercando di non inciampare nelle sue stesse scarpe.

Nel farlo, però, si stava allontanando dalla zona abitata.

Fu allora che una voce maschile, in inglese, urlò: «Ehi, fermati!»

Come no.

La ragazza imboccò repentinamente un vicolo, ma la sua fortuna terminò: un palazzo le sbarrava la strada, e non v’era via di fuga. Scrutò la penombra, cercando un nascondiglio, poi decise di aderire al muro, appena dopo l’angolo.

Quando l’uomo la seguì, fece appena in tempo a scorgere due occhi gialli, prima di essere preso per il bavero del cappotto e sbattuto contro il muro.

«È meglio se ti identifichi, questa corsetta non mi ha divertita neanche un po’» sibilò la ragazza in inglese, la voce limpida condita da un evidente accento britannico.

Ora che l’effetto della Pozione Polisucco era terminato, dal berretto della giovane sbucavano ciuffi di capelli rossi, e il viso pallido era spruzzato di lentiggini. Mentre teneva la punta della bacchetta premuta al collo dello sconosciuto, Sophie aveva perso la sua solita espressione amichevole, in favore di un’ombra minacciosa.

 «Ehi, ehi! Senti, sono sicuro che siamo dalla stessa parte, te lo posso dimostrare!» le disse l’uomo, prendendo qualcosa dalla tasca. La strega rafforzò la presa sulla bacchetta, uno Schiantesimo già sulla punta della lingua, ma un attimo dopo le mise sotto il naso un distintivo.

«Sono un Auror del Magico Congresso degli Stati Uniti d’America. Tu sei quella inglese, no?» disse con una leggera nota di pomposità, malgrado il fiato mozzo.

Sophie fece una smorfia e mollò il collega, riponendo la bacchetta nella manica sinistra. «Metti via quella cosa, non dovresti mostrare in giro il tuo nome con tanta leggerezza» lo rimbottò, aprendo il cappotto per estrarne la spilla del Ministero: mentre una facciata mostrava lo stemma del Quartier Generale e il suo numero di matricola, il suo nome era inciso sull’altra, al sicuro da sguardi indiscreti.

L’Auror sembrò ignorare il suo tono irritato. «Però, Pozione Polisucco, eh? E che riflessi! Avevi paura che fossi un malintenzionato?» rise, sistemandosi il colletto e il bavero.

Sophie digrignò i denti.

Ma fa sul serio?

«No, l’ho vista sorvegliare la stessa scuola frequentata dai miei sospettati. Mi chiedevo solo perché avesse iniziato a seguire una collega» Con la discrezione di un elefante, aggiunse la strega fra sé e sé.

Nei giorni precedenti, non aveva potuto fare a meno di notare la figura che si aggirava attorno alla scuola di preparazione magica: proprio come in Inghilterra, non era raro che gli edifici magici fossero nascosti da fabbricati dall’aria macilenta, e questo rendeva ancora più sospetto chiunque si aggirasse in quelle zone.

Perciò, mentre Sophie si curava di utilizzare diversi aspetti e identità a seconda del caso, creando un’alternanza di persone plausibile e poco sospetta, le era saltato immediatamente all’occhio l’uomo dai tratti visibilmente occidentali e il lungo soprabito marrone. Non era particolarmente prudente, né utilizzava camuffamenti, e si era chiesta se stesse sottovalutando la situazione o se fosse proprio un inetto.

Si era decisa a ignorarlo, infine: dopotutto, lei e gli altri Auror erano lì per condurre indagini separate, non era affar suo come si comportava il collega.

Ciononostante, quando poco prima lo aveva studiato nel riflesso della vetrina, e lui aveva colto il suo sguardo, accigliandosi, aveva sibilato tra i denti. Quando poi l’aveva seguita aveva deciso, irritata, di attirarlo lontano dalla zona residenziale, onde evitare di incappare in qualche Babbano mentre sguainava la bacchetta.

«Beh, io invece non ne ero pienamente sicuro, però sapevo che qualcun altro doveva star sorvegliando la stessa scuola… comunque, puoi chiamarmi Penber» tentò l’Americano, sorridendo.

«Buona a sapersi».

Sophie sentì l’acidità nella sua stessa voce, e sbuffò: dopotutto, forse stava esagerando, forse l’uomo aveva un buon motivo per quella sceneggiata, no?

No?

«E poi, oltre ad accertarmi che non fossi nessuno di sospetto, volevo offrirti il mio aiuto! Sai, con tutto il rispetto, ma sei molto giovane…»

Chiaramente, no.

«Scusa?» sputò la ragazza, inviperita, e Penber alzò le mani, quel sorriso un po’ ebete ancora stampato in faccia.

«Senti, non la prendere sul personale, dico solo che hai poca esperienza e vorrei farti un favore e-»

«No, ok?!» sbottò Sophie, ormai vicina all’aggredire quel presupponente di americano che si trovava di fronte. Con che faccia tosta le si rivolgeva così?! Le pareva assurdo ritrovarsi in una situazione del genere, e ad appena due giorni dalle indagini! Come se non fosse già abbastanza impegnativo pedinare, intercettare e mappare minuziosamente le azioni di otto persone, ora doveva anche tenere a bada colleghi incompetenti?

«Torni a fare il suo lavoro e mi lasci fare altrettanto, senza ulteriori interazioni inutili che, tra parentesi, potrebbero attirare l’attenzione dei sospettati!» lo rimbeccò, petulante, sfoggiando un tono di cui Hermione sarebbe stata a dir poco fiera.

«Oh, suvvia, non credo proprio che Kira… insomma, capisco i sospetti di L, ma quei ragazzini…»

«Ah, se lo dice Mr. Seguo-Una-Sconosciuta-In-Vicoli-Bui»

Sophie fece per andarsene, impedendogli di replicare, ma dopo un paio di secondi tornò sui suoi passi. «Ah, e se le interessa tanto ho solo ventidue anni, e non ho nemmeno frequentato l’Accademia!».

Ciò detto, la strega si Smaterializzò, lasciando l’americano a guardare costernato il punto in cui era sparita.

 

Nei giorni seguenti, Sophie vide altre volte il collega, occupato a pedinare quello che doveva essere il figlio maggiore di un sovrintendente. L’Auror si rifiutava di incrociare il suo sguardo, se non per qualche sdegnata e indispettita occhiataccia quando capiva che, sotto l’ennesimo camuffamento, si nascondeva ancora lei.

Le era capitato davvero molto raramente che qualcuno le stesse così antipatico a pelle, e lei era quella che aveva stretto amicizia con un Draco Malfoy diciassettenne! Harry e Ron sostenevano che sarebbe stata capace di farsi amica persino Piton, se solo si fosse impegnata.

Quell’uomo però aveva toccato il suo lavoro, mettendola in dubbio e rischiando la copertura di entrambi, e il suo lavoro non glielo si doveva proprio toccare. Perciò la strega si riteneva pienamente soddisfatta del risentimento dell’americano: la sua priorità erano le indagini e, da quanto era successo, più quello spocchioso le stava lontano, meglio era.

 

***

 

22 dicembre 2003

Sophie dovette guardarsi attorno per qualche secondo prima di trovare L, sepolto com’era tra pericolanti pile di pergamene, faldoni, computer aperti e tazze vuote. Il detective sedeva sul divano, accanto all’unico posto a sedere rimasto.

«Posso?» la voce titubante di Sophie lo riscosse, interrompendolo a metà della terza fetta di torta in mezz’ora. Non che la stupisse, data la sua sconvolgente dieta: un mix di dolci, tè, caffè e tonnellate di zucchero e glucosio che sarebbe stato letale a qualsiasi normale essere umano.

Certo, non era del tutto da abbandonare l’ipotesi che L non fosse un normale essere umano. Sophie trattenne una risatina, mentre osservava quel mago dal volto esangue leggere tre metri di pergamena in circa venti secondi.

Il rotolo di carta giallastra si muoveva di vita propria, contorcendosi come un bizzarro serpente man mano che veniva letto, un’altra prova dell’abnorme uso che L facesse della magia. La signora Weasley lo avrebbe rimproverato alacremente. Inoltre, chiaramente avverso a toccare qualunque cosa non fosse a base di zucchero e farina, il ragazzo non sembrava disposto nemmeno a usare la bacchetta, adoperando Incantesimi Non Verbali [1]come se fosse la cosa più naturale del mondo.

La strega si sedette accanto a lui, versandosi all’istante una tazza di caffè ed accompagnandola con i deliziosi biscotti al burro di cui era ghiotta. Mangiò con avidità, gioendo del sentirsi scendere il caffè caldo fino allo stomaco dopo ore e ore di lavoro: durante quei pedinamenti, la strega si Disilludeva talmente tante volte da sentirsi scomparire. Un’eventualità, peraltro, nemmeno troppo inverosimile… Per buona misura, prese un altro biscotto, come a scongiurare che la sua pelle iniziasse a diventare trasparente.

Dopo essersi spolverata le dita dalle briciole, la rossa iniziò a fare rapporto a L, consapevole che l’avrebbe seguita perfettamente malgrado la sua attenzione fosse sulla pergamena.

I due avevano instaurato una piccola routine, quasi bizzarra in una situazione del genere. Una routine fatta di estenuanti ore di lavoro, scarpe sfilate con un grugnito, lunghe docce calde, e... chiacchierate: non importava a che ora tornasse, quando decidesse di farsi viva per mangiare qualcosa, o quanto fosse assonnata, ogni volta L era invariabilmente in salotto, sveglio e vigile. A volte lo trovava a esaminare dati nella poltrona che prediligeva, altre seduto a terra a mangiare la sua strada verso il diabete, altre ancora lo trovava intento a fissare il vuoto dalle alte finestre di vetro. Ogni volta, dopo avergli presentato un breve rapporto, in qualche modo scivolavano in conversazioni inaspettate, che spazzavano via ogni traccia di stanchezza dal volto della strega.

Sophie aveva ammesso a sé stessa che, malgrado l’innegabile intelligenza e fama del detective, era ben lontana dal provare per lui una qualsiasi forma di timore reverenziale; al contrario, la familiarità e la spontaneità con cui avevano dialogato al suo arrivo non avevano fatto che consolidarsi, mentre gli raccontava per filo e per segno le vicende del caso Corvo, o chiedeva al mago di qualche sua vecchia indagine.

Ancora più sorprendente, infatti, era il comportamento di L: malgrado la superficiale indifferenza e freddezza che sembravano permeare ogni suo gesto, la ragazza trovava impossibile non notare la soddisfazione con cui il detective descriveva con perizia anche i fatti più remoti, la sottile nota di superbia che condiva lo svelare qualche deduzione fondamentale, la leggera curva all’angolo della bocca quando raccontava gli atti finali di un’indagine.

Tra un racconto e l’altro, la pallida maschera di gesso del suo volto pareva incrinarsi.

La vita che raccontava, non era la vita di un apatico e annoiato borghese, ovvero tutto quello di cui parlava il suo rifinito accento inglese.

La vita che le raccontava era avventurosa, era ammirevole, era esattamente tutto quello che avrebbe voluto fare lei. Soprattutto, Sophie non doveva nascondere il folle amore per il suo lavoro, e anzi trovava nel detective la sua stessa, assoluta dedizione... Una dedizione che i suoi amici condividevano solo fino a un certo punto.

Forse avevano ragione, quando dicevano che lavorava troppo, che doveva dormire di più, che non poteva sempre andarsene via a metà dell’ennesimo appuntamento al buio, che esisteva qualcos’altro oltre alle infinite ore passate col distintivo in tasca. Probabilmente era vero, probabilmente portava avanti una vita instabile e tremendamente selettiva, ma mentre parlava con L non le sembrava affatto così.

Certo, qualcuno avrebbe avuto da obiettare al prendere il giovane, eccentrico detective come esempio… ciononostante, le conversazioni con lui le facevano dimenticare in fretta ogni riserva, affascinandola, e… facendole perdere le staffe.

Più di una volta, in effetti, qualche sferzante commento del detective aveva avviato battibecchi infiniti, in cui le guance lentigginose della ragazza si accendevano per l’indignazione. Ogni tanto, le era sembrato che L la sbirciasse con un sorrisetto divertito, il che non faceva che infiammarle ulteriormente il volto e l’umore. Anche lei, alla fine, si trovava a mal trattenere un sorriso.

Era Watari, quasi sempre, che compariva per liberare il tavolino da tazze vuote e piatti sporchi, in un muto suggerimento. Sophie, ridendo, guardava l’ora e si arrendeva al sonno, congedandosi da L con atteggiamento improvvisamente impacciato, come a ricordarsi che il ragazzo non fosse suo amico, un normale collega con cui condividere una birra a fine giornata. Era L, era il capo delle indagini, il suo capo.

Eppure, un piccolo, minuscolo, strano presentimento sembrava covarle dentro, nonostante tutto. Era come se la sua mente faticasse ancora a capire il perché stesse lavorando a diretto contatto con L, come se rifiutasse in tronco le spiegazioni (abbastanza circostanziali), che le erano state fornite al riguardo.

Qualcuno lo avrebbe chiamato istinto.

Lei lo chiamava Temo che me la stiano mettendo nel-.

Scacciò per l’ennesima volta quel tarlo dai suoi pensieri, terminando il rapporto.

L portò un pollice alla bocca e iniziò a mordicchiare l’unghia nel solito tic nervoso «Eppure non mi sembri convinta, Sophie» disse lentamente, la sua voce bassa che pareva avvolgersi sul suo nome.

Lei alzò lo sguardo, fissando il volto esangue del ragazzo.

Si strinse nelle spalle «No, sono solo… un po’ annoiata immagino, tutto qui.»

Il detective la osservò senza dire nulla, attendendo che proseguisse.

«D’accordo, insomma… il punto è che Kira sa di essere pedinato, no? O comunque, sa che sono in atto dei controlli su di lui… ciò che significa che accadrà qualcosa, in questi giorni, dovrà esporsi per forza» spiegò pensierosa, osservando la superficie della sua tazza di caffè. «Non lo so, immagino di dover solo portare pazienza»

Il mago non rispose, indicando invece la fetta di torta di Sophie, ancora intatta.

«Quella la mangi?»

Lei scosse il capo, sgranocchiando un altro biscotto mentre lo fissava di sottecchi.

«Non lavori mai sul campo, o sbaglio? Insomma, io penso impazzirei se dovessi solo dirigere le indagini da lontano… Immagino di essere un po’ irrequieta» ridacchiò la rossa, non del tutto certa di cosa diavolo stesse dicendo.

«Perciò non miri a scalare i ranghi del Ministero?»

Sophie ci pensò, spingendo meglio la schiena nella seduta del divano mentre poggiava i piedi sul bordo del tavolino, senza troppi problemi. Lei almeno li metteva, i calzini.

«Veramente… no, non mi attira molto il lavoro d’ufficio. Voglio dire, ovviamente è importante  pianificare e studiare il caso… però non credo che ambirò mai a organizzare le squadre, litigare con il dipartimento legale e tutte le altre noie che deve affrontare Robards» rifletté, lo sguardo perso nel soffitto. Poi, con un sogghigno, aggiunse: «No signore, quelle se le beccherà Harry».

«Non ho mai lavorato sul campo» ammise L, e lei voltò il capo senza staccarsi dal divano.

«Mai?!»

«Quasi mai. Ma niente esposizione, non l’ho mai ritenuta necessaria... o allettante»

«Ma come!» esclamò Sophie, sporgendosi verso di lui e gesticolando animatamente. «Niente inseguimenti? Niente duelli? Nessuna indagine sotto copertura o pedinamento in cui, per un solo, minuscolo attimo non ti hanno beccato? Niente “Ha il diritto di rimanere in silenzio” mentre finalmente metti le manette a qualcuno?»

«Gli Auror non usano le manette»

«Ryuzakiii!» sbottò esasperata la ragazza.

«Uhm… no, neanche uno». Lei lo guardò a bocca spalancata, il suo volto il ritratto di un cane bastonato, come se le avesse fatto un torto personale. L sembrò trattenere un sorriso, rapidamente dismesso in una tazza di caffè.

«Ok, ok, ma allora… qual è la parte migliore delle indagini? Voglio dire, quel momento di assoluta, infantile, spontanea soddisfazione? Perché lo devi avere, se ami così tanto questo lavoro» sancì Sophie, irremovibile. «Il mio sono le operazioni finali. Intendo, i pochi momenti prima della resa dei conti, quando corri, e hai l’adrenalina nel sangue, e devi concentrarti al massimo per prendere bene la mira o scattare nel momento giusto».

Il giovane la guardò aspettare la sua risposta e inarcare le sopracciglia, in un modo che sapeva più di pretesa che di speranza.

«… Lo scacco matto. Quando le prove sono incontrovertibili e ogni bugia, ogni finzione e nascondiglio si polverizzano di fronte alla verità»

«E il bastardo messo all’angolo perde ogni possibile aplomb e capisce di non avere più speranze, giusto?» L non rispose, ma stavolta il leggero sorrisetto disegnato sulle labbra sottili non lo stava immaginando.

«Sei un sadico» ridacchiò la giovane, dandogli una spintarella giocosa prima ancora di rendersene conto.

Entrambi si bloccarono a quel gesto, ogni traccia di ilarità rapidamente cancellata dai loro volti mentre si ritrovarono a fissarsi.

La strega, impallidita, aprì e chiuse la bocca un paio di volte, prima di farfugliare delle scuse confuse. Diamine, ma che le saltava in mente? L non era, Non. Era. Suo amico! E chiaramente odiava il contatto fisico, lo dava ampiamente a vedere! Ora che avrebbe fatto? Si sarebbe arrabbiato? O sarebbe scoppiato a piangere?

Dio, se ho traumatizzato il detective più importante del pianeta Robards mi ammazza.

Prima ancora che il ragazzo potesse avere la minima reazione, oltre a fissarla con vaga sorpresa, Watari entrò nella stanza. «Signorina Sophie, una lettera per lei»

«Grazie!» sbottò la rossa, scattando in piedi e allontanandosi a grandi passi dal divano. Prese la lettera che le porgeva Watari, ringraziandolo e guardando l’indirizzo: aveva il sigillo del ministero, ma il mittente era Harry.

«La civetta che l’ha consegnata è in camera sua a riposare, mentre Siler è ancora a caccia» la informò il maggiordomo. Sophie avrebbe riso per l’entusiasmo con cui Watari aveva accolto il suo gufo, ma in quel momento voleva solo sprofondare.

«Grazie…» disse con voce flebile e il mago, accennando un inchino, si congedò.

Lasciandola nuovamente da sola.

Con L.

Che non stava piangendo, ma che non aveva nemmeno spiccicato parola.

La strega vagliò le sue scarne opzioni e, in modo molto poco Gryffindor, optò per la ritirata.

«Beh, Ryuzaki, io allora… ehm…» farfugliò, sventolando la lettera a mo’ di spiegazione.

Lui annuì, concentrato su una nuova tazza di tè.

«B-bene, ‘notte».

Appena Sophie si fu chiusa la porta alle spalle, vi si accasciò contro, ignorando la civetta di Harry. Insomma, L non era traumatizzato. Che poi, perché avrebbe dovuto? D’accordo, forse non era abituato a essere toccato, non si erano nemmeno stretti la mano quando si erano conosciuti, però non aveva fatto niente di che, no? Forse Sophie avrebbe dovuto scusarsi. E smettere di essere così amichevole. Sì, decisamente, era tutto lì il problema: per un attimo si era dimenticata di non essere a casa, a lavorare con i suoi colleghi, con i suoi amici. Perché L non era suo amico, né lo sarebbe mai stato, era un suo superiore.

A quel pensiero, si ritrovò a corrucciare la fronte.

Sbatté la nuca contro il legno, chiedendosi cosa diavolo le prendesse.

 

***

 

23 dicembre 2003

«Le scuole sono chiuse».

Sophie sussultò, la mano ancora allungata vero la porta d’ingresso.

Beh, quello era imbarazzante.

Non solo era appena letteralmente sgattaiolata via dalla sua camera alle cinque del mattino, ma ovviamente L l’aveva anche colta sul fatto.

Maledicendosi, lo guardò da sopra una spalla. La suite era immersa nella tenue luce dell’alba, una penombra in bianco e nero in cui la figura di L pareva quasi spettrale. Era a pochi passi da lei, sulla soglia della cucina, le mani affondate nelle tasche dei jeans e gli occhi sempre più cerchiati di nero. In quel modo, con il volto inclinato da un lato e i capelli arruffati, le ricordò un gufo.

La ragazza provò a parlare, la voce irrimediabilmente roca dopo essersi alzata non più di mezz’ora prima. Non che avesse dormito, ovviamente. «C-come?»

«Le scuole sono chiuse, perciò nessuno dei tuoi sospettati si alzerà così presto» le spiegò con tono annoiato il detective, raddrizzando la testa per fissarla dritto negli occhi, in una muta domanda.

Sophie sospirò, voltandosi verso di lui e passandosi una mano fra i capelli scompigliati.

«Voglio fare un paio di sopralluoghi, alcuni dei ragazzi stanno organizzando delle uscite e voglio sapermi muovere con tranquillità» si inventò in fretta. Si congratulò con sé stessa per quella che, dopotutto, non era poi una brutta idea: se proprio doveva trascinarsi in giro per Tokyo in preda all’insonnia, tanto valeva sfruttare i suoi vagabondaggi.

L rimase in silenzio a fissarla per un tempo che parve non finire mai, quello sguardo freddo che le entrava sotto la pelle e la certezza che avrebbe chiamato il suo bluff a imporporarle le guance. Poi, contro ogni aspettativa, lui annuì, senza smuovere quella sua espressione indecifrabile.

Sophie capì che era decisamente il momento di andarsene, prima di fare altre figuracce.

… Però.

«M-mi dispiace. Per ieri sera. S-se ti ho dato fastidio» farfugliò in fretta la strega, aggiungendo ogni pezzetto di frase di senso compiuto che il suo cervello riuscisse a formulare, e pregando perché il detective le facesse la gentilezza di riempire da sé i punti mancanti.

Lui aggrottò la fronte, iniziando a sfregare tra loro i piedi nudi, un tic nervoso che la strega aveva notato più volte, di solito quando lui se ne stava in silenzio a riflettere su qualche nuovo dato. Quando rifletteva a voce alta, invece, o spiegava qualcosa col suo accento perfettamente standard e ciononostante perfettamente prestigioso (dove lei non riusciva a nascondere la tendenza Cockney), tendeva a passarsi un pollice sulla bocca sottile. Un gesto che attirava sempre il suo sguardo, senza il minimo motivo.

Sophie si trattenne dal tirarsi i capelli da sola, riscuotendosi da quella spirale di pensieri decisamente molto vicini alla linea dell’inappropriato. In alternativa, si decise a dare le spalle al detective e a spalancare la porta d’ingresso, accogliendo con gratitudine l’aria fresca del corridoio.

«Non mi hai dato fastidio» il basso mormorio di L la bloccò sul posto, con un piede fuori dall’uscio. Rimase immobile per qualche secondo, poi fece di sì col capo, senza voltarsi, e si richiuse la porta alle spalle.

Suo malgrado, e soprattutto malgrado l’orario indecente, l’aria gelida delle vie di Tokyo e la pallida luce di un’alba nuvolosa, Sophie non riusciva più a smettere di sorridere.

 

LUMOS

Chiedo venia per il ritardo indecente, è stato un inizio anno alquanto… turbolento, let’s say, e ho iniziato la sessione l’altro ieri perciò mi sto già esaurendo, MA COMUNQUE.

Ho corretto moooolto alla svelta, spero di non aver lasciato troppi errori.

Buon anno in ritardo, un abbraccione mega galattico :3

Ah, e grazie mille, davvero.

NOX



[1] Incantesimi effettuati senza pronunciare la formula a voce alta, cosa generalmente più complessa. La magia senza bacchetta non è particolarmente trattata in HP, quindi mi faccio un po’ i miei viaggi 😉

  
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