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Autore: thors    10/02/2021    13 recensioni
Parigi, XXII secolo. Il concetto di famiglia è profondamente cambiato rispetto a quello che conosciamo, perché gli androidi vengono spesso scelti come spose o mariti.
Jerome, però, è un ragazzo di vecchio stampo; avere a che fare con queste macchine è il suo lavoro, ma desidera una donna vera come compagna. Conoscerà la ragazza dei suoi sogni, ma in questa storia dovrà comunque addentrarsi nei meandri delle menti artificiali.
[Prima classificata nel contest Cybervalentino indetto da Spettro94 sul forum di Efp]
[Sesta classificata nel combattutissimo contest "Let’s cliché!" indetto da _Vintage_ sul forum di EFP]
[Storia partecipante alla Challenge dei 100 baci indetto da cowboy89 sul forum di EFP]
[03/04/2025 - Storia revisionata e ampliata con il terzo capitolo]
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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1. Il primo incontro

 

Glossario

 

Androide matrice, androidi che vengono presi in affitto per il tempo della gravidanza.

Finestre video, finestre che consentono di visualizzare un video differente in ciascuna faccia del vetro.

 

***

 

Una densa foschia ammantava la square de l’Île-de-France, donando un aspetto fiabesco al giardino e alle acque limpide e placide della Senna. Notre-Dame era alle spalle di Jerome e gli avrebbe offerto uno spettacolo forse ancora più suggestivo, dopo il recente restauro del tetto e delle arcate, ma lui preferiva il limite sud-est del parco, da dove, se il tempo lo permetteva, poteva osservare il vicino isolotto di Sant-Luis. Nel corso degli ultimi cinquant’anni, tutti i monumenti e gli edifici storici presenti nel paese erano stati ristrutturati, mentre molti altri, spesso in modo un po’ fantasioso, erano stati ricostruiti ex novo. Quest’ultimo era il caso di Sant-Luis e dei suoi affascinanti quartieri medievali: le torri e le ville originali, infatti, non esistevano più già da molti secoli, e certamente non erano paragonabili in numero e maestosità alle attuali.

Jerome era un ragazzo di venticinque anni, alto, di corporatura imponente e fisico asciutto, il genere di uomo che non passa inosservato e che preferisce la solitudine per rilassarsi. Com’era diventata sua abitudine, si stava dirigendo verso l’ultima panchina del parco, quella a ridosso del fiume, dove poteva sfuggire alle voci chiassose dei turisti e ritrovare la pace che gli era necessaria dopo un turno di lavoro.

La bioingegneria robotica l’aveva conquistato sin da ragazzino. Nei primi, felici anni di università, passati a studiare fino a tarda notte e a sperimentare senza sosta materiali innovativi per simulare pelle e muscoli, sognava di rendere le protesi mediche del tutto indistinguibili dalle parti anatomiche umane. Sembrava un ambito di studio promettente quando aveva iniziato gli studi, ma solo un paio d’anni più tardi vi era stata una svolta cruciale nelle cure rigenerative; e ora, nell’arco di un mese, era possibile ricreare quasi completamente il corpo di una persona.

Nel contempo, il mercato degli androidi era letteralmente esploso grazie alla produzione di modelli sempre più identici agli esseri umani in ogni dettaglio fisico, e per Jerome era stato quasi inevitabile trovar impiego in quel settore. Lui si occupava di progettare i tessuti artificiali e di verificare che pelle, muscoli e movimenti apparissero naturali quando la macchina era completa. Siccome non venivano mai costruiti più di due androidi identici, passava gran parte del tempo con un team di esperti cercando difetti nei corpi nudi e artificiali di qualunque età, mentre questi camminavano o compivano una lunga serie di gesti prefissati. L’esame più noioso e importante, però, riguardava il viso, perché i sistemi di progettazione automatica ancora fallivano nel riprodurre in modo credibile la complessità di un volto, e quindi bisognava correggere i lineamenti e verificare ogni ruga mentre gli androidi parlavano o simulavano le emozioni programmate.

Se l’eccitazione erotica nel vedere e toccare ragazze bellissime si era esaurita durante la prima giornata di lavoro, nei due anni successivi Jerome era diventato insofferente alle proprie mansioni. Non riusciva più a tollerare i cervelli artificiali, che erano ancora una brutta imitazione di quelli umani in quanto a sentimenti, umorismo, creatività e senso artistico; e la totale assenza di imperfezioni in quei corpi sintetici gli era diventata insopportabile, quasi quanto la mancanza di un’anima che li abitasse.

Erano però in molti ad avere opinioni diametralmente diverse dalle sue, e questo non mancava di sorprenderlo ogni volta che ci pensava. Gran parte dei suoi amici si erano scelti un androide come compagno perché quei “feticci”, come lui li chiamava, avevano il vantaggio di esser costruiti su misura, secondo le preferenze del committente. Non solo l’aspetto, il carattere, il lessico e il tono di voce potevano essere personalizzati, ma anche la simulazione emotiva a un’amplissima gamma di frasi e situazioni.

Mentre i due terzi dei suoi coetanei maschi preferivano una formula di affitto a media durata, quasi la metà delle donne ancora nubili pensavano di costruirsi una famiglia prendendo un uomo di polimeri sintetici e metallo come marito. Anche Annette, la sua ultima ragazza, dopo due anni di convivenza, aveva preferito farsi consegnare una macchina che fosse sempre d’accordo con lei. Jerome, al contrario, voleva una donna vera, coi suoi difetti, con la quale litigare se necessario, e se lei avesse voluto far sostenere la gravidanza a una incubatrice o, piuttosto, a un androide matrice per osservarne l’evoluzione simil naturale anche a casa… beh, ne avrebbero discusso assieme.

A tutto questo pensava mentre camminava verso il suo posto preferito, e quel che desiderava quel giorno era solo godere di un po’ di solitudine e distrarsi dai suoi problemi. All’ultimo momento s’accorse che una ragazza dai capelli castani stava occupando la panchina. Si guardò intorno, cercandone una libera, ma la fitta nebbia non gli era affatto d’aiuto. Avvisò la sconosciuta della propria presenza con qualcosa a metà tra un saluto e una scusa e, senza neppure guardarla in viso, si sedette a poca distanza da uno zainetto sul quale spiccava un vecchio orsacchiotto di peluche. Dato che non si vedeva quasi nulla a più di trenta passi di distanza, gli era impossibile ammirare l’isolotto, perciò si sfilò di tasca il palmare, selezionò l’opzione “lettore ebook” e, non appena lo schermo si fu allargato, riprese la lettura de “Il conte di Montecristo”. Adorava lo stile di Dumas e provava un senso di nostalgia per le epoche passate, nelle quali l’amore ordinario era tra uomini e donne in carne ed ossa.

 

Dopo aver divorato cinque pagine, Jerome fu distratto dallo squillo di un telefono. La ragazza lo estrasse da una tasca e si spostò di alcuni passi prima di rispondere. Sicuramente si era allontanata per non infastidirlo, ma lui poteva ugualmente ascoltare la sua voce, dolcissima e un po’ inquieta.

«Buonasera… Sì, sono io… Capisco… Quindi non farete più aggiornamenti…» Sembrava tanto scossa che Jerome dovette girarsi a guardarla, ma poté vedere solo i suoi lunghi capelli, che le scendevano di una spanna oltre le spalle. «E le manutenzioni periodiche?» Seguì un’altra breve pausa. «Scusate ancora… La sede di Parigi resterà attiva?»

Quando tornò alla panchina stava piangendo. Afferrò lo zaino, farfugliò qualche parola di scusa e se ne andò via quasi di corsa. Jerome vide il suo volto solo per un attimo, ma quell’istante gli fu sufficiente per scoprire quanto fosse bella e per fargli battere il cuore come un tamburo. Notò l’orsacchiotto cadere per terra e lo raccolse senza esitare nemmeno un istante. La ragazza, però, era già svanita, e lui corse verso l’ingresso con la folle paura di averla perduta.

Non appena la rivide, con il fiatone e con il cuore che martellava, le urlò: «Scusami!»

Lei si fermò e si voltò lentamente, mostrando a Jerome due grandi occhi verdi, ammalianti nella loro tristezza, ed un viso soave bagnato dalle lacrime.

«Ti era caduto…» mormorò lui, piegato in avanti per la fatica, mentre le porgeva il peluche con una mano incerta. «Sei… velocissima.»

La ragazza fissò senza rispondere quel giovane dalle spalle larghe, sfinito per la corsa attraverso il parco, e si ritrovò per un momento a ridere e a piangere insieme. All’improvviso il suo volto si imporporò, e lei lo nascose dietro due mani delicate. Quando le abbassò, rivolse a Jerome un sorriso imbarazzato e tanto affascinante da commuoverlo. «Mi scusi, io non avrei dovuto…» Sospirò, tese verso il suo orsacchiotto una mano esitante e sfiorò quella tremante che glielo tendeva. «Grazie mille, davvero.»

Quel tocco leggero fece palpitare il cuore del ragazzo. «Scusami, ma prima io… Stai bene?»

Lei si strinse il peluche al petto e, abbassando lo sguardo, gli rispose: «Oh, mi dispiace… Non volevo farvi preoccupare.»

Jerome temette che sarebbe scappata di nuovo se non le avesse detto subito qualcos’altro. Senza pensare, e trattenendo il respiro, col cuore che gli pareva sul punto di scoppiare, azzardò: «Mi sentirei meglio… se ti lasciassi offrire un tè.»

Lei s’irrigidì, parve incerta tra il voltarsi e il rispondere e sembrò ancor più indecisa quando alzò gli occhi e incrociò timidamente lo sguardo pieno di speranza del ragazzo.

«C’è… c’è un ottimo caffè accanto al Notre-Dame…», suggerì Jerome. «Ho bisogno anch’io di qualcosa di caldo per calmarmi.»

«Io… vi ringrazio… ma non vi dovete disturbare.»

«Nessun disturbo», insistette lui. «Anzi, mi farebbe piacere.»

Lei si guardò attorno, poi controllò l’ora sul suo telefono, e le sue guance graziose si arrossarono nuovamente. «Allora… sarò io a offrirvi un tè. Mi sentirei troppo in debito… altrimenti.»

Dopo aver ringraziato la telefonata e l’orsetto di peluche, Jerome portò una mano davanti alla bocca e tossì per non mostrarle un disdicevole sorriso di gioia e sollievo, dopo le fece strada verso il locale cercando di contenere la felicità e pentendosi di aver gioito per qualcosa che l’aveva fatta soffrire. Fatti alcuni passi, celò l’emozione schiarendosi la voce e le disse: «Non ci siamo ancora presentati. Io… mi chiamo Jerome.»

«Nadine», replicò lei. «Vi ringrazio davvero per avermi rincorsa. Oh! Per avermi riportato l’orsacchiotto… intendevo dire… È un caro ricordo.»

I modi impacciati della giovane fecero sorridere il ragazzo. «Lo avevo immaginato. Siamo quasi arrivati: il caffè è qui vicino.»

 

Dopo una breve camminata, Jerome le indicò una porta di legno scuro, dove capeggiava la scritta in caratteri d’oro: “Café bossu”. Aprì un battente, la fece entrare per prima e la seguì sino a un tavolino libero. Sedutisi l’uno di fronte all’altra, ordinarono due tè caldi all’assistente vocale, e un silenzio imbarazzante si alzò fra i due.

«Vengo quasi ogni sera al parco» disse lui, sforzandosi di nascondere quanto fosse agitato, «e mi siedo sempre sulla stessa panchina, quella dove ci siamo incontrati. Penso offra la vista più bella, almeno quando l’aria è tersa, ma stranamente è raro che la trovi occupata. Se posso chiedertelo… tu abiti qui vicino?»

«No… io vivo nella periferia, verso Sant-Denis.» Nadine attese che una cameriera in carne e ossa posasse il vassoio sul tavolino. Poi, dopo aver sorseggiato una bevanda calda dal profumo di menta e miele, finalmente riuscì ad affrontare lo sguardo di Jerome senza arrossire e a parlare con sicurezza. «Sto cercando un appartamento qui nei dintorni, perché da circa un mese lavoro in Rue Molière, come insegnante di scuola elementare. Sai, i miei orari cambiano spesso all’ultimo momento a causa delle supplenze… e una casa meno distante mi farebbe comodo. Dovevo vederne una tra poco, ma dovrò mandare un messaggio al proprietario, perché adesso… non posso più permettermela.»

«Colpa della telefonata, immagino. Mi dispiace.»

Lei abbassò lo sguardo verso la sua tazza e riprese a mescolarne il contenuto. «Non era nulla di così importante. Il fatto è che non me l’aspettavo e sono andata un po’ nel panico.» Alzò il capo, piegò le labbra in un sorriso che sarebbe apparso sereno se i suoi occhi non fossero stati ancora malinconici e, cercando di apparire allegra, aggiunse: «Per fortuna c’era la nebbia…»

Nella mente di Jerome balenò l’idea che lei avesse almeno un organo artificiale. Era un’ipotesi che gli pareva sensata, considerando la telefonata e la sua reazione. Forse era un po’ troppo apprensiva, perché qualunque congegno avesse in corpo avrebbe dovuto continuare a funzionare bene anche solo con le normali manutenzioni. Però, se aveva ragione, lei doveva essere una delle rarissime persone sulle quali il trattamento di rigenerazione ancora non funzionava, e pensare che fosse così sfortunata gli strinse il cuore. Avrebbe voluto farle qualche domanda e scoprire di essersi sbagliato, ma gli sembrò scortese impicciarsi nei suoi problemi.

Apprezzava, però, la forza d’animo che lei dimostrava nel voler apparire più tranquilla di quanto non fosse realmente e ricambiò il suo sorriso per incoraggiarla. «Sono sicuro che riuscirai a sistemare tutto. Io vivo in un condominio a circa venti minuti da qui, dietro la Basilica del Sacro Cuore. Gli appartamenti sono tenuti bene, hanno grossomodo tutto quel che serve… ma sono stati costruiti nella preistoria, quando le finestre video ancora non esistevano. Gli affitti sono a livello di quelli in periferia, perciò… forse potrebbero interessarti. Se vuoi posso girarti il numero dell’amministratore.»

«L’apprezzerei davvero», rispose lei, lasciando intravedere nel suo viso un’autentica riconoscenza. «Quella zona mi andrebbe benissimo.»

Jerome fu sorpreso dalla nuova luce che le aveva rischiarato il viso e ne fu incantato al punto da non saper più cosa dire. Fortunatamente, prima che il silenzio tornasse a metterlo a disagio, Nadine lo salvò chiedendogli quale fosse il suo lavoro. Mentre le rispondeva, si accorse di aver attirato il suo interesse, perciò preferì nasconderle quanto avesse ormai in odio gli androidi e le proprie mansioni.

«Sai,» disse cercando di rallegrarla, «c’è uno stile artistico di pittura, scultura e… composizione – credo sia questo il nome – che è stato di moda dal ventesimo secolo sino a circa sessant’anni fa, nel quale gli androidi si sono dimostrati anche più bravi degli umani.»

Lei parve sinceramente sorpresa. «Davvero? Credevo che solo alcuni modelli sperimentali sapessero creare opere apprezzabili.»

«Dico sul serio. Era chiamata “arte moderna”, e quando gli artisti umani hanno capito di esser stati battuti dagli androidi, finalmente il mondo se ne è liberato», toccò un paio di volte il proprio telefono e poi glielo porse. «Scorri pure le immagini e prova a indovinare se l’opera è stata creata da un essere umano o da una macchina.»

«Sono solo dei tagli su un pezzo di tela… Davvero queste cose piacevano a qualcuno?» Nadine spostò per un momento il proprio sguardo divertito e perplesso sul ragazzo, poi aggiunse: «Provo… Quest’opera d’arte l’ha fatta una macchina.»

Dopo essersi spostato accanto a lei, il ragazzo premette un pulsante sullo schermo per far comparire i dettagli dell’opera e le rispose: «Questa l’hai sbagliata.» Passò a quella seguente, un piccolo foro su una parete bianca, al centro di un quadrato tracciato con lo scotch di carta. «Qui ti offro un aiuto: risale alla fine del ventesimo secolo ed è stata esposta in un museo, ma solo per un pomeriggio.»

«Non mi sei molto d’aiuto…» brontolò lei, ingrandendo l’immagine fino al massimo e seguendo attentamente il nastro adesivo. «Oh! Sono stata fortunata: qui c’è un capello! Anche questo l’ha fatto un essere umano!»

«Corretto», confermò Jerome, rivolgendole un sorriso leggermente beffardo. «Lì era appesa una delle opere esposte, ma un bambino la fece cadere assieme al chiodo che c’era attaccato. Era andata completamente in pezzi e non la si poteva riparare, così un inserviente portò via tutto. Però, dato che era una persona gentile e il suo turno stava per finire, prima di uscire dalla sala pensò di aiutare chi avrebbe finito il lavoro e, così, usò quel che aveva per indicare bene il buco da stuccare.»

«Ma allora mi hai presa in giro…» protestò Nadine, fingendosi offesa. «Non era un’opera d’arte!»

«Forse no», rispose lui, «ma i visitatori in fila per vedere quel buco incorniciato credettero di sì. Erano talmente tanti che fu possibile sistemare il muro solo dopo la chiusura del museo. Pensa che il giorno seguente comparvero sui quotidiani gli elogi di alcuni critici, gente che come gli altri avevano fatto la coda per ammirarlo. Avrei voluto vedere le loro facce, quando lessero l’articolo di scuse fatto scrivere in tutta fretta dal museo.»

Lei non rise come avrebbe sperato Jerome, ma parve aver gradito il racconto, e soprattutto passò all’immagine successiva, una statua del tutto priva di fascino, e poi ad altre ancora, alternando risposte esatte e sbagliate. Il gioco si interruppe quando sul telefono comparve un messaggio, e lei, leggendone l’anteprima, si incupì.

«Oh, no», si disperò Jerome. «Credimi, odio anch’io queste cose. È un mio cugino col quale litigo spesso. È convinto che vi siano dei complotti per distruggere l’umanità tramite gli androidi e si ostina a farmi conoscere ogni “prova” della sue teorie. Bloccherei il suo numero, se potessi, ma lui che organizza i ritrovi di famiglia.» Si riprese il telefono e tornò a sedersi al proprio posto, maledicendo quell’idiota che pensava di saperne più di lui e che in quel frangente si era dimostrato maledettamente inopportuno. Cambiò argomento e conversò con Nadine per più di un’ora, gioendo ogni volta che la faceva ridere, e la lasciò dopo che si furono scambiati i numeri di telefono. Guardando la sua figura scomparire nella folla, giurò a se stesso che avrebbe fatto qualunque cosa pur di conquistarla.

 

Il secondo incontro avvenne due giorni più tardi, quando Nadine andò a visitare gli appartamenti liberi dietro la basilica del Sacro Cuore. Trascorsa una settimana, lei traslocò nella sua nuova abitazione e, se non era Jerome a farle visita la sera, era lei ad andare a cercarlo per fare due passi nelle vie del centro e per chiacchierare fino a tardi.

Nadine si preparava con cura ogni volta che dovevano vedersi, apparendo incantevole in qualunque abito indossasse, e col tempo la sua timidezza si attenuò un poco, diventando piacevolmente stravagante. Quando si sentiva particolarmente felice, infatti, era capace di volteggiare su se stessa con l’eleganza di una ballerina, salvo poi vergognarsi degli sguardi ammirati o invidiosi dei passanti, e dopo nascondeva il viso contro il petto del ragazzo. Mentre lei lo abbracciava e soffocava a quel modo una risata divertita, Jerome la stringeva con dolcezza e le baciava i capelli, perché la superava in altezza di una buona spanna.

A un mese dal primo incontro, si trasferirono in un appartamento più grande dello stesso condominio, e la convivenza li portò ai loro primi litigi, piccole difficoltà che diedero ancor più gusto alla vita insieme. Lei si irritava per il disordine e aveva un modo tutto suo di arrabbiarsi: toglieva quel che c’era in una scaffalatura, in un armadio o nei cassettoni della cucina e manteneva un ostinato silenzio finché non aveva riorganizzato tutto. Lui, invece, non capiva perché avesse voluto a tutti i costi un’enorme vasca da bagno, dato che si lavava sempre nella doccia, e fu costretto a imparare i balli popolari, sebbene di questo non ebbe da lamentarsi a lungo.

Come insegnante, Nadine aveva una pazienza infinita, ma era anche altrettanto spietata: gli faceva ripetere i movimenti finché non riusciva a stare al passo con lei e con gli ologrammi che completavano le formazioni. Jerome protestò solo nelle prime due settimane, quando, al pari dei danzatori che vedevano un gigante unirsi ai loro cerchi, non credeva affatto di poter combinare qualcosa di buono. Lei, però, continuò a incoraggiarlo con una dolcezza irresistibile e infine gli fece comprendere di essere in errore. In seguito, presero a recarsi ogni giovedì nella vicina Place du Tertre, dove entrambi si divertivano insieme alla compagnia di ballo amatoriale che lì si ritrovava regolarmente.

A Jerome, Parigi non era mai apparsa tanto vivace e meravigliosa, ma quella felicità che credeva dovesse durare in eterno subì un colpo durissimo all’inizio dell’estate.

   
 
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