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Autore: thors    10/02/2021    12 recensioni
Parigi, XXII secolo. Il concetto di famiglia è profondamente cambiato rispetto a quello che conosciamo, perché gli androidi vengono spesso scelti come spose o mariti.
Jerome, però, è un ragazzo di vecchio stampo; avere a che fare con queste macchine è il suo lavoro, ma desidera una donna vera come compagna. Conoscerà la ragazza dei suoi sogni, ma in questa storia dovrà comunque addentrarsi nei meandri delle menti artificiali.
[Prima classificata nel contest Cybervalentino indetto da Spettro94 sul forum di Efp]
[Sesta classificata nel combattutissimo contest "Let’s cliché!" indetto da _Vintage_ sul forum di EFP]
[Storia partecipante alla challenge "Solo i fiori sanno" indetta da Pampa313 sul forum di EFP]
["Challenge delle Parole Quasi Intraducibili" organizzata da Soly Dea sul forum di EFP]
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Nadine, una ragazza del XXII secolo

 

Glossario

Androide matrice, androidi che vengono presi in affitto per il tempo della gravidanza.

Finestre video, finestre che consentono di visualizzare un video differente ciascuna faccia del vetro.

Cerio, è una terra rara.

Scandio, altra terra rara.

Pattino magnetico, un monopattino senza ruote, si muove sfruttando il campo magnetico generato dalla pavimentazione delle apposite corsie.

Tracciatori di spettro atomico, strumenti capaci di rintracciare particolari materiali e sostanze tramite analisi sullo spettro atomico.

Androidphobe, letteralmente “che detestano gli androidi”.

 

***

 

Una densa foschia ammantava square de l'Île-de-France donando un aspetto fiabesco al giardino e alle acque limpide e placide della Senna. Notre-Dame era alle spalle di Jerome e avrebbe offerto uno spettacolo forse ancora più suggestivo dopo il recente restauro del tetto e delle arcate, ma lui preferiva andare al limite del parco, da dove, se il tempo lo permetteva, poteva osservare il vicino isolotto di Sant Luis. Nel corso degli ultimi cinquant’anni, tutti i monumenti e gli edifici storici presenti nel paese erano stati ristrutturati, ma molti altri, in modo spesso un po’ fantasioso, erano stati totalmente ricostruiti ex novo. Quest’ultimo era il caso di Sant Luis e dei suoi affascinanti quartieri medievali: le torri e le ville originali, infatti, non esistevano più già da molti secoli, e certamente non erano paragonabili in numero e maestosità con le attuali.

Jerome era un ragazzo di venticinque anni, alto, di corporatura imponente e fisico asciutto, il genere di uomo che non passa inosservato e che preferisce la solitudine per rilassarsi. Com’era diventata sua abitudine, si stava dirigendo verso l’ultima panchina del parco, quella a ridosso del fiume, dove poteva sfuggire alle voci chiassose dei turisti e ritrovare la pace che gli era necessaria dopo il suo turno di lavoro.

La bioingegneria robotica l’aveva conquistato sin da ragazzino. Nei felici anni d’università, passati a studiare fino a tarda notte e a sperimentare senza sosta materiali innovativi per simulare pelle e muscoli, sognava di rendere le protesi mediche del tutto indistinguibili dalle parti anatomiche umane. Questo appariva un settore di studio promettente quando aveva iniziato gli studi, ma solo un paio d’anni dopo vi era stata una svolta cruciale nelle cure rigenerative, ed ora, nell’arco di un mese, era possibile ricreare quasi completamente il corpo di una persona.

Il mercato degli androidi, al contrario, era letteralmente esploso grazie alla produzione di modelli sempre più identici agli esseri umani in ogni dettaglio fisico, e per Jerome era stato quasi inevitabile trovar impiego in quel settore. Lui si occupava di progettare i tessuti artificiali e di verificare che pelle, muscoli e movimenti apparissero naturali quando la macchina era completa. Siccome non venivano mai costruiti più di due androidi identici, gran parte del suo tempo lo passava con un team di esperti cercando difetti nei corpi nudi e artificiali di donne e uomini di qualunque età, mentre questi camminavano o compivano una lunga serie di gesti prefissati. L’esame più noioso e importante, però, riguardava il viso, perché i sistemi di progettazione automatica ancora fallivano nel riprodurre in modo credibile la complessità di un volto, e quindi bisognava correggere i lineamenti e verificare ogni ruga mentre gli androidi parlavano o simulavano le emozioni programmate.

Se l’eccitazione erotica nel vedere e toccare ragazze bellissime si era esaurita durante la prima ora di lavoro, nei due anni successivi Jerome divenne insofferente alle sue mansioni. Non riusciva più a tollerare i cervelli artificiali, che erano ancora una brutta imitazione di quelli umani in quanto a sentimenti, umorismo, creatività e senso artistico; e la totale assenza di imperfezioni in quei corpi sintetici gli era diventata insopportabile quasi quanto la mancanza di un’anima che li abitasse.

Erano però in molti ad avere opinioni diametralmente diverse dalle sue, e questo non mancava di sorprenderlo ogni volta che ci pensava. Gran parte dei suoi amici si erano scelti un androide come compagno perché quei “feticci”, come lui li chiamava, avevano il vantaggio di esser costruiti su misura, secondo le loro preferenze. Non solo l’aspetto, il carattere, il lessico e il tono di voce potevano essere personalizzati, ma anche la simulazione emotiva ad un’amplissima gamma di frasi e situazioni.

Mentre i due terzi dei suoi coetanei maschi preferivano una formula di affitto a media durata, quasi la metà delle donne ancora nubili pensavano di costruirsi una famiglia prendendo un uomo di plastica e metallo come marito, e anche Annette, la sua ultima ragazza, dopo due anni di convivenza, aveva infine preferito farsi consegnare una macchina che fosse sempre d’accordo con lei. Jerome, invece, voleva una donna vera, coi suoi difetti, con la quale litigare se necessario, e se lei avesse voluto far sostenere la gravidanza ad una incubatrice o, piuttosto, ad un androide matrice per osservarne l’evoluzione simil naturale anche a casa… Beh, di questo ne avrebbero discusso assieme.

A tutto questo pensava mentre camminava verso il suo posto preferito, e quel che desiderava quel giorno era solo godere di un po’ di solitudine. All’ultimo momento s’accorse che una ragazza dai capelli castani stava occupando la panchina, si guardò allora intorno, ma la nebbia gli impedì di trovarne un’altra. Avvisò la sconosciuta della sua presenza con qualcosa a metà tra un saluto ed una scusa e, senza neppure guardarla in viso, si sedette a poca distanza da uno zainetto sul quale spiccava un vecchio orsacchiotto di peluche. Dato che non si vedeva quasi nulla a più di trenta passi di distanza, gli era impossibile ammirare l’isolotto, perciò si sfilò di tasca il palmare, selezionò l’opzione “lettore ebook” e, non appena lo schermo si fu allargato, riprese a leggere il romanzo che aveva iniziato un paio di giorni prima.

Dopo cinque pagine, il telefono della ragazza squillò, e lei si spostò di qualche passo prima di rispondere. Sicuramente si era allontanata per non infastidirlo, ma Jerome poteva ugualmente ascoltare la voce di lei, dolcissima e un po’ inquieta.

«Buonasera… Sì, sono io… Capisco… Quindi non farete più aggiornamenti…» Sembrava tanto scossa che Jerome dovette girarsi a guardarla, ma poté vedere solo i suoi lunghi capelli che le scendevano lungo la schiena. «E le manutenzioni periodiche?» Seguì un’altra breve pausa. «Mi scusi ancora… La sede di Parigi resterà attiva?»

Quando tornò alla panchina stava piangendo. Afferrò il suo zaino, farfugliò qualche parola di scusa e se ne andò via quasi di corsa. Jerome vide il suo volto solo per un attimo, ma quell’istante gli fu sufficiente per scoprire quanto fosse bella e per innamorarsene perdutamente. Notò l’orsacchiotto per terra e lo raccolse senza esitare nemmeno per un istante. La ragazza, però, era già sparita, e lui corse verso l’ingresso con la folle paura di averla perduta.

Non appena la rivide, con il fiatone e con il cuore che martellava, le urlò: «Scusami!»

Lei si fermò e si voltò lentamente, mostrando a Jerome due grandi occhi verdi, ammalianti nella loro tristezza, ed un viso soave bagnato dalle lacrime.

«Ti era caduto…» mormorò lui, piegato in avanti per la fatica, mentre le porgeva il peluche con una mano tremante. «Sei… velocissima…»

La ragazza fissò senza rispondere quel giovane dalle spalle larghe, sfinito per la corsa attraverso il parco, e si ritrovò per un momento a ridere e a piangere insieme. All’improvviso il suo volto si imporporò, e lei lo nascose dietro le sue mani delicate. Quando le abbassò, rivolse a Jerome un sorriso imbarazzato e tanto affascinante da commuoverlo. «Mi scusi, io non avrei dovuto…» Sospirò, tese verso il suo orsacchiotto una mano esitante e sfiorò quella tremante che glielo tendeva. «Grazie mille, davvero.»

Quel tocco leggero fece palpitare il cuore del ragazzo. «Scusami, ma prima io… Stai bene?»

Lei si strinse il peluche al petto e, abbassando lo sguardo, gli rispose: «Oh, mi dispiace… Non volevo farvi preoccupare».

Jerome temette che sarebbe scappata di nuovo se non le avesse detto subito qualcos’altro. Senza pensare, e trattenendo il respiro, col cuore che gli pareva fosse sul punto di scoppiare, azzardò: «Mi sentirei meglio… se ti lasciassi offrire un tè».

Lei s’irrigidì, parve incerta tra il voltarsi e il rispondere e sembrò ancor più indecisa quando alzò gli occhi e incrociò timidamente lo sguardo pieno di speranza del ragazzo.

«C’è… c’è un ottimo caffè accanto al Notre-Dame…», suggerì Jerome. «Ho bisogno anch’io di qualcosa di caldo per calmarmi.»

«Io… vi ringrazio… ma non vi dovete disturbare.»

«Nessun disturbo», insistette lui. «Anzi, mi farebbe piacere.»

Lei si guardò attorno, poi controllò l’ora sul suo telefono, e le sue guance graziose si arrossarono nuovamente. «Allora… sarò io ad offrirvi un tè. Mi sentirei troppo in debito… altrimenti.»

Dopo aver ringraziato la telefonata e l’orsetto di peluche, Jerome portò una mano davanti alla bocca e tossì per non mostrarle un disdicevole sorriso di gioia e sollievo, dopo le fece strada verso il caffè cercando di contenere la sua felicità e pentendosi di aver gioito per qualcosa che l’aveva fatta soffrire. Fatti alcuni passi, celò la sua emozione schiarendosi la voce e le disse: «Non ci siamo ancora presentati… Io mi chiamo Jerome».

«Nadine», rispose lei. «Nadine è il mio nome. E vi ringrazio davvero per avermi rincorsa. Oh! Per l’orsacchiotto… intendevo dire… È un caro ricordo.»

L’imbarazzo della giovane lo fece sorridere. «Lo avevo immaginato. Siamo quasi arrivati: il caffè è proprio qui.»

Con la mano indicò una porta di legno scuro, dove capeggiava la scritta in caratteri d’oro: “Café bossu”, l’aprì e fece entrare la ragazza per prima. Dopo essersi seduti ad un tavolino ed aver ordinato due tè caldi all’assistente vocale, Jerome le disse: «Vengo quasi ogni sera al parco e mi siedo sempre su quella panchina. Penso offra la vista più bella, almeno quando non c’è nebbia, ma stranamente non l’avevo mai trovata occupata. Se posso chiedertelo… tu abiti qui vicino?»

«No… io vivo nella periferia, verso Sant-Denis.» Nadine s’interruppe quando una cameriera in carne e ossa arrivò con un vassoio. Poi, dopo aver sorseggiato una bevanda calda dal profumo di menta e miele, finalmente riuscì ad affrontare lo sguardo di Jerome senza arrossire e a parlare con sicurezza. «Volevo cercare un appartamento qui nei dintorni, perché da circa un mese lavoro in Rue Moliere, come insegnante in una scuola elementare. Sai, i miei orari cambiano spesso all’ultimo momento a causa delle supplenze… e una casa meno distante mi farebbe comodo. Dovevo vederne una tra poco, ma dovrò mandare un messaggio al proprietario, perché adesso… non posso più permettermela.»

«Colpa della telefonata, immagino. Mi dispiace…»

Lei abbassò lo sguardo verso la sua tazza e riprese a mescolarne il contenuto. «Non era nulla di così importante. Il fatto è che non me l’aspettavo e sono andata un po’ nel panico.» Alzò il capo, piegò le labbra in un sorriso che sarebbe apparso gioioso se i suoi occhi non fossero stati ancora malinconici e, cercando di apparire allegra, aggiunse: «Per fortuna c’era la nebbia…»

Nella mente di Jerome balenò l’idea che lei avesse almeno un organo artificiale. Era un’ipotesi che gli pareva sensata, considerando la telefonata e la sua reazione. Forse era un po’ troppo apprensiva, perché qualunque congegno avesse in corpo avrebbe dovuto continuare a funzionare bene anche solo con le normali manutenzioni. Però, se aveva ragione, lei doveva essere una delle rarissime persone sulle quali il trattamento di rigenerazione ancora non funzionava, e pensare che fosse così sfortunata gli strinse il cuore. Avrebbe voluto farle qualche domanda e scoprire di essersi sbagliato, ma gli sembrò scortese impicciarsi nei suoi problemi.

Apprezzava, però, la forza d’animo che lei dimostrava nel voler apparire più serena di quanto non fosse realmente e ricambiò il suo sorriso per incoraggiarla. «Sono sicuro che riuscirai a sistemare tutto. Io vivo in un condominio a circa venti minuti da qui, dietro la Basilica del Sacro Cuore. Gli appartamenti sono tenuti bene, hanno grossomodo tutto quel che serve… ma sono stati costruiti nella preistoria, quando le finestre video ancora non esistevano. Gli affitti sono a livello di quelli in periferia, perciò… forse potrebbero interessarti. Se vuoi posso darti il numero dell’amministratore».

«L’apprezzerei davvero», rispose lei, lasciando intravedere nel suo viso un’autentica riconoscenza. «Quella zona mi andrebbe benissimo.»

Jerome fu sorpreso dalla nuova luce che le aveva rischiarato il viso e ne fu incantato al punto da non saper più cosa dire, ma, prima che il silenzio diventasse imbarazzante, Nadine lo salvò chiedendogli quale fosse il suo lavoro. Mentre le rispondeva, scoprì di aver attirato il suo interesse, perciò preferì nasconderle quanto avesse ormai in odio gli androidi e le sue mansioni.

«Sai,» disse cercando di rallegrarla, «c’è uno stile artistico di pittura, scultura e… composizione – credo sia questo il nome – che è stato di moda dal ventesimo secolo sino a circa un ventennio fa, nel quale gli androidi si sono dimostrati anche più bravi degli umani.»

Lei parve sinceramente sorpresa. «Davvero? Credevo che solo alcuni modelli sperimentali sapessero creare opere apprezzabili.»

«Dico sul serio. Era chiamata “arte moderna”, e quando gli artisti umani hanno capito di esser stati battuti dagli androidi, finalmente il mondo se ne è liberato», maneggiò sul suo telefono e poi glielo porse. «Scorri pure le immagini e prova a indovinare se a farla è stato un essere umano o una macchina.»

«Sono solo dei tagli su un pezzo di tela… Davvero queste cose piacevano a qualcuno?» Nadine spostò per un momento il suo sguardo divertito e perplesso sul ragazzo, poi aggiunse: «Provo… Quest’opera d’arte l’ha fatta una macchina.»

Dopo essersi spostato accanto a lei, il ragazzo premette un pulsante sullo schermo per far comparire i dettagli dell’opera e le rispose: «Questa l’hai sbagliata». Passò a quella seguente, un piccolo foro su una parete bianca dentro un quadrato tracciato con dello scotch di carta. «Qui ti offro un aiuto: risale alla fine del ventesimo secolo ed è stata esposta in un museo, ma solo per un pomeriggio.»

«Non mi sei d’aiuto…» brontolò lei, ingrandendo l’immagine fino al massimo e seguendo attentamente il nastro adesivo. «Oh! Sono stata fortunata: qui c’è un capello! Anche questo l’ha fatto un essere umano!»

«Corretto», confermò Jerome, rivolgendole un sorriso leggermente beffardo. «Lì era appesa una delle opere esposte, ma un bambino la fece cadere assieme al chiodo che c’era attaccato. Era andata completamente in pezzi e non la si poteva riparare, così un inserviente portò via tutto. Però, dato che era una persona gentile e il suo turno stava per finire, prima di uscire dalla sala pensò di aiutare chi avrebbe finito il lavoro e, così, usò quel che aveva per indicare bene il buco da stuccare.»

«Ma allora mi hai presa in giro…» protestò Nadine. «Non era un’opera d’arte.»

«Forse no», rispose lui, «ma i visitatori in fila per vedere quel buco incorniciato pensarono di sì. Erano talmente tanti che fu possibile sistemare il muro solo dopo la chiusura del museo. Pensa che il giorno seguente comparvero sui quotidiani gli elogi di alcuni critici d’arte che avevano fatto la coda per ammirarlo: avrei voluto vedere la loro faccia quando lessero l’articolo di scuse fatto scrivere in tutta fretta dal museo.»

Lei non rise come avrebbe voluto Jerome, ma parve aver gradito la sua storia, e soprattutto passò all’immagine successiva, una statua senza alcuna bellezza, e poi ad altre ancora, alternando risposte esatte e sbagliate. Il gioco si interruppe quando sul telefono comparve un messaggio, e lei, leggendone l’anteprima, si incupì.

«Oh, no», disse subito Jerome, con aria disgustata. «Credimi, odio anch’io queste cose. È un mio cugino col quale litigo spesso: ogni volta che mi parla dei complotti per distruggere l’umanità tramite gli androidi. Bloccherei il suo numero, ma non posso perché è lui che organizza i ritrovi di famiglia.» Si riprese il telefono e tornò a sedersi al suo posto maledicendo quell’idiota che pensava di saperne più di lui. Cambiò argomento e conversò con Nadine per più di un’ora, gioendo ogni volta che la faceva ridere, e la lasciò dopo che si furono scambiati i numeri di telefono, certo di poterla conquistare e di ottenere il suo amore.

Si incontrarono di nuovo due giorni più tardi, quando lei venne a visitare gli appartamenti liberi dietro la basilica del Sacro Cuore. Trascorsa una settimana, lei fece trasloco nella sua nuova abitazione; e se non era Jerome a farle visita la sera, era lei ad andare a cercarlo per far due passi nelle vie del centro e chiacchierare fino a tardi.

 

Per Jerome, Parigi non era mai stata più bella. Nadine si preparava con cura ogni volta che dovevano incontrarsi, apparendo squisita in qualunque abito indossasse, e col tempo la sua timidezza si attenuò un poco, diventando piacevolmente stravagante. Quando si sentiva particolarmente felice, infatti, era capace di volteggiare su se stessa con l’eleganza di una ballerina, per poi vergognarsi degli sguardi ammirati o invidiosi dei passanti e infine nascondere il viso contro il petto del suo ragazzo. Mentre lei lo abbracciava e soffocava a quel modo una risata divertita e gioiosa, lui la stringeva con dolcezza e le baciava i capelli, perché la superava in altezza di una buona spanna.

Ad un mese dal loro primo incontro, i due innamorati si trasferirono in un appartamento più grande dello stesso condominio, e la loro convivenza li portò ai loro primi litigi, piccole difficoltà che diedero ancor più gusto alla loro vita insieme. Lei non sopportava il disordine e aveva un modo tutto suo di arrabbiarsi: toglieva quel che c’era in una scaffalatura, in un armadio o nei cassettoni della cucina e manteneva un ostinato silenzio finché non finiva di riorganizzare tutto. Lui, invece, non capiva perché avesse voluto a tutti i costi una vasca da bagno enorme, dato che poi si faceva sempre la doccia, e fu costretto a imparare i balli popolari, sebbene di questo non ebbe da lamentarsi a lungo. Come insegnante, Nadine aveva una pazienza infinita, ma era anche altrettanto spietata perché non smetteva di fargli ripetere i passi finché lui non riusciva a stare al passo con quella implacabile maestra e con gli ologrammi necessari per completare le formazioni. Jerome protestò solo nella prima settimana, quando – al pari degli altri danzatori che vedevano quel gigante unirsi al loro cerchi – non credeva affatto di poter combinare qualcosa di buono. Lei, però, continuò a incoraggiarlo con una dolcezza irresistibile finché non gli fece capire di essere in errore; e, superato quello scoglio, presero a recarsi ogni giovedì nella vicina Place du Tertre. Qui, entrambi si divertivano danzando e cantando assieme alla compagnia di ballo amatoriale che lì si ritrovava regolarmente.

Quella felicità che Jerome credeva dovesse durare in eterno subì un colpo durissimo all’inizio dell’estate. Circa una settimana dopo aver conosciuto Nadine, le sue richieste di essere spostato in un team di lavoro più orientato alla progettazione che ai test vennero parzialmente accolte. In quel periodo erano comparsi dei dispositivi portatili capaci di fondere i cervelli a schiuma di cerio tramite l’invio di un impulso elettromagnetico. Diverse persone che si opponevano agli androidi ne avevano fatto uso in varie città del mondo, provocando spesso incendi pericolosi, e i produttori si erano trovati di colpo nella necessità di correre ai ripari. Il problema non era di poco conto perché tutti gli encefali artificiali di nuova generazione erano vulnerabili a quel tipo di attacco; così, mentre chi non voleva tener chiuso in casa il proprio androide faceva richiesta del necessario aggiornamento, Jerome e centinaia di tecnici si dovettero impegnare per escogitare una soluzione realizzabile in tempi rapidi.

Per quasi otto settimane il ragazzo si trovò impegnato in un lavoro di ricerca che gli ricordò i bei tempi dell’università e che culminò con l’ideazione di una schermatura in nanofibra di scandio: una volta installata attorno al cervello di un androide, questo poteva sopportare un impulso elettromagnetico subendo nulla più di un momentaneo malfunzionamento. La fase successiva non piacque affatto a Jerome, perché la prospettiva che gli si presentò, data la gravità della situazione, fu di passare almeno sei mesi ad installare la correttiva e a dialogare con gli androidi appena aggiornati per verificare che i loro processi mentali non avessero subito alterazioni.

Un giorno, oppresso da quel lavoro noioso e irritante, il ragazzo consumò la sua cena di cattivo umore e, sollecitato da Nadine, le confessò quanto avesse in odio i corpi artificiali e le loro anime sintetiche. La preoccupazione che la ragazza stava nutrendo per lo stato d’animo del suo fidanzato si tramutò in una profonda inquietudine. Lei iniziò a tremare, cercò di dire qualcosa senza però riuscirci, poi si alzò di scatto e si diresse verso lo sgabuzzino.

Jerome seguì attonito quella reazione incomprensibile e si affrettò a raggiungerla quando sentì un urlo e una serie di schianti. Lei era distesa a terra, con la scaffalatura in lega d’alluminio poggiata contro il muro sopra di lei. Gli oggetti più pesati che stavano nei ripiani, e che ora le giacevano attorno e addosso, erano i pacchi di sale che proprio lei aveva comprato in soprannumero, le scatole con le ricariche dei detersivi e il proiettore d’ologrammi. Non vi era nulla, insomma, che potesse farle male, ma lei piangeva e si teneva il braccio sinistro.

«Stai bene?» chiese Jerome mentre rimetteva il mobile al suo posto. Si accorse che lei cercava di nascondergli la ferita, ma vide ugualmente che l’avambraccio sinistro era staccato di netto dal resto del corpo, a livello del gomito. Lui ebbe la sensazione che il mondo stesse crollando sotto i suoi piedi e piombò a terra, colmo di vergogna e disgusto. Per un esperto come lui fu impossibile sbagliarsi: i cavi e i muscoli artificiali che tenevano uniti i due pezzi dell’arto erano materiali di altissima qualità, incompatibili, però, con le connessioni necessarie a un cervello umano. Non poteva credere di essersi innamorato di un androide e di averci fatto persino l’amore senza notare nulla, eppure era così e non comprendeva come avesse fatto a non accorgersene prima. Spostò lo sguardo sul volto disperato di Nadine, rivide le leggere asimmetrie che aveva amato e che avevano contribuito a trarlo in inganno e fissò gli occhi terrorizzati di lei provando solo una profonda repulsione.

Lei si coprì il viso con la mano destra, poi si girò e scappò via, scalza, e senza nient’altro addosso che il suo abito leggero, perdendo gocce di un liquido giallo e denso dal suo braccio artificiale.

Per un quarto d’ora Jerome se ne rimase seduto nello sgabuzzino. Continuava a rivedere la faccia di Nadine, le sue espressioni, la naturalezza dei suoi movimenti; ripensava ai banali errori che commetteva al pari di una qualunque persona, come il dimenticarsi dove aveva lasciato il suo telefono o sbagliare a fare una somma quando era sovrappensiero, e sentiva ancora la sue risate traboccanti di gioia. Non era un androide normale, di questo era sicuro. Si domandò se tutto quel che lei aveva fatto, detto e pensato poteva essere una finzione, e non seppe darsi una riposta: su qualunque altro androide non avrebbe avuto dubbi, ma lei sfuggiva ad ogni schema di pensiero che gli fosse noto. Si accorse di colpo di quanto quella casa gli sembrasse vuota e triste senza di lei e poi, osservando la porta ancora aperta dalla quale era uscita, si decise ad andarla a cercare, almeno per aiutarla a rimettersi in sesto e per farle delle domande.

Non poteva certo indovinare dove fosse andata, ma c’erano alcuni posti nelle vicinanze che a lei piacevano particolarmente, o almeno così aveva detto. Se non aveva mentito e se le sue emozioni non erano una menzogna, forse l’avrebbe trovata. In base al suo modo di ragionare – o forse al modo in cui era stato programmato il suo ragionamento –, s’immaginò che avesse raggiunto a piedi uno di quei luoghi o che stesse ancora camminando per arrivarvi. Corse fino alla vicinissima basilica per prendere la metropolitana, uscì all’Opéra Garnier e la cercò inutilmente fin dentro il giardino. Tornò indietro e controllò al Louvre, all'Atelier des Lumières e al Musée des Arts et Métiers, e poi, sperando di aver maggior fortuna, noleggiò un pattino magnetico e percorse il sentiero che costeggiava il canale Saint-Martin.

Viaggiando ad andatura moderata, percorse i sentieri del Jardin Villemin, e fu lì, ai piedi della statua in legno polimerizzato dedicata a Gandhi, che la trovò: Nadine era a terra, vittima di violenti spasmi muscolari, mentre quattro ragazzi sui vent’anni la circondavano ridendo.

«Lasciatela stare!» urlò, mentre correva infuriato verso di loro.

I teppisti, vedendo un uomo grosso almeno il doppio di ciascuno di loro che gli si scagliava contro come un energumeno, staccarono dalla testa di Nadine un dispositivo grande quanto un pacchetto di caramelle e scapparono via a gambe levate. Lei smise di agitarsi e, tenendo gli occhi chiusi, chiese debolmente: «Jerome?»

«Sì, sono io», rispose lui, inginocchiandosi accanto a lei. «Cosa ti hanno fatto?»

«Danni riparabili. Ti prego, casa.»

Quel modo di parlare, a scatti e sintetico, significava che il suo sistema era entrato in modalità di auto-ripristino, perciò, finché i guasti non fossero stati risolti, le sue funzioni sarebbero state ridotte al minimo e lei avrebbe fornito a Jerome solo le informazioni indispensabili.

Quel “ti prego” non sfuggì a Jerome, ma una lacrima che si formò e discese lentamente lungo il viso della ragazza lo colpì profondamente, perché era qualcosa di inspiegabile. Dopo quel che aveva subito, lo strato emotivo doveva essere disabilitato, e così anche l’espressività del viso. Se invece tutto questo era ancora attivo, allora la lacrima non poteva esser frutto di un guasto, perché nessun malfunzionamento che coinvolgesse il viso di un androide poteva limitarsi a influenzare soltanto un condotto lacrimale. L’unica spiegazione era che il cervello di Nadine controllasse ancora gli occhi e che i suoi sentimenti, necessari per generare quella lacrima, fossero innestati nel livello più profondo della mente. Per Jerome era sconvolgente, perché nemmeno riteneva possibile una configurazione simile, ed in quel momento lui – che aveva in odio l’idea di conversare con qualunque altra macchina – attendeva ansiosamente che Nadine si svegliasse per poterle parlare. Se la caricò in braccio e la riportò indietro senza provare più alcuna avversione per quel corpo artificiale, sentendosi invece in colpa per quel che le era accaduto.

Appena fu rientrato nell’appartamento, lei disse: «Riempi la vasca. Acqua tiepida. Cinque chili di sale. Immergimi.»

Jerome seguì le istruzioni, ma mescolò l’acqua e la spogliò prima di adagiarla sul fondo. Poi, anticipando l’avviso che sapeva sarebbe arrivato, unì con attenzione l’avambraccio sinistro al gomito, bloccando così la fuoriuscita del liquido giallo.

«Collega… Tieni premuto per cinque secondi.»

Grazie a un meccanismo di regolazione automatica, il viso affiorò per permetterle di catturare l’ossigeno necessario ai suoi processi metabolici. In quel momento lei stava utilizzando le sue riserve di zuccheri, grassi, proteine ed una infinita serie di altri composti organici per riparare il suo corpo, e la vasca che si era scelta aveva le dimensioni necessarie per contenere il calore che avrebbe prodotto nei limiti a lei accettabili. Era la prima volta che Jerome vedeva quel processo, sebbene da vedere ci fosse ben poco, perché solo gli androidi militari utilizzati per le missioni di infiltramento ne erano dotati.

Portandosi una mano alla fronte, il ragazzo si domandò chi avesse costruito Nadine, perché lei fosse dotata di una tecnologia tanto costosa e perché se ne andasse in giro per Parigi come una normale ragazza. Scartò l’idea di legarla o di bloccare dall’esterno la porta del bagno, ritenendo quelle soluzioni troppo drastiche, perciò, non trovando altro modo per assicurarsi che lei non se ne andasse mentre lui dormiva, si sedette accanto alla vasca e poggiò la schiena sull’uscio.

 

Fu un sonno difficile e tormentato, durante il quale sognò più volte di essere in giro per la città, con Nadine al suo fianco, o di rivivere i momenti d’intimità che nessun’altra donna gli aveva regalato in modo altrettanto dolce e piacevole. Si svegliò più volte e più volte tornò a chiudere gli occhi, deciso a restare lì anche tutto il giorno se fosse stato necessario.

Al mattino, poco dopo le nove, la sentì uscire dall’acqua e, mentre lui si rimetteva in piedi, se la ritrovò davanti con un asciugamano attorno al corpo e il volto di nuovo in lacrime.

«Mi dispiace», disse lei con voce affranta. «Me ne andrò subito, te lo prometto.»

Lui si domandò ancora una volta se quel che lei provava poteva essere autentico e, desiderando che lo fosse, le rispose con tono pacato: «Non voglio che tu te ne vada così… Puoi rispondere a qualche domanda?»

«Avevo già capito che non ti piacciono gli androidi,» piagnucolò lei, troppo sconvolta per starlo a sentire, «e volevo dirtelo, ma non riuscivo a farlo, non lo trovavo giusto… Ti prego, perdonami…»

Jerome l’abbracciò cercando di consolarla. «Va tutto bene. Ora calmati, perché io non ti odio affatto.»

«Tu, però, non mi ami più…»

Lui non seppe cosa risponderle. Gli piaceva stringere quel corpo e conversare con lei, questo non poteva nasconderlo, ma ancora non sapeva cosa lei fosse, né cosa egli stesso provasse. «Io… non voglio mentirti. Ho bisogno di parlare con te per capirlo. Puoi concedermi qualche domanda?»

Nadine fece un cenno con la testa e si strinse a lui calmandosi pian piano.

Dopo alcuni minuti, Jerome le chiese: «Stai meglio?»

Lei si staccò dal ragazzo facendo un passo indietro, si asciugò il viso e, nello stesso momento, annuì di nuovo. Si guardò poi attorno e fissò per un momento i suoi abiti a terra. Era sempre stata restia a mostrarsi nuda a Jerome e quando facevano l’amore gli chiedeva di mantenere la luce soffusa; perciò lui, intuendo il suo imbarazzo, le disse che l’avrebbe aspettata in salotto.

Dopo aver sistemato il divano in modo che Nadine potesse scegliere se sederglisi accanto o davanti, l’attese ripensando a cosa dirle e restò affascinato un’altra volta, quando la vide prendere posto di fronte a lui con una espressione dolce e malinconica.

Con una sincera curiosità, le chiese: «Prima hai detto che non sarebbe stato giusto dirmi che sei un androide. Posso chiederti perché?»

Negli occhi della ragazza, dietro un velo di tristezza, brillò una fierezza che mai prima di allora aveva mostrato a Jerome. «Perché io posso fare tutto quel che può fare una donna vera. Il mio corpo è artificiale, ma i miei sentimenti sono veri, sinceri. Io ti amo, Jerome, e sto soffrendo perché ho paura che tu non mi ami più… soltanto perché io sono fatta in modo diverso. Non è giusto… Se non ti fosse piaciuto vivere con me, io l’avrei capito… ma così mi fa ancora più male.»

Quanto aveva appena sentito stupì il ragazzo; subito, però, si fece serio, perché non gli piaceva quel che stava per dirle, eppure lo riteneva necessario. «Non vorrei farti una richiesta simile e non te la farei in una circostanza diversa, ma devo essere sicuro che tu mi dica la verità nelle prossime risposte».

Nadine rimase in silenzio per un lungo momento. «Anche se so di essere in colpa,» disse poi, «io non voglio che tu veda i miei parametri, però posso mettermi in modalità testimone. Se non hai il programma necessario nel tuo telefono, te lo posso procurare io».

Per legge tutti gli androidi dovevano fornire un segnale radio per indicare che il loro cervello era impostato per non mentire; in questo modo, se un giudice ne faceva richiesta durante un processo, era possibile accogliere le loro dichiarazioni come prove. Il software di decodifica poteva essere scaricato solo da personale autorizzato, ma tra i compiti di Jerome c’era anche la verifica di quella funzione e lui si era installato l’applicazione nel cellulare. Lo estrasse dalla tasca e le disse: «Ho quel che serve. Sappi che il tuo carattere e il tuo modo di fare mi piacciono così come sono e non li avrei cambiati se mi avessi dato accesso al pannello. E poi… mi sto comunque fidando di te, perché tu non sei di mia proprietà e quindi quel che sto facendo è illegale». Lei annuì; subito dopo apparve un messaggio di conferma sullo schermo del telefono, e Jerome allora le chiese: «Potresti ripetere quel che hai detto poco fa riguardo all’ingiustizia di dirmi che tu sei un androide? Mi basta un sì o un no.»

«Sì, posso farlo.»

«Prima di me, ti sei mai innamorata di qualcun altro?»

«Una volta, ma non come con te. Lui mi piaceva perché aveva un volto familiare… e mi piacevano anche i suoi modi. Però, lui scoprì cos’ero e smise di trattarmi come una persona e poi, quando gli dissi che lo volevo lasciare, lui pretese di modificare il mio carattere… Fu allora che decisi di trasferirmi, perché non lo volevo più incontrare.»

Le domande che Jerome stava per farle erano particolarmente importanti per lui, e questo lo mise un po’ in apprensione. «E perché hai scelto me? Anch’io ti ricordavo qualcuno?»

«No,» rispose lei, abbassando lo sguardo, «non mi ricordavi nessuno che io avessi già conosciuto». Alzò di nuovo la testa e continuò a parlargli con espressione commossa. «Mi eri simpatico… Non so esattamente perché o quando mi sono innamorata di te, ma mi piaceva la tua compagnia e preferivo stare assieme te piuttosto che agli altri miei amici.» Dopo una breve pausa aggiunse: «Io non posso sapere se i miei sentimenti sono veri… però io credo che lo siano. So di amarti, e vorrei continuare a vivere insieme a te».

Jerome aveva sperato che quelle domande potessero sciogliere i suoi dubbi, invece era ancora incerto. «Puoi uscire dalla modalità testimone, adesso. Tu non hai nulla in comune con gli altri androidi, ed io non voglio che tu te ne vada. Però… devo confessarti che sono ancora confuso. Ero convinto che solo una donna in carne ed ossa potesse darmi la felicità; tu, invece, mi hai dimostrato che non è così. Forse devo abituarmi a pensare di nuovo a te come a una persona, ma… non so se potrà funzionare. Sto dicendo che dobbiamo ricominciare daccapo, in un certo senso.»

«Ho visto quanto eri disgustato e penso di comprenderti, perché neppure io vorrei passare la mia vita con un androide.» Nadine si alzò e fece mezzo passo verso di lui, ma cambiò subito idea e, rabbuiandosi ancor di più, tornò a sedersi dov’era. «Penso anche di meritarmi quel che sto passando… e c’è dell’altro che devo dirti. Sarò sempre sincera con te, voglio promettertelo, però… ti ho nascosto delle cose importanti, oltre al fatto che io sia fatta come un androide, e ti ho mentito sulla telefonata che ho ricevuto quando ci siamo conosciuti. Io voglio somigliare in tutto ad un essere umano, voglio vivere e anche invecchiare insieme alla persona che amo. Potrò simulare il cambio d’età fino ai miei quarant’anni, ma per andare oltre avrò bisogno di far modificare la mia struttura. Erano questi gli aggiornamenti di cui avevo parlato al telefono. Ti dissi che non era nulla di importante, ma non è così, perché prima mi venivano forniti gratuitamente, mentre adesso dovrei pagarmeli.»

L’espressione di Nadine era così preoccupata che Jerome, nonostante la tensione che si sentiva addosso, rischiò di mettersi a ridere.

«Sai,» le spiegò, «le donne vere cercano in tutti i modi di falsare la loro età. Se potessero, rimarrebbero sempre con il loro aspetto da diciottenni, perciò non avevi davvero motivo di preoccuparti quel giorno. Io, però, non rimpiango che sia accaduto.» Jerome vide il volto della ragazza illuminarsi dopo la sua ultima frase, si alzò e le tese la mano. «Ho ancora tante cose da chiederti. Che ne diresti di continuare a discutere mentre facciamo una passeggiata?»

Nadine si rimise in piedi senza mai smettere di stringergli la mano, rispose che era d’accordo, poi fece un mezzo passo in avanti, ma di nuovo si fermò. Comprendendo la sua insicurezza, Jerome l’abbracciò, la strinse un po’ più forte quando la sentì piangere e poi le disse con tono scherzoso: «Se vorrai apparire più vecchia, io potrò anche perdonarti, però tu cerca di non esagerare».

 

Mezz’ora dopo camminavano mano nella mano per le strade di pietra dell’isolotto di Sant Luis, tra ville in stile medievale, lampioni led e placche di ricarica per le vetture elettriche ben visibili in ogni parcheggio. Si tenevano per mano e di tanto in tanto, quando la discussione si faceva più intensa, si fermavano su una delle panchine di legno.

Erano appunto seduti all’ombra di un cedro, circondati da uno schermo d’aria polarizzata per non essere disturbati, quando Nadine gli spiegò come mai fosse tanto diversa dagli altri androidi. «Circa dieci anni fa» esordì con tono malinconico, «vi fu un grave problema con le capsule criogeniche custodite in un impianto a Lione. Un incendio nella struttura mandò in tilt il sistema di raffreddamento e circa cento persone si scongelarono. Ancora adesso non sarebbe possibile riportare in vita nessuno, quindi anche allora non c’erano speranze. Credo tu sappia già di quel brutto episodio, ma forse ignori che un magnate propose di trasferire i ricordi di quelle persone nei cervelli artificiali per farle continuare a vivere, almeno come androidi. L’idea potrebbe non piacerti, ma non c’era nient’altro che si potesse fare, e anche quella soluzione non fu facile. Solo trenta androidi presero vita. Tu forse diresti che furono costruiti, ma io penso davvero che iniziarono a vivere. Nadine era una ragazzina di quattordici anni; io non ho tutti i suoi ricordi originali, forse meno del quaranta percento. Per sei anni la mia mente fu fatta crescere in un ambiente virtuale che riproduceva la vita della vera Nadine nel modo più fedele possibile, e lì dentro io mi costruii i ricordi che mi mancavano. Certo, furono degli psicologi a crearli per me, ma a me piace pensare che fui io stessa a costruirli. Poi ebbi il mio primo corpo completo e con quello vissi un paio d’anni nel mondo reale, in un famiglia vera, ma sempre sotto il costante controllo dei tecnici. Quattro anni fa compii diciotto anni, fui giudicata in grado di badare a me stessa e iniziai a vivere per conto mio.»

«E gli altri androidi dove sono?» chiese Jerome.

Con gli occhi oscurati da un velo di tristezza, Nadine gli rispose: «Io sono l’unica ad essere ancora viva; gli altri non sono riusciti ad adattarsi al loro corpo artificiale. Credo non siano riusciti a trovare in tempo qualcuno che li amasse».

L’incidente di Lione aveva avuto grande risonanza a quell’epoca, e l’intera comunità scientifica, in quell’occasione, aveva espresso la convinzione che nessuno potrà mai sopravvivere al risveglio da un sonno criogenico. Tutta la Francia era stata coinvolta in un infruttuoso dibattito su cosa fare con tutte le altre capsule, mentre i giornali dedicavano ampi approfondimenti alla notizia. La storia della giovane Nadine era quella che aveva colpito maggiormente il paese, forse perché era la più giovane delle persone coinvolte, o forse perché era una promettente ballerina dalla bellezza incantevole. Era stata descritta come una ragazzina timida, fiduciosa di risvegliarsi quando fosse stato possibile curare il suo tumore. Jerome ricordava il suo volto solo vagamente e non sapeva dire quanto la sua Nadine le somigliasse, né gli interessava scoprirlo.

Il racconto di lei l’aveva resa ancora più preziosa ai suoi occhi, e gli aveva fatto capire molte cose che gli aveva taciuto, forse per non impensierirlo. Ora gli era evidente perché lo strato emotivo fosse fuso a quello più profondo. Per rendere le sue reazioni le più vicine possibili a quelle umane, chi l’aveva costruita doveva aver puntato tutto nell’agganciare le percezioni della sua mente artificiale alle sensazioni e ai sentimenti ricavati dai ricordi della ragazzina, di modo che quei ricordi divenissero anche la chiave di interpretazione di tutto quel che l’androide avrebbe poi vissuto. Un lavoro simile doveva aver richiesto una serie immane di calibrazioni e affinamenti, e il minimo errore nella memoria avrebbe potuto generare comportamenti imprevedibili e disastrosi in qualunque momento. L’ossessione per l’ordine di Nadine, quando qualcosa la turbava o la irritava, poteva essere stato ereditato, per così dire, dalla ragazzina, oppure poteva essersi sviluppato in modo autonomo. Quella, comunque, era la valvola di sfogo che le permetteva di riprendere il suo equilibrio, e forse era importante per lei quasi quanto il sentirsi amata.

Nadine l’osservò a lungo senza parlare mentre lui era perso nelle sue riflessioni, poi gli si accucciò davanti con aria incerta e gli chiese: «Va tutto bene?»

«Sì», rispose lui. «Ascolta, il tuo braccio non può essersi rotto ieri sera. Quando è accaduto?»

Lei impallidì di colpo. «Io… io non volevo tenertelo nascosto…»

Sorridendo, Jerome le afferrò i fianchi e se la mise a sedere sopra una gamba come fosse una bambina. «Scusami, non volevo farti paura. Sto solo elaborando una teoria.»

Lei si rasserenò, gli cinse il collo con le sue braccia e gli rispose: «È accaduto l’altro ieri. Sono stata investita da un’auto mentre tornavo a casa e non ho avuto tempo per farlo saldare».

«E ieri sera, quando sei andata nello sgabuzzino, ricordi come come hai fatto cadere lo scaffale?»

«Ero agitata. Ho preso il pattino magnetico, ma si è impigliato nell’intelaiatura mentre lo tiravo fuori. Io… un errore simile…» Si fermò e fissò con aria confusa l’immagine opacizzata dell’albero davanti a lei. Tornò a guardare Jerome, scosse e la testa e aggiunse: «Non lo so…»

Dopo essersi concesso qualche attimo per valutare la reazione di Nadine al suo smarrimento, Jerome avvicinò le labbra a quelle semiaperte della ragazza e la baciò stringendola a sé. La sentì rilassarsi e poi ricambiare quasi con frenesia. Mentre lei gli accarezzava la testa con entrambe le mani, lui si sporse un po' in avanti e la spostò sopra le sue ginocchia in modo da averla dritta davanti e poter continuare più comodamente. Avevano entrambi il fiato corto quando si separarono; e, dopo una decina di respiri, Jerome le disse: «Tu avevi la necessità di dirmi che il tuo corpo, dal collo in giù, è quello di un’androide, altrimenti non ti saresti potuta mettere a bagno per una notte intera. Non avevi però il coraggio di confessarmelo e, così, un meccanismo involontario ti ha costretta ad uscire da una situazione che non potevi sostenere. Io credo sia andata così.»

Lei lo guardò sorpresa, e un paio di lacrime scivolarono lungo il suo viso. «Dal collo in giù», ripeté emozionata.

«Sì,» rispose lui, «perché nessun androide ha posto nella sua testa per qualcosa che somiglia ad un subconscio.»

Nadine gli sorrise mentre si asciugava gli occhi, poi gli chiese: «Tu lo pensi davvero?»

«Non mi innamorerò mai di un androide, e tu non lo sei. Quel che penso è che non esista donna più meravigliosa di te. Mi innamorai la prima volta che ti vidi, nel parco. Oggi, per me, è un altro primo incontro, ed ora sono certo di essermi nuovamente infatuato di te. Allora credevo che eravamo destinati ad amarci, ma ora so che eri una parte di me che mi mancava per essere felice. In ogni luogo e in ogni momento noi ci incontreremo, tu sarai sempre parte di me.»

«E tu di me», rispose lei, in lacrime. Prese a ridere mentre piangeva, lo abbracciò e poi tornò a baciarlo con più foga di prima. Quando furono stanchi, rimasero abbracciati per un lungo momento senza parlare; poi Nadine gli sussurrò all’orecchio: «Ti prego, torniamo a casa… non ne posso più».

Per lui non fu difficile immaginarsi il volto imbarazzato della ragazza, si girò sorridendo e la baciò sulla fronte quando lei nascose il suo rossore abbassando lo sguardo.

Eccitato dal contatto con lei e dalle intense effusioni, Jerome le rispose: «Va bene, torniamo a casa».

 

 

Epilogo

 

Dopo esser letteralmente corsi nel loro appartamento ed essersi saziati nella camera da letto, Jerome chiese alla sua ragazza come fosse stato possibile l’incidente con l’automobile, perché i sistemi di protezione attiva montati su tutti i veicoli rendevano rarissimi eventi di questo tipo.

«Uffa,» protestò Nadine, «abbiamo appena finito… E va bene, ti risponderò, però poi tu…» Arrossì come soltanto lei sapeva fare e poi, quando Jerome ebbe acconsentito di buon grado alla sua tacita richiesta, scostò i capelli che le erano finiti sul viso e gli rispose: «Un uomo in bicicletta era caduto in mezzo alla strada e siccome io vengo identificata come un androide, la macchina ha preferito venire addosso a me». Dopo una breve pausa, con un leggero imbarazzo, aggiunse: «È solo per evitare questi incidenti che preferisco uscire con te, piuttosto che da sola».

In quello stesso momento il telefono di Jerome mandò un segnale di allarme; lui capì di aver lasciato aperta l’applicazione di decodifica e seppe che Nadine non era mai uscita dalla modalità testimone.

 

Dopo cena, la ragazza si accoccolò sul divano contro il petto del suo amato e gli disse: «Ho mandato alla polizia le foto dei quattro ragazzi che ho… incontrato ieri sera. E ho anche scritto dove potranno trovarli e quanto sia importante prenderli subito. Però temo che non mi crederanno».

«Ti avevano messo in testa il loro dispositivo, ma non ti hanno causato danni irreparabili, quindi non credo siano pericolosi. Di cosa hai paura?»

«Ti sbagli, Jerome. Anche la mia testa ha protezioni di tipo militare, e solo per questo il mio cervello non è esploso. La mia scatola nera ha registrato le loro voci mentre ero incosciente… Loro hanno costruito delle vere e proprie armi, e se non li fermo possono fare una strage.»

Jerome fissò incredulo il volto deciso di Nadine. «E tu cosa vorresti fare?»

«Posso avvertire tutti gli altri androidi. Ah, scusami… non te l’ho ancora detto. Loro vogliono sabotare la sfilata di moda per androidi, che si terrà fra settimane sotto la Tour Eiffel. Devi credermi, quei ragazzi non sanno cosa accadrà se useranno i loro apparecchi in un posto pieno di androidi.»

«Se sono solo in quattro,» le rispose Jerome, piuttosto scettico, «verranno comunque fermati dalla sicurezza prima che possano fare troppi danni.»

Mettendosi in ginocchio, Nadine replicò con un impeto del tutto inaspettato: «Non è così! Si creerà un effetto di risonanza e ci saranno più esplosioni contemporaneamente. Potrebbero morire decine di persone!»

Non fu facile per Jerome acconsentire al piano della sua ragazza, ma alla fine cedette, a condizione, però, che lei non si mettesse in pericolo e che non si allontanasse mai da lui.

 

Nonostante nell’ultimo mese gli attacchi agli androidi si fossero intensificati, vi erano almeno cinquemila presenti nello spiazzo attorno alla Tour Eiffel, mentre, al di sotto del monumento d’acciaio rimesso a nuovo per l’occasione, modelle di bellezza statuaria sfilavano in abiti dalle fogge più diverse, spesso particolarmente succinti. La totalità delle ragazze sul palco e la metà dei presenti tra il pubblico erano androidi, e tutti loro, nello stesso istante, ricevettero le immagini dei quattro teppisti corredate da una registrazione audio e da una dettagliata descrizione sia di ciò che avevano fatto sia di ciò che potevano fare.

I ragazzi furono individuati prima che potessero accendere i loro dispositivi, e la caccia all’uomo che coinvolse tutto il pubblico rese quell’edizione della sfilata più emozionante di ogni altra che si fosse già svolta o che ebbe luogo in futuro.

Nadine individuò uno dei giovani in fuga mentre cercava di sfuggire dalla massa che lo attorniava, e Jerome lo placcò come un rugbista quando quello ormai pensava di essersi salvato. Solo un altro ragazzo fu catturato quella sera, ma i complici furono raggiunti dalla polizia poche ore dopo l’accaduto.

I dispositivi che furono recuperati permisero di comprendere la loro pericolosità prima che si realizzassero i massacri temuti da Nadine, inoltre consentirono di calibrare i tracciatori di spettro atomico, tramite i quali gli androidphobe (così la stampa decise di chiamarli) in possesso di quelle autentiche armi vennero rintracciati e catturati in poche settimane.

I due eroi della serata non ebbero gran che da festeggiare quel giorno, perché le forze dell’ordine attribuirono a Jerome la responsabilità di una “comunicazione su canale non autorizzato a 2.632 diversi androidi, contenente informazioni potenzialmente denigratorie nei riguardi di 4 minori di anni 20” e non vollero credere che tutto fosse stato progettato ed eseguito in autonomia da Nadine. Così, per due lunghe ore, sulla testa del ragazzo pendette una condanna fino a cinque anni di carcere; ma poi un giudice autorizzò la testimonianza dell’androide e non fu affatto dispiaciuto nell’ascrivere a lei soltanto ogni colpa dell’accaduto: dato che la giurisprudenza francese non prevedeva pene o sanzioni per le intelligenze artificiali, anche Nadine venne prosciolta da ogni accusa.

Per la coppia di innamorati, quella fu l’unica avventura straordinaria che si concessero, ma quel che vissero insieme e assieme ai loro figli fu ben più prezioso per loro.

 

 

 

Note dell’autore

 

Tutte le speculazioni da me fatte circa gli androidi sono completamente privi di qualunque rigore scientifico, pertanto spero che siano credibili a chi ignora la materia tanto quanto me.

 

La statua in legno polimerizzato dedicata a Gandhi, ovviamente è un’invenzione. Ed è una mia invenzione anche l’opera d’arte moderna realizzata con un foro e un pezzo di scotch, anche se quella realizzata con un buco sul muro è esistita finché un addetto non l’ha stuccata per errore.

Se tu, mio ipotetico lettore, apprezzi l’arte moderna, sappi che non condivido i pensieri di Jerome sull’argomento. Altrimenti, sappi che abbiamo qualcosa in comune.

 

Non ho accennato a come gli androidi potessero concepire un figlio perché le banche di ovuli e del seme esistono già oggi così come la procreazione assistita. Ovviamente il componente che permette di far crescere un feto dentro donne e uomini artificiali può essere installato anche in un momento successivo alla loro consegna.

 

 

Questa storia partecipa a:

 

  • Contest Cybervalentino indetto da Spettro94 sul Forum di EFP.
    Con il pacchetto “Lavatore”.

  • Challange Let's Cliché! indetto da _Vintage_ sul Forum EFP.
    Con il cliché: "Amore a prima vista".
     

  • Challenge Solo i fiori sanno indetta da Pampa313 sul forum di EFP.

    Il fiore che ho scelto è Amaryllis (eleganza, timidezza).
     

  • Challange delle Parole Quasi Intraducibili organizzata da Soly Dea sul forum di EFP.
    Con la parola: Koi no yokan (incontrare qualcuno e sapere di essere destinati ad innamorarsi a vicenda).

 

   
 
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