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Autore: Giovievan    21/02/2021    0 recensioni
Ho impiegato molti anni e fin troppa sofferenza a farmene una ragione ma finalmente l’ho capito: il mio destino non è mai stato quello di essere Perfetto. Io sono nato per essere il padre degli dei. Il mio unico compito, la mia missione, è rendere reale la Leggenda, e ci proverò fino all’ultima goccia del mio sangue.
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Durante l'inverno più rigido che Arcos abbia mai vissuto Cold decide di infrangere la legge arcosiana per generare l'Essere Perfetto, il mutante che secondo la leggenda avrebbe una tale potenza da poter diventare padrone dell'intero Universo.
È così che nonostante le resistenze, in particolare quelle di Cooler, Freezer prende vita possedendo l’immenso potere che Cold sognava di generare da sempre. Ma le cose si fanno più complesse del previsto e lentamente tutto scivola fuori controllo...
Genere: Dark, Introspettivo, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Cooler, Freezer, Re Cold
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Origins: come tutto ebbe inizio'
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5.
La nascita del prediletto


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Mi è sempre piaciuto immaginare di plasmare i miei figli all’alba, all’esterno, quando le tempeste si placano e Arcos veglia sul silenzio di chi osa uscire.
Con Froze non ho potuto: mio padre me l’ha impedito dicendo che mi avrebbe lasciato da solo ad affrontare la nascita se avessi insistito. Lui, come tanti altri, ripudiava il pensiero di risalire e detestava che io lo facessi: quando qualcuno del clan andava a riferirgli di avermi visto uscire o rientrare mi puniva severamente, minacciandomi di rinchiudermi in casa se non avessi obbedito.
In realtà non ha mai potuto fare nulla di concreto per impedirmelo; ogni volta che mi sono guadagnato la libertà trasgredendo le sue regole ho immaginato di costruire un mio palazzo là fuori e poter finalmente sapere cosa accade al sollevarsi delle tempeste sulla superficie arcosiana, un mistero che mi ha tenuto sveglio per molte notti da ragazzino. Inoltre, per molte ore durante la mia meditazione giornaliera ho immaginato di plasmare mio figlio proprio lì, alla luce dell’Astro Ghiacciato.
Eppure, nonostante Snow sia morto e adesso sia io a comandare, non riesco a prendere la decisione di svolgere la nascita di Cooler fuori dalla città sotterranea. Il motivo è uno solo: sono terrorizzato. So che nessuno mi seguirà se vado fuori e, soprattutto, so che non posso restare da solo.
Dinnanzi a me, poggiata sul terreno, c’è la stalattite che ho rubato ai rami di uno degli alberi pietrificati dell’esterno. Non fa alcuna differenza da dove prendiamo il ghiaccio fintanto che è stato generato dal cuore gelido di Arcos, ma sono troppo legato alla superficie per plasmare un figlio con il ghiaccio impuro delle grotte sotterranee.
La lama sembra osservarmi e attendere. Sono scosso da un brivido: so cosa accadrà tra poco e mi basta questo per tremare.
L’ho già fatto, ripeto a me stesso. So cosa aspettarmi.
Ma è esattamente questo il problema.
Non riesco a togliermi dalla mente immagini già viste e sensazioni già provate. Sangue, ovunque, con il suo odore penetrante e il suo colore vivo; dolore lancinante che si espande in tutto il corpo, lambisce gli organi, ottenebra i sensi; gambe che si piegano lasciandomi crollare sul terreno, dita che si stringono attorno al piccolo corpo di un nuovo nato con il terrore di non riuscire a controllarsi, di schiacciarlo. Poi lo sguardo: il primo, intenso sguardo che crea il legame più forte che esista, quello tra padre e figlio, ovattato dalla mia perdita di coscienza. Infine il nulla. Persino il dolore si spense.
Mi guardo attorno osservando il giardino. Come credevo sono totalmente solo: Froze non si è più fatto vivo dopo la nostra discussione di ieri sera. Meglio così, mi dico; se deve stare qui a frignare tanto vale che se ne stia da parte.
Deglutisco un bolo acido. Sto prendendo tempo ma non posso più attendere: ogni attimo che passo ad esitare mi getta sempre più nel panico.
Afferro la stalattite tagliente; perfetta allo scopo e delle dimensioni giuste, infatti l’ho scelta con estrema cura. Osservo la luce rimbalzare sulla sua superficie lucida, limpida.
Il ghiaccio di Arcos.
Avvicino la punta al palmo della mano poggiandola proprio al centro. È così aguzza che riesco a graffiarmi la carne con una minima pressione; mi basterà poco a penetrarla.
Il sangue di Arcos.
Il sangue infetto del mutante.
Prendo un profondo respiro, scaccio ogni pensiero e chiudo gli occhi: adesso devo solo concentrarmi. È il momento.
Richiamo l’aura sul palmo della mano sinistra e impugno la stalattite con la destra, salda più che posso. Sento l’aura scorrere, arrampicarsi sul braccio, frizzare, far vibrare l’aria.
La vita che nasce dall’energia.
Tutto attorno a me viene rischiarato da una luce tenue che si fa sempre più potente man mano che l’aura si accumula sul palmo proprio dove la punta del ghiaccio di Arcos inizia a premere, timida, pronta ad affondare i suoi denti nella mia carne. Di nuovo.
Quando la mia mano si fa rovente e pulsante di energia e la luce inizia a riflettersi sulle mie palpebre chiuse, apro gli occhi.
Nasci perfetto, figlio mio.
La mia mano agisce come se appartenesse a un altro. Premo la lama a fondo: quella mi squarcia la carne con estrema facilità, facendosi strada dolorosamente tra i muscoli, i tendini, le ossa. La punta, però, non penetra dall’altra parte; il ghiaccio si scioglie a contatto con l’aura, ribolle sul palmo, si infiltra nelle mie vene. Diventa un tutt’uno con il sangue che sgorga dalla ferita, con l’energia accumulata sul palmo; d’un tratto sento il mio intero braccio andare in fiamme e tremare mentre il dolore si fa sempre più forte, troppo da sopportare. La mano tenta convulsamente di richiudersi ma lotto con tutto me stesso per tenerla aperta. Dinnanzi ai miei occhi tutto è sfocato: vedo soltanto ombre, ma sento che il processo è in corso e non posso arrendermi. Non adesso! Credo che verrò meno ma so che il peggio non è ancora arrivato.
Serve più sangue.
Stringo forte la lama tra le dita e, con un dolore lancinante che mi appanna la vista, trascino la sua punta verso il polso. Un vistoso taglio si apre man mano che procedo lungo il mio braccio.
Ho l’udito annebbiato ma sono certo di star urlando; il dolore inizia a espandersi oltre il braccio, a ghermire il petto e il cuore, a stringermi lo stomaco in una morsa, a pungermi il cervello nel cranio. Ma non mi fermo, non posso. Abbasso il braccio così che meno sangue possibile possa andar sprecato; tutto quello che ricade di lato finisce a macchiare di grandi gocce il terreno, ma quello che scorre verso il palmo, verso la sfera luminosa che stringo, inizia a gorgogliare, a concretizzarsi in una piccola, palpitante ombra. Più sangue assorbe, più il ghiaccio va a fondo nella mia carne, più l’energia si espande fino a pesarmi tra le dita.
Premo la stalattite ancora più a fondo, spingo verso l’incavo del gomito e un altro fiume cremisi scorre verso il basso: ci siamo quasi. Nella luce riesco a intravedere una forma muoversi, la sento sulla mia pelle…
Proprio quando sono a un passo dal perdere i sensi la figura si fa nitida e due piccoli piedi ghermiscono la mia carne con decisione, qualcosa mi si avvolge attorno al pollice.
Ce l’ho fatta.
È finita. Estraggo quel che resta del pezzo di ghiaccio dal mio braccio con un urlo e lo scaglio lontano; il sangue che sgorga dalla ferita mi sguscia tra le dita quando provo a tapparla con la mano e presto ricordo il mio errore della prima volta, ciò che costrinsi mio padre a fare pur di salvarmi la vita: cauterizzare. Bisogna chiudere la ferita o il sangue non si bloccherà mai e io morirò dissanguato prima ancora di accorgermene.
Non ho molto tempo: la luce sta svanendo, presto l’essere a cui ho dato la vita vedrà il mondo per la prima volta e la prima cosa che apparirà ai suoi occhi devo essere io.
Adesso è il palmo destro a bruciare di energia, la poca che mi resta. Stringo forte i denti mentre la carne mi sfrigola trascinandosi dietro altro dolore insopportabile, ma il risultato è quello che volevo; il sangue smette presto di scorrere.
Mi sento male, mi viene da vomitare. Attorno ai miei piedi c’è una pozza rossa, intensa, e il mio avambraccio è totalmente intriso del sangue che già inizia a seccarsi.
La mia mano, però, è uno spettacolo.
Dinnanzi a me c’è la magia della nascita. Osservo all’interno della luce, impaziente di cogliere i primi dettagli di mio figlio:  quella pian piano sfuma lasciandomi intravedere un esserino minuscolo che sembra incredibilmente fragile, dalla pelle di un viola intenso e con accenni di esoscheletro bianco sul petto e sul capo, dove una bioplacca trasparente inizia già a prender colore ora che il suo cuore sta cominciando a battere e il mio sangue inizia a scorrergli nelle vene.
È inginocchiato, le braccia tese in avanti, la testa bassa e la coda avvolta attorno al mio pollice, forse per sentirsi al sicuro e percepire il mio calore. Gli concedo tutto il tempo che gli occorre.
Il suo petto si gonfia e si sgonfia; sta iniziando a respirare. Il resto del suo corpo trema e io avrei voglia di aiutarlo, ma non intervengo: dev’essere lui a decidere quando è il momento. Trascorrono una manciata di minuti prima che sia pronto ad alzare lentamente la testa nella mia direzione.
I suoi occhi rossi sono esattamente uguali ai miei.
I nostri sguardi si incrociano e si allacciano. Ci guardiamo per qualche secondo che mi sembra infinito in cui dimentico del tutto il dolore, la paura, dimentico persino la leggenda. Non mi interessa di null’altro: adesso ci siamo solo io e lui, Cold e Cooler, sangue del mio sangue.
Ed è diverso dalla prima volta. Stavolta il primo sguardo con mio figlio è limpido, non turbato da nulla. Ho tutto il tempo per fare la sua conoscenza.
«Cooler.»
Mi guarda senza capire ma non stacca gli occhi dai miei neanche per un attimo, come se un istinto innato lo attraesse senza possibilità di fuga. Si mette seduto a fatica, barcollando, senza lasciarmi il pollice a cui continua a restare avvinghiato; quasi non sento il suo peso, tanto è leggero.
Avvicino l’indice della mano destra a lui e attendo. Come se sapesse, come se avesse compreso, lui apre la mano e poggia il palmo proprio contro il mio dito, delicato. Il tocco minuscolo di un minuscolo arcosiano.
«Cooler» ripeto, con le lacrime agli occhi. Mio padre mi avrebbe detto che sono un debole, ma come posso trattenere l’emozione?
Eppure mi sento mancare: la spossatezza inizia a chiedermi il conto di tutta la mia forzata resistenza. Sono costretto a mettermi in ginocchio prima di crollare ma faccio estrema attenzione a non fare del male a mio figlio. Anche una minima disattenzione potrebbe costargli la vita, adesso.
È ancora troppo piccolo per parlare ma di certo capisce, perché sembra preoccupato a vedermi in queste condizioni. Si mette in piedi, mi guarda senza sapere cosa fare; lo poggio sul terreno, ho bisogno dell’altra mano per potermi tenere dritto.
«Perdonami… io non riesco a…»
Non posso concludere la frase. Sento le braccia farsi molli e un attimo dopo crollo sul terriccio intriso di sangue perdendo finalmente i sensi. L’ultima cosa che vedo è un’ombra lontana che si avvicina, rapida, forse urlando il mio nome.
 
 
*  *  *
 
 
Quando riapro gli occhi vedo dinnanzi a me soltanto bianco.
Neve, è il primo pensiero che mi rapisce il cervello, ma mi basta un attimo a capire che è un’intuizione stupida oltre che sbagliata. Come potrebbe essere la neve se ciò che sento attorno a me è la morbidezza di un materasso e il calore di un letto?
Infatti appena mi guardo attorno capisco di essere in una delle mie stanze, all’interno di un letto a baldacchino che non uso mai. Abbasso gli occhi. Le lenzuola sono bianche e candide; il mio braccio sinistro, teso verso l’esterno, è stato ripulito dal sangue e la carne si è quasi del tutto rimarginata. Ciò che resta della nascita è una sottile linea che mi spacca l’avambraccio in due e termina esattamente al centro della mia mano.
Questo pensiero mi pietrifica.
La nascita!
Mi guardo attorno ma non mi occorre molto per tirare un sospiro di sollievo: al lato del letto, distesa sulle coperte accanto a me, c’è una minuscola macchia viola che tiene gli occhi chiusi. Eppure sembra percepire il movimento o forse il mio sguardo perché alza il capo all’istante e sgrana gli occhi nel vedermi sveglio.
«Papà!»
Si avvicina a me risalendo le coperte, incespicando nella sua stessa coda. Si è già quasi messo in piedi e parla. Quanto diamine ho dormito?
Sto per dire qualcosa ma una voce mi interrompe prima che possa aprire bocca.
«Si dice padre, non papà. Portagli rispetto.»
Sia io che Cooler ci voltiamo verso la voce: Froze è seduto su un altro letto, poco distante, a gambe e braccia incrociate. Non sembra contento di vedermi sveglio quanto dovrebbe.
«Non ha voluto andarsene» dice, riferendosi al fratello. «Non ti ha lasciato solo neanche per un attimo negli scorsi tre giorni.»
«Tre giorni?» dico, con la voce rotta di chi non parla da troppo tempo. Faccio per mettermi seduto: sono ancora debole ma mi sento rinato. La nascita di un figlio è una cosa assurda e incredibile: ti spinge fino al limite della morte e ti riporta indietro più forte di prima. Una catarsi.
«Hai dormito per tre giorni» conferma Froze. Gelido.
Tendo la mano aperta verso Cooler, che salta sul mio palmo crollando seduto. Non riesce ancora a mettersi in piedi, eppure mi è stato accanto con la consapevolezza di chi è già pienamente in grado di comprendere. Lo guardo negli occhi, lui guarda me: il cuore mi batte più forte di quanto dovrebbe.
Non è lo stesso che ho provato con Froze.
Guardo il mio primogenito. Non si muove, continua a tenere le braccia incrociate.
«Sei ancora arrabbiato con me?»
Non risponde.
«Eppure sei stato tu a soccorrermi. Non è vero?»
«Non desideravo che morissi» dice. «Ma il mio pensiero non cambia. Sei uno sconsiderato, padre. Potresti aver rovinato tutto, e per che cosa?»
Per che cosa?
Per ciò che tengo tra le dita, vorrei dirgli, ma qualcosa mi trattiene; forse voglio solo evitare di provocarlo. Non capirebbe, in ogni caso.
Non rispondo e lui non attende. Si alza ed esce dalla stanza senza aggiungere una parola, dandomi le spalle.
Cooler lo segue con lo sguardo e resta fermo a osservare la porta vuota anche quando Froze sparisce all’esterno. Non mi sfugge che i suoi occhi brillino di collera… e odio. Un odio così intenso che non dovrebbe essere parte di un arcosiano così piccolo.
Cosa ne sa dell’odio chi non ha neanche tre giorni di vita?
Eppure è inconfondibile, ma un attimo dopo si spegne quando torna a guardare me pieno di preoccupazione e apprensione.
«Padre» dice.
E io non posso che sorridergli e sospirare di sollievo.
È salvo, penso. E non potrei essere più in pace di così.



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Prossimo capitolo:
-
28/02

Nota dell'autrice

Buongiorno!
Finalmente, dopo tanti anni, ho potuto raccontare la nascita di un arcosiano. Ho immaginato il processo per così tanto che "vederlo" mi ha davvero emozionata, nonostante sia davvero forte, forse anche più di una normale gravidanza umana.
Ciò che tenevo a sottolineare fin da subito, invece, è il legame tra Cold e Cooler, che a quanto pare è nato nel momento esatto del loro imprinting. Non vedo l'ora di poterlo descrivere ancora più a fondo... oltre ad approfondire quello tra Froze e Cooler, ovviamente. 
C'è così tanto da raccontare e così maledettamente poco tempo per farlo (infatti non ho ancora terminato il prossimo capitolo)...
Al prossimo capitolo, buona domenica!

- Gio

 

   
 
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