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Autore: Imperfectworld01    18/01/2021    1 recensioni
Corre l'anno 1983 quando la quindicenne Nina Colombo ritorna nella sua città natale, Milano, dopo aver vissuto per otto anni a Torino.
Sebbene non abbia avuto una infanzia che tutti considererebbero felice, ciò non le ha impedito di essere una ragazza solare, ricca di passioni, sogni e aspettative.
Nonostante la giovane età, sembra sapere molte cose ed essere un passo avanti alle sue coetanee, ma c'è qualcosa che non ha ancora avuto modo di conoscere: l'amore.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Scolastico, Storico
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Tre.

Passai il resto del pomeriggio a cercare di consolare mia sorella, la quale non sembrava volerne sapere di smettere di piangere.

Che palle i sentimenti. Mia sorella non era altro che una stronza snob e altezzosa, lo era con chiunque, tutti tranne Maurizio. Con lui era solo una rammollita. Non solo: una rammollita paranoica.

Non c'era niente di diverso nel comportamento di Maurizio rispetto a due giorni prima, ovvero prima che partissimo per Milano, ma lei si era convinta, basandosi sul niente, che prima o poi lui l'avrebbe scaricata.

«Solo perché non sta tutto il giorno in casa attaccato alla cornetta del telefono a parlare con te non significa che non ti ami più» ripetei per la centesima volta.

«Ha detto che doveva andare perché aveva da fare. Cos'ha da fare di più importante che parlare con la sua ragazza che non vive più nella sua stessa città?»

«Praticamente di tutto!» esclamai. «Ha anche una sua vita, degli amici...»

«E delle amiche!» mi interruppe. «Lo so che ora che non ci sono più io gli salteranno tutte addosso.»

Alzai gli occhi al cielo. «Ok, probabilmente tu hai quest'impressione, questo timore, ma ti assicuro che non vanno tutte dietro a lui.»

Di certo non con quel taglio di capelli da tossico e quel modo strano di camminare, ma tali considerazioni preferii tenerle per me.

«E io come posso saperlo? Non sono più lì con lui, può succedere praticamente di tutto!» tirò su con il naso.

«Pensavo che alla base di ogni relazione ci fosse la fiducia reciproca.»

«Io mi fido di lui. Ma non di quelle ochette che gli ruotano sicuramente intorno.»

A quel punto iniziai a scaldarmi. Era da ore che provavo a farla ragionare, ma proprio non le entrava in testa niente. In più, non potevo credere che avesse una mentalità così chiusa e sessista. «Anche se fosse, che colpa avrebbero le altre ragazze? È lui il tuo ragazzo, è lui che non deve fare cazzate» le feci notare, inasprendo il tono.

«Certo. Penso solo che non sia da ragazza per bene andare a provarci con i ragazzi fidanzati.»

«Che motivo hai di pensare che qualcuna lo farebbe? Soprattutto se non l'hanno mai fatto fino ad adesso... In fondo se una non ha scrupoli, lo fa anche in tua presenza, no? E non è mai successo. Quindi ora smettila di frignare e mettiti il cuore in pace.»

«Ma perché devi essere sempre così dura e spietata, Nina?» mi rimproverò. «Ti atteggi con quest'aria da superiore solo perché non capisci quello che provo. Tu mi reputi una lagna, ma io non mi vergogno se piango, sai? Perché lo amo e ho paura di perderlo. È normale, ma tu non lo sai perché non hai mai provato niente di simile e non lo proverai mai, anaffettiva e apatica come sei!» esclamò, prima di alzarsi in piedi da terra, dove era stata fino a quel momento, e uscire dalla stanza, sbattendo la porta con veemenza.

Apatica e anaffettiva, certo. Eppure ero stata almeno due ore a cercare di confortarla, perché in fondo le volevo bene e mi dispiaceva vederla star male.

Ecco che dopo quella sua ultima scenata e le sue ultime parole, mi convinsi ancora di più di non volermi mai innamorare in tutta la mia vita.

L'unica nota positiva di tutta quella situazione era che Giovanni e Filippo se n'erano ormai andati, quindi potevo riprendere ad andare in giro per casa senza correre il rischio di incontrarli. Be', più che da Giovanni, era Filippo dal quale tentavo di nascondermi.

Mi accorsi che mia madre era tornata a casa da lavoro e si era diretta in cucina per preparare la cena. «Ciao, ma'» la salutai.

«Ciao, Nina. Che ha tua sorella? Vi ho sentite urlare e ora si è rinchiusa in bagno.»

Scrollai le spalle. «È un'isterica, ecco cos'ha. Deve darsi una calmata e smettere di pensare che il mondo giri attorno a lei.»

«Non è forse una cosa che credono tutti gli adolescenti?»

«Io non lo credo» affermai, incrociando le braccia al petto.

Mia madre mi guardò inarcando le sopracciglia e io non colsi il perché di quella diffidenza. «Che c'è? È vero. Io mi preoccupo per gli altri, non sono una stronza egoista come lei.»

«Nina, le parole» mi riprese e io roteo gli occhi. «Ora perché non finisci di sbucciare le carote mentre io vado a parlarle?»

Nemmeno mi diede l'occasione di replicare. Uscì dalla cucina, lasciandomi un coltello in mano e una montagna di carote da sbucciare.

Naturalmente. Benedetta come al solito se ne fregava di tutto e di tutti, passando le sue giornate a lagnarsi come una bambina, ed ero sempre io a rimetterci.

Sbuffai, e poi afferrai una carota e iniziai a sbucciarla. Pochi istanti dopo, Vittorio apparve sulla soglia della porta. «Ma che succede?» domandò, riferendosi alle urla di Benedetta che risuonavano per tutta la casa da interminabili ore.

«Ti dico solo che preferirei tagliarmi entrambe le orecchie con questo coltello piuttosto che stare a sentirla ancora mentre si lamenta» risposi e Vittorio ridacchiò.

«Ma cos'ha? Insomma, non ci ho parlato molto finora, quindi...»

«Il suo ragazzo, Maurizio, vive a Torino. E pensa che lui voglia lasciarla, oppure metterle le corna» spiegai in modo sintetico, mentre nel frattempo Vittorio afferrò un altro coltello per aiutarmi a sbucciare le carote.
Apprezzai il gesto, specie perché lo fece di sua spontanea iniziativa.

«Se non si fida di lui allora perché non lo lascia?»

«Già, appunto. Prova a farglielo capire.»

Vittorio sogghignò e rimase zitto, prendendo altre carote da sbucciare. Non sembrava avere una grande manualità nel farlo, infatti ci impiegava il doppio del tempo che ci mettevo io. «Dai, lascia stare, non c'è bisogno che mi aiuti» dissi allora.

«Sì che ce n'è bisogno. Siamo una famiglia, ognuno deve fare la sua parte.»

"Siamo una famiglia".

Come poteva ritenere normale una frase del genere? Ci conoscevamo a malapena da un giorno. A me non sarebbe mai venuto spontaneo ritenerlo parte della famiglia, non dopo così poco tempo se non altro.

«Comunque non sei capace a farlo, quindi se non vuoi rischiare di tagliarti le dita, forse dovresti lasciar fare a me.»

Sgranò gli occhi e inarcò le sopracciglia, tuttavia non posò il coltello sul tavolo e continuò per la sua strada. «Sei sempre così diretta?» domandò, e mi parve quasi offeso.

«Sì» risposi solamente, senza cercare qualsiasi tipo di giustificazione al mio comportamento. Ero fatta così e basta, non mi piacevano le mezze misure. Ripensandoci, tuttavia, capii che forse, non conoscendomi bene, agli occhi di Vittorio sarei potuta apparire scortese. «Facciamo che finisco io di sbucciare le carote e tu le tagli a fette, va bene? Poi mettile dentro quella scodella.»

Annuì e iniziò a fare come gli dissi. Poi calò il silenzio, che regnò sì e no due minuti, prima che venisse interrotto da Vittorio un'altra volta:«Domani pensavamo di andare a fare un picnic al parco, che dici?».

«Pensavamo? Tu e chi?» chiesi, sebbene una parte di me conoscesse già la risposta a quella domanda.

E lui non mi diede la soddisfazione di confermare la mia tesi, evitando di rispondere in maniera diretta. «Dai, sarà divertente. Se non sbaglio, dovrebbero esserci anche Monica e le altre ragazze.»

Sospirai, prima di passargli la carota che avevo appena finito di sbucciare. Trascorsi qualche istante a riflettere. In fondo non sarei stata sola come quel pomeriggio, ci sarebbero state anche le ragazze e avrei potuto ignorare Filippo con più facilità. «Va bene, ci sono» dissi e Vittorio sorrise, prima di alzare il palmo della mano in aria e puntarlo verso di me.

Lo fissai con la fronte corrucciata. «Che c'è?» domandai confusa.

«Dai, dammi il cinque!» esclamò. Ancora piuttosto disorientata, appoggiai il coltello sul tavolo e battei il palmo della mia mano contro il suo. «Perché questa roba?»

«Non hai mai visto l'NBA in tv?»

Scossi la testa. «Sarebbe?»

«Una lega di pallacanestro statunitense. I membri di una squadra, i Los Angeles Dodgers, si danno il cinque continuamente durante la partita, è come una sorta di modo per congratularsi con qualcuno per qualcosa che ha fatto.»

«Come fai a sapere tutte queste cose?»

«Guardo un sacco di televisione» rispose soltanto, prima di riprendere ad affettare le carote.

*

L'indomani mattina mi svegliai e mi catapultai giù dal letto piena di energie. Merito del non aver fatto assolutamente niente il giorno precedente e dell'essere andata a dormire a un orario decente.

Non mi era mai piaciuto svegliarmi tardi, avevo sempre la sensazione di perdere del tempo. Preferivo rinunciare a qualche ora di sonno piuttosto che perdermi delle ore durante il giorno passandole a dormire.

Così quella mattina mi svegliai prima di tutti, anche prima di mia madre e Claudio e, camminando in punta di piedi per stare attenta a non svegliare nessuno, mi diressi in bagno.

Tirai lo sciacquone e poi mi apprestai a fare il bidet, finché a un certo punto la porta del bagno, che a quanto pare avevo lasciato inavvertitamente socchiusa, si aprì di un piccolo spiraglio e non vidi entrare Giuseppe. «Un po' di riservatezza sarebbe gradita, palla di pelo e di lardo» commentai scocciata, mentre il gatto con uno scatto fulmineo salì sulla tazza del gabinetto e ci immerse il muso.

Gli rivolsi una smorfia di disgusto, nel momento in cui risollevò il muso e iniziò a leccarsi i baffi, prima di tornare a bere dal water.

«Fai davvero schifo, lo sai?» domandai, prima di alzarmi dal bidet e asciugarmi con un panno. Poi tirai su le mutande e i pantaloncini del pigiama e mi avvicinai al gatto. In maniera cauta, avvolsi le mie braccia attorno al suo corpicino e lo sollevai dal gabinetto, intenzionata a portarlo via da là. «Dio, quanto pesi!» esclamai, prima che lui mi soffiasse contro e si liberasse dalla mia presa, tornando a terra con un balzo e uscendo prontamente dal bagno.

Mi guardai le braccia e le vidi disseminate di graffi procurate da quel felino. Feci allora scorrere l'acqua del rubinetto sulle ferite, sentendo un lieve bruciore e maledendo dentro di me quel gatto insopportabile.

Dopodiché andai in cucina e iniziai a preparare la moka per fare il caffè. Mentre attendevo che fosse pronto, presi le fette biscottate e la marmellata.

Poco dopo, sentii dei passi approssimarsi alla cucina e a un certo punto spuntò Claudio. «Buongiorno» mi disse con un caloroso sorriso che io ricambiai. «Come mai già sveglia a quest'ora?»

Scrollai le spalle. «Ho preparato il caffè» dissi poi, avviandomi verso i fornelli e spegnendo il fuoco, notando che stava quasi per fuoriuscire. Poi mi alzai in punta di piedi e presi due tazzine dalla credenza.

«Alla tua età bevi già il caffè?» chiese sorpreso, prima di accettare la tazzina che gli stavo porgendo. Gli versai il caffè e poi feci lo stesso per me.

«È l'unica cosa che mi dà energie per affrontare la giornata» risposi. «Con o senza zucchero?» domandai poi.

«Senza, grazie» rispose. «Non credevo ce ne fosse bisogno a quindici anni» aggiunse, commentando quanto detto da me poco prima.

Sogghignai, prima di svuotare un'intera bustina di zucchero dentro il mio caffè e mescolare con un cucchiaino.

In effetti, ero già abbastanza pimpante di mio. Bere caffè amplificava le mie energie, ma spesso mi rendeva anche più nervosa e frenetica.

«Cosa c'era nella stanza che ora occupiamo io e mia sorella?» domandai, sedendomi al tavolo e iniziando a farcire una fetta biscottata con la marmellata di fragole.

Me l'ero chiesto da quando eravamo arrivate lì due giorni prima. Non poteva essere stata una terza camera da letto fin dall'inizio: se Claudio aveva solo un figlio, non ve ne sarebbe stato bisogno.

«Inizialmente era il mio studio. Poi, quando mio padre se n'è andato, per un po' mia madre è stata con noi, così da non dover rimanere sola tutto il giorno, e quella è stata la sua stanza. Poi quando ci ha lasciati anche lei, per un po' è rimasta vuota...»

«Mi dispiace» dissi solamente, facendo un sorso di caffè. Avrei pure voluto chiedergli che fine avesse fatto la madre di Vittorio, ma considerando la gaffe che avevo appena fatto, preferii rimanere zitta.

«Tranquilla, non potevi saperlo. Ormai poi sono passati tre anni...» Lasciò la frase in sospeso. «Come sta andando in questi giorni? Da quello che ho capito ieri, oggi vai anche te con Vittorio e i suoi amici, non è così?»

«Già» risposi secca.

Claudio parve accorgersi della mia poca convinzione. «Che c'è, non ti piacciono i suoi amici?»

«Non li conosco a tal punto da poter esprimere un parere.» Decisi di rimanere neutra, e Claudio si lasciò bastare quella risposta, senza inquisire ulteriormente.

Finito il suo caffè, si alzò dalla sedia e si diresse verso il lavabo per sciacquare la tazzina.

«Personalmente, quello che preferisco fra di loro è Filippo» disse e io per poco non scoppiai a ridergli in faccia. Pensare che era proprio quello che preferivo meno. «Non sembra, ma ha la testa ben salda sulle spalle, il che non è scontato, data la sua situazione...»

Feci per chiedergli a che si riferisse, ma nel momento in cui mi voltai nella sua direzione, mi accorsi che Claudio era già uscito dalla sua cucina. Pochi minuti dopo uscì anche di casa per andare a lavoro, così non feci in tempo.

Passai le ore successive in bagno a cercare di capire come acconciare i capelli. Per via di tutta quell'umidità, non stavano mai in ordine e si gonfiavano senza che riuscissi a dargli una forma. Inoltre erano ancora troppo corti affinché potessi provare chissà quali acconciature. Alla fine optai per due treccine, sebbene mi facessero sembrare una dodicenne.

Nel frattempo anche mia madre era andata a lavoro, Benedetta si era attaccata un'altra volta alla cornetta (stavolta a parlare con una delle sue amiche, presumibilmente sempre per chiedere di Maurizio) e Vittorio era andato in cucina a preparare lo zaino.

Una volta finito, più o meno, di sistemarmi i capelli, decisi di andare ad aiutarlo. Aveva già preparato della frutta, fra cui due mele e due banane, e ora si stava occupando di farcire i panini. «Va bene il crudo per te? O preferisci il cotto?» domandò.

«Sì, va bene qualsiasi cosa, non preoccuparti. Cos'altro ti serve?»

Si fermò un attimo per fare mente locale e capire cosa mancasse. «Un telo. Se apri l'armadio che c'è nell'anticamera, nel ripiano in alto dovrebbero esserci dei grossi teli. Prendine due per sicurezza, c'è sempre qualcuno che se lo dimentica.»

Annuii e feci come disse. Presi due teli e dopo averli piegati e ripiegati più volte, li infilai nello zaino, prima di assumere un'espressione scettica. «Non penso che ci starà tutta questa roba dentro lo zaino, questi teli occupano già quasi tutto lo spazio a disposizione. Non ne hai un altro?»

«Sì. In camera mia, sulla sedia, dovrebbe esserci il mio zaino di scuola. Non è grandissimo, ma ce lo faremo bastare.»

Mi diressi allora verso la sua stanza, e sbuffai non appena notai il gatto spaparanzato sulla sedia di Vittorio, sopra il suo zaino. Considerando i graffi che mi aveva lasciato quella mattina sulle braccia, non mi sembrava un'ottima idea quella di andare a spostarlo.

Mi guardai intorno alla ricerca di qualcosa che potesse attirare la sua attenzione e farlo spostare di lì, e vidi appoggiata su una mensola una pallina di gomma. La presi e, dopo averla agitata davanti al gatto, la lanciai dall'altra parte della stanza. Giuseppe sollevò la testa per osservarla, e poi tornò a raggomitolarsi su se stesso.

Sbuffai nuovamente.

Non avendo altre idee, decisi di avvicinarmi al gatto e di iniziare a tirare i lembi dello zaino nel tentativo di sfilarglielo da sotto di quel deterano peloso. Allora Giuseppe si svegliò di nuovo e scese dalla sedia, non dopo avermi rivolto una delle sue occhiate minacciose. Recuperai lo zaino e lo portai a Vittorio in cucina.

«Eccolo, anche se è pieno di peli» dissi, iniziando a dare dei colpi con la mano sullo zaino per toglierne un po'.

«D'accordo, io ho quasi finito, quindi vai a vestirti.»

Entrai in camera mia e aprii l'armadio alla ricerca di cosa mettermi. Avrei voluto mettere una salopette, ma faceva troppo caldo, così alla fine scelsi dei pantaloncini di tessuto azzurri e una maglia a maniche corte bianca, abbinando il tutto a delle Superga del medesimo colore della maglia.

«Quei pantaloncini non sono miei?» chiese Benedetta, staccandosi un attimo dalla cornetta.

«No, macché» mentii, uscendo dalla stanza.

«Che schifosa bugiarda! Nina, togliteli subito!» esclamò, alzandosi in piedi e venendomi dietro. Mi afferrò per il braccio per fermarmi, ma mi liberai facilmente dalla sua presa con una gomitata. Dopodiché presi letteralmente la rincorsa per sfuggirle e uscire di casa.

Vittorio mi raggiunse un paio di minuti dopo e, dopo aver pigiato il tasto per chiamare l'ascensore e aver appoggiato i due zaini a terra, mi tirò una sberla sul braccio. Lo fissai sconvolta e pronta a restituirgli il gesto con il doppio della forza, ma mi fermai non appena parlò: «Scusami, ho promesso a tua sorella che l'avrei fatto. Era da parte sua. Anche se non so bene il perché» si giustificò.

Alzai gli occhi al cielo, prima di entrare in ascensore. «Mia sorella è egoista e possessiva, ecco perché» spiegai. «E tu sei un idiota» aggiunsi, restituendogli la sberla.

Non protestò. «D'accordo, me lo meritavo. Non mi metterò più in mezzo fra voi due e i vostri battibecchi» disse.

Poi notai che, invece che schiacciare il pulsante del piano terra, schiacciò sul -1. «Perché stiamo andando al -1?»

«Dobbiamo andare a prendere le bici in cantina. Oltre alla mia, ne ho una che avevo qualche anno fa, ma penso che per te possa andare bene, giudicando la tua statura e il resto.»

E il resto? Cosa stava a significare? Che avevo il corpo di una dodicenne? Probabilmente era così, ma era troppo sveglio per ammetterlo davanti a me, motivo per cui non entrò nei dettagli e si evitò un'altra botta sul braccio. «Comunque non avevo capito che saremmo andati in bici» dissi.

«Sì, così facciamo prima. È un problema?» domandò.

«In effetti c'è. Non sono capace di andare in bici» ammisi, sentendomi un poco a disagio.

Non avevo mai avuto una bici, solo un triciclo quando ero molto piccola, pertanto non avevo mai imparato.

«Davvero?» chiese sorpreso. Doveva suonare ridicolo alle sue orecchie, dal momento che tutti sapevano andare in bici, era il mezzo di trasporto per eccellenza usato dai giovani.

«Sì, e allora? Ci sono cose peggiori nella vita per cui scandalizzarsi!» esclamai, incrociando le braccia al petto. L'ascensore giunse a destinazione e io uscii frettolosamente.

«No, lo so, scusa... Comunque fa niente, ti porto io con la mia bici sul portapacchi» disse, andando a tirare fuori la bici dalla cantina.

Non sembrava di certo una sistemazione comoda, ma del resto era anche l'unica soluzione che avevamo. Misi uno degli zaini in spalla, e lo stesso fece anche Vittorio. Attesi che si sistemasse sulla sua bici e dopodiché mi sedetti sul portapacchi, stringendo le mani attorno alla sua vita per tenermi.

Furono i dieci minuti di viaggio più lunghi della mia vita, per via del fastidio, anzi, del dolore, che mi procurava stare in quella posizione. Alla fine Vittorio si arrestò e potei scendere da quell'aggeggio.

«Niente capelli in faccia stavolta, contento?» commentai e Vittorio annuì, ridendo.

«Tutto bene? Ogni tanto ti sentivo mentre ti lamentavi...»

«Sì, tutto bene, tranne per il fatto che penso di avere la griglia del portapacchi incisa permanentemente sul sedere» risposi, e stavolta risi anch'io insieme a lui.

Si perse qualche secondo a fissare qualcosa alle mie spalle, infine tornò a guardarmi, con un'espressione preoccupata. «Io, ehm... io dovrei dirti una cosa.» Si grattò il capo e si morse il labbro inferiore.

Aggrottai le sopracciglia. «Cosa?» chiesi. A giudicare dal suo tono, sembrava che temesse che a breve avrei perso le staffe.

Mentre attendevo una risposta, il mio istinto mi suggerì di voltarmi, alla ricerca di ciò che stesse fissando Vittorio come prima.

Così lo feci. Mi girai. E capii. E sì, persi le staffe.

 

   
 
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