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Autore: A_Typing_Heart    16/01/2021    0 recensioni
«Sto cercando un libro sui vampiri... qualcosa che parli di loro, della loro psicologia... qualcosa che non sia solo letteratura.» disse con una certa delusione interiore: nella sua testa suonava molto meno ridicolo. «Esiste qualcosa del genere?»
«Ovviamente esiste.» rispose lui, con uno sguardo che sembrava brillare di eccitazione. «Posso chiederti come mai ti interessa un argomento così singolare o è una domanda troppo intima per il primo incontro?»
«Mi interessano perché non ne so niente e ne devo prendere uno.»
Qualsiasi altra persona a quella frase avrebbe riso o l'avrebbe preso per matto, ma non quell'uomo, che sorrise se possibile ancora di più.
«Stai cercando quell'assassino, il Vampiro di West End.»
Genere: Drammatico, Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Crowley Eusford, Ferid Bathory, Krul Tepes, Mikaela Hyakuya, Yūichirō Hyakuya
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'La spada di Dio'
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Due segni furono “mandati dal cielo” ai due uomini per intimare loro di rispettare i termini del patto stipulato da Crowley.

Nel pomeriggio del primo novembre – quando avevano deciso di cedere ed erano a buon punto della via per la perdizione – un fraintendimento riguardo la posta scatenò un feroce litigio tra gli Hyakuya Boys, tanto feroce da sentirsi in metà del palazzo: Mikaela si era ingelosito tanto da smettere di ragionare quando aveva trovato una lettera che sembrava scritta da un’amante di Yuu e Crowley si sentì in dovere di intervenire per evitare che tutto degenerasse e qualcuno dei piani inferiori chiamasse un altro poliziotto.

Certo la lettera della misteriosa ragazza conteneva dettagli curiosi, parlando della recente promozione e lasciando intendere che il giovane la incontrasse quando le installazioni lo portavano a tiro di casa sua, ma alla fine un paio di telefonate strategiche svelarono il mistero: un collega di Yuu era l’amante della ragazza, che non conoscendone il vero nome era andata dritta in azienda – presumibilmente accampando una scusa – a domandare l’indirizzo del loro operatore. Per un errore di compilazione dei turni le avevano dato quello di Yuu. Il collega dalla doppia vita passò un’ora al telefono a spiegarsi e a scusarsi con Yuu e Mikaela per i problemi che erano derivati dai suoi sotterfugi, ma nessuno si scusò per aver stroncato le speranze di Ferid e di Crowley.

Il secondo segno fu mandato il giorno dopo, subito dopo la cena. Al numero ventiquattro i due coinquilini erano determinati a portare a termine finalmente il loro programma, ma Crowley riuscì a malapena ad aprire la camicia di Ferid che un suono prolungato lacerò l’atmosfera silenziosa della palazzina: era l’allarme antincendio. Inizialmente pensarono – sperarono – che fosse soltanto un contatto, ma la sirena non smetteva di suonare e furono costretti a evacuare il palazzo con tutti gli altri inquilini.

Intervennero i vigili del fuoco per spegnere un incendio tutto sommato contenuto nell’appartamento numero otto, causato da un bambino che giocando al cowboy aveva acceso un fuoco per il suo “bivacco” con la tenda del soggiorno. La serata scivolò via tra controlli medici e sopralluoghi dei piani soprastanti, e fu allora che Ferid cedette alla scaramanzia e insieme decisero di attendere il sette novembre prima che qualcuno ci rimettesse le penne.

 

La sera del sei novembre Ferid aspettava il ritorno di Crowley dal suo turno di lavoro. Anche se canticchiava come faceva spesso mentre puliva o cucinava, era teso: con i precedenti che si erano avvicendati aveva paura che non sarebbe rientrato per chissà quale emergenza, quindi quando sentì il rumore dell’ascensore si rilassò. Sapeva che i ragazzi Hyakuya erano in casa e che di norma usavano le scale, perciò diede per scontato – forse ingenuamente – che fosse proprio il suo uomo di ritorno.

La serratura scattò e Crowley rientrò in casa con l’espressione tesa, che si rilassò quando vide Ferid in cucina nel mezzo dei preparativi per la loro “cenetta romantica in casa”. Questi capì subito che, come lui, anche Crowley si aspettava o temeva che succedesse qualche altra catastrofe.

«Ciao.» gli disse chiudendo la porta. «Tutto okay?»

«Sì, tutto okay… com’è andata al lavoro?»

«Piuttosto bene… siamo sempre a piedi col caso del Vampiro, ma almeno abbiamo chiuso il caso dell’omicidio ai docks e il procuratore ha aperto il fascicolo contro il nostro indiziato per l’assassinio della coppia ad Hanway Park, quindi…»

Crowley si bloccò e fece una risata imbarazzata.

«Perdonami, i dettagli del mio lavoro non sono molto adatti a una cena romantica… parleremo d’altro, lo prometto!»

«Oh, lo sai che non mi turba… ho uno stomaco forte per queste cose, no? Puoi parlare di tutto quello che vuoi.»

«E tu risponderai?»

«Vuoi farmi domande?»

«Sì.»

«Allora risponderò.» garantì Ferid, e posò la mano sul petto in una simulazione di giuramento. «Sarà un interrogatorio o un’amichevole conversazione?»

«Un amichevole interrogatorio.» replicò Crowley, ma sorrise e posò sulla tovaglia rossa un sacchetto. «Voglio sapere più cose di te… di quando eri più piccolo, dei lavori che hai fatto prima di diventare un libraio… voglio la tua storia ancora non detta.»

Ferid si appoggiò al bordo del ripiano della cucina e si tirò i capelli indietro oltre la spalla. Li aveva lasciati sciolti in previsione di quella serata.

«Ti interessa così tanto il mio passato? Gli eventi salienti ormai li conosci.»

«No, conosco i tuoi traumi e le tue perdite… voglio sapere qualcosa di bello. I tuoi momenti felici.»

«Sarà una conversazione breve, allora.»

Crowley sbuffò e scosse la testa.

«Sai cosa? La gente si dimentica le cose belle in mezzo a tanto schifo, ma ti farà bene riesumarle.»

Ferid preferì non insistere nella sua convinzione di aver ben poco da dire, per non rovinare il suo umore. Solo quando Crowley andò al lavabo per lavarsi le mani dedicò attenzione alla busta di carta e il logo stampato sopra lo fece addirittura arrossire.

«Crowley!»

«Uh? Che c’è?»

«Sei andato da Albador!»

«Oh, sì, eccome.» confermò lui con un tono inequivocabilmente malizioso.

«Perché?!»

«Non hai detto che vai matto per il loro burrito con chili, riso e guacamole? Te l’ho comprato, insieme a qualche altra cosa.»

«Stai… cosa… perché? Lo sapevi che volevo preparare le bistecche per la nostra cena romantica! Cosa sei, un ragazzino, che la tua idea di appuntamento è mangiare al fast food?»

Crowley era molto divertito dal suo disappunto.

«Posso rispondere onestamente?»

«Direi che sei obbligato a farlo!»

«Non so immaginare niente di più afrodisiaco di te che mangi una schifezza da fast food.» fece lui, lasciandolo del tutto basito. «Dopo averti visto finora mangiare come uno scricciolo verdurine e altra robetta da salutisti io desidero da morire vederti mangiare di gusto… quindi ti ho portato la migliore esca.»

«Ma insomma, Crowley… è imbarazzante, che cos’hai in quella testa rossa?»

«Fammi capire.» l’interruppe lui alzando un sopracciglio. «Non ti vergogni se entro a fare pipì mentre fai il bagno, non è imbarazzante dormire senza vestiti addosso nel mio stesso letto, ti sei lasciato vedere in camice ospedaliero, ricoperto di fango, sporco di grasso di motore, ma è imbarazzante se ti vedo mangiare un cibo che adori?»

Ferid si accigliò e lo fissò come un bambino costretto a salire in macchina per andare a far visita alla nonna strega. Crowley allungò la mano dandogli un buffetto sulla guancia con un sorriso incoraggiante.

«Non fare quella faccia, dai! Sai, anni fa uscivo con un ragazzo, Werner… faceva l’idraulico ed è la persona più rozza che abbia mai incontrato. Se non fosse che grufolava di proposito per farmi ridere, avrebbe fatto quasi schifo guardarlo mangiare! Non ti preoccupare, non mi sembrerai meno affascinante se mangi con le mani o ti sporchi la faccia con la salsa. Non credere che io farò diversamente.»

Visto che ancora non pareva convinto Crowley scrollò le spalle e iniziò a togliere le pietanze dalla busta di carta.

«Te l’ho già detto, no? Qualsiasi tipo di uomo, purché sia vero. Se sei così va benissimo. Non ti formalizzare con me.»

Ferid rilassò le spalle, ma era ancora preso da qualche dubbio. Non lo stesso di prima, però.

«Crowley, senti… ogni tanto accenni ai tuoi ex, ma quanti sono esattamente? Non citi mai lo stesso nome…»

«Ah… uhm…»

Crowley si passò il pollice e l’indice sulla mascella, assorto a pensare. Più a lungo durava il suo silenzio perplesso più Ferid si indispettiva.

«Troppi per poterli contare?»

«Ah, no, no… ma non è che faccio le tacche sulla cintura, non li ho mai contati… sto cercando di ricordarli in ordine cronologico.»

Crowley rimase un buon minuto a mormorare e riordinare i pensieri. Ferid fece finta di badare poco alla risposta sistemando il tavolo per il nuovo menu, togliendo i coltelli da bistecca e la bottiglia di vino. Forse, si augurava, l’avrebbero stappata dopo, nell’attesa della mezzanotte.

«I miei ex maschi sono undici.» annunciò Crowley alla fine. «Le donne, incluse le scappatelle, sono nove… a questo devo aggiungere che non sono sicuro di cosa ho combinato anni fa a Boca Agua, non mi ricordo quasi niente.»

«In che senso, non ti ricordi?»

«Beh, sai com’è… Boca Agua è… come Daytona Beach, ma in Messico. Ci vanno comitive di ragazzi prima del college oppure dopo, per fare un po’ di baldoria prima di rimettersi a fare le cose serie…»

«Sei stato in un posto del genere? Senza che i tuoi ti sbattessero fuori casa?»

«Beh, loro non lo sanno, all’epoca gli dissi che andavo in Messico a migliorare il mio spagnolo con un corso intensivo… non una menzogna, dopotutto.»

Crowley sedette al tavolo e guardò divertito l’espressione indispettita solo parzialmente celata di Ferid.

«Sono troppi per i tuoi gusti?»

«Trattandosi di te anche solo uno mi sembra uno di troppo.»

«Cavolo, davvero? Sono onorato, finalmente sei geloso di me quanto lo eri del tuo capo!»

Crowley prese un nacho e cercò tra i vasetti di salse quella piccante. Fu allora che gli ex di lui uscirono dalla mente di Ferid, che lo fermò toccandogli il polso.

«Aspetta, aspetta! Prova questa!»

Crowley lo guardò con stupore e sospetto quando lo vide porgergli uno dei piccoli vasetti che teneva capovolti su uno strofinaccio sul ripiano.

«Da quando prepari delle conserve, Ferid?»

Era ben vivido nella sua mente il ricordo di miriadi di vasetti capovolti sul mobiletto della veranda di nonna Susan, quando preparava le conserve con le verdure o le confetture di frutta, quindi sapeva bene che Ferid doveva aver preparato qualcosa del genere e aveva capovolto i vasetti bollenti per mandarli sottovuoto.

«In realtà è solo la terza volta che lo faccio, ma è la prima volta che provo questa! Dimmi come ti sembra, è bella piccante.»

Crowley annusò la crema arancione vivido e senza tante cerimonie ci ficcò dentro il nacho prima di mangiarlo. Dopo appena un attimo in cui percepì il gusto del peperone esplose la bomba del peperoncino, abbastanza potente da spingerlo ad affrettarsi a prenderne un altro con abbondante salsa di formaggio.

«Wah… Ferid, è pazzesco, ma con che cosa l’hai fatto? Fuoco d’inferno?»

«È troppo forte? Dovrò metterne di meno…»

«Stai cercando un lavoro alternativo da fare da casa o che cosa?»

«L’ho preparato con i peperoncini che coltivano i bambini alla Saint Thomas.» spiegò lui, e ne mise un po’ su un nacho. «Gilbert mi ha chiesto se volevo contribuire alla vendita di beneficenza che fanno prima di Natale, e quindi stavo pensando come potevo essere utile. Non è che io sappia fare molte cose, soprattutto non so fare dolci.»

La reazione di Ferid all’assaggio non fu molto migliore di quella di Crowley.

«Ahh… sì, è un po’ troppo…»

«Forse, però è buono… penso che potrebbe vendere, in fondo non siamo lontani dal quartiere spagnolo, e siamo abbastanza abituati a un certo scambio. Io vado sempre da loro a comprare il tortino salato al chorizo, quindi potrebbero apprezzare una crema così piccante…»

«Posso sempre fare la prossima con la metà del peperoncino, per fare qualcosa che possa piacere a più persone… pensi che vada bene come contributo?»

«Scherzi? Gilbert sarà entusiasta, penso sia stufo di mangiarsi tutti quei peperoncini da solo.»

Racconti e aneddoti sulle vendite di Natale degli anni precedenti accompagnarono gran parte della loro atipica cena messicana, e furono tanto coinvolgenti che Ferid si dimenticò di imbarazzarsi mentre faceva fuori ben due dei suoi burrito preferiti. Anche se non avevano gustato le bistecche fecero comunque posto alla porzione di pannacotta ai frutti rossi che Ferid aveva preparato seguendo “passo passo la ricetta insuperabile di Mikaela”: Crowley sapeva che non poteva essere fatta di vero latte o panna, ma il gusto era tanto corposo che non l’avrebbe mai sospettato se non avesse saputo della spaventosa intolleranza di Ferid al lattosio.

Cenando, chiacchierando e poi sparecchiando il poco che avevano sporcato si fecero le nove, ma la mezzanotte era ancora lontana e fu l’esatto pensiero che ebbero quando guardarono l’orologio appeso al muro. Si accorsero di averlo guardato nello stesso momento e si trovarono a ridere.

«È come essere bambini che aspettano la mezzanotte per aprire i regali di Natale…»

«Mh? Aprivi i regali la sera di Natale, Ferid?»

«Beh, io vivevo di notte, no? I miei tempi erano diversi da quelli degli altri bambini.»

«Io li ho sempre aperti al mattino, ma si faceva sempre una grande cena a casa dei miei nonni… io, Nathaniel e Charity potevamo giocare senza orari per andare a letto e alla mezzanotte potevamo aprire una scatola che preparava nonna Susan.»

Crowley ne indicò l’approssimativa grandezza con le mani.

«Ci metteva dei panini dolci, un barattolino di marmellata, del cioccolato, delle caramelle che faceva lei, dei biscotti o altre cose del genere… dolcetti di marzapane, pandizenzero, o i suoi tortini di formaggio… ogni anno era un po’ diverso il contenuto, ma quando lo aprivamo potevamo mangiare una di quelle cose, prendevamo un bicchiere di latte, e dopo andavamo a letto…»

Ferid lo ascoltò sorridendo, cercando di immaginare quanto poteva essere piacevole passare il Natale con la famiglia e avere fratelli o cugini con cui giocare e condividere dolcetti. Gli riusciva difficile, non avendo mai avuto nessuno quando era piccolo.

«Sembra che tu abbia avuto un’infanzia molto felice.»

«Oh, sì… mi mancavano mamma e papà, ma sono stato felice in West Virginia con i nonni e gli zii.»

Ferid tese un sorriso molto poco convincente.

«Che invidia mi fai! Però sono contento che la tua vita non assomigli affatto alla mia, l’augurerei davvero a poche persone.»

Crowley lo guardò con l’aria colpevole di chi pensa d’aver detto troppo e gli si avvicinò abbastanza da passargli le dita fra le ciocche di capelli sciolti.

«Mi dispiace, Ferid… non ti volevo rattristare…»

«Non essere sciocco, non potresti mai~ la tua aria da cagnolone bastonato mi mette allegria~»

«Fra poco è il compleanno di nonna Susan, e la volevo chiamare al telefono per farle gli auguri.» disse con inquietante serietà. «Posso… uhm… Ferid, posso parlarle di te? Posso dirle che verrai con me quando andrò a trovarli la prossima volta?»

Poteva sembrare una questione di poco conto, ma la serietà di Crowley era un indicatore del fatto che non avrebbe accennato vagamente a “questo amico” o a “quel mio coinquilino” che preparava un porridge simile a quello della nonna: aveva tutte le intenzioni di anticipare alla sua famiglia una storia importante. Più importante delle altre, quantomeno.

Ferid esitò un momento e deglutì prima di parlare.

«Vuoi dire… aspetta, che cosa vuoi dire con questo?»

«Esattamente quello che pensi.» replicò lui, e si appoggiò al ripiano come se improvvisamente fosse esausto per lo sforzo di prendere quella decisione. «Voglio fare coming out con la mia famiglia in West Virginia, e voglio presentarti come il mio compagno. Posso fare questa seconda cosa?»

Per come gliela stava presentando pareva che Crowley avesse deciso di dire ai suoi parenti delle sue inclinazioni sessuali poco cattoliche quale che fosse la risposta che avrebbe ricevuto da Ferid. In ogni caso, annuì.

«Grazie.» gli disse, con un gran sorriso.

«Ma ne sei sicuro, Crowley?»

«Possibile che tu mi faccia ancora questa domanda? Ho intenzioni serie con te, lo sai…»

«Sì, no, uhm…» balbettò Ferid, scuotendo la testa confuso. «No, intendevo… sicuro di volerglielo dire?»

«Che senso avrebbe nasconderglielo? Se siamo davvero legati come penso, non ne faranno un dramma… se mi sbaglio… beh, poco importa. Avremo poche spese per le prossime festività, visto che saremo solo noi due.»

Nonostante scrollasse le spalle e usasse un tono leggero come parlasse di buoni sconto possibilmente scaduti Ferid si accorse di quanto lo turbava quella possibilità. Purtroppo non c’era alcuna soluzione, perché tutto dipendeva da quanto i suoi parenti lo amassero e quanto peso dessero a un libro vecchio di duemila anni.

Allungò le mani sulla sua schiena strofinandola come se volesse riscaldarlo. In un certo senso era così.

«Andrà bene, vedrai, Crowley.» gli disse piano vicino all’orecchio. «Li hai sentiti al telefono… sai quanta stima hanno dell’uomo che sei… gli manchi molto e i tuoi nipotini sono impazienti di vederti per la prima volta di persona. Non so se saranno felici di conoscere me, ma di sicuro non vedono l’ora che tu torni.»

Con sorpresa di Ferid, Crowley non replicò sulla questione.

«Che ne dici se apriamo il vino e guardiamo un film?»

Se Crowley svicola in questo modo, deve fargli davvero paura la reazione dei suoi parenti… e io non posso fare niente per spostare l’ago della bilancia dalla sua parte. Dipenderà tutto da loro…

Ferid fece del suo meglio per sorridere e accantonò la questione coming out: ne avrebbero parlato di nuovo quando fosse stato il momento di quella telefonata alla nonna con l’amore per il colore verde.

«Scelgo io?»

«Scegli tu, ma niente L’alba degli eroi

«Oh, sarebbe molto appropriato, però.»

«Ah, ti prego, Ferid.»

«Ma tu lo hai mai guardato, Crowley?» gli domandò con un pizzico di malizia. «Intendo quel dvd. Il film che inizia dopo un po’.»

«No, perché avrei dovuto? Non mi interessa il porno, non lo trovo divertente.»

«O è perché ti imbarazza ancora?»

Crowley sospirò e si grattò la punta del naso: un gesto che faceva sempre quando era in imbarazzo. Ferid seppe di aver visto giusto, ma non infierì ulteriormente: preferiva tenere questa inaspettata carta da parte per una prossima occasione, se le cose fossero andate come speravano.

«Dov’è la bottiglia di vino?»

«Uh… nel frigo?»

«No, ho preso un vino rosso… l’avevo appoggiato qui, mi pareva…»

Una rapida occhiata rivelò la bottiglia dietro la busta con le confezioni vuote e i tovaglioli accartocciati della loro cena. Lo scricchiolio che fece quando la spostò attirò immediatamente Pandora, che adorava giocare con oggetti rumorosi come palline di carta, cartoncini o buste della spazzatura. La gatta saltò sul mobile della cucina e tentò di appropriarsi di un incarto appallottolato.

«No, Dora, giù!»

Crowley afferrò la gatta per impedirle di rubare la spazzatura e ne guadagnò un bel graffione sul dito. La bestiola si divincolò con tanta violenza che riuscì a tenerla a malapena per le zampette posteriori e lei si aggrappò alla bottiglia di vino, l’appiglio più vicino.

Nessuno dei due riuscì a impedire che la bottiglia finisse lanciata giù da ripiano ed entrambi chiusero gli occhi quando si frantumò sul pavimento, come se fosse scoppiata una bomba. Pandora fuggì verso la camera da letto e i due restarono a guardare la macchia rossa e i vetri verdi con un profondo senso di desolazione.

«Accidenti.» fece Ferid, con un tono da bambino deluso. «Ne avevo presa soltanto una…»

«Mi dispiace… non pensavo che… non me l’aspettavo…»

«Non è colpa tua, avevo dimenticato che Dora sale sempre sul tavolo per prendersi i fogli accartocciati o le confezioni di plastica dal bidone…»

«Mica è colpa tua se il tuo gatto è un demonio! No, pulisco io.»

Crowley si chinò più velocemente di lui e prese a raccogliere i pezzi più grossi della bottiglia. Ferid marciò verso la porta e prese il cappotto.

«Ehi, dove vai?»

«Vado a comprarne un’altra.»

«Stai scherzando?! Dove vuoi andare a quest’ora?»

«L’ho comprata al negozio di liquori in fondo alla strada, anche a piedi ci metto pochi minuti e torno!»

«No, ci vado io, tu non esci!»

«Ma cosa vuoi che mi succeda in trecento metri di strada sotto i lampioni alle nove di sera?» fece seccato Ferid, legandosi frettolosamente i capelli. «Vado e torno, non parlo con nessuno e marcio come se ci fossero le SS per strada, promesso.»

«Possiamo andare insieme…»

«Tu pulisci qui, vedrai che torno prima che tu abbia finito!»

Senza attendere la risposta Ferid aprì la porta. Mikaela, che era di ritorno con una mastella di panni profumati dalla lavanderia del palazzo, stava per entrare nel suo appartamento e fece per salutarlo quando la voce di Crowley dalla cucina lo zittì.

«Ferid, dico sul serio…»

«Piantala, Crowley, per la miseria!»

Chiuse la porta bruscamente alle proprie spalle e lasciò uscire un gran sospiro mentre spalancava la gabbia dell’ascensore.

«Ferid… dove stai andando?»

«Qui all’angolo.»

Mikaela mandò un’occhiata rapida da lui alla porta del numero ventiquattro, sotto gli occhi perplessi di Yuu che era fermo sulla soglia. Ferid fece loro un cenno di saluto con la mano mentre l’elevatore iniziava la sua discesa e li perse di vista una volta arrivato al piano inferiore.

Appoggiò la schiena contro la parete trasparente e vi puntellò contro il tallone, controllando distrattamente il risvolto dello stivale. Cominciava ad avvertire il nervosismo e non sapeva spiegarsene il motivo: non era certo la prima volta che aveva un rapporto sessuale con un uomo e nemmeno la prima volta che lo pianificava in anticipo.

Forse è perché sento che lui è diverso dagli altri… per me lui non ha lo stesso valore di quelli arrivati prima. Anche a metterli tutti insieme non ne farebbero la metà… e forse è per questo che sono così nervoso. Potremmo anche non avere assolutamente nessuna intesa… potrebbe anche andare a rotoli, per quanto ne sappiamo.

Ponderò la questione per tutta la discesa e quando uscì dal palazzo era ancora assorto.

Sarebbe davvero terribile se dopo aver aspettato tanto non fossimo compatibili… già, che fregatura sarebbe.

Ferid alzò gli occhi sulla palazzina e subito dopo sorrise, con i dubbi che sparivano come scritte sulla sabbia spazzate dal vento forte. Crowley lo stava guardando dalla finestra del soggiorno, appoggiato al davanzale. Non riusciva a distinguere il suo viso da quella distanza, ma quel suo gesto – cercarlo con gli occhi lungo la strada – gli diceva che a prescindere da qualsiasi cosa potesse accadere Crowley non avrebbe mai smesso di preoccuparsi di lui e di volerlo, in qualsiasi ruolo, nella sua vita.

Quando alzò la mano sopra la testa Crowley sventolò la sua in risposta ed ebbe conferma che lo stava davvero guardando. Riprese la strada camminando più in fretta: prima arrivava al negozio prima poteva rientrare.

Fortunatamente non incontrò ostacoli e anche il negozio era vuoto quando ci arrivò: per buona misura comprò due bottiglie di vino uguali a quella che era andata in pezzi. Nella migliore delle ipotesi, cioè che non ne rompessero altre, avrebbero potuto aprire la seconda in una futura occasione. Dopo aver salutato il padrone del negozio prese la busta di carta e tornò sul marciapiede, dove qualcuno lo aspettava.

I due Hyakuya erano in piedi fuori dalla porta a vetri. Yuu, con il cappuccio calato sulla fronte e l’aria agguerrita, dava l’idea di uno che fosse pronto a rapinare il negozio o il primo cliente appetibile che ne fosse uscito.

«Che cosa fate qui, voi due? Se state per rapinare il negozio io non vi ho visto, quindi tornerei a casa…»

«Hai litigato di nuovo con Crowley.»

Ferid fissò Mikaela attonito, poi fece una smorfia incredula.

«Prego?»

«Ti abbiamo sentito uscire sbattendo la porta, e stavi dicendo a Crowley di piantarla…»

«Allora, ragazzini, partiamo dal principio.» l’interruppe Ferid, cercando con poco successo di moderare il tono irritato mentre alzava l’indice. «Uno: dovete piantarla di impicciarvi sempre di tutti i fatti nostri. Essere i vicini e condividere il pianerottolo non vi autorizza a stare a sentire ogni parola e mettervi a fare congetture su cosa stiamo facendo, dove, come e perché.»

Mikaela e Yuu si scambiarono un’occhiata fugace e quest’ultimo fu il primo a mostrare un vago senso di colpa. Ferid alzò il dito medio senza aspettare che si riprendessero dal primo attacco.

«E due: non dovete mettervi in testa cose che non sono vere per due o tre parole che sentite. Ricordatevelo se volete diventare dei detective e non due idioti in uniforme. Io e Crowley non abbiamo litigato.»

«Ma gli hai detto di piantarla.»

«Abbiamo fatto cadere la bottiglia di vino e io volevo uscire a ricomprarlo.» spiegò lui con un po’ più di pazienza. «Lui, paranoico com’è diventato, non voleva che ci andassi io. Ecco svelato il mistero. Ora fate i bravi ragazzi, pensate ai fatti vostri, che io e Crowley abbiamo i nostri programmi.»

«… Cioè?»

Ferid scoccò un’occhiata a Yuu, che tuttavia aveva la medesima espressione di Crowley quando, distratto, non coglieva il senso o l’argomento di una frase: come se si fosse appena svegliato da un sogno a occhi aperti.

«Per la miseria, ragazzo, sei uno sveglio, tu. Prova a usare un po’ di immaginazione su quali possano essere i programmi in casa di due uomini adulti che hanno una relazione.»

«Oh… oh!»

«Bene, ora che lo sapete potete dimenticarvi per una sera che esiste l’appartamento ventiquattro?»

«Scusaci, Ferid… ti abbiamo visto uscire così di fretta e alterato che abbiamo pensato che fosse successo di nuovo… non vi disturberemo, lo prometto.» disse Mikaela in tono mesto.

«Allora buonanotte.»

Ferid voltò loro le spalle e si avviò verso casa. Era consapevole di averli sgridati in modo forse esagerato, ma non gli piaceva l’idea che quei due ragazzi si mettessero a origliare convinti che tra loro ci fossero dei problemi, specie immaginando che cosa sarebbe capitato loro di sentire se fossero rimasti in ascolto fino a una certa ora tarda.

Anche sulla strada del ritorno non incontrò quasi nessuno, tranne un paio di giovani donne in tenuta sportiva che facevano jogging e un uomo tutto preso a fissare il proprio cellulare. Vedeva la finestra della cucina, ma Crowley non lo stava cercando: stava probabilmente asciugando il lago di vino rosso sul pavimento. Fu allora che sentì quel suono.

Si fermò e guardò nel vicoletto tra due palazzine, dove gli inquilini tenevano i bidoni della spazzatura.

«Ma… cani?» mormorò fra sé e sé. «Sembrano…»

Tacque quando sentì ancora il suono e ne fu quasi certo: sembravano cagnolini appena nati o comunque molto piccoli. Fece qualche passo verso il vicolo. Forse qualche inquilino del pianoterra ne aveva una cucciolata in casa, ma se fossero stati dei piccoli randagi? Non se la sentiva di lasciarli in un vicolo nella notte di novembre.

Si guardò intorno, ma non vide anima umana viva in vista. I ragazzi Hyakuya dovevano essere rimasti davanti al negozio o essere andati da qualche altra parte per rientrare più tardi. Avanzò nel vicolo con circospezione, perché la luce era scarsa e c’erano rifiuti dappertutto.

Che la mamma dei cagnolini abbia rotto i sacchi alla ricerca di cibo?

I versi di cagnolino provenivano da un poco più avanti, da un bidone di latta rovesciato sul lato.

Che li abbia partoriti lì dentro? Chissà se riesco a portarli fino a casa da solo… mh, forse è meglio trovarli e poi andare a bussare dal veterinario…

Decise che era una buona idea andare da Ares Mirto e dire a lui dove si trovavano i cuccioli: avrebbe saputo meglio di lui come comportarsi nel caso ci fosse stata una mamma da qualche parte o dove portarli per accudirli.

«Vi ho trova–»

Si interruppe quando, accovacciandosi, dentro al bidone trovò solo un cellulare acceso. Il verso dei cuccioli veniva da un video di cagnolini che stava riproducendo. Seppe all’istante che era una trappola, ma non fece neanche in tempo a rimettersi in piedi che qualcosa gli venne premuto contro la testa. Qualcosa che, dal rumore meccanico che seguì, doveva essere qualcosa di spaventosamente simile a una pistola a tamburo.

«Alzati… lentamente.»

Non è possibile!

Con il cuore che aveva iniziato a galoppare nel petto si alzò lentamente e si girò soltanto quando la voce gli intimò di farlo. Sapeva già che cosa avrebbe visto, ma non rese il colpo meno violento. Si abbandonò di schiena contro la recinzione di rete metallica che divideva la zona rifiuti di due proprietà separate e sospirò.

«Di nuovo tu.»

«La faccia è già migliorata… non ho picchiato forte come credevo.»

Davanti a lui, avvolto in un cappotto grigio con due file di bottoni neri sul petto e un berretto nero, c’era lui, il Vampiro di West End. L’uomo con la sua stessa faccia, i suoi stessi orecchini e gli stessi occhi celesti. Attualmente la sola differenza erano i lividi in via di guarigione sul viso di Ferid: sembrava che anche la loro altezza e la loro corporatura corrispondesse, almeno a un primo sguardo.

«Credimi, forte più che abbastanza, Bobby.»

L’uomo non ebbe alcuna reazione a quel nome, ma Ferid per la prima volta era sicuro di quello che diceva. Sì, i suoi lineamenti erano molto diversi da quelli del ragazzo che conosceva, ma era anche vero che si potevano ottenere risultati incredibili con prodotti appropriati e la capacità di adoperarli. D’altronde, quell’arma non lasciava alcun dubbio.

«Dopo tutti questi anni non pensavo che ce l’avessi ancora.» osservò Ferid, che si sentiva stranamente teso e calmo nello stesso tempo. «Era di sicuro l’oggetto più prezioso che avessi preso.»

«Ma anche il più facile da individuare se avessi provato a piazzarlo.» disse Robert, passando fugacemente il dito sulle gemme che adornavano la canna della pistola antica. «Una pistola creata appositamente per una regina ungherese…»

«Fu di Maria Teresa d’Asburgo.» lo corresse lui con un certo orgoglio. «Fu donata a lei come tributo dai nobili ungheresi dopo averla sostenuta nella guerra di successione austriaca. Da allora è stata solo nelle mani di discendenti della sua nobile casata, diretti o rami cadetti che fossero… finché non l’hai rubata tu.»

«Tu me l’hai consegnata, Ferid. Puoi raccontarti ogni bugia, non m’interessa, ma le cose stanno così… e ora la reliquia che per te aveva valore solo monetario è qui che reclama la vendetta per l’orgoglio di famiglia che hai calpestato.»

La testa di Ferid fece un piccolo scatto, come reagisse a una mosca molesta.

«Ah, non raccontarmi altre favole, Bobby. Dimmi perché hai fatto tutto questo, piuttosto… perché uccidere in modo così orrendo dei bambini? Perché hai cercato di avvelenarmi? Qualche spiegazione, almeno. Sai che odio lasciare i libri a metà.»

Robert emise una risatina flautata che disturbò Ferid oltremodo: pareva che si fosse esercitato molto per assomigliargli nei più variegati dettagli e si chiese da quanto tempo e da quanto vicino lo spiasse. Si chiedeva soprattutto se fosse già stato osservato nel luglio dell’anno precedente: sapeva di essere stato insolitamente vago nei suoi diari, a causa del dolore che provava nel pensare a Krul, ma non ricordava le parole che aveva usato o se avesse citato esplicitamente qualcosa nei diari seguenti.

«Te lo racconterò… ma in un posto più intimo… dicono che in inverno nel bosco di Dern si sentano le fate giocare, Rid. Vuoi sentire le fate insieme a me?»

«Sei in ritardo di sedici anni per un appuntamento romantico, Bobby. Avrei altri progetti stasera, quindi se vuoi scusarmi io rifiuterei.»

Le sopracciglia sottili di Robert si sollevarono per sorpresa e fastidio mescolati. Tese un sorriso intriso di scherno.

«Come sei spavaldo davanti a un’arma… e dire che eri un tale pisciasotto piagnucoloso quando ti ho mollato in quel motel…»

«E dire che eri così affascinante, così ribelle e così avventuroso quando ti ho incontrato… suppongo che sia questo il senso del detto “dare tempo al tempo”. Io sono fiorito e tu appassito… ah, piuttosto, direi marcito

«D’accordo, Rid, ora chiudi la bocca.» sbottò Robert con una voce più rabbiosa. «Non voglio sentirti finché non saremo arrivati alla contea di Dern. Muoviti, prenderemo la mia macchina. Niente scherzi… ma prima…»

Allungò la mano libera verso di lui.

«Dammi la busta.»

Ferid quasi non pensò nemmeno, reagì istintivamente. Annuì, ma di fatto anziché porgergliela gliela lanciò di modo che gli coprisse la visuale per qualche attimo, si spostò dalla linea di tiro di una ventina di centimetri e riesumò dal dimenticatoio una delle pochissime cose davvero utili che lavorare per un’agenzia gli aveva lasciato: gli assestò un calcio allo stomaco scaricandoci tutto il peso del corpo.

Ferid barcollò indietro a causa del contraccolpo, Robert cadde a terra sulla schiena contro un bidone con gran fracasso e la pistola sparò per un riflesso: la pallina di metallo passò a distanza di sicurezza dalla spalla di Ferid. Dopo aver dato un rapido sguardo – scoprendo che aveva impattato i mattoni dell’edificio senza colpire la finestra – tornò a guardare Robert, che aveva lasciato cadere la pistola finemente lavorata e stava per rialzarsi. Un provvidenziale rotolo di rete buttato da qualcuno aveva intrappolato la sua scarpa rallentandolo e un altrettanto provvidenziale tesoro sporgeva da un bidone senza coperchio.

Ferid afferrò il manico di una delle quattro mazze da golf lì abbandonate, scoprì che aveva una bella testa robusta e lo shaft reso storto da qualche colpo maldestro, ma per l’uso che intendeva farne era più che adatta. Con un sorriso che non pensava potesse uscirgli spontaneo in una simile situazione si avvicinò all’uomo che molto tempo prima aveva amato e gli pestò la spalla con il piede mentre sollevava la mazza sopra la testa.

«Non ti muovere adesso, Bobby… sai, ora tutti sanno che hai questa faccia. Te la sistemo, così ti nasconderai meglio.» gli disse serafico mentre un’ira a lui sconosciuta gli montava dentro come una mareggiata. «Vedrai, quando avrò finito non ti riconoscerà nemmeno mia madre.»

Lo colpì strappandogli un lamento quando impattò il gomito con il quale protesse la faccia.

Mh, non è facile come sembra quando lo leggi in un libro… dovrò impegnarmi di più se voglio assicurarmi che non sparisca prima che vengano ad arrestarlo.

Sollevò di nuovo la mazza, domandandosi se potesse rischiare un colpo alla testa per tramortirlo o fosse troppo alto il pericolo di ammazzarlo involontariamente, ma non dovette rispondere al dilemma: Robert affondò la mano sotto il cappotto e ne estrasse una pistola ben più moderna, precisa e potente dell’arma degli Asburgo.

Ferid aveva sempre creduto, come aveva trovato scritto nei romanzi, che in punto di morte una persona vedesse i momenti salienti della propria vita come un film, ma a lui non successe in quel momento. Quando fissò la bocca da fuoco il suo cervello annullò tutti i processi di pensiero; il braccio abbassò la mazza e accennò a indietreggiare quando Robert premette il grilletto.

Inspiegabilmente non ci fu alcuno scoppio, nessun proiettile venne sparato e nessun bossolo cadde. Si udì solo il rumore metallico del grilletto a vuoto. Robert imprecò premendolo una seconda e una terza volta in successione ma non accadde niente, dando il tempo a Ferid di fare un paio di passi indietro.

«Quante vite hai, maledetto stregone?!» inveì Robert, la cui voce non assomigliava più così tanto alla sua in preda alla rabbia. «Muori!»

Ferid mise il piede su qualcosa che rotolò e cadde per terra, e fu la sua fortuna. Il quarto colpo esplose, ma il proiettile sfiorò la sua fronte lasciandogli un’escoriazione lieve e andò a piantarsi nel muro di mattoni. Stordito dal rumore assordante dello sparo, molto più potente di quello prodotto dall’arma antica, annaspò per rimettersi in piedi e allontanarsi dal vicolo. Si accorse appena delle voci di persone intorno che avevano sentito i colpi e delle lontane sirene in avvicinamento.

«Ferid!»

Non aveva idea di come Mikaela fosse sbucato lì e non era abbastanza lucido da capire che era stato attirato dai colpi di pistola. In un primo momento il ragazzo biondo gli afferrò il braccio per aiutarlo ad alzarsi, ma poi non lo fece e si parò davanti a lui a braccia aperte come scudo umano, frapponendosi tra lui e Robert. Ferid, al di sopra della sua spalla, ebbe la fugace visione dell’uomo uguale a lui che puntava l’arma contro loro e di un lampo scuro che si lanciava sull’aggressore.

Esplose un altro colpo che fece istintivamente chiudere gli occhi a Mikaela e Ferid, ma anche quello non colpì nulla se non una grondaia. Ferid guardò ancora la scena e vide che Yuu si era lanciato su Robert e stava bloccandogli il braccio armato; le lezioni alla palestra di MMA si erano rivelate utili e infatti il ragazzo cercava di afferrargli il collo in modo da bloccarlo in una presa di sottomissione. Mikaela si alzò e strattonò Ferid per farlo alzare, ma le gambe non rispondevano più.

«Alzati, Ferid! Va’ via di qui, corri a casa!»

Robert mollò la presa sull’arma e Yuu la calciò fuori portata, verso Mikaela. Questo però offrì un’occasione all’uomo, che si liberò dalla stretta delle gambe del ragazzo e gli sganciò una gomitata all’altezza dell’inguine che gli spezzò il respiro.

«Fermo!»

Robert corse fuori dal vicolo, ritirandosi da una battaglia che stava diventando molto complicata dati i molti testimoni attratti dal rumore, i rinforzi in arrivo e la coppia Hyakuya Boys a supporto di un bersaglio che sperava di trovare da solo. Mikaela però non vedeva la resa come una mossa valida al di fuori della scacchiera, quindi raccolse l’arma impugnandola con entrambe le mani e una posa dritta molto tecnica maturata in svariate ore di pratica al poligono di tiro.

Tuttavia, dopo aver preso la mira, non sparò e abbassò la pistola. A Ferid la risposta a quel mistero arrivò alla prima occhiata: stava scappando dall’altro lato della strada, c’erano curiosi e passanti, auto che potevano transitare ignare sulla carreggiata. Troppi potenziali bersagli.

«Ferid, sei ferito? Stai bene?»

Mikaela si avvicinò e gli spostò i capelli per guardare la ferita sulla fronte. Prima che rispondesse in merito vide Yuu passargli davanti, con un’andatura incerta ma sguardo fermo. L’indicò con il dito emettendo un fonema insensato solo per attirare l’attenzione di Mikaela su di lui e difatti il biondo puntò gli occhi sul suo compagno che stava attraversando la carreggiata.

«Quello stupido, cosa pensa di fare disarmato?»

Digrignò i denti, consumato da nervosismo e preoccupazione, ma non si unì all’inseguimento di Robert.

«Riesci ad alzarti? Aspettiamo la polizia nell’atrio di casa…»

Ferid riuscì a malapena a mettersi in piedi mentre Mikaela intimava ai passanti di non avvicinarsi al vicolo per preservare la scena del crimine. Certo aveva l’aria di un poliziotto fatto e finito e i suoi studi dovevano procedere con profitto. Poco dopo, zoppicando, Yuu fece ritorno a mani vuote e l’espressione dello sconfitto di una guerra.

«Mi dispiace, Ferid… l’ho perso sulla Gowin… non ho visto da che parte sia andato.»

«Non preoccuparti, Yuu-chan.» gli disse Mikaela, con palese sollievo. «Hai il telefono, vero? Chiama Crowley e digli di scendere, se gli diciamo che è stato aggredito senza che lo veda illeso si preoccuperà.»

Ferid sospirò e si lasciò scivolare di nuovo seduto per terra; il calo di tensione lo fece sentire esausto. Sorrise tristemente e strinse i pugni. Le sue mani tremavano.

«Suppongo… che non possiamo non dirglielo, vero?»

Mikaela e Yuu lo guardarono sorpresi.

«Certo che non possiamo… devi andare in ospedale a controllare la ferita alla testa e bisognerà lasciare una dichiarazione alla polizia…»

Ferid sospirò di nuovo.

«Si sentirà in colpa. Mi ha lasciato uscire da solo.»

I due ragazzi non replicarono, e Yuu disse soltanto che non aveva ricevuto risposta da Crowley. Pochi istanti dopo fu chiaro come mai: il poliziotto irlandese si era fatto largo tra la gente che a pericolo passato si stava raggruppando lì. Vide per primi i suoi vicini e poi, impallidendo, notò Ferid seduto a terra con il sangue che colava dalla ferita superficiale sulla fronte.

«Ehi, Crowley! Ci stavo mettendo un po’ troppo, vero? Sai che ore…?»

Lui non spiccicò una singola parola, ma i suoi occhi e la sua espressione parlarono per suo conto mentre si inginocchiava vicino a lui ancora una volta abbracciandolo. Il senso di colpa, di impotenza, la sofferenza di vederlo di nuovo aggredito e ferito e la paura di averlo ancora una volta quasi perso pervasero Ferid attraverso quell’abbraccio; gli entrarono dentro come una tossina attraverso la pelle.

Sentiva la gola annodarsi e un peso sul petto, ma nonostante questo la sua maschera reggeva. O più probabilmente la sua mente tentava di fare resistenza contro la scioccante realtà: gli avevano sparato contro e per pura fortuna non era rimasto ucciso.

«Ma ho due buone notizie, Crowley, quindi su col morale!»

«Sei vivo, questa è già una bella notizia…»

«Allora ne ho tre, perché so chi è il Vampiro di West End.»

Crowley lo lasciò andare per poterlo guardare in volto con grande sorpresa.

«Stai scherzando? Era qui? Ti ha attaccato lui, qui?»

«Già, ma come ti ho detto, so chi è… te lo racconto appena siamo un po’ più… soli.»

Crowley si guardò intorno frastornato, come fosse stato appena svegliato da una sirena lacerante. Lasciò scorrere lo sguardo sul vicolo, sulle facce che sporgevano dalle finestre vicine, e poi sull’auto coi lampeggianti accesi che accostò poco lontano da lì. Guardò ancora una volta Ferid con quell’espressione intontita.

«E… l’altra? L’altra notizia?»

«Oh… beh!»

Ferid sorrise forzatamente quando sollevò una bottiglia di vino, che – al contrario della sorella gemella – miracolosamente era ancora intatta nonostante quel trambusto.

«Una si è salvata!»

Emise una risata allegra, ma davanti alla palese sofferenza psicologica di Crowley non riuscì a mantenere quello stato d’animo né una maschera sufficientemente calma: la sua risata sfumò in un singhiozzo senza lacrime e si strinse le braccia nel tentativo di fermare il tremore.

La sua mente aveva ceduto a una realtà innegabile quanto spaventosa. Non riuscì a dire un’altra parola e restò così, con Crowley inginocchiato accanto a lui immerso nel medesimo, costernato silenzio.

«Ehi… ma tu sei O’Brian, vero? Il figlio di O’Brian, Crowley…»

Crowley e Ferid alzarono gli occhi sull’agente di pattuglia che si stava avvicinando a loro. Era piuttosto attempato e Ferid pensò che potesse essere stato un collega del padre di Crowley prima che andasse in pensione anticipatamente.

«Sì… sì.» rispose l’irlandese, scuotendo la testa confuso. «Sì, Neil è mio padre.»

«Accidenti… ma che è successo, ragazzo? Una rapina?»

«La storia è un po’ più lunga…»

Non ci fu tempo per parlarne, perché arrivò anche il soccorso medico che qualcuno doveva aver chiamato vedendo Ferid sanguinare dalla testa. Ancora una volta venne caricato sull’ambulanza, ma questa volta non sembrava una cosa grave: avevano deciso di portarlo in pronto soccorso per scongiurare il rischio di danni cerebrali con un controllo approfondito e per mettergli qualche punto sulla ferita. Crowley ignorò il poliziotto che voleva fargli domande e salì sull’ambulanza.

«Agente, per favore, non può salire.» gli disse il paramedico. «Può interrogarlo più tardi.»

«Non voglio interrogarlo, è il mio fidanzato. Posso andare con lui, no?»

Crowley era senza dubbio preso da cupi pensieri mentre prendeva posto nel retro dell’ambulanza e non notò nulla, ma le sue parole avevano sorpreso in varie misure diverse persone intorno a loro, a partire dal collega del padre. Ferid decise di non farne parola con lui a meno che non gliel’avesse chiesto esplicitamente.

Mentre il portello veniva chiuso notò che Mikaela e Yuu, appoggiati al cofano dell’automobile di pattuglia, si scambiavano un sorriso incerto e un furtivo pugno contro pugno di vittoria. Gli rimase il dubbio se fossero soddisfatti di come avevano gestito l’emergenza – da veri agenti, per quanto lo riguardava – o fossero felici di aver mandato in porto i loro piani per sistemare Crowley in una relazione seria.

 

Più tardi, mentre sedeva sul letto di una camera dell’ospedale con i punti già messi sulla fronte, Ferid guardò l’orologio e scoprì che era quasi mezzanotte. Il che gli mise addosso parecchia amarezza mentre spostava lo sguardo su Crowley.

«È quasi mezzanotte.»

«Ormai non importa più.»

«Beh, se il mio esame è andato bene mi manderanno subito a casa!»

«Per favore, Ferid… pensi davvero che sia dell’umore per questo, stasera? Stavi per essere ucciso, di nuovo, e questo perché ti ho lasciato uscire da solo per una stupida bottiglia di vino!»

«Ti prego, Crowley… lo sai che non è colpa tua, come non lo è stata alla Belfast Arena. In entrambi i casi sono stato io a decidere, e questa volta era… sotto casa. Non potevi sospettare che mi aspettasse lì fuori…»

Questo era il cruccio più angosciante nella mente di Ferid. Robert non sapeva certo che avrebbero rotto la bottiglia, non aveva motivo di aspettarsi che Ferid uscisse di casa da solo a quell’ora della sera in un giorno qualunque nel mezzo della settimana, eppure nonostante fosse stato fuori appena qualche minuto non solo era lì, ma gli aveva anche teso una trappola.

Da quanto tempo è appostato fuori dal palazzo e studia i miei movimenti e quelli di Crowley? Fin dalla notte alla Belfast Arena in cui ha saputo che non mi aveva ucciso col veleno? Era lì a guardare anche la notte di Halloween?

Crowley persistette nel silenzio per diversi minuti, poi disse che sarebbe andato a prendere del tè caldo. Quando tornò la sua espressione non era cambiata. Si sedette e gli porse un bicchiere di tè.

«Grazie… non fa proprio freddo, ma sento ancora i brividi.»

Crowley lo guardò con occhi così pieni di sofferenza da far fatica a guardarli, così distolse lo sguardo per guardare dalla finestra e prese un sorso caldo. Il gusto era ovviamente pessimo.

«Quindi… è Bobby, dopotutto.»

Ferid lo guardò sorpreso, ma poi annuì.

«Ti ho sentito dirlo all’agente durante la deposizione… sei sicuro, Ferid? Hai comunque detto che era uguale a te, come è successo alla Belfast Arena.»

«So che il suo è un trucco… una maschera, un trucco pesante, forse tutt’e due… penso si travesta così quando esce per… i suoi scopi, nel caso qualcuno lo vedesse. Ma non ho dubbi, quello che mi ha detto… e poi, aveva la pistola.»

«Intendi quell’arma dorata?»

«Sì, quell’arma è antica ed è unica. Venne creata da un mirabile artigiano su commissione dei nobili ungheresi per la nuova regina d’Ungheria, Maria Teresa d’Asburgo. Capirai che non è certo un pezzo di cui esistano duplicati ed è molto poco smerciabile… deve averla tenuta nascosta tutto questo tempo… ma a questo punto mi chiedo se aspettasse l’occasione di rivenderla sul mercato nero o se l’abbia tenuta in serbo per me.»

«Dove ha preso una cosa del genere?»

«Era mia.» rispose, lasciando Crowley basito. «O almeno, era di mia madre, che discende da Maria Teresa d’Asburgo in un ramo di nobiltà ungherese. È una cosa che ho preso per fuggire in America, insieme a collane, anelli e altri gioielli. La conosco bene, non posso sbagliare.»

Il detective tacque, pensieroso e incupito; così incupito che Ferid gli afferrò la mano.

«A che cosa stai pensando?»

«A Robert Warren… Ferid, perché ti odia così tanto? Perché, dopo tutti questi anni, fare tutto questo per rovinarti la vita… e ucciderti, visto che non ci riusciva?»

Crowley gli strinse la mano così forte che gli fece male.

«Dimmi la verità. L’hai incontrato ancora? Vi siete rivisti in questi anni… hai ripreso una storia con lui?»

«Ma che stai blaterando, Crowley? Certo che no!»

Ferid liberò la mano e con aria offesa evitò di guardarlo, cercando rifugio in un lungo sorso di tè scadente.

Però…

«Almeno… credo di no.» aggiunse, titubante. «Insomma…»

«Cosa vuol dire, credo?»

«Ti ho detto com’era quando l’ho conosciuto, non mi assomigliava per niente, eppure ora siamo come un uomo e il suo riflesso nello specchio… ecco… se ha queste capacità di trasformazione da un po’ di tempo, potrei anche averlo frequentato senza… beh, senza saperlo…»

Crowley si passò la mano sugli occhi in un gesto affranto ed esausto.

«Frequentando qualcuno ti sarai accorto se aveva la faccia coperta di trucco… se stava camuffandosi, ti pare? Anche soltanto la mattina dopo!»

«Sì… se io avessi avuto delle mattine dopo.» commentò Ferid un poco inacidito dalla discussione. «Dopo quello che mi ha fatto Bobby non mi fido a dormire con un uomo. Non ho mai portato nessuno a casa mia e io non sono mai andato a casa di un altro uomo.»

«Non me la bevo, Ferid! Non uscivi con quell’uomo, come si chiamava, Mackham? L’avrai portato a casa almeno una volta!»

«No, scopavo con Morris Mackham.»

«Ah, ti prego…!»

«Facevamo sesso nel magazzino dei ricambi delle golf car quando lui veniva al club. Non siamo mai usciti neanche per una passeggiata.» insistette Ferid in tono brusco. «Che ti piaccia o no, Crowley, questo è stato il mio modo di gestire le mie relazioni. Non ho avuto nessuna relazione sessuale che fosse anche solo vagamente romantica. Non voglio tornare sull’argomento.»

«D’accordo… d’accordo, non ti arrabbiare, io… sto solo cercando di capire il perché, e…»

Nonostante la sua esitazione Crowley gli sfiorò la mano appoggiata sul letto e quando vide che non si ritraeva gliela prese.

«Non sono arrabbiato, Crowley… ma non vado fiero di come ho vissuto la mia vita. Ho fatto tanti sbagli e la mia scelta di vita negli anni dopo la morte di Claude… beh, era pessima. Mi vergogno dei luoghi e dei modi in cui ho cercato l’attenzione degli altri… di quella che credevo fosse una forma accettabile di amore

«Lo sai che io non ti giudico per questo.»

«Lo so… ma io lo faccio… anche perché se non avessi incontrato Krul forse vivrei ancora una vita sregolata, avrei distrutto il patrimonio di Claude in droghe e alcol per me e per il primo farabutto che mi avesse convinto che mi amava.»

«Non avresti fatto quella vita.» replicò Crowley, con un sorriso che da solo riuscì a scrollare quello strisciante senso di vergogna da lui. «Se non avessi incontrato Krul sarei stato io a salvarti.»

«Ma noi ci siamo incontrati proprio perché lavoro nel negozio di Krul…»

«Oh, sì. Ma se davvero fossi finito nel giro della droga io ti avrei trovato… ho iniziato con De Stasio alla narcotici, no?» gli ricordò Crowley, con una risata allegra. «Magari avrei sparato al tuo fidanzato farabutto e sarei stato la causa diretta della tua disintossicazione e della tua nuova vita.»

«Come sei macabro, Crowley.»

«Divertente.» lo corresse lui con quel sorriso vagamente ironico.

«E abbastanza inverosimile.»

«Assolutamente inevitabile.»

Ferid stava perdendo un po’ il filo del discorso; si accigliò e appoggiò il mento dal lato sano – ormai aveva preso l’abitudine di evitare di toccarsi il lato sinistro – sul dorso della mano.

«Inevitabile che avresti sparato al mio fidanzato tossico?»

«Inevitabile noi due

Crowley si sporse baciandolo con trasporto e accarezzandogli il viso – anche lui evitando il lato sinistro quasi inconsciamente – mentre l’altra mano, abbandonato il bicchiere di tè chissà dove e quando, scivolò lenta ma decisa dalla schiena fino al fianco. Appena staccò le labbra dalle sue guardarono entrambi l’orologio: era mezzanotte passata da quattro minuti.

«Mezzanotte passata.»

«Non metterci il pensiero, Crowley… di sicuro verrà qualcuno a interromperci prima che possiamo anche solo toglierci le scarpe.»

«Proviamoci.»

Ferid certo poteva apprezzare l’entusiasmo e il desiderio che gli dimostrava e fu per questo che non si oppose al suo bacio successivo e ne approfittò per passare le mani su quella sua ampia schiena. Dopo neanche un minuto però Yuu Amane aveva spalancato la porta senza pensare che qualcuno potesse dormire e l’ennesimo tentativo venne stroncato sul nascere.

Ferid per la prima volta non ne fu granché deluso, perché di certo preferiva che succedesse in una situazione più tranquilla e intima; nemmeno Crowley sembrò molto contrariato e li accolse come se non li vedesse da mesi: spettinò loro i capelli e spense le loro lagnanze con un abbraccio spacca-costole.

Ferid sospirò scuotendo la testa alla scena, ma poi sorrise mentre indugiava sul profilo del poliziotto irlandese. Aveva sempre pensato al termine inevitabile come a qualcosa di negativo, associandolo alla morte, alla delusione, ai problemi… ma vedere la presenza di Crowley nella sua vita come un crocevia al quale ogni possibile strada della sua esistenza l’avrebbe inevitabilmente condotto gli dava sicurezza, sollievo, conforto e fiducia.
Era come se Dio avesse sorriso incoraggiante posando la mano sulla sua spalla.

   
 
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