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Autore: Shadow writer    28/01/2021    3 recensioni
Nate è un ventiquattrenne disilluso e pessimista. Ha un lavoro che odia, vive in una città che non sente sua ed è rimasto intrappolato in un passato che non riesce ad accettare.
Per aiutare un amico, partecipa a una corsa automobilistica, ma questo lo porterà a invischiarsi in qualcosa di più grande di lui.
"«Si dice che tu ti stia facendo un nome in città» commentò Alison, appoggiandosi al bancone di fronte a lui.
Il ragazzo alzò gli occhi dalla bistecca e incrociò quelli civettuoli di lei.
«È stata la mia prima e ultima gara» ribadì, «l'ho già detto a Richie.»
Lei fece schioccare la lingua contro il palato in segno di disappunto.
«Mi hanno riferito che ci sai fare con le auto.»
Nate rise e si sporse verso la ragazza.
«Me la cavo bene con molte cose, Alison» quando pronunciò il suo nome, le appoggiò le dita sotto il mento, costringendola a guardarlo negli occhi, «ma ciò non significa che io sia interessato a tutte queste.»"
Genere: Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Confusione e pessime scelte


 

Alison andava al lavoro per il turno notturno. Nell’auto, un vecchio catorcio senza aria condizionata, si respirava un forte aroma di caffè. La giovane aveva lo sguardo sveglio fisso sulla strada e teneva il volante con entrambe le mani.

«Cosa facevi in giro da solo?» gli domandò, lanciandogli uno sguardo impercettibile.

«Passeggiavo.»

La risposta laconica di Nate pose fine alla conversazione.

Guidarono in silenzio fino a che tra le tenebre comparve l’insegna a neon del Venus. Alison parcheggiò sul retro e aspettò che Nate scendesse dall’auto, poi si incamminò verso l’edificio.

«Perché non fai sistemare i freni?» le domandò avvicinandosi. Nonostante i tacchi alti, il passo della ragazza era deciso e rapido.

«Perché costa.»

«Anche un funerale è costoso» replicò lui e Alison si voltò a guardarlo. Nate notò che portava dell’ombretto dorato sopra le palpebre.

«È lì che finirai se non li fai sistemare.»

Lei roteò gli occhi e riprese a camminare.

Si infilarono attraverso una porta sul retro e sbucarono in un corridoio bianco sporco. Alcune delle porte che si affacciavano su di esso lasciavano intravedere armadi chiusi e scaffali pieni di cibo, ma per il resto era ordinato e spoglio.

«Dove stanno le ragazze?» domandò Nate, allungandosi al di là di una porta.

Alison lo afferrò per un braccio e lo trascinò avanti.

«Richie ci tiene alla loro privacy.»

Raggiunsero la sala principale, dove le casse vibravano per la musica e le luci soffuse rendevano difficile muoversi senza scontrarsi.

Alison tirò dritto fino al bancone, senza difficoltà, e salutò la donna che stava al di là. Quella sbadigliò, fece un cenno di saluto e rapidamente se ne andò.

Non appena Nate si fu seduto sullo sgabello, Alison gli allungò un bicchiere pieno di un liquido ambrato. Lui le rivolse uno sguardo interrogativo.

«Hai la faccia di uno che ne ha bisogno.»

Nate le sorrise: «Sei più sveglia di quanto pensassi», e vuotò il bicchiere in un sorso.

 

Un drink dopo l’altro, la serata si fece vertiginosa. I colori si fusero, gli odori si fecero indistinti, le risate argentine delle spogliarelliste, le loro mani che accarezzavano le sue spalle, l’alcol che correva lungo la sua gola. 

Gli avvenimenti delle ultime ore si persero in quel paradiso artificiale e tutto si fece nebuloso.

Vide Richie, rise con lui, parlarono di auto e di corse e di quanto fosse bella e spaventosa la velocità. Le parole si fecero confuse, la mente annebbiata dai drink che trangugiava per cancellare ogni briciolo di lucidità rimanente.

Scoprì che Alison profumava di vaniglia e che la sua pelle era liscia come la seta. I suoi capelli erano morbidi, quando cadevano sul petto nudo del ragazzo, ma le sue unghie erano affilate come artigli mentre scorrevano sulla sua schiena.

Il suo corpo era caldo e, pelle contro pelle, si sentiva rilassato come non mai. 

 

Emerse dal quel sogno colorato di soprassalto, con lo sguardo fisso su un soffitto giallino.

Non era camera sua, Mike lo aveva convinto che il verde lo avrebbe fatto sentire più a suo agio, così l’aveva dipinta più di un anno prima.

Cercò di mettersi seduto, ma un conato di vomito lo costrinse a piegarsi di lato. Riuscì a non vomitare, ma sentiva che tutto intorno a lui stava ruotando, e questo non aiutava certo alla situazione.

Si guardò attorno.

Nel letto, al suo fianco, dormiva una donna nuda, con la testa affondata nel cuscino e i capelli biondi sparpagliati tutt’intorno.

Dato che la sua schiena si muoveva impercettibilmente, dedusse che probabilmente ci aveva fatto sesso, ma non l’aveva uccisa. O non era morta di un altro tipo di morte.

I pensieri gli si presentavano ingarbugliati nella mente, andando ad aumentare quel terribile mal di testa.

Si alzò, realizzando di essere nudo a sua volta, e cercò i propri vestiti nel caos di coperte distribuito per la stanza. 

Dall’unica finestra della camera entrava la luce dorata della mattina, tagliata dalla veneziana contro il vetro.

Nel piegarsi a raccogliere la maglietta, Nate fu colto da un altro conato.

Corse fuori dalla stanza, aprì la prima porta davanti a lui che, fortunatamente, si rivelò essere il bagno.

Quando si fu ripreso, si sciacquò il volto con dell’acqua, e tornò nella stanza in cui si era svegliato per recuperare cellulare e portafoglio.

La camera di Alison era piccola, a malapena conteneva il grande letto matrimoniale, e arredata in modo minimo: un armadio e un comodino con sopra una sveglia. Lo sguardo di Nate cadde sui numeri verdi di questa.

Imprecò in mezzo ai denti e si lanciò fuori dall’abitazione.

Emerse in una via che non conosceva e si guardò attorno alla disperata ricerca di una pensilina. Inutilmente.

«Merda.»

Il suo cellulare era morto e non avrebbe potuto chiamare un taxi neanche se avesse avuto abbastanza soldi per pagarlo. Si guardò attorno e notò la vecchia auto di Alison parcheggiata poco lontano.

Rientrò nella casa e si mise a frugare in cucina. Trovò le chiavi in uno strano piattino di rame al centro del tavolo.

Senza troppi rimpianti, le afferrò e uscì dalla casa.

 

 

Arrivò al lavoro trafelato, dopo mezz’ora di imprecazioni da parte di tutti gli automobilisti che aveva superato durante il viaggio.

Sapeva che, se era fortunato, nessuno lo aveva cercato al controllo qualità e poteva fingere di aver sbagliato a timbrare.

Parcheggiò e scese dall’auto al volo, poi corse negli spogliatoi. Si era appena tolto i pantaloni, sentì dei passi avvicinarsi. Non ebbe neanche il tempo di nascondersi prima di veder comparire il familiare pizzetto del responsabile di produzione.

«Winchester» ringhiò non appena lo vide e con due falcate arrivò ad alitargli sul viso. «È tutta la mattina che ti cerco.»

Nate fece un passo indietro e sentì il freddo metallo della panca contro le ginocchia nude.

«Mi dispiace, la sveglia...»

«Risparmia fiato e sparisci dalla mia vista. Non credere che non riporterò questa cosa.»

Il ragazzo fece un cenno d’assenso e si infilò rapidamente la tuta. Mentre stava per uscire dagli spogliatoi, l’uomo si voltò nuovamente verso di lui.

«Non sapevo che le sveglie avessero gli artigli.»

Nate evitò di fare domande e si diresse alla sua postazione.

Quando lo sentì entrare, Rugero alzò lo sguardo dal pezzo che stava controllando, ma non fece commenti. Gli lanciò un’occhiata e tornò a lavorare.

 

 

Nate passò la pausa pranzo piegato davanti ad un wc. Aveva sperato di riuscire a recuperare le due ore perse rinunciando a mangiare, ma l’insistente mal di testa che lo aveva accompagnato per tutta la mattina si era rapidamente tramutato in nausea e poi in conati di vomito.

«Credevo fossi uno che regge l’alcol» commentò Rugero fuori dalla porta. «Con quell’aria da chi ha provato tutto della vita.»

«Lo ero» rispose Nate raddrizzandosi, «prima di smettere di berlo.»

Uscì dal bagno e si diresse verso i lavandini.

«Perché hai smesso?» 

Il ragazzo si sciacquò il volto e si ritrovò a fissare il proprio riflesso di fronte a sé.

«Non mi faceva bene» replicò e nello specchio vide Rugero corrugare la fronte.

Dato l’ultima cosa di cui aveva bisogno era rispondere alle domande di qualcuno, decise che era il momento di tornare al lavoro.

Controllò un’ultima volta il cellulare – che aveva messo in carica mentre lavorava – ma non trovò nulla di più interessante delle minacce di Alison se non gli avesse riportato l’auto.

«Nate» lo richiamò il collega. «Forse dovresti andare a casa.»

Il ragazzo lo squadrò, poi scosse il capo e uscì dai bagni.

 

 

 

***

 

 

 

Sabato arrivò in fretta.

Mike aveva insistito per portare Jay in un parco avventura. Nate non era stato entusiasta all’idea, ma sapeva che quello era il tipo di adrenalina controllata che Jay avrebbe apprezzato. E sapeva che Mike era più bravo di lui a scegliere i regali.

Il furto aveva scosso tutti, ma dato che avevano già versato la caparra avevano deciso di andare lo stesso.

Jay li svegliò alle otto e li costrinse a salire in auto senza fare colazione.

«Mangeremo sulla strada, ho già preparato dei toast» li zittì mettendosi dietro al volante, mentre gli altri due si trascinavano giù dalle scale.

Mike bofonchiò qualcosa dal sedile posteriore, spostandosi i lunghi capelli biondi dagli occhi.

«Dovrei essere io quello che si lamenta, dato che devo guidare il giorno del mio compleanno» disse immettendosi in strada.

«Se vuoi posso guidare io» si propose Nate.

«Scordatelo, non tocchi la mia auto.»

L’alto scrollò le spalle: «Visto? È una tua scelta.» 

«L’ultima volta che Mike ha guidato gli hanno ritirato la patente, e tu…» Jay fece una pausa e sospirò.

«Sapete che c’è?» riprese, lanciando un’occhiata nello specchietto retrovisore, «è il mio compleanno, oggi penso solo a divertirmi.»

«Amen, fratello» esclamò Mike e si allungò tra i sedili posteriori per alzare il volume al massimo.

Nate vide Jay stringere il volante e serrare la mascella, poi improvvisamente rilassarsi e concedersi un piccolo sorriso.

La loro auto sfrecciò tra le corsie affollate di quelli che non vedevano l’ora di lasciare la città per il weekend. Minivan stipati di famiglie numerose, sportive di ricchi single, sfrecciavano le une accanto alle altre, tutte dirette nella stessa direzione.

A metà viaggio, si fermarono al lato della strada per mangiare il pane che Jay avevano tostato e imburrato mentre gli altri due si buttavano giù dal letto.

Erano ormai usciti dal centro urbano e gli edifici si erano fatti più rari, concentrati solo nei piccoli centri abitati. In quel momento erano circondati dal verde dei boschi tra cui serpeggiava un’unica strada a due corsie.

Jay parcheggiò l’auto in uno spiazzo sterrato e costrinse gli altri a scendere per non sbriciolare all’interno.

Mike si sedette sul cofano e incrociò le braccia al petto.

«In città non faceva così freddo» commentò prendendo il panino che Jay gli tendeva. Quest’ultimo alzò gli occhi al cielo.

«Che c’è?» 

Nate rise.

«Ha attaccato un post-it al frigo per ricordarci di prendere un maglione caldo» gli disse, indicando Jay, poi estrasse dalla tasca un pacchetto di sigarette e se ne infilò una in bocca.

Jay gli rivolse uno sguardo interrogativo, ma fu Mike a parlare: «Credevo avessi smesso.»

Nate scrollò le spalle e prese un lungo tiro.

«Ho cambiato idea.»

La lontananza dalla città cominciò a farsi sentire nei loro toni più spensierati e allegri.

Ripresero il viaggio e in meno di due ore raggiunsero il parco avventura. Si trattava di una porzione di bosco in cui erano stati installati percorsi tra gli alberi, mentre una zona adiacente era stata riservata al campeggio.

Lasciarono l’auto nel parcheggio polveroso mezzo pieno e si avviarono a piedi verso l’ingresso.

Un piccolo capanno in legno accanto al cartello di benvenuto fungeva da biglietteria. Li accolse un uomo massiccio, con una barba folta e una camicia a quadri troppo stretta sul ventre.

Dopo averli registrati, consegnò loro una mappa e le attrezzature: «Buon divertimento.»

Nate le prese borbottando e uscì dal capanno.

Nel parco c’erano altri clienti e, in alto, tra gli alberi si notavano i loro abiti colorati.

Il ragazzo li scrutò, strizzando gli occhi a causa del cielo luminoso. Era una giornata soleggiata e solo poche nuvole coloravano di bianco il turchino del cielo.

«Ancora terrorizzato dalle altezze?» 

Nate si voltò e vide Jay avvicinarsi.

«Tu… te lo ricordavi?» gli domandò.

L’altro sorrise: «Non dimenticherò mai il tuo sguardo di terrore.»

Nate visualizzò vividamente nella propria testa l’immagine e rabbrividì.

«E mi hai comunque portato qui? Stronzo.»

 

Jay volle provare tutti i percorsi adrenalinici -ad eccezione di quelli in cui si erano verificati incidenti, poco importava se fosse trattato di cadute o infarti. 

Mike lo accontentò di buon grado, divertendosi come un bambino al luna park.

A metà giornata Nate si assentò con la scusa che qualcuno doveva montare la tenda e li lasciò provare i brividi a quote più alte.

Quando la sera gli altri due lo raggiunsero, aveva già costruito un piccolo falò e li stava aspettando accanto al fuoco.

Con il calare del sole la temperatura era scesa parecchio e tutto si era fatto freddo e scuro.

«Non sai cosa ti sei perso, amico» lo salutò Mike sedendosi di fronte a lui.

«Vedere Jay spettinato è già un’emozione abbastanza grande.»

«Coglione» borbottò il diretto interessato.

«Lo sai che ti vogliamo bene.»

Nonostante il falò facesse molta scena, con la sua luce rossastra e le fiamme che ondeggiavano sospinte dal vento, non fu necessario per preparare la cena. Avevano portato da casa abbastanza cibo confezionato per mangiare tutta notte.

Mentre cenavano, nel cerchio di luce che il fuoco ritagliava dall’oscurità della notte, fu come se per un istante, non esistesse nient’altro al di fuori di quel cerchio. Tutto ciò che era avvolto dalle tenebre, era occultato anche nei loro pensieri e, per quella sera, non li avrebbe assillati. Ogni preoccupazione evaporò nella notte, e rimase solo il presente.

Quando le loro pance furono piene e il tepore li ebbe resi sonnolenti, stesero una coperta fuori dalla tenda e vi si sdraiarono uno accanto all’altro.

«Come quando eravamo bambini» commentò Mike sorridendo.

Il cielo era limpido e sul nero pece si scorgevano le stelle, più luminose di quelle della città.

«Jay, non volevi fare l’astronomo da piccolo?» domandò Nate.

«Quando avevo dieci anni, ormai non ricordo neanche più i nomi delle costellazioni.»

Trovarono nuove forme e inventarono nuove costellazioni, indicando le stelle con gli indici e ribaltando il capo indietro.

«Buon compleanno a Jay» disse ad un tratto Mike, «un amico leale, sincero, rompicoglioni, ma che cercherà sempre il meglio per te.»

Jay rise.

Mike tirò a Nate una gomitata nelle costole.

«Ahi, che c’è?» 

«Tocca a te.»

Nate sospirò: «Jay sa che gli voglio bene.»

«È vero, lo so.»

Nate si voltò verso Mike come per dimostrare un punto.

«Tra pochi giorni sono due anni da quando siamo partiti» disse Jay, cambiando argomento.

«Tieni il conto?» domandò Mike ridacchiando.

«Sì, e anche Nate.»

Rimasero a guardare le stelle in silenzio e fino a che Mike cominciò a raccontare le storie del loro passato.

Risero dei loro errori e si commossero per i bei momenti andati. Ricordarono la scuola, le feste, i tornei di videogiochi e quelli di basket, le risse, i litigi e le riappacificazioni.

Nate sentì che Jay si era voltato verso di lui

«Ti manca, non è vero?» gli chiese.

Lui si mise seduto, ma non rispose.

Gli altri due, alle sue spalle, si scambiarono uno sguardo d’intesa.

«È per questo che conti i giorni?» domandò Mike.

Nate prese un respiro profondo, poi estrasse dalla tasca una sigaretta e se la infilò in bocca.

«È vietato fumare qui.»

«Fanculo Jay» gli rispose alzandosi in piedi.

Si allontanò di qualche passo e accese la sigaretta.

Si mise a passeggiare sul confine della zona destinata al campeggio, prendendo lungo boccate ed espirando nuovamente. Ogni volta che buttava fuori il fumo dalle labbra si dava del cretino, ma ogni volta che aspirava dalla sigaretta riprendeva a sentirsi vivo.

Credeva che due anni fossero abbastanza per dimenticare, che una vita nuova avrebbe cancellato tutti i problemi di quella vecchia. Eppure, si ritrovava nel cuore della notte in un bosco buio e vedeva, più chiaramente che alla luce del sole, come tutti i suoi propositi fossero caduti e distrutti. 

Con un movimento impulsivo prese il cellulare. Lo schermo proiettò una luce azzurrognola sul suo viso mentre si accendeva. 

Aprì la rubrica, la fece scorrere nome per nome. Esitò un istante su uno dei contatti e fu sul punto di comporre il messaggio. Poi, velocemente come lo aveva preso, rimise il cellulare al suo posto e si maledisse mentalmente.

 

 

   
 
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