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Autore: Moriko_    09/03/2021    1 recensioni
Due compleanni, due persone, un'unica data: 12 Marzo.
Lo straordinario cammino della vita dai primi passi alla maturità, verso più grandi ed importanti traguardi.
[Il titolo, che riassume il tema dell'intera opera, è ispirato a una citazione di Jean Paul, scrittore e pedagogista tedesco: "I compleanni sono piume sulle ampie ali del tempo."]
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Alan Croker/Yuzo Morisaki, Nuovo personaggio, Shingo Aoi
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Fanfiction
o3zPLAZ

Famiglia.

{Diciotto anni | Aoi's side}

 

 

BGM: Ludovico Einaudi - Nuvole Bianche

 

 

 

[Un anno dopo - 12 Marzo. Nakahara, prefettura di Gifu.]

 

Quel giorno a Nakahara il sole splendeva alto nel cielo limpido: con i suoi raggi invitava chiunque a uscire dalle proprie abitazioni anche solo per qualche minuto, per godere della bellezza del panorama illuminato dal suo passaggio. Quei fasci di luce entravano dalle finestre, dalle piccole aperture poste nei soffitti delle varie abitazioni e luoghi di aggregazione della cittadina, anche in quello all’apparenza più buio e freddo.

Hibiki Nakamura amava le giornate di sole. Lo facevano sentire meno solo, immerso tra gli alti scaffali pieni di libri impolverati e larghe scrivanie zeppe di volumi antichi, memoria storica e immateriale dei suoi antenati e di quelli di tutta la popolazione di Nakahara: seduto su una delle sedie in legno con le spalle rivolte verso la finestra, si lasciava cullare dal calore dei raggi del primo sole primaverile mentre sfogliava con attenzione uno degli scritti che aveva catturato la sua attenzione. Giovane archivista della biblioteca civica della cittadina, Hibiki amava il silenzio che calava in quell’angolo della biblioteca quando era intento a leggere - un po’ meno quando iniziava ad annoiarsi o voleva fare una pausa; solo allora si alzava da quella sedia e nelle giornate di sereno usciva da lì per prendere una boccata d’aria, come un piccolo topo che faceva capolino dalla sua tana e con uno sottile squittio iniziava a correre veloce verso la tanto agognata libertà.

Ma quella giornata era troppo invitante per non cogliere l’occasione, e l’archivista non aveva più alcun impegno in programma. Dopo aver dato un rapido sguardo al suo orologio da polso, Hibiki uscì dalla zona dell’archivio e la chiuse a chiave, salutò gli altri impiegati della biblioteca, recuperò i suoi effetti personali che aveva lasciato all’ingresso per l’inizio della giornata lavorativa e, non appena varcò la soglia dell’edificio, si stiracchiò le braccia e prese lentamente ossigeno.

Che bella giornata... l’ideale per fare due passi!

Tenendo ben saldi gli spallacci del piccolo zaino che aveva sulle spalle, Hibiki si addentrò nelle vie del vicino centro. Passò per le bancarelle dei take-away e nel superarli il suo sguardo cadde sui vasi delle piante che con la loro esposizione segnalavano la presenza di piccolo negozio di fiori. Il giovane si incantò nel guardare i piccoli germogli che timidamente sbucavano da quelle piante; poi decise di entrare nel negozio, salutando cortesemente il fioraio.

«Chiedo scusa, avete una peonia bianca?» chiese Hibiki, e iniziò a massaggiarsi il collo. «È per una persona che a breve affronterà un esame di abilitazione... e volevo regalarle qualcosa di semplice ma significativo.»

 

 

 

Hibiki lo ricordava come se fosse stato il giorno prima. Si era appena laureato all’università della vicina Gifu con un preciso intento: diventare l’archivista di una biblioteca, anche di quella più piccola della zona.

Questo perché lui amava i libri, ne amava ogni dettaglio: le dimensioni, lo spessore della carta, persino l’odore diverso che emanavano quando iniziava a sfogliarlo; per questo motivo il suo scopo era quello di restare il più possibile a contatto con quel mondo che lo aveva sempre affascinato. Ciò che non aveva previsto era la sua rete di incontri dopo la sua laurea: esattamente due anni prima di quel dono floreale che stava per fare a quella persona che aveva incontrato quasi per caso, proprio in quelle vie strette e sempre piene di vita del centro di Nakahara.

Per Hibiki sembrava essere una giornata di primavera come tutte le altre: cielo sereno, un leggero venticello che portava con sé un freddo ancora pungente, e i raggi del sole che stavano tornando a riscaldare ogni cosa con la quale entravano in contatto. Il neolaureato in archivistica aveva le mani che sprofondavano nella tasca del suo lungo cappotto nero, e aveva iniziato a guardarsi intorno sulla strada di ritorno a casa; era arrivato da poco nella cittadina di Nakahara, e quello era il primo pomeriggio nel quale stava riuscendo a godere della bellezza di quel luogo nel quale tradizione e modernità continuavano a fondersi all’interno del suo centro. Quelle strade strette, che sapevano di tempi ormai lontani, ospitavano un sacco di negozi di artigianato segnalati dall’esterno da insegne lavorate e dipinte a mano e che da un primo e fugace sguardo all’ingresso già presentavano ogni genere di prodotti realizzate ad opera d’arte dai membri dell’ultima generazione di artigiani presenti sul territorio.

Ad un tratto lo sguardo di Hibiki era stato catturato dall’ingresso di uno di quei negozi, posto in fondo alla strada che stava attraversando: quell’entrata era molto semplice, con una porta a vetri con decorazioni floreali dipinte a mano, al fianco della quale vi era una piccola insegna realizzata dall’unione di alcune mattonelle colorate.

[Yume no niji.]

«Yume... no niji?» aveva letto il giovane ad alta voce; subito aveva rivolto lo sguardo verso il cielo, ricordandosi del fatto che la pioggia intensa della notte precedente aveva regalato al mattino un radioso arcobaleno che si stagliava nell’aurora.

Il nome di quel negozio sembrava essere un segno.

Così Hibiki aveva deciso di entrare, e di tutto ciò che era esposto la prima cosa che aveva attirato la sua attenzione era un orologio a cucù posto su una delle pareti laterali del locale. L’oscillazione del pendolo era così ipnotica al punto che il giovane non si era nemmeno accorto che il negoziante lo aveva accolto con un cortese saluto; se n’era reso conto solo quando ad un tratto i suoi occhi avevano incrociato il volto di una giovane donna che si era improvvisamente palesata di fronte a lui.

«Ha bisogno di qualcosa?» gli aveva detto con dolcezza. Hibiki l’aveva osservata: aveva i capelli neri raccolti in un codino che cadeva lungo il lato sinistro del suo viso, gli occhi grandi e profondi come la notte e uno sguardo delicato; a prima vista, se non fosse stato per il grembiule che stava indossando e le mani annerite, non avrebbe mai pensato che si trattasse della proprietaria del negozio, o per lo meno di una persona che lavorasse in quel luogo come artigiano.

«Ti piace questo orologio?» aveva aggiunto la ragazza, che nel frattempo aveva preso un fazzoletto di stoffa dalla tasca del suo grembiule per pulirsi le mani. «Mi dispiace, ma non è in vendita. Ho fatto una promessa quando l’ho costruito, e ancora oggi è il mio orgoglio.»

«Che genere di promessa?» le aveva domandato Hibiki, senza nemmeno pensarci troppo. Quelle parole gli erano sfuggite di bocca, mentre era tornato a osservare quello che per lui era uno splendido orologio. È bravissima, aveva detto tra sé e sé, contemplando quella sapiente opera di artigianato.

Intanto lei aveva fatto schioccare le dita, riportandolo nuovamente con i piedi per terra. «Domanda interessante. Diciamo che ho stretto un “patto” con questo oggetto: non si fermerà finché mio fratello non smetterà di essere un grande calciatore; è una sorta di portafortuna che lo accompagnerà, anche se ora lui è così lontano...»

«Tuo fratello? Un calciatore?» aveva chiesto Hibiki con grande curiosità. «Di chi si tratta?»

La prima risposta che ricevette da quella ragazza era stata, con sua grande sorpresa, una strana richiesta. «Guardami negli occhi.»

«Eh?»

«Esatto: guardami negli occhi, e dimmi a chi assomiglio.»

Mi sta prendendo in giro? - aveva pensato il giovane archivista; tuttavia, nel vederla con un sorriso a trentadue denti, capì subito che non stava scherzando. Dopo aver osservato il suo volto per qualche secondo, aveva abbassato leggermente lo sguardo e le aveva sussurrato: «Mi dispiace... non ne ho idea.»

La ragazza aveva arricciato il naso. «Un piccolo indizio: è proprio di questa città. Su: ora dovresti arrivarci, ormai è famosissimo!»

«L’avevo capito che era di questa città... però nemmeno così mi dice qualcosa. Perdonami...»

Un sonoro sbuffo. «Ma come, non conosci mio fratello? È stato uno dei protagonisti della vittoria del Giappone al World Youth! Devi vivere davvero fuori dal mondo, se non sai nemmeno che ora gioca in Italia!»

A quell’affermazione, Hibiki aveva sussultato. «Ah, ho capito! Si tratta di Hyuga Kojiro! Però... lui non era di Saitama? Da quando si è trasferito a Gifu? E dire che non l’ho mai incrociato da queste parti, che strano...»

L’archivista aveva fatto in tempo a vedere il volto della ragazza cambiare da un’espressione allegra e soddisfatta a una decisamente annoiata, prima di voltargli le spalle e darsi un colpo sulla fronte. «Io...» aveva mormorato quella giovane, «io credevo che solo i miei genitori fossero ad un tale livello di ignoranza... ma tu li hai battuti su larga scala. Non sei appassionato di calcio, vero?»

«Direi... di no? Ammetto che non sono un grande appassionato di calcio, e non seguo molto le vicende della Nazionale... in più mi sono trasferito da poco in questa città, per cui non ho idea di chi stai parlando...»

«Però sei di Gifu, vero? Prima hai detto che non hai incontrato Hyuga a Gifu, per cui ne deduco che sei arrivato da là...»

«Esatto.»

I due erano rimasti in silenzio, lei ancora di spalle a Hibiki. Poi, la ragazza si era voltata e aveva teso la mano verso il giovane archivista. «Aoi. Aoi Yukiko, piacere.»

«Nakamura Hibiki, il piacere è tutto mio» aveva risposto lui, stringendo quella mano con un sorriso. «Sei molto brava, e ti auguro che quell’orologio possa tenere fede alla promessa che vi siete scambiati...»

«Quindi... nemmeno il mio cognome ti dice niente?»

«In effetti... ora che ci penso, mi sembra di averlo già sentito da qualche parte... però mi dispiace: direi proprio di no. Sono un appassionato di libri antichi, non di attualità, né tantomeno di sport...»

«Allora ti dirò una cosa» aveva detto lei con un sorriso di sfida. «Scommettiamo che tra qualche anno troverai un libro con il nome e il volto di mio fratello ben visibile sulla copertina? Forse così te lo ricorderai di più, chissà!»

Hibiki aveva annuito: quella scommessa lo stava elettrizzando. «Ci sto! Anzi, facciamo così: qualora dovessi trovare in biblioteca un libro del genere... mi candido a sindaco di questa città alle prossime elezioni! Con i giornali è troppo facile: potrei incrociarlo subito! Comunque lo terrò a mente... Aoi, eh? Quasi quasi da domani al posto del quotidiano comprerò il giornale sulle notizie sportive, così inizio a essere più informato...»

Yukiko aveva sorriso di gusto. «Lasciatelo proprio dire: sei tutto matto!»

 

Da quel giorno in poi, il legame con quella giovane si era rafforzato. Ogni volta che terminava il suo turno di lavoro, Hibiki era solito passare per quella strada e, così, entrare in quel negozio così caratteristico; giorno dopo giorno, aveva capito di farlo non tanto per ammirare le meraviglie che c'erano al suo interno, ma per incontrare Yukiko e chiacchierare un po’ con lei.

D’altra parte, l’archivista aveva intuito che anche a quella ragazza faceva piacere scambiare qualche parola con lui. La sua compagnia le era molto gradita, finendo per parlare di svariati argomenti, dal mondo dell’artigianato a quello della biblioteca, dalle vite quotidiane... per arrivare a quello più importante: i loro sogni.

«Così, sei appassionata di kyūdō?» le aveva chiesto un giorno, dopo aver notato la presenza di un arco in legno sul bancone con la quale si stava esercitando prima del suo arrivo: quel giorno l’aveva vista con quell’arco tra le mani, e lei lo stava osservando con dolcezza mista a malinconia. Si era chiesto perché avesse quello sguardo, e in un primo momento aveva avuto uno strano pensiero. «Sei qui perché ti ci hanno costretto?»

Ma lei, in tutta risposta, gli aveva sorriso. «Nulla del genere. I nostri genitori ci hanno sempre permesso di fare ciò che vogliamo... e se oggi sono qui è perché sono io che ho deciso di farlo. Certo: non è facile coniugare questo lavoro con lo studio del kyūdō... però sono pronta a fare dei sacrifici pur di diventare un’insegnante di questo sport.»

«Un’insegnante? Sembra una cosa impossibile: ti distruggerà di lavoro! Io non reggerei un simile peso...»

Yukiko aveva chiuso gli occhi e gli aveva rivolto un sorriso raggiante. Quel sorriso, accompagnato dalle parole che la ragazza aveva pronunciato subito dopo, avevano fatto capire a Hibiki che lei ci teneva molto a entrambe le cose: sia l’artigianato che il kyūdō erano tutta la sua vita, e lei non le avrebbe abbandonate per nulla al mondo.

 

«È grazie a mio fratello se sono qui. È stato lui a insegnarmi che bisogna sempre inseguire i propri sogni... se non fosse stato per lui, a quest’ora sarei nel bel mezzo di una scelta della quale mi sarei pentita. Mi avresti trovata qui, a rimpiangere di non aver continuato con il mio amato kyūdō... oppure non sarei nemmeno qui ma a Tokyo, struggendomi per il fatto di non poter aiutare mio padre, perché questo negozio è per me come una seconda casa. Grazie a lui ho capito cosa volevo davvero fare. È vero: non si può fare tutto nella vita... ma sono riuscita a trovare una soluzione che mi piace molto. Ho capito che l’idea di diventare professionista mi spaventava molto, ho capito che la mia passione non era così grande al punto da voler scegliere di sacrificare completamente l'artigianato... ma ho capito che a me il kyūdō piace molto... e voglio trasmettere questa passione agli altri. Sarà dura, ma diventerò un’insegnante di kyūdō e resterò qui a portare avanti l'attività di famiglia, costi quel che costi!»

 

Quegli occhi colmi di determinazione avevano colpito Hibiki, e allo stesso tempo gli avevano ricordato di un’altra persona che non aveva mai incontrato, ma che aveva imparato a conoscere proprio attraverso lei, attraverso i suoi sguardi.

Aveva ragione... pensava il giovane ogni volta che si ricordava di quel particolare, che saltava fuori ogni volta che la vedeva sorridere in quel modo. Lei è proprio la sorella di Aoi Shingo!

Quel sorriso lo affascinava, e così l’archivista aveva promesso che avrebbe fatto di tutto pur di vederla sempre così, con quello sguardo magnetico che trasmetteva anche agli altri gioia e allegria.

A proposito...

Hibiki giunse all’ingresso dello Yume no niji, e attese qualche secondo prima di spingere la porta in vetro. Appoggiando la peonia sotto l’insegna in mattoni, prese una busta dallo zaino che stava portando sulle spalle e lo osservò attentamente.

Chissà quale sarà la sua reazione quando lo vedrà... pensò, prima di riprendere la piantina e aprire la porta che gli stava dinanzi.

 

 

 

Qualche ora dopo, dall’altra parte del mondo era l’alba di un nuovo giorno. Stirandosi tra le lenzuola Shingo si voltò dall'altra parte, aprendo leggermente gli occhi e cercando di focalizzare l’orario che era segnato sulla sveglia elettronica.

Le sei del mattino...

Decise di mettersi seduto, passandosi una mano sul viso ancora assonnato. Anche se era entusiasta all’idea di iniziare un nuovo giorno interamente dedicato al calcio, il sonno stava ancora incidendo sul suo metabolismo, impedendogli di scattare fuori dal letto come un’anguilla. Il ragazzo si levò in piedi, si recò in bagno e iniziò a sciacquarsi il volto con l’acqua gelida per cercare di svegliarsi il più in fretta possibile; poi si guardò allo specchio e sbadigliò. Chiuse gli occhi e più volte diede dei piccoli schiaffetti sulle guance, pensando che in questo modo il suo risveglio si sarebbe velocizzato.

Così va meglio!

Quando fu certo di essere tornato completamente in sé, Shingo rivolse un gioioso sorriso verso la sua immagine riflessa, che gli restituì quella spensieratezza e allegria che ogni giorno lo caratterizzava. Tornò nella sua stanza per vestirsi; sistemò il borsone che portava con sé agli allenamenti della sua squadra, fece il letto come meglio poteva e uscì dalla camera, saltellando a due a due le scale che lo avrebbero portato al piano terra.

«Aaaah, che bella giornata!» disse non appena uscì dal portone del palazzo dove abitava. La città antica si era svegliata sotto un sole acceso, e un forte vento che aveva spazzato via la nebbia che ogni mattina si formava, lasciando intravedere un cielo azzurro attraversato da molte nuvole dal bianco candido come la neve. Non a caso, Alba era famosa nella zona per essere “la città tra le nuvole”: una città immersa da intensi banchi di nebbia dove gli edifici più alti le bucavano con la loro sommità.

Shingo amava ogni cosa di quella città: il suo centro storico con le sue antiche chiese e palazzi, che spesso nascondevano dei veri e propri tesori dell’arte italiana; il panorama circostante, con le colline rigogliose di vigneti; la gastronomia, con i tradizionali piatti nei quali trionfavano il tartufo - che dal forte profumo gli ricordava un misto tra fieno e la castagna - e la carne cruda all’albese, tipica proprio di quei territori; infine le persone che vi risiedevano, che fin da subito si erano mostrate gentili e disponibili con lui nonostante l’evidente differenza somatica e culturale.

In quel territorio Shingo si era sempre sentito a casa, e grazie a ciò era riuscito ad attenuare un po’ la nostalgia della casa natia.

Fin dal giorno in cui aveva messo piede in Italia, ben tre anni prima, nonostante il suo grande coraggio da tigre che non esitava a emergere, il giovane aveva avuto sempre il timore di non essere ben accolto nella nuova comunità. Sebbene, per sua fortuna, non esistevano leggi che andavano contro chi non era nato in Italia, Shingo aveva sentito parlare di episodi di emarginazione proprio contro coloro che erano “diversi” dal resto delle persone, che non riuscivano ad adeguarsi alla “massa”: in quella nazione “essere diversi” non era un marchio che si conquistava con onore, in seguito a qualcosa di straordinario che si era compiuto; non era affatto il sinonimo di “essere speciali”, di avere quel qualcosa fuori dal comune che poteva essere d’aiuto alla società, ma era un marchio infame che gli altri ti imponevano fin da subito, e se già tra italiani c’erano episodi del genere, questi ultimi emergevano ancora di più nei confronti di coloro che definivano stranieri... proprio come lui.

Statura bassa, occhi estremamente sottili e carnagione molto chiara: Shingo era uno straniero a tutti gli effetti, e in quanto tale non era stato accettato fin da subito dagli italiani. Proprio per questo, all’inizio non era riuscito a ritagliarsi il suo posto nel mondo: nessuno che lo voleva nelle squadre professionistiche della città, nessuno che volesse assumerlo da qualche parte anche solo per svolgere il più semplice dei lavori... senza referenze era stato difficile. Al suo fianco doveva esserci quello zio Shinnosuke verso il quale sua nonna Atsuko lo aveva indirizzato: Shingo era certo che con lui sarebbe riuscito a farsi accettare da chiunque, proprio lui - quel parente che non aveva mai conosciuto di persona e con il quale aveva parlato qualche volta a telefono - che abitava a Milano fin dalla sua nascita, e che in qualche modo era amico di qualche allenatore e dirigente delle varie squadre presenti nella grande metropoli italiana.

Tuttavia, al suo arrivo a Milano lo zio Shinnosuke non c’era. Non c’era più: una frase che gli italiani dicevano per affermare la morte di una persona. Non appena Shingo aveva saputo di ciò, al termine del funerale si era precipitato dentro una cabina telefonica, inserendo all’interno di essa una carta internazionale per mettersi in contatto con i suoi genitori; non aveva ancora acquistato una scheda abilitata alle telefonate intercontinentali per il suo cellulare, per cui in quei primi due giorni di permanenza si era arrangiato in quel modo ormai inconsueto per la maggior parte delle persone.

E la risposta di sua madre era stata molto prevedibile.

 

«Come sarebbe a dire “Lo zio Shinnosuke è morto”?! Nonna non ci ha detto niente!»

 

«Forse nonna non lo sa ancora» le aveva detto con forte agitazione. «È vero, mamma: la prima cosa che ho fatto al mio arrivo è stato andare all’indirizzo che mi aveva lasciato lo zio Shinnosuke... ma quando sono arrivato al palazzo dove abitava, all’ingresso c’era un drappo nero dove c’era scritto che lo zio era morto e che stavano facendo i funerali in una chiesa vicina; quindi sono andato in quella chiesa e... e il funerale c’era davvero! Non è uno scherzo, mamma!»

«Oh, santi numi! Va bene, Shingo... cerca di stare calmo, ho un’idea. Hai ancora i soldi dell’affitto che nonna ti ha dato, vero?»

«Sì, mamma: ci sono ancora tutti!»

«Bene, allora puoi fare una sola cosa. Corri all’aeroporto... e prendi il primo aereo per il Giappone. Non puoi restare a Milano da solo: da chi andrai, se l’unico parente che avevamo a Milano ci ha lasciato? Pace all'anima sua...»

«Vuoi che torni in Giappone?! Ma...»

«Shingo, ascolta. So quanto ci tieni... però Milano non è Tokyo. Milano è un ambiente diverso da quello al quale sei abituato.»

«Ma non posso partire: sono appena arrivato! In qualche modo mi arrangerò, promesso...»

«Lo so... ma noi non conosciamo Milano, né tantomeno il resto d’Italia. Ti prego: torna qui, e non appena troveremo qualcun altro che può ospitarti puoi di nuovo partire per l’Italia... però non farmi preoccupare, per ora ritorna qui...»

«Mamma, io... non so: forse posso andare in un albergo...»

«Sei minorenne, non ti accetteranno mai senza un adulto al tuo fianco. Ascoltami, per ora ti conviene tornare qui... ok? Ti prometto che troveremo una soluzione, ma non restare a Milano da solo...»

In quel momento Shingo non sapeva cosa fare. La voce dolce e rassicurante di sua madre contrastava con i sentimenti di rabbia e disperazione che stavano crescendo sempre più in lui. Ne era fortemente convinto: voleva restare in quella città e iniziare la sua avventura - e aveva anche i soldi per poterlo fare; perché doveva gettare la spugna solo perché un suo parente era morto?

In realtà - ma Shingo lo avrebbe capito solo qualche tempo dopo - sua madre ci aveva visto lungo, nonostante rispetto a lui non conoscesse granché il mondo italiano. Da genitore lo aveva capito: in Italia, se non si era figlio di qualcuno di già noto... il rischio di essere discriminato era molto alto, e Shingo lo aveva sperimentato già quando, qualche giorno dopo, era riuscito a entrare in uno dei prestigiosi club di calcio della zona.

Era stato definito un giapponese, non solo perché proveniva da quel lontano territorio, ma perché - a detta dei suoi primi compagni di squadra - non sapeva giocare a calcio: un termine dispregiativo, quel “marchio infame” che lo distingueva dagli altri in modo non onorevole, ma deplorevole.

Però... se era vero che il calcio riusciva ad abbattere tutte le barriere che c’erano tra persone di diverse nazionalità, Shingo voleva dimostrarlo. E alla fine ci era riuscito, trasformando il termine giapponese nel suo totale opposto, che stava a significare una persona brava a calcio: lui era diventato il simbolo di quel termine e, a poco a poco, si era fatto accettare e amare da tutti, a cominciare dagli stessi compagni di squadra che lo avevano osteggiato.

Anche su questo non era rimasto da solo: per sua fortuna in Italia c’era stato anche chi, fin da subito, aveva creduto in lui e gli si era affezionato. La proprietaria della casa dove abitava lo zio Shinnosuke e che era diventata la sua dimora prima di lasciare Milano, il lustrascarpe di Piazza Fontana che gli aveva offerto un pezzo di pane quando non aveva niente da mangiare, il signor Calimero dello staff del settore giovanile dell’Inter con il quale nei primi giorni si era dedicato alla manutenzione degli scarpini dei giocatori, il portiere Gino Hernandez che era stato l’unico tra i suoi compagni di squadra a stargli accanto fin dal primo giorno nel quale si erano conosciuti. Da queste poche persone, a poco a poco Shingo aveva iniziato a costruire una fitta rete di amicizie, che aveva continuato a esistere anche dopo la sua partenza da Milano alla volta della cittadina dove ora si trovava.

Alba era il luogo dove Shingo aveva capito ancora di più che l’Italia era proprio come il Giappone: vi erano persone accoglienti e altrettante che non erano disposte ad accettare qualcuno di diverso da loro. In una mattina di nebbia fitta, Shingo aveva incontrato alle porte della città colui che sarebbe diventato un suo caro amico nonché compagno di squadra: il nigeriano Bobang, così allegro e solare, era stato il primo dei tanti che lo avevano accolto al suo arrivo; giunto in quella città, anche la nebbia aveva lasciato spazio al caloroso benvenuto dei suoi abitanti, che non appena lo avevano visto avevano iniziato a sventolare bandiere e striscioni con il logo della squadra e il suo nome.

Con ciascuno di loro Shingo aveva intrapreso un difficile cammino - ma non impossibile - con l’obiettivo di promuovere nella Serie B la loro squadra, l’Albese. Anche laggiù, a nessuno importava il luogo di nascita o la storia pregressa del piccolo calciatore: la comune passione per il calcio li aveva resi tra loro amici, e ogni giorno Shingo era sempre più grato alle divinità per aver incontrato lungo il suo cammino altre persone simpatiche e gentili, sulle quali poter contare nel momento del bisogno.

 

Il modesto appartamento dove Shingo abitava era in pieno centro cittadino, ma dalla parte opposta dove si trovava il campo d’allenamento della squadra. Ogni giorno il calciatore attraversava a piedi le antiche strade del centro storico, salutando cordialmente tutti coloro che incrociava: di ciascuno di essi ormai conosceva il nome e cosa faceva nella vita, come parte della grande famiglia della quale gli abitanti di Alba si sentivano parte, e della quale anche Shingo ormai faceva parte a pieno titolo; aveva conquistato fin da subito la fiducia e il rispetto degli albesi, grazie al suo carattere estroverso e alle sue abilità nel calcio, qualità - queste ultime - con le quali stava aiutando i suoi compagni a far vivere alla loro squadra una stagione ricca di successi e grandi soddisfazioni. L’Albese stava lottando, infatti, per la conquista del primo posto nella classifica del campionato, alla cui fine mancavano solo un paio di mesi: i componenti della squadra ce la stavano mettendo tutta per non deludere i loro tifosi, e in quell’anno l’arrivo di Shingo era stato fondamentale per ultimare la costruzione di un team molto forte che forse, un giorno non molto lontano, avrebbe potuto competere anche con la grandi squadre della Serie A.

Shingo aveva iniziato a correre, immettendosi in vie strette che puntualmente gli ricordavano le strade della sua cittadina natale. Svoltato un angolo, urtò contro una persona che stava venendo dalla direzione opposta; non perse tempo a scusarsi fermandosi e rivolgendole un inchino di rispetto ma, non appena alzò la testa, spalancò gli occhi e tra le sue labbra si delineò un largo sorriso.

«Ciao, non ti avevo vista!» salutò Shingo con la sua solita allegria. Di fronte a lui, una ragazza con i capelli castani, lunghi fino alle spalle, stava stringendo lo spallaccio del suo zaino a tracolla, mentre i suoi sottili occhi cerulei si erano fissati in quelli neri di Shingo; non appena anche lei si riprese dall’impatto, ricambiò il saluto con altrettanta gioia.

«Ehi! Stai andando agli allenamenti della squadra?»

«Proprio così!» rispose lui. «E scommetto che tu stavi andando all’università, giusto?»

«Come sempre: la strada è la stessa!»
La ragazza, leggermente più alta di Shingo, diede un sospiro e incrociò le braccia. «Non ne posso più: negli ultimi giorni sto perdendo più tempo con le pratiche da consegnare che quello che spendo quando sono ai vigneti! Non vedo l’ora di finire l’università, davvero... beato te che ti sei dedicato al calcio: almeno non hai bisogno di studiare sui libri per fare ciò che ti piace!»

«Però hai detto che il tirocinio ti sta piacendo...» puntualizzò il piccolo giocatore con un tono piuttosto sorpreso.

«Appunto: il tirocinio, non le maledette pratiche... con tutta l’università!»

La giovane alzò gli occhi verso il cielo ormai sempre più sgombro di nubi, poi tornò a guardare Shingo. «A proposito... stasera ci sei? Devo dirti una cosa importante...»

«Vediamo...»

Il calciatore posò il borsone a terra, aprì una delle tasche e da essa prese un taccuino, che subito consultò. Poi lo chiuse di scatto e rivolse nuovamente lo sguardo sulla ragazza che gli stava di fronte «Certo! Dopo le cinque del pomeriggio: il tempo che torno a casa, mi cambio e possiamo vederci!»

«Va bene, allora. Conto di liberarmi per le sei: ti mando un messaggio quando sono pronta, ok? Ora devo scappare, ciao!»

Shingo annuì e la ragazza, dopo avergli rivolto un sorriso, iniziò ad allontanarsi da lui a passo svelto. Il piccolo calciatore spalancò gli occhi all’improvviso, come se si fosse appena ricordato di una cosa urgente, e allungò il braccio nella direzione nella quale si stava dirigendo la ragazza, accompagnando quel gesto con un richiamo. «Aspetta, Aurora!»

La giovane interpellata arrestò la sua corsa. Si voltò nuovamente, in attesa che l’altro tornasse a parlare.

«Volevo dirti... buona giornata! Divertiti ai vigneti!»

Dalle labbra della ragazza sfuggì una risata. Agitando la sua mano, subito lei rispose: «Anche tu... ma sono certa che lo farai!»

 

Dopo aver visto quella giovane sparire dalla sua visuale, Shingo riprese il borsone e tornò a correre, in direzione del campo d’allenamento dell’Albese.

Durante il suo tragitto, più volte al minuto calciatore tornò in mente l’incontro che aveva avuto poco prima con quella ragazza. Così come era successo per molti abitanti della città, Shingo si era molto affezionato a lei, che aveva un nome che sembrava contrastare con il clima solitamente umido di quella località: Aurora.

Quando aveva imparato il termine che nella lingua italiana indicava l’apparizione della luce che appare nel cielo poco prima del sorgere del sole, e che lui amava molto quando abitava ancora a Nakahara, Shingo aveva alzato un sopracciglio, piuttosto incuriosito: si era ricordato che in Giappone si usavano i kanji per costruire un nome di una persona attorno a un significato ben preciso, così come era successo per il suo - Aoi Shingo - tuttavia non immaginava che anche in altre zone del mondo si usassero come nomi personali dei termini che, solitamente, si riferivano alle bellezze della natura. Aveva imparato che Gino, Salvatore, Matteo, solo per fare qualche esempio, erano tutti nomi che si riferivano a personaggi realmente esistiti - quelli che definivano i “santi” della religione cristiana - o in onore di qualche parente stretto come i nonni; Aurora era stato il primo nome che non era collegato ad alcun essere umano, ma proprio alla natura che lui tanto amava, e lo aveva scoperto proprio durante la sua permanenza nella cittadina di Alba. Così, Shingo aveva deciso di acquistare un libro sui nomi e, a poco a poco, un intero mondo si era svelato ai suoi occhi, scoprendo che Aurora non era l’unico nome con quella caratteristica. Alba, Bianca, Flora, Giacinto, e così via: vi erano un sacco di nomi con palesi riferimenti alla natura, proprio come avveniva in Giappone.

 

«Perché i tuoi genitori ti hanno chiamato così?»

 

Questa era la domanda che Shingo aveva rivolto ad Aurora, quando si erano conosciuti. I due ragazzi si erano incrociati per la prima volta durante la sua quotidiana corsa mattutina verso il campo d’allenamento: insieme a Bobang, il minuto calciatore era uno dei primi ad arrivare in quel luogo e di solito non c’era mai nessuno oltre a loro, a causa di quell’insolito orario.

Quel giorno, invece, Shingo aveva trovato quella ragazza all’ingresso: lei stava camminando verso la direzione opposta e, non appena lo aveva notato, si era fermata e lo aveva salutato; dopodiché, senza perdere tempo, lo aveva richiamato.

«Aspetta: tu sei Aoi Shingo?» gli aveva chiesto.

Anche lui si era fermato, sebbene aveva continuato a correre sul posto. «Certo! Sono proprio io!» aveva risposto.

«Lo sapevo, sei davvero riconoscibile! Il mio fratellino mi ha sempre parlato di te, e mi ha avvisato che saresti venuto qui, nella città di Alba!»

Shingo era stato felice di sapere di avere qualche altro fan in altre zone d’Italia e, per questo motivo, le aveva rivolto un caldo sorriso; tuttavia, subito dopo, il giovane aveva socchiuso la bocca e spalancato gli occhi

«Il tuo... fratellino?» aveva chiesto. Quei piccoli occhi cerulei gli avevano appena ricordato qualcuno che, in realtà, conosceva molto bene... ma non sapeva ancora che proprio quella persona avesse una sorella, che con quella gentilezza sembrava avere un carattere decisamente opposto.

 

Aurora era una studentessa del Dipartimento di Scienze Agrarie, Forestali e Alimentari dell’Università di Torino, e si trovava ad Alba per seguire i corsi previsti nella laurea triennale in Viticoltura ed Enologia. I suoi genitori erano proprietari di un vasto vigneto sulla Collina torinese, e per questo fin da bambina lei aveva deciso di dedicarsi alla cura di quell’angolo. La sua scelta dopo le superiori era stata molto chiara: continuare gli studi per diventare un enologo, per capire anche come prendersi cura al meglio di quei vigneti tra i quali aveva sempre corso, toccando con le sue mani i grappoli che pendevano dai tralci.

Questo era tutto ciò che Shingo aveva capito della vita di quella ragazza, prima che i due si incontrassero per la prima volta all’ingresso di quel campo d’allenamento. Quel giorno, la giovane aveva rinunciato ad andare in facoltà pur di assistere agli allenamenti della squadra: amava il calcio - era la cosa più vicina che gli ricordava suo fratello, tra l’altro - e quando riusciva a ritagliarsi un piccolo spazio nel suo tempo libero si incantava a osservare i giocatori che si allenavano e ce la mettevano tutta per dare il meglio verso la loro squadra. Anche l’Albese non costituiva un’eccezione, e dal giorno in cui era arrivata ogni tanto si soffermava sugli spalti e con lo sguardo seguiva attentamente i movimenti dei vari calciatori presenti sul campo.

Fin dal primo giorno Aurora aveva preso in grande simpatia Shingo, con il quale aveva trascorso del tempo a chiacchierare delle loro vite. Così, lei aveva scoperto che Shingo avrebbe voluto far ritorno all’Inter, un giorno non molto lontano, e che nel frattempo stava dando il massimo per portare l’Albese nella Serie B; constatò che la sua testardaggine le aveva ricordato il suo fratellino - lo stesso che, da quando era ad Alba, gli mancava ogni giorno.

Mentre, riguardo il suo nome...

«Sono nata nelle prime ore del mattino, mentre fuori c’era una splendida aurora. O, meglio, questo era ciò che mi hanno sempre raccontato i miei genitori.»

Aurora aveva visto gli occhi di Shingo brillare, intento a immaginarsi lo scenario che lei gli stava raccontando. Lo sguardo del minuto calciatore, però, lasciava presagire anche ben altro: lo stupore per aver sentito un nome del genere, così simile a quelli giapponesi che con i suoi kanji richiamavano la natura della quale era innamorato.

«Certo che anche tu non scherzi!» gli aveva detto, non appena aveva saputo del significato del suo nome. «Un gioco di parole con il semaforo verde? È stranissimo... però mi piace!»

Così, i due avevano finito per incontrarsi e parlare anche nei giorni successivi, al termine del suo tirocinio e degli allenamenti di Shingo. Lei era genuinamente interessata a ogni dettaglio della vita del calciatore, così come lui sembrava esserlo riguardo la sua: era come se il suo fratellino, che involontariamente stava facendo da ponte tra i due, avesse preso la sua mano destra e quella di Shingo e le avesse intrecciate tra loro.

... ah, se solo il suo adorato fratellino avesse saputo cosa lei aveva appena immaginato: sebbene il rapporto con quel minuto calciatore fosse leggermente sulla via del miglioramento, non sarebbe stato da lui mostrarsi così tenero in modo plateale!

 

 

 

«Sono qui!»

Quando Shingo era uscito dal campo d’allenamento dell’Albese, a grande sorpresa si era ritrovato Aurora all’ingresso, con il suo solito zainetto che portava con sé per le attività del tirocinio. Qualche minuto prima le aveva inviato un messaggio, per incontrarsi quando avrebbe rimesso piede a casa, e per questo non si aspettava di trovarla lì, ancor prima del loro incontro.

Che strano... Shingo la conosceva solo da qualche mese, ma la conosceva abbastanza per essere certo di una cosa: Aurora non era mai stata una ragazza che amava anticiparsi, anzi; rispettava gli orari stabiliti con gli altri, proprio perché non voleva dare fastidio. Il fatto che si trovasse lì, un sacco di minuti prima che si mettessero in contatto, gli era davvero strano.

Nonostante ciò Shingo la salutò come se niente fosse, poi disse: «Ma io devo ancora tornare a casa: non posso uscire, sono tutto sudato!»

Aurora sorrise e lo rassicurò. «Nessun problema, anzi: se ti va, possiamo sederci tra gli spalti... il campo non chiude subito, vero? Inoltre... oggi che non c’è nebbia possiamo goderci un po’ il tramonto, cosa ne dici?»

Shingo annuì. «D’accordo, tanto non vado di fretta! Solo che...» e si guardò la punta delle scarpe, il suo volto colmo di imbarazzo, «dovrei davvero tornare a casa e farmi una doccia. Non voglio che tu... insomma... pensi male di me solo perché sono sudato! Ti assicuro che mi lavo sempre, tutti i giorni e tutti i minuti quando posso!»

«Ah, capirai!» Con un sorriso la ragazza ridusse le distanze e posò una mano sulla spalla dell’altro. «Fossero solo questi i problemi del mondo! Ti assicuro che rispetto a certe compagne di stanza che ho avuto, tu sei la persona più ordinata e pulita dell’universo: di certo non sei una scimmia che non si fa il bagno dalla mattina alla sera...»

«Però, a proposito di scimmia... tuo fratello...»

«Lascia perdere il mio fratellino: lo sai che a volte parla senza pensarci! Eh, se dovessimo prendere sul serio tutto ciò che dice, il mondo sarebbe finito da un bel pezzo, credimi!»

Aurora batté più volte la mano sulle spalle di Shingo e aggiunse, con tono affettuoso: «E riguardo proprio lui... ti confesso che non mi dispiace vederti così. Me lo ricordi molto!»

 

Dopo aver superato l’ingresso del campo, i due ragazzi si accomodarono sulla prima gradinata degli spalti che cingevano l’area di gioco. Da quella posizione il panorama del cielo al tramonto era ben visibile, mentre la luce del sole man mano lasciava spazio alla luna e alle prime stelle che si iniziavano a intravedere da lontano.

Nell’osservare quel paesaggio ad Aurora tornò in mente di quando, qualche mese prima, Shingo le avesse chiesto informazioni più dettagliate sull’università che stava frequentando in quella città: i corsi, le attività che stava svolgendo... In quell’occasione il ragazzino aveva paragonato la sua situazione al viaggio che egli aveva intrapreso per venire in Italia: in entrambi i casi si trattava di studiare e impegnarsi nelle cose che i due giovani amavano, con la differenza che lui aveva pianificato di restarci il più a lungo possibile - anni interi se fosse stato necessario - mentre lei...

 

«Come? Andrai già via? Così presto?»

 

Gli occhi colmi di stupore che le aveva mostrato Shingo l’avevano colpita. Non stava pensando anche lui di fare lo stesso, con il calcio? Tornare un giorno a casa, in Giappone, dalla sua famiglia... o forse quel ragazzo non stava sentendo la mancanza di coloro che l’hanno cresciuto, dei suoi amici, di tutte quelle persone che stavano aspettando il suo ritorno?

Aurora si era limitata ad annuire e, a quel punto, con le braccia conserte Shingo aveva aggiunto: «Uffa, è davvero un peccato: dovevi restare di più!»

«Perché?» gli aveva chiesto. Era sinceramente curiosa di conoscere il motivo per il quale apparentemente lui sembrasse... così infastidito dalla certezza della sua partenza, che sarebbe avvenuta subito dopo la laurea, dunque non nell’immediato.

La risposta del calciatore, così semplice e innocente - degna del carattere di quel ragazzino - l’aveva colta di sorpresa. «Semplice: perché dovevi restare di più! Alba è una bella città, la tua non mi piace per niente: troppo smog e troppa gente sospetta! Inoltre qui hai anche degli amici, saranno dispiaciuti se andrai via...»

Lei aveva trattenuto le risate; poi, con un dolce sorriso, gli aveva detto: «Si vede che non sei mai stato nella zona dove abito. Ti prometto che un giorno ti porterò in collina... e ti dimostrerò che la mia città nasconde degli angoli davvero graziosi!»

«Nella... nella tua zona?»

«Tu hai visto solo il centro e la zona degli stadi... ma ti assicuro che dove vivo io è davvero un’altra cosa! Non a caso ci vive gente di tutto rispetto... come la nostra famiglia.»

«Urm...»

Aveva visto lo sguardo di Shingo diventare pensieroso di fronte alla sua proposta, dopodiché il calciatore era tornato a guardarla negli occhi e aveva così affermato: «Allora promettimi una cosa.»

«Dimmi.»

«Prometti... prometti che tuo fratello non mi caccerà a pedate quando mi vede! Anzi, non appena sai che sto arrivando, chiudilo a chiave da qualche parte... per esempio in cantina! Anzi no: legalo a una sedia o al letto, in effetti potrebbe pur sempre trovare un modo per scappare e darmi fastidio! Se mi dici che puoi farlo... allora verrò da te, così vedrò i vigneti dei quali tu mi hai parlato così tanto!»

«Sei davvero sicuro che devo legarlo da qualche parte? Ti assicuro che non morde quando è a casa, e poi ci sono io: in mia presenza non oserebbe mai torcere un capello, nemmeno al suo più acerrimo nemico!»

«Lo dici perché sei sua sorella... e io lo so perché anch’io ho una sorellona che mi vuole tanto bene.»

«Su questo puoi stare tranquillo. Sarai mio ospite... e tutti gli ospiti sono trattati con i guanti a casa Gentile. Se il mio fratellino osa anche solo torcerti un capello... sai nostra madre dove lo farebbe volare? A quel punto non gli basterebbe essere il miglior difensore della nazionale italiana: a nostra madre non importa se è un adulto ed è diventato un personaggio di tutto rispetto... mio fratello rischierebbe di rotolare verso valle se a nostra madre non le va a genio anche solo una parola fuori posto!»

 

«Qualcosa non va?»

La voce di Shingo la riportò alla realtà. Aurora si era persa in quel ricordo, nel quale avevano finito per parlare, ancora una volta, di ciò che a entrambi mancava molto: la famiglia.

Sia lei che il calciatore erano nati in due famiglie che, fin dal primo istante, avevano dato loro molto affetto e serenità. Entrambi avevano due genitori che li avevano cresciuti insegnando loro tutto ciò che loro sapevano, dai fondamenti della vita ai segreti dei loro lavori: l’artigianato nel caso di Shingo, l’agricoltura nel caso di Aurora.

Entrambi avevano due fratelli che amavano alla follia, e che erano appassionati ad altri mondi oltre a quello nel quale erano nati: Yukiko, una ragazza dolce e vivace che adorava il kyūdō, la celebre arte marziale giapponese nel quale si fa grande uso dell’arco; Salvatore, un giovane dal carattere un po’ arrogante ma affettuoso - quest’ultimo un lato che non mostrava quasi mai, se non nei confronti di chi voleva bene - e che si era appassionato al calcio fin da bambino.

Entrambi, ad un tratto del loro percorso, avevano dovuto prendere una decisione che avrebbe cambiato la loro vita ma, allo stesso tempo, influenzato le sorti delle loro rispettive famiglie: Shingo aveva deciso di proseguire con il calcio, per diventare un giocatore di tutto rispetto; Aurora, invece, aveva continuato a perseguire il sogno di essere un enologo e, così, far rinascere un vasto vigneto che negli ultimi anni i genitori stavano curando con molte difficoltà ma tanta fiducia nel futuro.

Entrambi avevano tante cose in comune, forse molto più di quello che credevano. Ogni giorno entrambi ce la mettevano tutta nell’inseguire i loro sogni, anche grazie al sostegno delle loro famiglie e dei loro amici, e ad entrambi piaceva il calcio, anche se Aurora non lo praticava. Entrambi amavano la natura alla follia, entrambi amavano la serenità di un luogo il più lontano possibile dal caos di una vita frenetica... ed entrambi amavano Alba, quel centro cittadino dove si trovavano e dove avevano iniziato non a gettare le basi, ma a rinforzarle per il loro futuro. Le avevano costruite altrove, in due città antiche con il tempo - Milano e Torino - per poi ritrovarsi quasi a metà del percorso che le separava, in una zona che aveva tutte quelle caratteristiche che entrambi amavano: la quiete della vita, la cordialità delle persone che lì abitavano...

«Stavo pensando che è bello essere qui...» sussurrò Aurora, appoggiando il mento sulle mani. «Non è meraviglioso?»

«Cosa?»

«Questo tramonto! Mi piace molto quando non c’è nebbia... proprio come a casa mia!»

«Sai, più dici così e più mi stai facendo venire voglia di prendere subito un treno per andare a Torino e non tornare più qui» affermò Shingo, stiracchiando le braccia verso l’alto. «Chissà come deve essere il tramonto visto da casa tua... ne parli come se fosse qualcosa di eccezionale!»

«Perché lo è! Dalle Colline del Po vediamo tutto, dalla città fino alle Alpi circostanti: ci sono dei punti panoramici davvero eccezionali!»

«“Nulla in confronto ad Alba”, vorresti dirmi?»

«Beh... giudicherai tu stesso quando sarai mio ospite! A tal proposito...»

Aurora aprì il suo zainetto e da essa ne estrasse un piccolo pacchetto, che subito porse a Shingo. «Credevi che non lo sapessi, eh? Buon compleanno!»

Gli occhi del minuto calciatore si spalancarono per la sorpresa. «A-Aspetta un momento: c-come hai fatto a–»

«Saperlo, dici?» lo interruppe la ragazza. «Semplice: ormai hai un sacco di fan in tutto il mondo, per cui è bastata una ricerca su Internet e voilà! Questo genere di informazioni si trovano con estrema facilità, mentre per la conferma... beh, diciamo me l’ha detto un uccellino...»

Shingo si mostrò sempre più sorpreso. «Come “un uccellino”? In Italia ci sono uccellini che parlano? È impossibile: gli uccelli possono solo cinguettare! Accidenti, da oggi devo stare più attento anche quando sono da solo!»

Aurora scoppiò a ridere e con dolcezza gli posò una mano sul ginocchio. «Ma no, scemotto! È un modo di dire: “Me lo ha detto un uccellino” significa che me l’ha detto qualcuno di cui non voglio svelare l’identità...»

«Comunque resta il fatto che dovrò stare più attento. Ok, da oggi in poi sarò muto come un pesce: non parlerò nemmeno sotto tortura!»

Sotto lo sguardo divertito di Aurora, il calciatore fece il gesto di chiudersi la bocca, come se avesse avuto una cerniera al posto delle labbra. Senza più dire una parola prese in mano il regalo e lo scartò, lanciando un gridolino di gioia quando aveva svelato il contenuto: una scatola trasparente dove all’interno vi erano intrecci di tralci che costituivano la forma di un pallone.

«L’hai... l’hai fatto tu?» aveva domandato Shingo con entusiasmo.

«Certo! Così ti ricorderai di me quando andrò via... anzi...»

Il volto della ragazza divenne all’improvviso malinconico, e un profondo sospiro riecheggiò nell’area dove si trovavano i due giovani. «C’è una cosa che devo dirti...»

Shingo restò in silenzio, attento ad ascoltare ciò che Aurora aveva da confidargli. I due restarono in silenzio per qualche secondo, guardandosi negli occhi; poi, la ragazza riprese la parola: «Domani sarà il mio ultimo giorno di tirocinio, per cui la mia partenza è praticamente confermata: tra qualche mese torno a casa, dopo la mia laurea.»

L'altro sgranò gli occhi. «Di già? Ma... ma così in fretta?»

«Purtroppo sì. Mi dispiace davvero tanto: non ho mai avuto il coraggio di dirtelo perché so quanto ti faccia piacere stare con me... però non partirò subito, eh! Resterò fino alla fine del campionato, così tu porterai l’Albese nella Serie B e io conseguirò la laurea. Due successi che festeggeremo insieme, ci pensi?»

La giovane distolse lo sguardo e tornò a osservare il cielo attraversato dai colori del tramonto. Con un sorriso intriso di tristezza aggiunse: «Sai, sarebbe bello se noi restassimo qui per sempre... ma non penso che sarà possibile. Al biennio mi trasferirò ad Asti, e con i corsi che mi aspettano inizierò a fare il giro di tutta Italia: sarà un viaggio molto bello e conoscerò un sacco di persone, facendo ciò che mi piace... però mi sarebbe piaciuto restare qui ancora per un po’… e continuare a vedere gli allenamenti della tua squadra...»

«Pensa positivo!» la interruppe Shingo. «Da una parte dispiace anche a me... però così tuo fratello sarà felicissimo di rivederti per qualche mese, e non si lamenterà più del fatto che tu tifi per una squadra rivale o qualcosa del genere. I tuoi timpani ringrazieranno!»

Aurora scoppiò a ridere. «Hai ragione: non mi sorbirò più tutte le sue lamentele! Però lo conosci, sai che non ammetterebbe mai che, in fondo, ti vuole bene. Sai, era davvero preoccupato per te all’inizio...»

A quell’affermazione, di colpo l'espressione sul volto di Shingo divenne seria. «Come “preoccupato”? Lui... preoccupato per me? Lui?!»

La ragazza si portò l’indice sulle labbra, poi disse: «Mi raccomando, che resti un segreto tra noi! Mio fratello non ha mai accettato che in questo momento stai giocando nella Serie C, mentre lui è nella Serie A... perciò, metticela tutta e porta l’Albese in promozione, ok? E vedrai i salti di gioia che farà nella sua stanza quando tornerai nella Serie A: so che non stai credendo alle mie parole, però lo filmerò di nascosto e ti invierò il video, promesso!»

Shingo arricciò le sopracciglia. «Bugiarda, lo stai dicendo solo per consolarmi. Lo sai meglio di me: tuo fratello mi odia dal primo giorno che mi ha visto!»

«Fidati, fidati: puoi dire tutto di lui, tranne che ti odia!»

«Non stiamo parlando della stessa persona, mi sa.»

«Invece sì, te l’assicuro.»

«Invece no.»

«Invece sì. Fidati di me, sono sua sorella.»

«Anche la mia sarebbe disposta a nascondere tutti i miei difetti. Chiedile di me, ti direbbe lo stesso!»

«Questo perché non lo conosci fino in fondo. È vero: all’inizio Salvo ti detestava, e a casa non faceva altro che lamentarsi “di quella scimmietta sul campo”... ma solo perché non ti riteneva un avversario degno di lui. Poi...»

«Lo so, lo so: ha riconosciuto le mie capacità. Ma questo non vuol dire che di punto in bianco mi vuole bene: se mi odia, mi odia! Potrei essere il più bravo calciatore al mondo, ma sono certo di essergli ancora un po’ antipatico fuori dal campo...»

«Non è vero, anche fuori dal campo ti vuole un bene che nemmeno immagini... quasi come se fossi il nostro fratellino!»

Aurora pronunciò quelle ultime parole con un tono di forte commozione. Era proprio il modo in cui considerava quel ragazzo: un fratellino, al pari del suo fratello di sangue. E, riguardo proprio quest’ultimo, dalle conversazioni che avevano avuto negli ultimi mesi la giovane studentessa sapeva che anche lui aveva i suoi stessi sentimenti nei confronti del minuto calciatore.

 

«Mi raccomando: dato che anche lui ora si trova ad Alba, tienilo d’occhio. Prima ritorna nella Serie A e meglio sarà per tutti... anche per lui!»

 

In quel momento, Aurora pensò che Shingo le sarebbe mancato molto. La sua permanenza ad Alba era stata piacevole anche grazie a lui, e anche per questa ragione le dispiaceva partire nel giro di qualche mese. Le sarebbe piaciuto continuare a vederlo allenarsi, assistere alle partite della sua squadra quando giocava in casa e ritrovarsi con lui ogni volta che entrambi erano liberi dai loro rispettivi impegni. Le era simpatico, una presenza che, insieme alle sue compagne di corso, rallegrava le sue monotone giornate immerse nella nebbia che avvolgeva la città.

«Grazie, Shingo...» gli sussurrò, e gli rivolse un sorriso leggero, colmo di felicità. «Ti prometto che dopo la laurea verrò ancora a trovarti... intanto metticela tutta con il calcio, e io farò lo stesso con gli studi!»

«Ah, a proposito!»

Shingo aprì il borsone e prese un piccolo sacchetto che porse alla ragazza. «Ho fatto un pensierino per te! In realtà dovevo ancora trovare una carta adatta con il quale avvolgerlo... ma visto che partirai presto, te lo darò adesso. Scusami davvero se è senza carta regalo...»

«Wow, non dovevi! Però, dai: in fondo non parto domani mattina, ahahah!»

Aurora afferrò con stupore quel sacchettino e lo aprì. All’interno vi era un bracciale in caucciù: era molto semplice, ma aveva sui lati qualche incisione che ritraeva foglie di viti e grappoli d’uva; incisioni piccole, ma che erano estremamente dettagliate.

«Dovrebbe essere un portafortuna... almeno, spero che ti porterà tanta fortuna!» continuò Shingo, indicando il bracciale. «L’ho fatto io, ti piace?»

«Tu? L’hai fatto tu, da solo?»

«Sì! Sicuramente ci sarà qualcosa che non va, perché non ho avuto molto tempo a causa degli allenamenti... però adoro fare queste cose, sono divertenti da realizzare!»

«Ed è molto bello... grazie mille!»

La ragazza indossò il bracciale e lo ammirò. Constatò che le stava bene al suo polso: il colore marrone chiaro non contrastava con la sua carnagione più chiara ma la risaltava, mentre le incisioni le ricordavano ciò che amava più di ogni altra cosa al mondo e al quale stava dedicando la sua vita.

«Sai cosa penso?» chiese lei, dopo aver rivolto nuovamente lo sguardo verso il calciatore. «Che un giorno ti chiederò di realizzare qualche regalo: sei davvero bravo! E sono certa che questo bracciale mi porterà tanta fortuna!»

 

 

 

Dall'altra parte del mondo, Yukiko non riusciva a chiudere occhio. Si girava e rigirava nel suo letto, ma il suo corpo non voleva sapere di cadere tra le braccia di Morfeo.

Era notte fonda, e dall’esterno non si udiva alcun suono. Si udiva solo lo strusciare delle lenzuola, che seguivano i movimenti della ragazza che continuava a muoversi senza trovare pace. Però Yukiko non era avvolta da sentimenti di forte preoccupazione, tutt’altro: la sua era una profonda felicità, per ciò che era accaduto nel tardo pomeriggio.

 

«Quando supererai l’esame di abilitazione di kyūdō, vorresti andare al Dosan festival con me?»

 

Il Dosan festival era uno degli appuntamenti più importanti e sentiti nell’area della prefettura di Gifu. Ogni anno, nel primo sabato del mese di aprile, la città di Gifu si animava di processioni che attraversavano la città insieme alle bande musicali che allietavano la permanenza delle migliaia di visitatori. A Yukiko piaceva molto l’angolo del mercatino delle pulci, dove riusciva a trovare tutto ciò che desiderava, anche del materiale che poteva riutilizzare per le sue future creazioni.

Per la prima volta, Yukiko sarebbe andata non con la sua famiglia ma con un ragazzo, di qualche anno più grande di lei, che si era trasferito da poco nella sua cittadina. Un ragazzo nei confronti del quale, a poco a poco, lei aveva iniziato a porre la sua fiducia; quasi al pari di un caro amico, di fronte al quale lei provava rispetto e profondo affetto.

Forse dovrei dirlo a Shingo. A essere sincera mi sarebbe piaciuto tenerlo nascosto ancora per un po’, almeno fino al suo ritorno... ma non ce la faccio più... pensò, mettendosi con la schiena contro il materasso. Devo dirglielo, non sto più nella pelle! A quest’ora sarà ancora sveglio, beato lui!

Nonostante la grande lontananza che li separava, i due fratelli Aoi riuscivano a sentirsi tutti i giorni e a condividere tutto ciò che accadeva nel corso della loro giornata. In generale si invitavano dei messaggi senza tenere conto della differenza di fuso orario, ma riuscivano sempre a realizzare una videochiamata di gruppo con il resto della famiglia quando in Italia era ora di pranzo, mentre in Giappone stavano cenando o avevano appena finito di farlo. Gli Aoi l’avevano fatto anche quel giorno, in occasione del compleanno di Shingo, e Yukiko in particolare aveva avvertito - più degli altri giorni - quel forte sentimento di assenza che provava da circa tre anni. Suo fratello le mancava, le mancava davvero tanto, e senza di lui tutto le sembrava più grande e quasi sconfinato: con lui, Yukiko era abituata a condividere tutto, a partire dalla stessa camera da letto fino alle attività nella bottega di famiglia.

Senza di lui, la giovane artigiana aveva compreso che la sua vita era cambiata. Non era successo sul piano lavorativo perché alla fine aveva deciso di proseguire nel mondo dell'artigianato ma, allo stesso tempo, continuare a coltivare la sua passione per il kyūdō - rinunciando a una promettente carriera nelle competizioni nazionali ma ambendo a diventare un'insegnante e trasmettere così la sua passione alle nuove generazioni - ma proprio sul piano affettivo: Shingo era una parte importante della sua vita, una parte di sé che avrebbe sempre sentito accanto anche se fisicamente era molto distante.

Il bracciale che portava al polso, dono che il suo fratellino le aveva fatto tre anni prima - subito dopo che lei gli aveva regalato il suo -, le ricordava ogni giorno del loro profondo legame che condivideva con lui fin dalla sua nascita, e che niente e nessuno avrebbe potuto scalfire.

Yukiko si voltò verso il comodino che si trovava accanto al letto. Prese il cellulare e si preparò a scrivere a suo fratello un messaggio, ricordandosi di ciò che si erano detti qualche ora prima con la videochiamata che era iniziata nella cucina insieme ai genitori e alla nonna ed era terminata proprio lì, nella loro cameretta.

 

«Allora, sorellona: quando inviti il tuo amichetto a casa?»

«Quale amichetto?»

«Quel tizio simpatico... come hai detto che si chiama? Quello appassionato di libri antichi!»

«Il signor Nakamura, dici? Ecco... eheheh...»

«Perché stai ridendo, sorellona? Dai... dimmi perché stai ridendo, non ho detto niente di spiritoso!»

«Perché sono felice. Al tuo ritorno potresti avere una sorpresa...»

«Ma voglio avere qualche anticipazione! Su, dimmelo: qual è la sorpresa? È quella del mio compleanno, vero? E c’entra qualcosa il signor Nakamura, vero? Uffa, dimmi qualcosa: non restare in silenzio, sorellona!»

 

Yukiko soffocò le risate, e iniziò a comporre il messaggio. Suo fratello non era cambiato per niente, così come lei: gli anni sarebbero trascorsi, ma i loro caratteri sarebbero rimasti immutati. Per quanto avrebbero potuto avere dei cambiamenti fisici, la ragazza ne era certa: per Shingo lei sarebbe rimasta la vivace sorella maggiore nelle braccia della quale lui si rifugiava, mentre lui sarebbe rimasto quell’esuberante fratellino dalle energie inesauribili che non perdeva mai occasione per dimostrarle l’affetto che provava per lei.

Doveva dirglielo. Era certa che quella notizia lo avrebbe reso felice.

 

 

[Ciao, come promesso ti mostro la peonia che “il signor Nakamura” mi ha portato oggi: è davvero bella!

A proposito di lui... anche Hibiki ti fa tanti auguri di buon compleanno! Non vede l’ora di conoscerti di persona... e sai una cosa? Potresti davvero trovarlo qui la prossima volta che ci vediamo... anzi, per come stanno andando le cose, lo troverai di sicuro!

Ti voglio bene, fratellino! Ancora buon compleanno, un abbraccio. :)]

 

 


 

[Angolo di una piccola pinguina nelle vesti di scrittrice.]

Vi confesso che la parte che ho pubblicato oggi è stata scritta con non poche difficoltà. All'inizio avevo in mente una cosa, poi si è lentamente trasformata in altro... e il risultato è stato un testo molto diverso da quello che avevo pensato in origine. Dovevo inserire la telefonata tra Kojiro e Shingo avvenuta all'inizio del Kaigai Gekito Hen in Calcio (capitolo 1) e non l'ho fatto; dovevo inserire la telefonata di famiglia con Shingo, e non l'ho fatto; dovevo descrivere la partita di allenamento con Shingo e Bobang, e nemmeno quella...

... tutto questo "per colpa" di Hibiki: la sua presentazione e l'incontro con Yukiko ha cambiato un sacco di cose che inizialmente erano in programma, LOL!

Scherzi a parte, a mio parere questa è la parte meno riuscita di tutta la storia... o forse non ero dell'umore giusto mentre l'ho scritta, ed è per questo che la vedo molto piatta... ad ogni modo, l'importante è aver concluso anche questa; sulle eventuali modifiche posso tornare in un secondo momento. ;)

Come avete visto, la prima parte dei ricordi di Shingo è un riassunto di tutto ciò che è accaduto nel manga dopo il suo arrivo in Italia, e che tutti voi ben conoscete. In pratica è tutto ciò che è accaduto in questi ultimi tre anni che non ho trattato, dal suo arrivo a Milano fino al suo trasferimento all'Albese... per cui su questo punto non ho bisogno di aggiungere altro. :)

Invece, dato che qui sono comparsi altri due personaggi che non conoscete, di seguito ve li presento:

 

- Hibiki Nakamura 「中村響」 è un giovane archivista che lavora presso la biblioteca civica di Nakahara. Come avete già letto, si trasferisce nella cittadina di Yukiko e Shingo subito dopo la sua laurea conseguita presso l'università di Gifu. Adora i libri e - anche per questo - adora il suo lavoro di archivista.

Il suo nome significa "eco" mentre il suo cognome "nel villaggio".

- Aurora Gentile 「オーロラ ・ ジェンティーレ」 (qui l'uso del katakana è un po' inutile dato che lei è italiana come noi e suo fratello, LOL) è una giovane ragazza torinese, e studentessa del corso di studi in Viticoltura ed Enologia del Dipartimento di Scienze Agrarie, Forestali e Ambientali dell'Università di Torino. In più, avete già capito che lei è la sorella maggiore di un certo Salvatore Gentile che tutti voi conoscete mooooooooolto più di me. :3 È prossima alla laurea che sta conseguendo per diventare enologo, in particolare per prendersi cura del vigneto di famiglia; come avete visto di carattere è più aperta e cordiale di suo fratello, che lei adora e comprende ciò che prova, sentimenti che di solito il calciatore non esterna nei confronti degli altri - non in modo plateale, almeno. (Sì, qui mi riferisco in particolare a un certo calciatore della prefettura di Gifu in Giappone, *coff coff* ;P)

Il suo nome si riferisce all'omonimo fenomeno dell'apparizione della luce poco prima del sorgere del sole, mentre il suo cognome... beh, a mio parere si presta a mille interpretazioni. Ho sempre pensato che la famiglia Gentile stesse molto bene economicamente - ragione per la quale, non a caso, ho collocato la loro dimora nella zona della Collina torinese, un quartiere residenziale della città di Torino rinomata per essere un luogo dove abitano persone dalla vita molto agiata (... e sì, avete immaginato bene: è una delle zone più costose di tutta la città, se non quella più costosa.) Perciò, "Gentile" nel senso di "nobile", ma allo stesso tempo "Gentile" anche per il carattere... anche se il nostro Salvo non è proprio gentilissimo da quel che ho capito però, sotto sotto, anche lui ha un minimo di gentilezza... :)

 

Come sempre, a questa parte si aggiungono le note finali (questa volta pochine ma la prima è molto corposa):

- A proposito del già citato Dipartimento di Scienze Agrarie, Forestali e Ambientali dell'Università di Torino, qui potete trovare una guida generale dell'offerta formativa dell'anno accademico 2020-2021. Sfogliando il file, troverete anche la presentazione del corso di studi in Viticoltura ed Enologia e Scienze Viticole ed Enologiche; in altre parole è la guida del "Come diventare enologo?" che la nostra Aurora sta seguendo... salvo che lei è già alla fine del suo percorso di studi triennale, per cui sta già preparando le valigie per andare via da Alba. Questo corso di studi è molto particolare perché, nonostante la sede principale sia a Torino, in base ai corsi da frequentare ci sono diverse sedi: il primo anno del triennio è a Grugliasco, gli altri due ad Alba (ed è per questo che Aurora si trova proprio ad Alba); stessa cosa per il biennio, dove si inizia ad Asti e si prosegue attraverso gli atenei sparsi in tutta Italia (Milano, Palermo, Sassari e Foggia).

Questo è ciò che ho capito consultando il sito dell'università, per cui se tra i lettori c'è qualcuno che sta facendo questo percorso mi farebbe piacere ascoltare anche la sua esperienza;

- Invece, a proposito di Alba, credo che l'espressione "la città tra le nuvole" sia molto adatta per una città dove la nebbia la fa da sovrana. Tempo fa avevo visto questo articolo nel quale Dubai, una delle città che letteralmente è immersa nelle nubi a causa della fitta nebbia, è stata definita "la città tra le nuvole". È chiaro che Alba non è Dubai... però come espressione è molto bella e suggestiva;

- Infine, il Dosan Festival è una delle più grandi manifestazioni della città di Gifu; si svolge il primo sabato e la domenica successiva di ogni aprile, e consiste in un insieme di eventi in onore delle conquiste ad opera di Saitō Dōsan, una delle figure più importanti dell'epoca Sengoku, che attraversano tutta la città: processioni di mikoshi (palanchini religiosi) e bande musicali, con un mercatino delle pulci. Qui maggiori dettagli sulla manifestazione.

 

E con questa parte siamo giunti alle porte del finale! Infatti la prossima sarà la conclusione di tutto, e finalmente si scoprirà la destinazione di questo lungo, lunghissimo viaggio negli anni di due personaggi molto amati dal fandom. Ma sarà davvero la conclusione, o questo finale lascerà presagire nuovi inizi e nuovi obiettivi all'orizzonte? Staremo a vedere...

Al prossimo aggiornamento!

--- Moriko

 

 

   
 
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