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Autore: Roberto Turati    01/03/2021    0 recensioni
Una storia che dedico a Maya Patch, mia amica e mentore.
 
Per capire del tutto questa storia del mio AU, è meglio se leggete la storia di Maya, prima di questa.
Mentre la tribù dei Difensori si sta ancora riprendendo dall'assedio dei Teschi Rossi, Aurora attende con impazienza il ritorno di Lex da Ragnarok per poter continuare ad indagare con lui sugli indizi sparsi per l'Isola. Tuttavia, fa una scoperta inaspettata: rinviene un antico oggetto portato nel mondo delle Arche da un'altra dimensione. Studiandolo, scopre il luogo d'origine del suo defunto proprietario: ARK, l'isola preistorica.
 
Aurora e Lex vi si perderanno loro malgrado. Saranno in grado di trovare un modo per ritornare sulle Arche, nonostante tutti gli ostacoli che ARK riserva per loro?
Genere: Avventura, Mistero, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Un'Isola Unica al Mondo'
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LA MATTINA DOPO…

Quando Lex e Aurora informarono padre e figlia che avevano intenzione di fare visita ad Axel e Nadia alla loro bottega nella foresta di sequoie, Drof rispose di sapere già dove si trovava il posto tramite Oilnats, il quale era solito comprare delle statuette di legno dal falegname olandese per cercare ispirazione per la sua passione per l’intaglio e aveva fatto conoscere Axel e Nadia ad Acceber, sapendo che lei stravedeva per gli stranieri. Passarono la notte all’aperto e, in quel momento, stavano seguendo in barca il corso di uno dei fiumiciattoli che attraversavano la rete di crepacci che suddivideva la Grande Foresta, il bosco di sequoie nel Nord-Ovest di ARK. Era stata una navigazione molto rilassata: mentre Drof si occupava dell’imbarcazione, Lex affilava le loro armi su richiesta dell’Arkiano e gli faceva delle domande sul Megapiteco, per cui stava mostrando un crescente interesse. Lo intrigava il fatto che il corrispondente di quel mondo del secondo guardiano delle Arche fosse l’unico della sua specie sull’isola, che andasse sempre in giro nonostante la sua tana fosse in una grotta sull'Apoteosi e che si comportasse da “guardiano” dell’ecosistema contro le creature pericolose. Era proprio come un sorvegliante dell’isola, come nel sistema delle Arche, ma con sostanziali differenze oltre alle similitudini. Il ragazzo confidava più volte ad Aurora che aveva intenzione di osservarlo, presto o tardi. Nel frattempo, Aurora e Acceber chiacchieravano mentre la figlia di Drof pescava nel fiume:

«Preso!»

Con un ultimo strattone che fece ondeggiare la piccola barca a vela, Acceber sollevò la canna da pesca e tirò la lenza fuori dall’acqua. All’amo era attaccato un giovane celacanto grande quanto una trota, che ormai era troppo stanco per dimenarsi all’impazzata. La giovane Arkiana afferrò la preda, le tolse l’amo dalla bocca e la mise in una cesta, dove altri due celacanti presi poco prima boccheggiavano.

«Brava, con questo siamo a posto per il pranzo» disse Drof.

«Questo era combattivo, eh?» sorrise Aurora, mettendo il coperchio alla cesta.

«Di sicuro, ma così c’è più soddisfazione» sorrise Acceber.

Nel frattempo la rossa, seduta sull’asse posteriore della barca, si guardava intorno: quelle immense angiosperme preistoriche e millenarie l’avevano già impressionata viste dal cielo, quando Giselle le aveva fatto fare un volo in giro per l’Isola, ma starci in mezzo dal fondo di un crepaccio profondo una decina di metri rendeva tutto ancora più suggestivo: la facevano sentire minuscola. Inoltre, la penombra che copriva il sottobosco con l’illuminazione mattutina creava un’atmosfera quasi magica, cosa amplificata dal fatto che gli unici rumori erano lo sciabordio della barca e l’occasionale richiamo di alcuni animali arboricoli, nascosti da qualche tra le fronde: per il resto, c’era un silenzio totale.

«La foresta di sequoie è forse il mio posto preferito di ARK» le confidò Acceber, vedendola così assorta.

«Perché?» chiese la rossa.

L’Arkiana fece spallucce:

«Per tanti motivi. C’è un sacco di specie diverse, non si smette mai di trovare nuove strategie per cacciare qui, è facile nascondersi: presto vedrai perché adoro questo posto! Dopo stamattina avete in mente qualcosa da fare?» chiese, rivolgendosi a Lex.

Il biondo, che stava controllando gli ingranaggi della balestra, si fermò un attimo per risponderle:

«Nulla di urgente per noi due. Drof mi ha chiesto se questo pomeriggio voglio unirmi a lui e i suoi amici per le ricerche sul mostro acido e io gli ho detto di sì. Se tu e Aurora volete fare qualcosa insieme, perché no?»

«Fantastico! Sentito, Aurora? Questo pomeriggio ti farai un bel giro tra le sequoie con me!»

La rossa sorrise, intenerita dall’entusiasmo della ragazza:

«Logan non ha un campo anche qui, vero?» scherzò, anche se parte della preoccupazione era vera.

«Cosa? Ah no, rilassati! Penserò io a tutto e credo che ti piacerà! Niente predatori inaspettati, promesso»

«Non vedo l’ora!»

Proseguirono per un altro tratto della foresta. Ad un certo punto, raggiunsero un meandro e Drof ci svoltò dentro. La corrente non era affatto forte, quindi la barca non faceva molta fatica a risalirla. Più si addentravano nel sottobosco, più i versi degli animali variavano e aumentavano: i dintorni si fecero più pieni di vita, per quanto essa continuasse ad essere invisibile. L’unico avvistamento che fecero fu un megaterio che, seduto in mezzo ad una macchia di felci enormi, spaccava con gli artigli un tronco marcio pieno di titanomirme e larve, per poi raccogliere tutti gli insetti con la lingua. Alla fine, la loro navigazione li condusse ad un laghetto alimentato da una cascata.

«Siamo quasi arrivati, da qui c’è una rapida scalata da fare» spiegò Drof.

«Bene» rispose Lex.

L’Arkiano approdò sulla sponda alla loro sinistra e legò la barca al ceppo di una giovane sequoia. Dopodiché, con un fischio, richiamò Onracoel, l’allosauro e i due velociraptor, i quali li avevano seguiti dalla foresta per tutta la navigazione. Quando Aurora chiese sottovoce ad Acceber perché non avevano cavalcato fin lì, la ragazza le spiegò semplicemente che suo padre lasciava spesso che le sue cavalcature lo seguissero da sole, così che potessero anche cacciare e sgranchirsi a loro piacimento nel mentre. Difatti, l’allosauro aveva le gengive e la mandibola sporche di sangue ancora fresco.

«Venite anche voi?» chiese Lex, mentre si metteva la balestra a tracolla e montava sul suo velociraptor.

«Possiamo, padre?» domandò anche Acceber, speranzosa.

Drof la guardò con le mani sui fianchi, le labbra serrate e uno sguardo apostrofante:

«Suvvia, Acceber, concedi loro un secondo di respiro! Ti stai già prendendo molto tempo con la rossa» le disse.

«Ma no, a me no dà per niente fastidio! Anzi, io ormai spero sempre che Acceber mi faccia nuove proposte» disse Aurora, facendo entusiasmare la ragazza.

«Non ne dubito – disse l’uomo – Però c’è l’accampamento da allestire per mezzogiorno e vorrei anche piazzare qualche trappola per microraptor. Mi hai chiesto di farti vedere come si preparano proprio l’altro giorno, non vuoi venire?»

Gli occhi di Acceber si illuminarono:

«Ooooooooh! Allora resto con te! Fa niente, Aurora?»

«Ma certo, fa’ quello che preferisci» la rassicurò la rossa.

«Perfetto. Allora quando avrete finito, aspettateci pure qui: troverete un fuoco da campo» avvisò Drof.

«Capito. Quindi da qui dobbiamo solo salire sul pendio?» domandò Lex.

«Esatto. Riconoscerete subito la bottega» rispose Acceber.

«Allora andiamo»

Dopo che ebbero salutato i due Arkiani, Aurora e Lex spronarono i velociraptor e cominciarono a salire sul dolce pendio che fiancheggiava i due ripiani della cascata. Aurora dovette alzare la voce per farsi sentire a causa del rombo dell’acqua, quando gli disse che trovava quel posto un bel punto per costruire una base. Lui sollevò le spalle e le rispose che trovava migliore una zona con più visibilità e ancora più rialzata, alludendo ad un certo “incidente” che aveva avuto con uno spinosauro nel suo secondo anno sulle Arche. Com’era ovvio, si rifiutò categoricamente di raccontarlo quando la rossa prese a stuzzicarlo con un sorrisetto e a chiedergli com’era andata. Alla fine, quando furono vicini alla cima, trovarono quello che stavano cercando: nella parete di roccia accanto alla cascata superiore c’era l’ingresso di una caverna, che era stato coperto con un’ampia pelle conciata di parasauro. Su di essa, con della tinta bianca, c’erano due scritte gialle: una a caratteri cubitali e in olandese, l’altra in cirillico e in russo:

TIMMERMAN

медсестра

«“Falegname” e “infermiera”» lesse Aurora, capendo all’istante.

«Questo riconferma quello che avevamo già constatato – commentò Lex – La traduzione automatica sembra l’unica funzione che i nostri innesti hanno mantenuto su quest’isola»

«Secondo te perché?» domandò Aurora, incuriosita.

Lex allargò le braccia:

«Non he ho idea. Magari perché è una funzione insita nel nostro cervello, oppure non richiede un dispendio di energia tale che dobbiamo per forza trovarci nel sistema; non saprei dirti»

«Ma quando gli abitanti di questo posto parlano in arkiano, non li capiamo» gli ricordò la rossa.

«Facile: non è inclusa nelle lingue registrate nel Sistema» rispose lui.

In quel momento, la loro discussione fu interrotta da un brusco movimento della tenda: la pelle di parasauro fu sollevata e, davanti a loro, apparve Nadia, che rivolse subito loro un sorriso accogliente:

«Ah, siete voi due! Benissimo, siete venuti anche prima di quanto immaginassi! Forza, entrate» li invitò con un cenno.

I due sopravvissuti la seguirono e diedero un’occhiata all’interno. La grotta che si apriva subito dopo l’ingresso era una galleria molto spaziosa che si addentrava nelle profondità della collina del lago. Era illuminata da file di lampade a muro e, a ridosso delle pareti, erano allineati diversi mobili, soprammobili o parti da costruzione di legno intagliate a regola d’arte e dallo stile austero, quasi senza decorazioni. Inchiodati ai vari pezzi, su dei fogli di lino, erano scritti i nomi dei richiedenti e il costo. Aurora era colpita da quanto Axel fosse talentuoso nel suo lavoro: poteva passare da imitazioni perfette di famose statue greche e rinascimentali a degli spartani, ma a loro modo ammirevoli pezzi di mobilia. Nadia li condusse fino al fondo della galleria, dove essa si divideva in due cunicoli. Quello a destra conduceva ad una stanza che sembrava un ambulatorio pieno di sostanze e preparati medicinali, chiaramente la caverna dove lavorava la Russa. Lei, invece, si fece seguire a sinistra. Dopo una discesa un po’ ripida, raggiunsero una seconda grotta con articoli di legno e, lì, iniziò cominciò la magia.

«E questi cosa sono?» chiese Aurora, affascinata.

In quella grotta, poste su dei piedistalli improvvisati di pietra semi-levigata, c’erano delle bellissime sculture di teneri e dolci animaletti simili a specie moderne, ma chiaramente diversi. Nonostante fossero di legno, erano modellati, colorati con tinte naturali e resi con una bravura tale, dalle superfici alle pose e alle espressioni, che sembravano veri per un secondo. Tutti avevano degli organi bioluminescenti, rappresentati con la gelatina luminosa dei melanoceti. Aurora gettò un rapido sguardo a Lex e, dall’espressione del suo compagno, capì che anche lui stava vedendo quelle creature (o le loro rappresentazioni) per la prima volta. Nella caverna echeggiava un rumore ritmato e raschiante, che proveniva da un angolo. Si girarono in quella direzione e videro Axel, sudato e coperto di fiocchi di legno, intento a piallare un segmento di tronco. Nadia si rivolse a lui come una madre che dice al figlio piccolo che ci sono ospiti e che deve salutarli:

«Hai visto, Axel? Ci sono qui i due sopravvissuti!»

Axel si innervosì subito, facendo una breve pausa, per poi tornare al lavoro facendo finta di niente.

«Mi hai sentita. Ne abbiamo discusso»

«Mandali via» rispose lui, agitato.

«No, Axel, non prima che avremo fatto una bella chiacchierata. Loro meritano di sapere di noi e a noi potrebbe tornare utile sentire la loro storia»

«Non voglio più avere a che fare con le Arche, ho chiuso! E lui non mi avrà mai!»

Lex lanciò un’occhiata interdetta ad Aurora, come per chiederle tacitamente se era così che aveva visto Axel comportarsi il giorno prima, sulla terrazza dei fratelli Braddock; la rossa, con uno sguardo imbarazzato e con le mani dietro la schiena, annuì in silenzio. Nadia sospirò, scoraggiata, e li guardò scuotendo la testa:

«Purtroppo, come temevo, potrete parlare solo con me: non caverete un ragno dal buco con lui. Ed è un vero peccato, Axel! Mi hai capita?»

«Non mi riavrà!» insisté lui, senza mai distogliere lo sguardo dal suo lavoro.

«Di chi sta parlando?» domandò Lex.

«Ve lo spiego dopo, non va bene parlarne davanti ad Axel» rispose Nadia.

Aurora, invece, si avvicinò incuriosita alle sculture e disse:

«Queste sono bellissime! Ma cosa sono queste creature? Vengono da quell’Aberrazione di cui parlate?»

Raffiguravano varie specie: alcune erano dei buffi esseri al contempo teneri e mostruosi, simili a rane pescatrici con un corpo da carlino, altri erano dei gechi dalla coda luminescente, altri dei falchi dalle penne fosforescenti e altri ancora delle piccole caprette dalle corna luminose. Curiosamente, a quella domanda, Axel cessò il suo lavoro con la pialla e levò per la prima volta lo sguardo verso Aurora e Lex. I suoi lineamenti si stavano facendo via via più rilassati, l’agitazione nevrotica si stava affievolendo: sembrava che il riconoscimento della qualità delle sue creazioni lo aiutasse a calmarsi. Anche se continuava a parlare con la solita incertezza e titubanza, rispose alla rossa:

«Quelli? Ehm… sono i… ecco… be’, nell’Aberrazione ci sono mostri, mostri che vedresti solo nei peggiori degli incubi… ah… però ci sono anche loro. Quelle sono le uniche bestiole adorabili di quell’Inferno buio. E così io ho… ehm… ho pensato che… fosse un bel gesto rappresentarli»

«Sono molto realistici: riesco quasi ad immaginarmeli» affermò Lex, con le braccia incrociate.

«Oh… ehm… vi ringrazio… ne… uh… volete uno?» chiese timidamente il falegname.

Di fronte a quella richiesta, Aurora non seppe resistere: quelle statuette erano così impressionanti da averla conquistata subito. Aveva fatto una piccola scorta personale di ciottoli grazie ad Acceber; magari, se fossero bastati, avrebbe potuto comprarne una.

«Ma certo! Perché no?» sorrise quindi.

«Quale?» domandò l’Olandese.

La sopravvissuta fece un lento giro fra i piedistalli, osservando le sculture da cima a fondo. Alla fine, la sua scelta ricadde su quella di una delle caprette, con la pelliccia color crema, una striscia viola sulla schiena, la parte superiore della testa azzurra, le zampe marroni e gli occhi turchini.

«Quello è un brillacorno – spiegò Nadia – Gli altri sono canbulbi, brillacode e piumelucenti» aggiunse, indicando rispettivamente le pseudo-rane pescatrici, i gechi e i falchi.

«Te lo regalo, è… è tutto tuo» farfugliò Axel.

Aurora rimase interdetta:

«Me lo regali? Ma no, suvvia! Dimmi quanto vale e ti pago il dovuto»

«Voglio regalartelo, sei… sei la prima che… ehm… non li trova… strani» ribatté Axel, con un abbozzo di sorriso.

«Davvero la pensano così? Non li capisco, davvero»

«Grazie. Immagino che ora Nadia voglia parlarvi di… cos’abbiamo passato, quindi d’ora in poi vi ignorerò»

Detto questo, il falegname tornò al lavoro, senza più parlare né fare segno. Nadia sospirò e fece cenno ai due di seguirla. Aurora e Lex si fecero scortare oltre la grotta in cui Axel lavorava: la caverna, infatti, proseguiva oltre. Entrambi i sopravvissuti dovevano ammettere che avevano fatto un gran bel lavoro nel trovare e crearsi una dimora su ARK. Raggiunsero un buco nel terreno, connesso ad un livello inferiore da una scala a pioli. Nadia la scese, seguita a ruota dai due sopravvissuti, accese una torcia e andò ad attizzare i bracieri di quella camera, che erano spenti. Si ritrovarono in un antro in cui si vedeva pochissimo, soltanto che c’erano cianfrusaglie varie a ridosso dei muri. Mentre la menscevica faceva luce, Aurora ebbe come la sensazione di sentirsi osservata. Non sapeva perché, ma si sentiva come se avesse due occhi puntati du di sé, da qualche parte in quella spelonca; quando si accorse che Lex si stava guardando in giro con fare circospetto, si rese conto che anche il suo amico doveva sentirsi così. Inoltre, le parve di sentire era un flebile suono appena percettibile che le parve un respiro, in un istante in cui ci fu assoluto silenzio. Però non ebbe il tempo di chiedersi cosa fosse, perché Nadia finì di illuminare la grotta e si pose al suo centro.

«Potrei passare ore a raccontarvi com’è fatta l’Aberrazione e com’è la vita lì, ma penso che questi ritratti di Axel mi faciliteranno molto il compito» affermò la donna, indicando le pareti.

Aurora e Lex osservarono con attenzione e ammirazione: Axel aveva fatto delle pitture rupestri semplici, ma ricche di particolari, di quattro diversi paesaggi: una landa desolata sotto un cielo stellato, con un obelisco caduto dalla luce viola in lontananza; una rigogliosa foresta di abeti in cui i sempreverdi erano affiancati a funghi giganti di colore arancione, situata in una vallata sotterranea illuminata da fori nel soffitto; una palude buia in cui ogni cosa risplendeva di blu, che scendeva sempre più in profondità nel sottosuolo, dall’atmosfera magica e pericolosa al contempo; un’enorme gola poco illuminata da un bagliore rossastro, percorsa da fiumi di un liquido viola e luminescente, che dava l’aria di non essere per niente sicura.

«Inizio ad immaginare perché quell’Arca si chiama “Aberrazione”» commentò Lex, rapito.

«Tu non hai la benché minima idea» disse Nadia.

«A me sembra quasi un bel posto, cos’è successo ad Axel per diventare così?» chiese Aurora, cercando di moderare i termini per non essere offensiva.

La Russa guardò verso l’alto:

«Il responsabile sembrerebbe lui» disse, indicando con l’indice.

I due sopravvissuti sollevarono lo sguardo e videro una quinta pittura rupestre: un gigantesco mostro che sembrava uscito da un racconto dell’orrore immaginato durante un’allucinazione, con un volto solo vagamente umano, il torace aperto che metteva in mostra gli organi e, per il resto, nient’altro che un groviglio di enormi tentacoli. Era circondato da cascate del liquido viola della gola raffigurata sul quarto muro.

«Cos’è quell’essere?» chiese Aurora.

Con un sospiro, Nadia iniziò la sua storia:

«Vedete, Axel era sull’Aberrazione già da cinque anni quando io mi ci svegliai, tre anni fa. Ero andata a dormire dopo una giornata pienissima a medicare chi era rimasto ferito nei moti del 1917 e, di punto in bianco, mi sono svegliata in una foresta sotterranea, circondata da chissà quali mostruosità. Lui mi salvò appena prima che fossi fatta a pezzi da una muta di razziatori»

«Razziatori?» chiese Lex, incuriosito.

«Sì, delle specie di lupi nudi che vanno in giro per le caverne in cerca di prede facili. Dei veri bastardi, quando non sono dalla tua parte»

«Come molte altre specie delle Arche» sorrise il biondo.

«Axel mi ha ospitato nella sua base e mi ha insegnato a sopravvivere lì. Vi giuro, quel posto sa come essere tremendo, anche quando ormai lo conosci come la tua camera da letto»

«C’erano altri sopravvissuti, oltre a voi?» chiese Lex, per curiosità.

L’infermiera fece spallucce:

«Ogni tanto qualcuno appariva, molto di rado, ma duravano poco. Noi cercavamo di accoglierli, ma rifiutavano tutti. Le creature facevano il resto. Comunque, Axel aveva già dei comportamenti bizzarri, quando lo conobbi, ma non era niente di grave. Tuttavia, col tempo, si è aggravato in una maniera che non avrei mai potuto aspettarmi. Era continuamente terrorizzato, si comportava come se qualcuno gli dicesse cose orribili in ogni istante e, a quanto pare, era tutto vero. Per fortuna, riuscii a convincerlo a confidarmi quello che sentiva e mi descrisse tutto nei dettagli: nella testa sentiva la voce di quell’essere sul soffitto»

«Ma cos’è?» chiese Aurora.

«Da quello che mi ha spiegato Axel, sta nelle profondità più remote dell’Aberrazione e, in qualche modo e la controlla. Mi ha detto che si chiama Edmund Rockwell»

Quando sentirono quel nome, i due sopravvissuti si scambiarono un’occhiata sorpresa; Aurora si accorse che, a partire da quel momento, Lex si era messo a seguire il discorso col doppio dell’attenzione. Nadia notò la loro reazione e, incuriosita e con una nota di speranza nello sguardo, domandò loro se lo conoscevano. Lex le rispose semplicemente che teneva una raccolta di copie di due diari scritti da Edmund Rockwell, sull’Arca da cui provenivano, ma che non sapeva ancora cos’era successo al medico inglese dopo la fine del secondo.

«Quindi non è sempre stato sull’Aberrazione? Allora non ha detto proprio tutto ad Axel» rimuginò Nadia.

«Mi domando come sia diventato così. Nel senso, un mostro in grado di regolare e controllare un'Arca. Qualcosa mi dice che c’entra l’Elemento» ipotizzò Lex.

«Be’, Axel mi dice che Rockwell gli ha spiegato di essere “asceso” grazie a qualcosa che chiama “edmundio”. Ormai, tramite i deliri di Axel e quello che ci è successo, conosco quel materiale piuttosto bene e sono sicura che parliamo della stessa cosa – lo supportò Nadia – D’altronde, è grazie a quello che Axel udiva nella sua mente che abbiamo imparato la verità sulla nostra situazione: sapete, che ci trovavamo su una di tante “arche” nel cosmo, che eravamo in un futuro in cui c’è stata l’apocalisse, che l’Aberrazione era un’Arca distrutta eccetera. È stato parecchio da accettare»

«Immagino» mormorò Aurora.

«Più per Axel che per me. Lui era un marito e un padre di famiglia ad Amsterdam, prima di apparire lì. Io? Be’, diciamo che non mi dispiace così tanto. Insomma, il mondo come lo conoscevo era già il caos: la Grande Guerra, i disordini nella mia cara e fredda Russia, coi dannati bolscevichi che imponevano le loro idee con la forza; a momenti, mi sentivo più a casa sull’Aberrazione, con Axel, lo giuro. E, onestamente, su questa nuova isola ho trovato la felicità, quindi mi considero soddisfatta» ammise la menscevica.

«E così Rockwell ha tormentato il tuo compagno fino a farlo diventare pazzo? Perché?» chiese Aurora.

«Vorrei tanto saperlo, ma solo il più schifoso dei bastardi ridurrebbe un uomo in quello stato! Era arrivato ad un punto in cui non lo riconoscevo davvero più e, ancora oggi, è ben lungi dall’essersi ripreso. Lo potete vedere voi stessi. Alla fine ho potuto andare solo io in superficie e nelle zone blu e rossa a prendere risorse rare, perché Axel era sempre così perso che non poteva rischiare di esplorare le zone più pericolose, soprattutto considerando che gli abissi sono radioattivi»

«Allora come avete fatto a venire qui?» chiese Lex.

Nadia si mise a camminare nervosamente avanti e indietro per la grotta, a testa china:

«L’anno scorso, ho fatto un incontro decisamente inaspettato nel bioma blu. Mentre mi aggiravo per una palude azzurra, ho visto un uomo che veniva fatto a pezzi da un branco di senza-nome»

«Senza-nome?» la interruppe Aurora, confusa.

«Sì: sono piccoli, infami, odiosi figli di puttana che si appostano sottoterra e temono la luce elettrica, brutti come la fame. Forse la cosa che odio di più dell’Aberrazione. Quando li ho uccisi tutti, quel disgraziato era da buttare: aveva più sangue per terra che in corpo e non ho il coraggio di descrivervi il resto – rabbrividì per un secondo, poi riprese – L’ho portato alla base, così avrebbe passato i suoi ultimi momenti in un posto sicuro. Sapete che tipo di uomo era?»

«Cosa intendi?» chiese la rossa.

«Era identico agli Arkiani. Stesso colore della pelle, stessi lineamenti, stessa lingua che non riuscivamo a capire con gli innesti. Quando io e Axel l’abbiamo disteso su un letto, rantolava che doveva tornare a casa e ha tirato fuori questa»

A quel punto, Nadia raggiunse una cassa di legno in un angolo in fondo alla caverna, accanto all’imboccatura di una galleria che portava ancora più in profondità, la aprì e ci frugò dentro. Ne tirò fuori nientemeno che una sfera di Elemento TEK. Era diversa da quella che avevano trovato, ma capirono subito che l’utilizzo era lo stesso. Sembrava letteralmente una versione più avanzata della loro sfera, col rame sostituito dal TEK. I due sopravvissuti ebbero l’impulso di fare dei passi avanti, per osservarla meglio. Lex era visibilmente emozionato, perché stava scoprendo importanti dettagli su quel mistero dei viaggi tra le Arche e l’ARK terrestre.

«Ha cercato di usarla, mentre noi provavamo inutilmente a comunicare con lui. Ci ha detto di essere in esplorazione e che con questa sarebbe tornato alla sua terra»

«Ovvero quest’isola» concluse Lex.

«Esatto. Io ho fatto il possibile per tenerlo in vita più a lungo che potevo, ma alla fine è morto dissanguato. Per alcuni giorni, io ho cercato di capire come funzionava quest’affare e di leggere degli appunti in un libretto che gli ho trovato addosso. A giudicare dai disegni che ci aveva fatto, erano delle spiegazioni su come funziona la sfera, ma era scritta in una lingua che non capivo per niente, così dovevo andare alla cieca; nel frattempo, Axel è peggiorato di colpo: sembrava che Rockwell lo assillasse con molta più cattiveria del solito. È persino arrivato a colpirmi, una volta che ho tentato di avvicinarmi!»

«Immagino, doveva essere veramente al limite: non mi stupisce che ricordare quel posto gli faccia così paura» commentò Aurora.

«Già, è stato molto difficile farlo migliorare, ma un passo alla volta sono riuscita a fargli ritrovare la sicurezza, almeno fino a ieri. Comunque, alla fine ce l’ho fatta: la sfera sembrava essersi rotta durante l’attacco dei senza-nome; ma, dopo averci armeggiato per molto tempo, in qualche modo l’ho attivata e si è aperta una porta magica, come dal nulla! L’abbiamo attraversata e ci siamo ritrovati qui. E, da allora, questa è la nostra nuova vita. Be’, questo è più o meno tutto. Adesso vi dispiacerebbe raccontarmi la vostra storia? Chi siete? Da quale Arca venite? Siete arrivati qui come abbiamo fatto noi?» chiese.

Aurora, dopo alcuni attimi di silenzio per ripensare al quadro generale di ciò che aveva appreso, si schiarì la voce e fece per risponderle, ma Lex la trattenne alzando una mano e disse:

«Un momento: hai detto che l’estraneo che hai soccorso aveva degli appunti che non sapevi leggere. Vorrei darci un’occhiata, dove lo tenete?»

«Oh, li ho lasciati sull’Aberrazione»

«Oh, capisco» fece il biondo, deluso.

«Se volete, però, andiamo a recuperarli adesso. Così ne approfitto per farvi vedere la nostra casa là!»

I due sopravvissuti la guardarono negli occhi, perplessi:

«Aspetta, quindi quella sfera funziona? Avevi detto che era rotta, mi ero immaginato che avesse funzionato solo quando siete passati dall’Aberrazione a quest’ARK» ammise il Tedesco.

Nadia scosse la testa, con un sorriso:

«Oh no, funziona! È rotta, sì, però riesco ad usarla quando voglio per tornare sull’Aberrazione e occuparmi di alcune faccende rimaste in sospeso lì. Ovviamente lo faccio solo io, perché Axel non se lo sognerebbe mai»

Aurora, colta da un lampo di entusiasmo e speranza, aveva il cuore a mille:

«Ma allora noi due potremmo usarla per tornare sull’Isola? Non avremmo più bisogno di farci restituire la nostra da Jonas e Bob!» esclamò.

«Lo penso anch’io» annuì Lex.

Nadia sospirò, mortificata:

«Mi dispiace deludervi, ma purtroppo sembrerebbe rotta proprio in quel senso»

«Cosa?»

«Posso usarla solo per fare andata e ritorno da qui all’Aberrazione. Se uso tutti gli altri tasti, non funzioneranno»

«Oh...» mormorò Aurora.

Lex si morse le labbra, con le mani sui fianchi:

«Era troppo bello per essere vero – commentò – Però mi piacerebbe molto dare un’occhiata all’Aberrazione e a quel diario: è praticamente quello che faccio di solito»

«Prima ditemi di voi, per cortesia» li incoraggiò Nadia, invitandoli a sedersi.

Aurora e Lex presero posto a due sgabelli che c’erano tra le cianfrusaglie accumulate lì dentro e, con calma e chiarezza, le parlarono dell’Isola, dei Difensori e di come stavano le cose lì. Lex, ovviamente, non omise i suoi viaggi da un’Arca all’altra tramite gli obelischi. Proprio come avevano appena fatto loro, Nadia ascoltò tutto con la massima attenzione, annuendo con sguardo comprensivo quando vedeva che tutti i dettagli sul sistema delle Arche che aveva scoperto tramite i deliri di Axel corrispondevano di fatto alla realtà. Fu un po’ colta alla sprovvista quando scoprì che lei e Axel appartenevano alle generazioni di sopravvissuti che mantenevano i ricordi della loro vita passata, mentre quelli di cui i due amici facevano parte avessero la memoria cancellata: ammise di sentirsi molto fortunata a sapere ancora chi era stata in origine e che le dispiaceva per loro. Poi arrivarono alla scoperta della sfera e, a quel punto, Nadia era perplessa:

«È di rame e con delle lettere sui tasti? Strano, sembra una versione più vecchia di quella che abbiamo qui»

«Penso che sia proprio così: Aurora l’ha trovata in mano ad uno scheletro pieno di muschio, tu l’hai vista in mano ad un proprietario vivo. Forse è davvero un modello più avanzato»

«E ho scoperto questo mondo scrivendoci “CASA”. A quanto pare, è la “casa” del proprietario» aggiunse la rossa.

«Però gli Arkiani non sembrano affatto ai livelli del TEK. Voglio dire, non hanno nemmeno l’elettricità…» rifletté Lex.

«Non vi preoccupate, ho già una risposta per quello: dev’essere stato un Pre-Arkiano. Sapete, quelli che hanno costruito le rovine sparse per l’arcipelago»

«Davvero? Ne sei sicura?» la interrogò Lex.

«Certo: gli Arkiani ne parlano spesso e ce ne sono delle prove viventi. A quanto pare, da nove siti in rovina ogni tanto escono cose o esseri letteralmente da altri mondi. E, considerando che la barriera sembra attirare qui cose sia dal passato che dal futuro, fate due più due. Abbiamo avuto la gran fortuna di incontrare uno degli antenati degli indigeni e, quando siamo venuti qui, ci siamo ritrovati in un tempo dove ci sono i loro primitivi eredi. Incasinato ma semplice, non trovate?»

«Sì, è decisamente incasinato» rispose Aurora, grattandosi il collo.

«E ora si torna alla nostra situazione presente: i fratelli Braddock si sono impadroniti della sfera, quindi ci tocca fare delle commissioni per loro per farcela restituire, così finalmente saremo liberi di tornare sull’Isola» terminò Lex.

«Capisco. Be’, buona fortuna: almeno voi avete una vita a cui tornare, con degli obiettivi ben precisi… vi auguro di cavarvela, davvero. Comunque, direi che ora siamo pronti per andare sull’Aberrazione. Pronti?»

I due sopravvissuti si guardarono, quindi annuirono.

«Bene! Aspettate un secondo»

La menscevica, allora, torse le due metà della sfera in Elemento. Essa si aprì, rivelando una tastiera e una boccetta di vetro con dentro il pezzo di legno pulsante che secerneva il liquido azzurro, come la sfera di rame. Poterono vedere, però, due dettagli: il primo era che il legnetto era spezzato e usciva pochissimo liquido. Il secondo era la tastiera: era composta da due cerchi concentrici. Il primo, al centro, era un tasto rotondo con dentro l’icona stilizzata dell’arcipelago arkiano, di cui riconobbero i contorni grazie alle mappe che avevano visto in giro con Drof e Acceber. Il secondo cerchio era diviso in nove parti, ciascuna con un diverso numero di tacche, che andava da una a nove. Nadia provò a premere alcuni di essi, ma non successe niente.

«Ecco, come vedete, questi non funzionano. Se invece faccio così…»

A quel punto, premé il tasto con una sola tacca. Allora la sfera si “risvegliò”, ma non nel modo che si stavano aspettando. Non ci fu nessun rovesciamento del liquido per terra. Invece, il pezzo di legno iniziò a vibrare e la sfera emise un fastidioso fischio acuto e, di fronte a loro, apparve un portale. Come quando era dentro la pozzanghera, era trasparente e si vedeva dall’altra parte. La differenza era che, questa volta, si era aperta una “frattura” di fronte a loro, come una porta, molto più grande di una persona.

«Ecco fatto! Dobbiamo solo saltare dentro. Pronti?» sorrise Nadia.

«Oh, assolutamente!» disse Lex.

«Allora seguitemi!»

L’infermiera russa, senza ulteriori indugi, si avvicinò al portale e lo varcò. Aurora e Lex, dunque, la seguirono a ruota. Ed ecco che, in un battito di ciglia, tornarono nel mondo delle Arche, seppur su una che nessuno dei due aveva mai visto prima di allora.

«Ed eccoci qua» affermò Nadia, mentre il passaggio si dissolveva alle loro spalle.

«Adesso dovremo aspettare un giorno per farlo funzionare ancora, giusto?» indagò Aurora.

«Un giorno? Perché? La vostra sfera fa così? Io posso usarla tutte le volte che voglio» la contraddisse Nadia.

Riflettendoci meglio, la sopravvissuta si ricordò che, in effetti, la boccetta di vetro non aveva rovesciato il fluido per terra, quindi il rametto spezzato non doveva trascorrere una giornata intera secernendone altro. Adesso cominciava a provare davvero invidia per la sfera più avanzata, in TEK.

«Questo ci risparmierà molte scomodità, non c’è che dire» fu il commento di Lex.

Adesso si trovavano al piano terra di un’abitazione in pietra, un unico, grande locale in cui c’era una forgia industriale, un fabbricatore, svariate casse e guardaroba, un angolo adibito a cucina e un tavolo chimico. I due erano decisamente arrivati a poter costruire gli engrammi avanzati da parecchio tempo. Lex volle fare una prova: come si aspettava, essendo tornati sulle Arche, gli innesti potevano attivarsi di nuovo. D’istinto, Aurora fece lo stesso, perché voleva accertarsi di avere oggetti utili che avrebbe potuto tirare fuori prima di tornare su ARK. Non trovò niente di che, come si ricordava, ma ebbe comunque la premura di trasferirvi la statuetta di legno, così non avrebbe rischiato di perderla sull’ARK terrestre. Nadia fece un rapido giro dei vari strumenti sparsi per la stanza e trasferì degli oggetti dal e nel suo inventario, poi aprì la porta e li invitò ad uscire.

«È così suggestivo!» esclamò Aurora, quando mise piede fuori.

Si trovavano nel cosiddetto “bioma verde”, la foresta sotterranea di cui Axel aveva fatto un ritratto nella grotta. Per la precisione, erano sul fondo di un enorme avvallamento che conteneva un lago, al centro del quale si innalzava un gigantesco pilastro di roccia. Ai margini c’erano dei vasti ripiani che conducevano ai livelli superiori del sistema di caverne, dove la foresta di conifere e funghi giganti si faceva più fitta, e la luce del Sole passava attraverso gli squarci sparsi per la volta rocciosa, creando degli affascinanti giochi di luce dall’aria quasi paradisiaca. La base era protetta da un muretto di blocchi di pietra, rinforzato a sua volta da una fila di spuntoni metallici: il perimetro difensivo copriva la base sui lati e sul retro, mentre sul lato frontale c’era la riva del lago. Nel giardino dell’insediamento c’erano altre casse e strutture secondarie.

«Benvenuti al Lago Fertile!» esclamò Nadia, sorridente.

«Cominciamo bene: il posto non è affatto male» disse Lex, osservando il paesaggio intorno a sé.

Aurora poteva vedere molto bene l’emozione e l’entusiasmo che crescevano sempre di più nel ragazzo, di fronte ad un luogo nuovo. E dava per scontato che non vedesse l’ora di esplorare quella nuova Arca da cima a fondo. Tuttavia, erano venuti lì per un altro motivo, quindi era chiaro che si stesse trattenendo dal chiedere a Nadia di permettergli di fare un’esplorazione approfondita: per il momento, il Lago Fertile poteva bastare. Nel caso, una volta che sarebbero stati a posto con tutta la faccenda sull’ARK terrestre, avrebbe potuto aggiungerla alla sua lista delle Arche su cui viaggiare.

«Avete degli animali domati, qui?» chiese Aurora.

«Ma certo! Aspetta, ora li chiamo» sorrise Nadia.

L’infermiera si portò le dita alla bocca e fischiò. Nel giro di pochi attimi, da vari angoli della base, intorno a loro si radunarono tre esemplari delle specie di animaletti luminosi viste prima: un canbulbo, un brillacoda e un piumalucente. Mentre il falchetto, facendo splendere tutte le sue penne bioluminescenti, si posò sul braccio di Nadia e le arruffò delle ciocche di capelli col becco per salutarla, il canbulbo prese a girare intorno alle gambe di Aurora ansimando con un sorriso larghissimo e la lingua fuori, eccitato dal vedere una faccia nuova, e il geco studiava con circospezione Lex, facendo piccoli passi scattosi con delle pause. Erano ancora più socievoli di quanto la rossa si aspettasse.

«Loro sono Lampochka, Fonar e Svecha» spiegò Nadia, indicandoli uno alla volta.

«Ciao! Ma quanto sei bello? Ma quanto sei brutto ma bello, eh?» ridacchiò Aurora.

Si accucciò e accarezzò il canbulbo, che la stava chiaramente supplicando di coccolarla. Contentissimo, il cagnolino-rana pescatrice le saltò addosso e la leccò, riempiendola di bava viscida, mentre la sua antenna luminosa diventò più abbagliante: era su di giri e stava facendo aumentare il senso di tenerezza di Aurora in ogni secondo. Pochi secondi dopo, si sentirono dei rumori e arrivarono due creature molto meno tenere. La prima era una sorta di lupo senza pelliccia, con orecchie da pipistrello e zanne molto lunghe: lo riconobbero come uno dei razziatori che Nadia aveva descritto. Subito dopo, dal terreno emerse un imponente serpente gigante con un muso draconico e tre appendici ossee sulla coda. Aurora provò ad immaginarselo mentre ingoiava un tirannosauro intero e le parve di non essere poi così lontana dalla realtà.

«Vi sono mancata, bellezze? Su, venite qui!» sorrise Nadia, mentre il razziatore le scondinzolava di fronte e il serpentone sondava i due nuovi arrivati facendo ondeggiare la lingua.

«Impressionante, cos’è questo bestione?» le chiese Lex, affascinato.

«Loro sono Hond e il basilisco Slijper. Non sapete quanto ne vado fiera!»

«Posso immaginare»

«Per forza di cose, ora passano la maggior parte del tempo senza di me, quindi li ho abituati a sorvegliare la base in mia assenza»

«Logico» annuì Lex.

«Be’, ora che le presentazioni sono state fatte e io ho preparato gli oggetti per la prossima volta che verrò qui, vado a prendere quel diario»

Nadia cominciò a camminare verso il portico della casa, che aveva anche un primo piano con delle finestre attraverso le quali si intravedevano gli arredamenti di due stanze da letto e ripostigli. Il canbulbo, d’istinto, la seguì trotterellando. Quando l’infermiera arrivò sul portico, aprì un’antina inchiodata al muro e vi tirò fuori un oggetto. Quando tornò dai due sopravvissuti, loro poterono vederlo bene: era un piccolo libro dalla copertina in pelle di rettile e le pagine leggermente ingiallite.

«Ecco a voi» disse, porgendolo a Lex.

Il ragazzo la ringraziò e prese il libro, iniziando a sfogliarlo. Aurora gli si accostò allungando il collo per vedere bene a sua volta, mentre le creature di Nadia e Axel li fissavano incuriosite. Anche il basilisco, benché fosse il più inespressivo del contingente, dimostrava di essere interessato nei confronti dei due sconosciuti. Come Nadia aveva raccontato, nelle pagine di quel volumetto c’erano molti disegni, accompagnati da appunti e didascalie, sulla sfera e sulle sue componenti. Dopo quello, erano raffigurati vari paesaggi molto diversi tra loro, divisi in nove capitoli, in cui le note somigliavano di più ad un testo organico e coeso. Nel primo di essi, riconobbero le Arche, grazie ai paesaggi con gli obelischi e gli animali preistorici. Intuirono che fossero le nove possibili destinazioni a cui i nove tasti della sfera conducevano.

«Le persone che hanno inventato quella cosa dovevano essere davvero incredibili» affermò Aurora.

«Non ne dubito» rispose Lex.

Il contenuto di quel diario diceva sicuramente molto più di quanto immaginavano. Il problema, come sapevano, era che non si capiva una parola di quello che c’era scritto.

«Be’, direi che possiamo tornare indietro. Ho un’idea: gli Arkiani capiscono tutte le lingue, perché non chiediamo ad Acceber di tradurre per noi?» suggerì Lex.

«Ci stavo pensando anch’io, ottima idea – annuì Aurora – Ma, Nadia, tu non ci hai mai pensato? Non vuoi sapere cosa c’è scritto qui?»

«Non lo capiscono neanche loro. Dicono che quanto c’è scritto lì non ha senso: ho provato a farlo leggere a molti indigeni»

«Davvero? Allora anche loro hanno dei limiti con le lingue, dopotutto» osservò Aurora.

Lex si strofinò le guance, pensoso:

«Questa è senz’altro una gran rottura. Io direi di provarci lo stesso: forse è un linguaggio criptato e, se così fosse, dev’esserci per forza un modo per decifrarlo»

«Non so quanto vi convenga sperarci, ma non vedo perché non dovreste quantomeno fare un tentativo»

«Proprio così – annuì Lex – Allora, immagino che possiamo rientrare? Vorrei tanto dare un’occhiata qui in giro, ma preferisco rimandare a quando potrò permettermi di farlo per conto mio»

«Sì, certo»

Allora, dopo aver accarezzato e salutato affettuosamente tutti gli animali, Nadia prese ancora la sfera e la aprì, stavolta premendo il tasto centrale. Il portale riapparve, conducendo alla grotta da cui erano venuti. Varcarono il passaggio, il quale prontamente scomparve dietro di loro. Ora erano tornati su ARK, sulla Terra.

«Comunque, credo di avere già una teoria» esordì Lex, prima di chiudere il diario e metterselo in tasca.

«Cioè?» chiese Aurora, interessata.

«Dai disegni, sembra abbastanza chiaro che il contenitore di vetro per il nodo di legno può essere aperto per cambiare il ramoscello. Questo è rotto. Quindi, perché non lo sostituiamo con quello dentro la nostra palla di rame, una volta che l’avremo ottenuta? Avremmo una sfera migliore, più pratica e che funziona sempre!»

«In effetti, ha senso. Tanto stiamo già cercando di riottenerla, adesso ne abbiamo un motivo in più. Tu che ne pensi, Nadia?»

La Russa annuì, con aria coinvolta:

«Be’, perché no? Voi intanto pensate a riprendervi l’altra sfera, poi si vedrà»

I due sopravvissuti non potevano che essere d’accordo. Seguirono Nadia ripercorrendo a rovescio la strada di prima, fino a tornare da Axel. Il falegname stava ancora piallando il tronco, stavolta canticchiando un motivetto. Quando li vide, osò alzare lo sguardo:

«Quindi, ehm… avete finito?» chiese, timoroso.

«Sì. È stato molto d’aiuto»

«Avete scoperto qualcosa di… ecco… importante?» chiese l’Olandese, speranzoso.

Il biondo gli disse che, almeno per il momento, avevano solo delle teorie e che dovevano aspettare di sistemarsi coi fratelli Braddock per poter fare nuovi progressi effettivi. Axel, deluso, sospirò e augurò loro buona fortuna, quindi tornò a piallare. L’infermiera lo osservò in silenzio per diversi istanti, con uno sguardo dispiaciuto. A quel punto, dopo aver ringraziato Axel e Nadia per l’ospitalità e garantendo che avrebbero fatto sapere loro come stava andando la loro missione, i due sopravvissuti uscirono dalla caverna e si ritrovarono soli. Entrambi, godendosi la melodia dei rumori della foresta di sequoie, inspirarono a fondo l’aria aperta.

«È stato incredibile, vero?» disse Aurora.

«Incredibile? Per come la vedo io è dire poco» ammiccò Lex.

«Hai ragione. Abbiamo fatto proprio bene a indagare su loro due: adesso sappiamo come migliorare e gestire i viaggi da qui all’Isola! Dovremmo proprio tornare qui per una visita decente, quando potremo»

«E io so che tornerò assolutamente sull’Aberrazione. È chiaro come il sole che capirla sarà importante per venire a capo dei misteri dei diari che ho raccolto»

«C’è spazio anche per me, vero?» lo punzecchiò Aurora.

Lex fece roteare gli occhi, ignoradola appositamente, il che la fece ridacchiare dalla soddisfazione. Tornarono dai velociraptor e tornarono al laghetto, dove videro Drof e Acceber accampati, che li stavano aspettando. Adesso che avevano fatto le dovute scoperte nuove, potevano finalmente passare i cinque giorni a venire rilassandosi e godendosi nuovi angoli dell’arcipelago arkiano coi loro nuovi contatti. Aurora non vedeva proprio l’ora di scoprire quale sorpresa Acceber aveva in serbo per lei, quella volta.

Pranzarono coi celacanti pescati da Acceber, che l’Arkiana aveva arrostito sul fuoco da campo, accompagnati dal fragore delle due cascate. Inizialmente, i due amici si limitarono ad ascoltare la ragazza e suo padre discutere in modo molto affiatato su dove era più utile piazzare le trappole per i microraptor, come evitare che i troodonti o i compsognati le rovinassero facendole scattare mentre setacciavano il sottobosco, come prevedere su quali alberi i microraptor sarebbero fuggiti se ne avessero mancati alcuni e così via. Acceber sembrava prendere con molta serietà gli insegnamenti di Drof sulla caccia e il modo di comportarsi con le creature selvatiche. Dopo i pesci, mentre mangiavano delle bacche assortite come frutta, la ragazza si rivolse ad Aurora e Lex e chiese loro cos’avevano fatto nella bottega di Axel. Loro, cercando di non perdersi troppo nei dettagli, condivisero le loro scoperte sul passato dell’Olandese e di Nadia, sulla nuova sfera per viaggiare tra i mondi e dell’Aberrazione.

«Per gli dèi, tutto questo è pazzesco. Si sta aprendo tutto un mondo intero anche per me!» esclamò Acceber, entusiasta.

Suo padre, invece, scosse la testa con aria diffidente:

«Uhm… non sono tanto sicuro che tutta questa faccenda finirà bene. L’ultima volta che degli stranieri hanno armeggiato con cose dei predecessori, è stato a dir poco un macello. E c’era già la guerra con la Nuova Legione in corso. Fossi in voi, starei più attento che a rubare le uova agli uccelli del terrore» fu il suo giudizio.

«Grazie per la preoccupazione, ma staremmo attenti in ogni caso» lo rassicurò Lex.

«Non ne dubito. Sta di fatto che ho un brutto presentimento sulla piega che la vostra vicenda sta prendendo»

«Dai, padre, non portare sfortuna! È l’ultima cosa che gli serve» scherzò Acceber.

«Scusa, scusa! Comunque, se dovesse servirvi una mano, io e i miei amici siamo disposti ad aiutarvi: basta chiedere»

«Grazie per la disponibilità» ringraziò Lex.

Quando ebbero finito di mangiare, spensero il fuoco da campo, raccolsero tutte le loro cose e richiamarono le cavalcature. La loro fermata successiva era il villaggio degli Alberi Eterni, dove gli amici di Drof stavano attendendo lui e Lex per iniziare le ricerche sul mostro acido. Attraversarono direttamente l’interno della foresta, senza raggiungere un sentiero e seguirlo. Dopo un paio d’ore di galoppo, raggiunsero la palizzata del villaggio. Una volta che le guardie li fecero entrare, si diressero alle stalle. Nel frattempo, Aurora si guardava intorno, affascinata: l’insediamento della tribù degli Alberi Eterni era unico rispetto agli altri, per via di come gli abitanti si erano adattati al posto in cui si erano stabiliti: sul terreno c’erano solo i luoghi come il mercato, le stalle e il pozzo. Ma tutto il resto, dalle abitazioni ai locali, era costruito su ampie piattaforme circolari di legno rinforzato con pietra, ancorate ai tronchi delle gigantesche sequoie: ogni albero presentava due piattaforme più piccole nella parte inferiore del fusto e vicino ai rami e una principale al centro. Erano tutte collegate da robusti ponti tibetani; la maggior parte era accessibile con delle scale in corda coi pioli di legno, alcune tra le più importanti erano equipaggiate con un primitivo ma ingegnoso sistema di ascensori mossi da carrucole e azionati da leve. Aurora dubitava che la foresta di sequoie potesse affascinarla oltre, a quel punto.

«Eccoli là» indicò Drof, quando vide i suoi sei amici raggruppati davanti alle stalle comuni.

Mentre si avvicinavano, Elehcim li vide per primo e li salutò agitando il braccio. Allora anche gli altri si accorsero di loro e li raggiunsero, aiutandoli a sistemare le bestie nelle stalle assieme alle altre creature presenti.

«Perfetto, ora ci siamo tutti» disse Aisapsa.

«Abbiamo già parlato col capovillaggio, ci siamo garantiti il posto con l’approvazione di tutti gli interessati e ci siamo fatti raccontare dai cacciatori che ci hanno provato finora cos’è successo a loro: siamo pronti a iniziare, mancavate solo voi» spiegò Odraccir.

«Io ho anche dato un’occhiata ai posti dove il mostro acido è apparso le volte scorse: mi sto facendo un paio di idee su come potremmo fare» aggiunse Oilnats.

«Ah, vedo che siete già a buon punto! – esclamò Lex – Quindi possiamo metterci al lavoro subito?»

«Certo! A quanto pare hanno tutti voglia di farsi sventrare» borbottò Ynneb, sarcastico.

«Di certo non io» scherzò Odraode.

«Lex, tu e Aurora avete detto di avere cinque giorni liberi prima di tornare a lavorare per i due stranieri?» chiese Aisapsa.

«Sì» confermò il Tedesco.

«Be’, allora dovresti riuscire a partecipare a tutta la caccia con noi! Ammesso che riusciamo a stanare quel mostro, altrimenti pazienza»

«Vedrò di rendermi utile»

Mentre loro discutevano prima della caccia, Acceber attirò l’attenzione di suo padre toccandoolo sulla spalla:

«Bene, allora io e Aurora andiamo, adesso. Ti saluto, padre!»

«Divertitevi! Riportala indietro tutta intera, mi raccomando» ammiccò Drof.

«Ha-ha-ha, divertente. Vieni, Aurora: finalmente siamo solo noi due!»

«Va bene, ti seguo» sorrise la rossa, mentre l’Arkiana la portava via con sé tenendola per mano.

POCO DOPO…

«Mi potresti dire dove stiamo andando?» chiese Aurora, per l’ennesima volta.

Era da quando avevano lasciato il villaggio che cercava di farselo dire, ma Acceber rifiutava sempre con un sorrisetto. L’Arkiana aveva preso un gallimimo dalle stalle e aveva fatto accomodare Aurora dietro di sé, sul posto a sedere centrale della sella composita; nel frattempo, si facevano seguire da un terizinosauro, che sarebbe servito per difenderle nel caso in cui avessero incontrato dei predatori, anche se Acceber aveva garantito di aver scelto una zona dove non ce n’erano. Mentre il gallimimo sfrecciava ad ampie falcate nel sottobosco, in direzione Nord-Ovest, l’erbivoro piumato dai lunghi artigli lo seguiva come meglio poteva per non rimanere indietro. Alla fine, Aurora riuscì ad insistere abbastanza da convincere Acceber:

«Esploreremo la Grande Foresta insieme per domare una creatura che sarà tutta tua!»

Aurora non se l’aspettava. Dal modo in cui Acceber non vedeva l’ora che quel momento arrivasse, immaginava che la figlia di Drof volesse farle vedere un paesaggio unico come l’isola volante o portarla a fare qualche attività, domare una creatura per lei era l’ultima cosa che le era venuto in mente.

«Davvero? Grazie!»

«Tanto non potrei domarla per me in ogni caso: non potrò avere un animale mio e soltato mio fino all’anno prossimo, quando domerò la creatura che mi darà il diritto di ottenere l’innesto nel polso»

«Capito»

«Se ricordo bene quello che mi hai raccontato, sulla vostra isola hai domato un equus quando eri da sola, giusto?»

«Sì, è stato quando il raptor Alfa mi ha lasciato questi segni sulle braccia. Sia io che il cavallo ce la siamo vista brutta»

«Bene, questa sarà la tua occasione per riprovarci come si deve, senza incidenti! E io ne approfitterò per fare esercizio: ho intenzione di diventare una maestra domatrice, come Aisapsa»

«Sei davvero incredibile, Acceber: continui a fare tutto questo solo per me»

La ragazza fece spallucce:

«Cerco giusto di farti avere bei ricordi di ARK quando te ne andrai»

«Ah be’, quelli su di te saranno di certo grandiosi!»

«Mi fa piacere! Siamo quasi arrivate, comunque»

«Dove?»

«Conosco un posto in questa regione in cui di solito c’è una mandria di equus. Stiamo andando da loro»

Dopo qualche altro minuto di cavalcata, il gallimimo arrivò e si arrestò, raggiunto pochi minuti dopo dal terizinosauro, ai margini di una vasta radura erbosa cosparsa di felci e attraversata da un ruscello; era uno dei pochi angoli di tutto il bioma in cui il Sole non fosse oscurato dalle immense fronde delle sequoie. Le due ragazze scesero a terra e fecero alcuni prudenti passi nella radura, guardandosi in giro. In quel momento non c’era nessuna traccia di cavalli cenozoici lì, vi era solo un paraceraterio solitario che, abbassando il lungo collo, mangiava placidamente le felci, torreggiando al centro dello spiazzo con la sua mole imponente.

«Non sono ancora arrivati, ma dobbiamo solo aspettare: passano da qui una volta al giorno» spiegò Acceber.

«Va bene, allora ci raccontiamo storie?» suggerì Aurora.

«Molto volentieri!»

Detto questo, le due ragazze si sedettero una accanto all’altra a ridosso di una sequoia e presero a scambiarsi aneddoti sulle rispettive isole, la loro attività preferita da quando si erano incontrate. Nel frattempo, il gallimimo e il terizinosauro cominciarono a razzolare in giro. Il primo, stando sempre all’erta come faceva sempre per natura, strappava pezzi di felce e si guardava continuamente in giro mentre masticava, senza smettere un attimo di gironzolare; l’altro, invece, setacciava e affettava i cespugli e rivangava il terreno con gli artigli alla ricerca di fibre e radici. Così, il tempo trascorse.

«Pronta? Tira!»

Aurora caricò il lancio, prese la rincorsa e gettò il sassolino verso la superficie del ruscello. Il ciottolo rimbalzò una, due, tre e poi un’ultima volta, prima di sprofondare e unirsi alle altre pietre sul fondo della roggia. Era il primo di innumerevoli tentativi in cui la rossa riusciva a far rimbalzare il sasso più di tre volte. Qualche ora prima, mentre conversavano, ad Acceber era capitato a caso di domandare ad Aurora se era capace di fare quel piccolo gioco, che lei usava sempre come passatempo durante le attese solitarie. Alla risposta negativa della rossa, si era offerta di insegnarglielo e Aurora aveva accettato volentieri. Quindi, visto che gli equus non accennavano ancora ad arrivare, avevano trascorso il tempo in quel modo: Acceber mostrava ad Aurora come si faceva e poi le faceva provare. La rossa migliorava molto velocemente e si stava pure divertendo.

«Vogliamo provare ad arrivare a cinque rimbalzi? Se non ti sembra di esagerare» la punzecchiò.

«Esagerare? Allora ti dico che arriverò a sei!» la sfidò Aurora.

«Bene, allora dacci dentro!»

Proprio in quel momento, però, iniziarono a sentire degli scalpiccii di zoccoli e degli sbuffi. Si voltarono e videro che, finalmente, dal fitto della foresta, nascosti dalle penombre create dal sottobosco dal Sole che cominciava a tramontare, erano spuntati gli equus. I cavalli preistorici, uscendo con calma allo scoperto, iniziarono a pascolare placidamente in giro, mantenendosi principalmente sul margine della foresta, facendo compagnia al paraceraterio, che ogni tanto si voltava a guardare con aria distaccata i nuovi arrivati o le due umane.

«Ci siamo! Vieni» sussurrò Acceber.

Aurora obbedì, entusiasta all’idea di stare per domare una di quelle simpatiche creature ancora una volta. La figlia di Drof, raggiunto il gallimimo, prese dalla sua sella e una borsa di cuoio colma di sacchetti di iuta pieni di carote, pannocchie e lattuga: esche per avvicinare e far affezionare a piccoli passi uno degli equus. Allora, Acceber prese anche una fionda e passò il tutto ad Aurora. Le disse che l’avrebbe solo tenuta d’occhio e che avrebbe lasciato fare a lei. Aurora si mise la borsa delle esche a tracolla e prese la fionda e disse all’amica che era pronta. Prima di cominciare, l’Arkiana ordinò al gallimimo e al terizinosauro, che si era sdraiato pigramente sull’erba, di restare dov’erano. Le due ragazze si posizionarono più o meno al centro della radura, vicino al ruscello. La mandria di equus era tutta dall’altra parte, mentre adesso il paraceraterio era intento a bere.

«Non sarà difficile – disse Acceber – In molti hanno già domato degli esemplari da questa mandria, quindi non si spaventano più quando vedono delle persone vicino a loro. Tieni solo la distanza giusta e non scapperanno»

«Benissimo»  

«Do per scontato che non ti servano dritte, quindi ti lascio andare!»

Quindi, mentre Acceber si accucciò accanto ad una macchia di felci, Aurora attraversò il ruscello e fece dei lenti e cauti passi verso la mandria. Quando gli equidi iniziarono a notarla e voltarsi tutti nella sua direzione drizzando le orecchie, capì di non doversi avvicinare oltre. Quindi iniziò il procedimento: prese il primo sacco, allentò i lacci che lo tenevano chiuso per accertarsi che le esche uscissero, lo caricò nella fionda e lo tirò a circa una quindicina di metri da sé. Il sacco di iuta rotolò sull’erba e alcuni degli ortaggi fuoriuscirono. A quel punto, doveva aspettare e scoprire quale equus fosse il meno timoroso, quello che si sarebbe fatto avanti per primo per accettare il regalo. Aurora si voltò con un sorrisetto per vedere Acceber che le mostrava il pollice alzato e annuiva. A quel punto, la rossa si appostò con un ginocchio a terra e la mano libera poggiata sull’altro, stando in attesa. Per diversi minuti, gli equus fecero tutti finta di niente: ogni tanto qualcuno osava levare lo sguardo verso quelle invitanti verdure gratuite, ma alla fine tornavano tutti ad annusare l’erba o i cespugli, facendo finta di pascolare. Non successe niente per così tanto che Aurora fu tentata di lanciare un altro sacchetto ma, proprio mentre lo metteva nella fionda, ecco che finalmente un cavallo più audace degli altri iniziò ad avvicinarsi alle esche, circospetto. Era uno stallone bianco, con le zebrature marrone scuro e la criniera spelacchiata in alcuni punti.

“Oh, ecco!” pensò Aurora, soddisfatta.

Piano piano, un passo alla volta, sempre più sicuro, l’equus raggiunse l’esca. Prima di fare altro, gettò uno sguardo diffidente ma interessato alla rossa, la quale d’istinto gli sorrise. Il cavallo rimase immobile per alcuni secondi, poi finalmente iniziò a mangiare gli ortaggi, masticando con calma e ficcando il muso nel sacchetto alla ricerca di quelli che non si erano riversati sul prato. Quando ebbe finito, tornò a fissare Aurora, agitando la coda e le orecchie. Dopodiché, emise uno sbuffo, scosse la testa su e giù e si riunì ai suoi simili trottando. Tuttavia, da quel momento, non smise più di tenere d’occhio Aurora, mentre si aggirava per il limitare della foresta. La ragazza, contenta di aver individuato l’esemplare che sarebbe stato la sua futura cavalcatura, si azzardò a fare alcuni passi avanti. Come si aspettava, tutti gli equus non si attardarono ad allertarsi e ad allontanarsi un poco, rientrando nella foresta pur restando nei paraggi. L’equus che aveva mangiato l’esca, però, fu quello che si allontanò meno. Quasi un’ora dopo, Aurora decise di tentare di gettare un secondo sacchetto. Il suo “equus” non sembrava molto convinto, all’inizio; ma poi si accorse che anche il paraceraterio sembrava essersi interessato a quelle verdure, quindi nitrì infastidito e trottò verso l’offerta della rossa per mangiare per primo. Questa volta, dopo che ebbe mangiato, non si riunì ai suoi compagni di mandria, almeno fino a quando, ormai a sera calata, non decisero tutti di andarsene da lì. Mentre tutti i cavalli sparivano di nuovo nel fitto della foresta di sequoie per cercare un posto sicuro dove riposare, l’equus spettinato indugiò. Prima di partire, si voltò un’ultima volta a guardare la rossa negli occhi, prima di galoppare in direzione dei suoi simili per non farsi lasciare indietro. Il giorno era finito, così come l’inizio di quella tenera domatura. Aurora, contenta e soddisfatta di quell’inizio promettente, si alzò e si stirò senza smettere di sorridere, mentre Acceber la raggiungeva.

«Sei stava bravissima! Inizio coi fiocchi» si complimentò.

«Grazie, Acceber»

«Hai già pensato ad un nome?»

La rossa si strinse nelle spalle:

«No, non ancora: una cosa per volta. Ci penserò, poi deciderò quando avrò finito»

«Giusto, a pensarci bene lo farei anch’io»

Nel frattempo, anche il paraceraterio decise che era giunto il momento di lasciare quella radura e, seguendo la corrente del ruscello, scomparve a sua volta nel mezzo della foresta, facendo vibrare la terra coi suoi passi e piegando gli alberi più giovani e sottili quando li urtava. L’Arkiana guardò su e vide le prime stelle che erano apparse nel cielo sempre più buio. La radura era ormai quasi completamente all’ombra.

«Be’, è ora di riposarci: domattina mi metterò sulle loro tracce e ti riporterò da loro. Sono certa che il tuo nuovo amico non vede l’ora di un altro regalino»

«Anch’io» disse Aurora.

Quindi le due ragazze si aiutarono a preparare un fuoco da campo e ad accenderlo, mentre i due dinosauri si adagiavano accanto a loro. Cenarono con delle strisce di pancetta di fiomia salata, delle pagnotte e degli acini d’uva che Acceber aveva preso al mercato degl Alberi Eterni prima dell’escursione, raccontandosi ancora alcune brevi storie personali nel mentre. Quando la luna fu alta nel cielo, Aurora decise di coricarsi, mentre Acceber sarebbe rimasta sveglia ancora qualche ora per controllare ulteriormente i dintorni. Distendendosi nel sacco a pelo, nonché a ridosso del soffice e caldo piumaggio del terizinosauro (a cui non dispiaceva affatto dormire con Aurora appoggiata al suo fianco), la sopravvissuta si addormentò pervasa da un senso di pace e di calma, osservando il firmamento. Era sempre più riconoscente per aver casualmente scoperto quella sfera di rame: ARK era un posto fantastico e la sua nuova amica era meravigliosa. Cos’altro poteva chiedere, in quell’avventura sull’isola preistorica? Domani sarebbe stato un altro gran bel giorno, se lo sentiva.

   
 
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