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Autore: Ellenw    06/03/2021    1 recensioni
La fiction è ambientata nel Mu, dove L e Light, o meglio le loro anime, si ritrovano dopo la morte e dopo aver superato il Rito di Espiazione, e anche se le loro anime sono destinate ad andare in due direzioni diverse, non riescono a stare l'uno senza l'altro.
E nonostante le tenebre, trovano la luce.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: L, Light/Raito | Coppie: L/Light
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Birmingham, 9 Febbraio 1983
La neve da qualche giorno non lascia tregua alla città.
Un edificio antico in stile vittoriano.
Un appartamento abbandonato, fatiscente e ammuffito di circa sessanta metri quadrati.
Un uomo e una ragazza si affrettano a preparare una vecchia valigia, mettendo all’interno i loro pochi averi e un migliaio di sterline. La paura in ogni loro movimento.
“Dannazione Veronika, dovevamo andarcene tempo fa, quando te lo dissi la prima volta”
Lei, Veronika Lebedev (Вероника Лебедев), poco più che ventenne, alta e magrissima, i capelli lunghi e neri come il petrolio, gli occhi grigio chiaro che hanno visto troppa sofferenza nonostante la tenera età.
I lineamenti tipici della Russia orientale, nella sua mente sono ancora vividi i ricordi di un’infanzia in una fattoria nella fredda campagna fuori Irkutsk.
Figlia di contadini e cresciuta in povertà, all’età di diciassette anni ha deciso di abbandonare quella vita miserabile e di fuggire in Europa con una vicina di casa, con in tasca i pochi risparmi dei genitori, nella speranza di un futuro promettente.
Arrivata in Inghilterra tuttavia, limite la barriera linguistica e la mancanza di una formazione scolastica, aggiunta all’ingenuità di non aver mai vissuto in una metropoli, scopre che il futuro è molto diverso da come lo immaginava.
Ben presto si trova intrappolata in una realtà in cui la droga e la prostituzione sono l’unico modo per poter sopravvivere in una società che ti ignora e ti calpesta. E dopo anni di soprusi e violenza, riesce a fuggire da quel palazzo malfamato e dall’uomo che ricatta e abusa decine di ragazze oltre a lei. Con un’astuzia e un’intelligenza che non credeva di possedere, riesce a rubare parte del profitto del suo protettore e a fuggire.
“Dobbiamo andarcene subito, ormai saranno quasi qui!”
Lui, Leonard Alexander Lawliet, sulla trentina, capelli castani e grandi occhi neri, primogenito di una ricca famiglia appartenente alla borghesia londinese, allontanatosi da casa per trasgredire ad un futuro e ad una carriera prestabiliti, nonché al bigottismo e all’arroganza altolocata, per poter decidere liberamente della propria vita.
Dopo questa scelta di apparente disonore e dopo aver espresso la volontà di sposare una prostituta, tuttavia, finisce rinnegato e disconosciuto dalla sua stessa famiglia.
Innamoratosi di lei sin dal primo istante, però, è sicuro della sua scelta.
Se riuscirà ad aiutarla e a fuggire, per loro ci sarà, forse, un lieto fine.
Ma il destino è fin troppo crudele.
Tre uomini armati di pistola sfondano il portone in legno dell’edificio, e corrono velocemente su per i vecchi scalini in marmo. Arrivano in pochi minuti all’undicesimo piano, decisi a portare a termine l’operazione e ad incassare la paga loro promessa.
I due ragazzi escono a perdifiato nell’antro illuminato del corridoio e si dirigono verso l’uscita di emergenza.
Veronika piange, consapevole dei suoi ultimi minuti di vita, e stringe a sé il bagaglio più prezioso.
Un bambino di pochi mesi, dai cappelli corvini.
Leonard la segue di corsa giù per la scala antincendio, voltandosi e vedendo gli uomini a una dozzina di metri da loro.
Due spari echeggiano nella notte.
Leonard si accascia a terra, facendo cadere la valigia e sparpagliando un gran numero di banconote e due passaporti falsi sulla neve ghiacciata. Giace inerme, vivo ancora per pochi istanti, sotto di lui il rosso del sangue abbraccia il bianco della neve.
Veronika sa che la fine è vicina. Sa che hanno sparato all’uomo che ama ma non si ferma, continua a correre e le lacrime le offuscano la vista.
Non si volta, perché voltarsi e vederlo un’ultima volta la distruggerebbe.
Attraversa la strada e vede degli scatoloni abbandonati dietro ad un muretto, di fronte ad una delle tipiche case a schiera di quella zona. Allunga un braccio e preme il bottone per citofonare, sperando che qualcuno esca presto.
Con delicatezza pone il bambino dentro uno degli scatoloni.
Lui la guarda sereno, ignaro del fatto che non vedrà mai più quel volto.
Lei lo bacia sulla fronte, bagnandolo con le sue lacrime.  
E poi si allontana nella direzione opposta, attirando dietro di sé i due uomini che ormai l’hanno quasi raggiunta.
Corre a perdifiato.
Due spari.
Veronika incespica ma non cade, continua a correre nonostante l’emorragia che le dilaga nell’addome. Deve mettere la maggior distanza possibile tra i sicari e il suo bambino.
Altri tre spari.
La ragazza si accascia a terra, finita. La sua pelle è perlacea come la neve.
I due uomini si avvicinano per constatarne la morte, il terzo li raggiunge poco dopo, con in mano la valigia riempita di nuovo del denaro. Salgono su una vecchia BMW e si allontanano.
In quel momento, la porta di una villa a schiera si apre.
Il campanello e il rumore di una sparatoria hanno svegliato l’anziana signora che si affaccia allo stipite.
Non vedendo nulla di strano, sta per rientrare in casa.
Ma il pianto a squarciagola di un bambino rompe il silenzio del quartiere.
La signora segue quel suono, e si dirige verso lo scatolone ai piedi del muretto.
La neve ha quasi totalmente ricoperto il bambino, ma è il contrasto dei capelli color petrolio con la neve ad attirare l’attenzione della donna.
Scioccata da quello che ha appena scoperto, lo solleva delicatamente e se lo porta al petto, tentando di consolare i suoi gemiti.
Qualcosa cade a terra ai piedi della donna, probabilmente uscito da sotto la coperta con cui era avvolto il bambino.
Nel raccoglierlo si rende conto che è una busta, all’interno del quale vi è un foglio.
Il foglio riporta un nome e una data di nascita.
L Lawliet, 31/10/1982
 
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“Ciao, Light-kun”
Le mie parole sono quasi un sussurro, ma nell’udire la mia voce Light trasalisce leggermente.
Osservandolo attentamente mi rendo conto che è cambiato dall’ultima volta che lo vidi, ormai più di sei anni fa. I lineamenti del suo viso sono più marcati, lo sguardo più freddo, la carnagione leggermente olivastra, e ha guadagnato qualche centimetro in più in altezza. Un raggio di sole che entra dalla finestra gli illumina i capelli color rame, di una tonalità più chiara rispetto all’iride. Da quello che so e da quello che vedo non dovrebbe avere più di ventisei anni.
Un sorriso accennato e malinconico gli compare sulle labbra.
Anche così, impolverato e sporco di sangue, sembra uno degli angeli più belli dipinti da Michelangelo nella cappella Sistina.
Lucifero, probabilmente, e il parallelismo è fin troppo appropriato.
Ovviamente ho notato che i suoi vestiti, soprattutto a livello della spalla, del braccio sinistro e del torace, sono macchiati di sangue rosso intenso. Non ci vuole il miglior detective del mondo per capire che si tratta di ferite di arma da fuoco, probabilmente una beretta, ma dovrei vedere le ferite per esserne sicuro.
La mia mente scarta velocemente l’alternativa della fucilazione come pena di morte: se fosse stato questo il caso, il condannato non sarebbe certo vestito con giacca e cravatta, ma indosserebbe una divisa carceraria. Certo, potrebbe anche essere che nel caso di Kira abbiamo fatto un’eccezione, tuttavia anche la posizione delle ferite mi fa pensare all’erroneità di questa ipotesi: so per certo, dopo averne viste centinaia, che durante la fucilazione si mira alla testa, e di solito basta uno sparo per dichiarare la morte del condannato.
Quindi resta l’alternativa che in qualche modo il giorno della sua morte lui non si aspettasse affatto di morire, e che la sparatoria sia avvenuta ad un certo punto per un episodio o comportamento che lo ha smascherato, o per evitargli un tentativo di fuga.
Non credevo che questo momento sarebbe arrivato tanto presto, dopo quello che mi aveva raccontato Mello al parco qualche tempo fa. Tuttavia, se Kira in questo momento si trova di fronte a me nel mondo dei morti, significa che Near, con l’aiuto ultimo di Mello, è riuscito a sconfiggerlo. Una parte di me gioisce a questo pensiero, l’altra, del tutto ignara della razionalità e della logica, e con mia totale sorpresa, è addolorata e pietosa al pensiero della morte di Light.
Che cosa ti hanno fatto, my darling?
Lui sta osservando la direzione che ha preso il mio sguardo e, nonostante il tempo e la morte, è sempre in grado di intuire i miei pensieri, come se me li leggesse in volto, e risponde alla mia domanda inespressa.
“La mia Waterloo. Anziché esiliarmi su un’isola deserta, però, hanno preferito risolvere il problema in modo più rapido”
Rifletto il suo sorriso. “Che peccato” rispondo, palesemente sarcastico.
Ride, amaro. “Non c’è colpo che non renda, giusto?”
“Esattamente”
Mi osserva ancora per qualche istante, poi fa una cosa del tutto inaspettata.
Solleva lentamente una mano e la porta fino a toccare la parte alta del mio braccio, vicino alla spalla, quasi con timore che io possa impedirglielo, o che possa svanire da un momento all’altro. Come per avere una prova tangibile che io non sia un’allucinazione.
Ma il mio corpo è incapace di muovere un muscolo in questo momento, quindi resto immobile.
Tuttavia, nel momento in cui le sue dita toccano il mio braccio succede qualcosa di molto, molto strano.
Molla la presa di colpo, con un urlo, e si allontana di un passo, piegandosi su se stesso con un gemito e tenendosi stretto il polso del braccio con cui mi ha toccato.
Resto sconcertato come lui e totalmente incuriosito. Ha provato una sorta di dolore solo nello sfiorarmi: ha reagito di scatto come se si fosse scottato oppure come se avesse preso una brutta scossa di corrente elettrica.
Light sembra riprendere la sua solita postura controllata. Si osserva la mano, ma non c’è nessun segno che possa giustificare quel dolore. Prova ad aprire e chiudere la mano, riuscendoci senza problemi.
Si volta di nuovo verso di me. Ha le labbra serrate e un’espressione di irritazione dipinta in volto.
Questa volta è più deciso, ma leggo una sorta di timore nel suo sguardo.
Testardo, allunga entrambe le mani e le lascia sospese ad un centimetro dalle mie spalle, poi i suoi occhi leggermente dilatati incontrano i miei, e le sue mani afferrano le mie spalle in una presa molto più salda rispetto alla prima volta.
Succede in un attimo.
Come pochi minuti fa, molla la presa in mezzo secondo e questa volta il suo grido è ancora più forte, perché al dolore si aggiunge la rabbia.
Si porta entrambe le mani al petto, arretrando. La testa è china e non mi permette di vedere il suo sguardo.
Ma quando solleva il volto verso l’alto, tenendosi ancora le mani strette al petto, i suoi occhi sono rossi come il sangue e la sua espressione è indecifrabile, fredda e diabolica.
Frustrazione, odio, ira, tutto si mescola.
Eccoti, Kira.
Alza lo sguardo al soffitto, allarga le braccia e scoppia in una risata amara e agghiacciante.
“È questa la mia punizione? Non sai fare di meglio?” urla al cielo verso una divinità che forse nemmeno esiste.
Solo in questo momento decido di osservare l’ombra dietro di lui.
È enorme, quella che ho visto alle spalle di Mello non è niente al confronto. Occupa quasi tutta la stanza in cui ci troviamo e aleggia come una nube alle spalle di Light: è di un color nero intenso e, mentre poco fa restava semplicemente sospesa nell’aria muovendosi lentamente, ora vortica al di sopra di noi come un temporale.
Dev’essere alta almeno quattro metri dato che pare arrivare oltre il soffitto, e si distribuisce in larghezza in una superficie altrettanto grande se non di più.
Adesso la parte dell’ombra che si trova vicino a Light inizia a vorticare ancora più velocemente e di colpo si sparge scoppiando in tutte le direzioni come una nube radioattiva, rompendo tutti i vetri della sala computer.
Se non fossi totalmente affascinato, avrei quasi paura.
Solo ora mi ricordo che Watari è ancora in questa stanza, a pochi metri da me.
Mi volto verso di lui e vedo che osserva la nube con gli occhi sbarrati, terrorizzato.
Poi il suo sguardo si posa su di me, e leggo la paura più profonda nella sua espressione; non solo, i suoi occhi cercano di dirmi di andarcene il più lontano possibile da questo luogo e soprattutto dalla persona al centro della stanza.
È ancora qui solo per me, glielo leggo in faccia.
È la stessa sensazione che abbiamo provato nel vedere Mello: tutto ci suggeriva di allontanarci da quell’ombra oscura, dal male e dal peccato. Che fosse un istinto primordiale di sopravvivenza nell’aldilà o una lucidità razionale mantenuta anche dopo la morte non lo saprei dire. Come i poli opposti di una calamita, la presenza di Mello e di quella nube di modeste dimensioni faceva in modo che lo volessimo respingere il più lontano possibile da noi.
Immagino quindi la sensazione di terrore che Watari provi in questo momento, di fronte all’abominio di tutte le morti causate da Kira. Secondo le regole del Mu spiegatemi dal guardiano durante il Rito di Espiazione, ogni anima purificata respinge in ogni modo possibile il male e le anime accompagnate dal peccato. Watari in questo momento è innatamente attratto lontano da qui, lontano dall’anima inetta di Light e da quella nube di maledizione.
Sa che anche la pace eterna può essere minata e corrotta dal male.
La cosa che mi lascia del tutto sconcertato è accorgermi che io non provo la repulsione che dovrei provare in quanto anima che ha raggiunto la redenzione.
Quando ho incontrato Mello, prima ancora di notare l’ombra che lo marchiava come anima impura, ho provato la forte sensazione di allontanarmi, come una chiamata in senso opposto, un sesto senso che mi diceva che per preservare me stesso non avrei dovuto stargli vicino. Anzi, ho provato quella sensazione anche a distanza, prima ancora di capire che si trattasse di Mello.
In questo momento, tuttavia, non provo nulla del genere.
Ripercorrendo gli ultimi avvenimenti mi rendo conto anche di un altro fatto molto insolito.
Prima che arrivasse Light al quartier generale mi trovavo all’ultimo piano, a meditare dentro l’elicottero senza una ragione precisa; ad un certo punto, inspiegabilmente e senza che ricordi il motivo, ho deciso di scendere a cercare Watari. Solo in un secondo momento ho sentito la voce di Watari che parlava con qualcuno.
Ripensandoci, è come se il mio subconscio mi avesse spinto verso il piano di sotto per permettermi di incontrare Light.
È successo esattamente l’opposto di quello che avrebbe dovuto succedere: anziché provare l’istinto di allontanarmi, è come se il mio istinto mi avesse spinto verso di lui.
Ma perché?
Mi volto a guardarlo e noto che Light sta osservando le schegge e i pezzi di vetro ai suoi piedi, sconcertato.
“Sono..sono stato io?” chiede più a se stesso che a noi.
Sto cercando di capire come possa non essersi accorto dell’enorme nube tumultuosa sopra di lui quando Watari si avvicina a me visibilmente preoccupato e mi poggia una mano sulla spalla.
“L, devi dirgli di andarsene” mi sussurra all’orecchio “per sempre” aggiunge.
No.
Una parte inconscia di me si oppone fermamente e drasticamente alle parole di Watari. Ma la mia parte più razionale, più fredda e distaccata, sa che dirgli addio è la cosa giusta da fare. Light Yagami ha messo la parola ‘fine’ alla mia vita, non solo, a tutto quello che L rappresentava: l’irraggiungibile detective di fama mondiale, una lettera gotica a sfondo bianco, uno strambo e solitario venticinquenne dalle pose assurde.
Ma Light ha fatto molto di più: ha preso in mano la mia corazza, le mie certezze, la mia perenne teca di vetro e le ha ridotte in frantumi. Dieci anni di investigazioni, di casi, di omicidi inspiegabili risolti in poche settimane da una camera di albergo, i criminali che finivano dietro le sbarre rendendosi conto che ad incastrarli non erano state altro che una voce modificata e una lettera su uno schermo di computer. Ho viaggiato in ogni angolo del pianeta restandomene chiuso in un numero infinito di camere d’albergo, guardando fotografie di massacri dal mio PC e arrivando alla soluzione di ogni caso quando la mia mente aveva già iniziato ad annoiarsi.
Mi sentivo solo. Era una strana sensazione perché ero sempre stato solo, tuttavia l’esilio che mi ero autoimposto non mi permetteva di ignorare la vastità del vuoto che mi circondava. A volte mi capitava di pensare alla mia morte, non riguardo alle circostanze o alla modalità, ma all’innegabile verità che sarei morto in modo anonimo, sconosciuto, impassibile e dimenticato in un istante. Certo, qualcuno dei miei successori avrebbe ereditato il nome di L, la lettera, ma L Lawliet sarebbe rimasto un fantasma, uno sconosciuto.
A volte questo pensiero mi rattristava, e in un certo senso faceva male. Chi si sarebbe ricordato di me? Chi avrebbe pianto o gioito della mia morte? A chi importerà?
E poi è arrivato lui.
Un file, una segnalazione via e-mail di centinaia di morti di criminali avvenute in una decina di giorni. E in quel momento, nell’ennesima stanza d’hotel, ho capito che quel caso sarebbe stato diverso da tutti gli altri.
Il caso Kira ha portato l’inaspettato: un adolescente dai colori ramati, un’idea di giustizia tanto simile quanto lontana dalla mia, un potere sovrannaturale.
E quando l’ho visto per la prima volta, all’università di Tokyo, una parte di me era già consapevole che lui fosse Kira, doveva esserlo, e quasi piangevo di gioia nello scoprire che Light Yagami era la prova vivente che in fondo non ero solo. Per la prima volta nella mia vita avevo trovato qualcuno che fosse proprio come me: qualcuno che capisse quello che intendevo prima ancora che lo spiegassi, qualcuno che fosse in grado di seguire i miei pensieri e anche di sorpassarli, qualcuno che fosse veramente al mio livello.
Qualcuno che potesse essere il mio migliore amico e il mio perfetto nemico.
Se non l’avessi mai incontrato, penso, sarei morto nell’ombra e nella demoralizzazione, con la certezza di essere solo al mondo.
Mi ha ucciso e contemporaneamente mi ha salvato la vita.
In questo momento lo guardo e capisco che probabilmente la sua anima sarà condannata senza possibilità di redenzione, e so che non posso permettergli di condannare anche la mia, anche se poco mi importa. Sono sempre stato egoista e ho sempre puntato ad ottenere quello che volevo, a volte calpestando i miei stessi principi. La vera motivazione della mia decisione sta nel fatto che, anche nella morte, l’orgoglio non mi ha abbandonato: come potrei accettare il fatto di aver bisogno di lui per avere la pace? Di uno psicopatico pluriomicida con un complesso narcisistico di personalità? Dopo tutto quello che ha fatto?
È semplicemente assurdo ed impossibile che ci sia una qualche forza interna o esterna che mi voglia spingere verso di lui. Non ho dimenticato chi sono io, e soprattutto chi è lui, e questa dev’essere per forza una sorta di test, una prova per dimostrare a me stesso che quello che è successo prima della mia morte non ha alcuna importanza.
Devo dimostrare a me stesso e a qualsiasi entità vi sia in questo luogo che L Lawliet e Light Yagami non hanno più nulla da dirsi, nonostante tutto quello che abbiano passato quando ancora erano in vita. Mi rendo conto che aggrapparsi all’orgoglio in questo momento è insensato, ma una parte di me non l’ha perdonato per quello che ha fatto e vuole fargliela pagare. Sono ancora infantile dopotutto, e detesto ancora perdere.
Watari stringe la mia spalla con le dita, la sua mano ancora appoggiata a me.
Kira mi guarda, impassibile, aspettando che sia io a parlare.
Percepisco l’istinto di non lasciarlo andare ancora più forte dentro di me, e devo ricorrere ad una buona forza di volontà per pronunciare le parole che sto dicendo.
“Light-kun, credo che dovresti andare ora” poi aggiungo, per dare un tono più imperativo alla mia frase. “Voglio che tu te ne vada”
Lui mi guarda per un momento che sembra infinito, i suoi occhi di miele sono chiarissimi.
Infine sulle sue labbra compare un breve sorriso.
Sa che sto mentendo, ma, con mia grande sorpresa, decide di non contestare le mie parole.
Riesco ad intravedere un barlume di tristezza sul suo viso, ma sparisce quasi subito e la fredda maschera viene riposizionata in tempo record.  
“Se è quello che vuoi, allora va bene” risponde “forse ci rivedremo”
Detto questo si volta e a passo lento esce dalla porta che si chiude rumorosamente dietro di lui. L’ombra lo segue e dopo qualche secondo anche la parte finale della nube sparisce oltre il muro.
All’improvviso mi rendo conto che da quando ho pronunciato quelle parole, anzi, da quando Light si è allontanato, il punto dove le sue mani mi hanno toccato, su entrambe le braccia, è diventato più caldo, quasi bollente, e questo attira la mia attenzione.
È come se quei due punti fossero l’unica parte ancora vivente e pulsante del mio corpo.
  
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