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Autore: DanzaNelFuoco    10/03/2021    0 recensioni
“Ma secondo te gli androidi sognano pecore elettriche?”
Genere: Dark, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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COW-T #9 (03/03/2019)
prompt: rivelazione, wc 2019 parole


 

- Electric sheep - 



“Ma secondo te gli androidi sognano pecore elettriche?” 

Eva si sfila il lecca lecca di bocca e guarda il suo compagno di banco come se gli fosse cresciuta una seconda testa. “Tipo… chi se ne frega?” 

Takeshi sbuffa. “È una domanda teorica. Così per fare conversazione.”

“Ah, vedo che non ti hanno ancora tolto la scopa dal culo!” Sophia interviene, sporgendosi dal banco davanti al suo. 

Da quando in qua quello che le dice Takeshi è affare del resto della classe?  

“Gli androidi non sognano, lo sanno tutti” John si gira verso di loro e alza gli occhi al cielo in un modo molto plateale. Dannato secchione. 

“Se è per questo gli androidi neppure dormono” Eva lo corregge, perché John non può avere l’ultima parola in una conversazione. 

“Beh, tecnicamente lo fanno” è il turno di Takeshi ed Eva lo guarda tradita, perché ha appena infranto il loro patto secolare. Se Eva sbaglia, Takeshi non può diglielo davanti a John. O davanti a chiunque altro potrebbe andare a riferirlo a John. 

Sì, è barare, ma a Eva non interessa affatto. Tutto pur di non farsi battere da John sul tabellone. 

Il tabellone esiste da quando si erano conosciuti a sei anni e la loro intera amicizia si era fondata su quello. Ogni volta che uno dei due rispondeva ad una domanda della maestra in modo corretto otteneva un punto in più, ogni volta che sbagliava ovviamente veniva sottratto un punto. 

John ed Eva avevano passato lustri a superarsi vicendevolmente, sfottendosi fino alla morte per ogni stupidaggine detta, per ogni occasione di guadagnare punti mancata. Ovviamente negli anni il sistema di punteggio era degenerato in una piccola faida sorretta da una guerriglia urbana per cui se uno dei due poteva portare almeno due testimoni del fatto che l’altro avesse detto una scempiaggine il punto veniva sottratto. 

Ecco perché il fatto che Takeshi la corregga davanti a Sophia e allo stesso John è un affronto. 

“No, non lo fanno” Eva quasi gli ringhia. 

“Beh, se consideri che devono attaccarsi alla corrente per recuperare le forze e che nel farlo devono resettare il sistema, a me sembra dormire.”

“No, a me sembra più mangiare.”

“Mangiare dormendo?” 

“Takeshi, perché stiamo parlando di dannati androidi?” 

“Perché sono interessanti?” 

“Perché sono il nostro futuro, grazie ai quali l’umanità potrà ampliare i suoi orizzonti raggiungendo nuove frontiere nello spazio?” John ripete a macchinetta come uno dei manifesti che l’AUIA - Associazione Uguaglianza Intelligenze Artificiali - fa incollare agli angoli di tutte le strade. 

“Perché sono fighi?” 

“Oh per tutte le lune di Giove, Sophia! Sono androidi, non persone!” Sbotta Eva davanti all’ennesima dimostrazione che l’amica non sa darsi un contegno. 

“Lo so” Sophia sorride maliziosa. “Il che significa che potrei comprarmi un marito che faccia tutto quello che voglio” la ragazza calca sulle parole, dando loro una connotazione , “senza che si possa lamentare.” 

Eva storce la bocca. “Oh, che schifo!”

“Non è legale sposare un androide” è l’utilissimo contributo di John. 
“Beh, certo che no, sarebbe come sposare il proprio vibratore.” 

Eva si sente l’unica persona sana del suo gruppo di amici. “Dimmi che non è la prima cosa che hai fatto quando hai compiuto i diciotto anni.” 
“Cosa?”

“Visitare un sexy shop?”

Sophia ridacchia. “Come sei all’antica! Sembri quasi una nata sulla Terra!” 

“Gli ultimi nati sulla Terra sono morti da almeno cinquant’anni, tesoro.” 

“Lo so, John, non sono così oca come pensi tu,” Sophia alza gli occhi al cielo. “Intendevo dire che è una bigotta terrificante!” Poi rivolgendosi di nuovo ad Eva. “Non lo sapevi, nei sexy shop si può entrare già a sedici anni.” 

“Sophia!” Eva non è scandalizzata. Non lo è. Ok, forse sì, solo un pochino. È solo che Eva davvero non riesce a capire come qualcuno possa considerare gli androidi alla stessa stregua degli esseri umani. Sarà perché suo padre li costruisce e lei li vede nascere a partire da schede madri e cavi e programmi in codice binario. 

Non capisce come Sophia possa voler fare certe cose - fare sesso - con un androide. 

A dire la verità Eva non capisce come Sophia possa voler fare certe cose, punto.

Ma forse è Eva a essere strana. 

 

* * * 

 

Eva è ritardo, dannatamente in ritardo. 

Sua madre era già al lavoro, suo padre era chiuso già in laboratorio dalla sera prima - la ragazza si chiede se abbia chiuso occhio o se sappia che è già mattina - e la sua sveglia non aveva suonato, le immortali batterie solari che avevano deciso di morire proprio quella notte. 

Eva è in ritardo, perciò si lancia in una corsa sfrenata nel disperato tentativo di raggiungere la fermata della navetta prima che questa decolli. 

Eva è in ritardo perciò non controlla a destra e sinistra per il passaggio del tram turistico che passa talmente raramente che la ragazza non ricorda nemmeno di che colore sia e quello la colpisce in pieno, i sensori di presenza che attivano i freni un secondo troppo tardi perché lei si possa salvare. 

Eva viene sbalzata via dall’urto, andando a rotolare a metri di distanza, stranamente cosciente. 
Sente ogni fibra di sé urlare, come da una grande distanza, il suo corpo giace scomposto come una bambola rotta e gettata a terra. 

Eva sa che sta per morire. 

Andarsene in questo modo - per non aver controllato prima di attraversare la strada, come se fosse ancora una bambina, invece che quasi una donna adulta - è proprio da idioti. 

Eva perde conoscenza. 

 

* * * 

 

Eva apre gli occhi e si stupisce di essere ancora viva. 

Dovrebbe essere morta.

Mentre i suoi occhi mettono a fuoco la stanza, la ragazza si rende conto che c’è qualcos’altro che non va. 

Dovrebbe essere in ospedale. 

Invece è nel laboratorio di suo padre. 

Perché -? 

Eva non capisce. 

“P - papà?” Chiede con voce incerta. “Cosa - cosa ci faccio qui?” 

“Ti sta aggiustando” risponde sua madre. La ragazza non aveva notato ci fosse anche lei nella stanza.  

Eva deve essere ancora sotto shock per l’incidente. Se è a casa sua forse non è stato tanto grave quanto le era sembrato. Forse con il dolore le era solo sembrato di stare per morire. 

Le parole di sua madre le arrivano lentamente al cervello. 

“Mi sta aggiustando? Ma -” Eva sbatte le palpebre e cerca di voltare la testa, ma non riesce. 

“Ma papà non è un medico - Papà aggiusta gli androidi!” 

Sua madre ridacchia, ma non è la sua solita risata amorevole. Questa è fredda e distante e distaccata. 

“Eva, tesoro, tu sei un androide.”

E la rivelazione la colpisce come un pugno in faccia. 

Anche se ora che ci pensa come metafora non va tanto bene. Perché la sua faccia - ora che non è più ricoperta di pelle sintetica piena di recettori - adesso è un blocco metallico che sopporterebbe ben più di un pugno. Probabilmente Eva dovrebbe dire che la rivelazione la colpisce con la stessa violenza di un tram che l’ha investita in pieno. 

“Non - non è possibile.” 

Non può essere vero. Gli androidi sono fissati nel tempo, nati già adulti, senza un passato. 

Lei ha una infanzia l’ha avuta. Lei ha John e Takeshi e Sophia. 

Li conosce da sempre, fin da quando ha memoria. 

Non è possibile che lei sia un androide, che lei sia una intelligenza artificiale e non un essere umano. 

“Che stai facendo?” chiede suo padre - è suo padre? Davvero? O è solo colui che l’ha creata? E questo non fa forse di lui un padre come se l’avesse procreata biologicamente? 

“Le sto solo raccontando la verità.” Eva può vedere sua madre stringersi nelle spalle. “Tanto le cancellerai la memoria quando la riprogrammerai, no?” 

Suo padre smette di lavorare sui cavi che le escono dall’avambraccio e fissa sua madre. “Sì, ma non c’è bisogno di turbarla ora.” 

“Avresti dovuto mantenerla spenta, allora. Da sveglia è normale che faccia domande.”

Eva si deve correggere. È morta e questo è l’inferno. 

Non c’è altra spiegazione. 

“Non posso essere un androide” dice con più convinzione. E forse, se è ancora viva, questo è un incubo e lei si risveglierà presto - se solo lo desidera abbastanza. 

“Certo che puoi essere un androide. Ti ho costruito io stesso due anni fa” le risponde suo padre. 

“No” Eva entra in negazione. “Io sono stata bambina, io ho degli amici!” 

Suo padre fulmina sua madre con lo sguardo. “Perché mi hai messo in questa situazione?” 

“Perché mi annoiavo.” 

Suo padre inala bruscamente, cercando la forza per non urlare, poi decide di ignorare sua madre e torna a dedicarsi a lei. “Sono ricordi impiantati, tesoro.” 

Eva vorrebbe tanto poter dire di star provando una sensazione di nausea - se i suoi recettori fossero ancora collegati al suo cervello, allora forse sarebbe così - ma non può. Il suo intero corpo è scollegato, ad eccezione del viso. 

“Non è possibile -” 
“Sta diventando ripetitiva” sua madre sbuffa. 

“- i miei amici si ricordano di me!”

Suo padre richiude il suo avambraccio sostituendo la placca ammaccata con una nuova. “Sono androidi anche i tuoi amici. E avete tutti gli stessi ricordi impiantati. Stiamo facendo un esperimento per vedere come le vostre personalità possono evolvere.”

“Sono studi randomizzati. Sai cos’è uno studio randomizzato, Eva?”

“Uno studio randomizzato è uno tipo di esperimento scientifico che mira a ridurre i bias durante la sperimentazione attraverso l’attribuzione casuale dei soggetti studiati ai diversi gruppi.” 

La madre sorride. “Esattamente, Eva. Tu e John siete gli Enciclopedici. Devo ammettere che non mi aspettavo che nella vostra programmazione venisse fuori anche un aspetto competitivo. Suppongo che abbiate preso dai vostri creatori. Dopo tutto il tuo costruttore e quello di John sono in confronto perenne.” 

Dovrebbe essere incomprensibile per lei, dovrebbe essere qualcosa attorno a cui il suo cervello giri senza poter afferrare il concetto. Invece ha straordinariamente senso. 

“Anche - anche Takeshi è un Enciclopedico?”

“No. No, Takeshi è un Dubitatore.”

“Un Dubitatore?”

“Molto richiesti dagli artisti” sua madre spiega. “Danno svariati stimoli per la creatività e l’intera compagnia sta lavorando perché i loro feedback alle creazioni artistiche siano un po’ più umane e un po’ meno articolate.”

“Articolate?”

“Nessun artista vuole sentirsi dire che la sua scultura ha un viso con uno scarto sulla simmetria del 5%” sua madre si inalbera, lei che è sempre molto scientifica e non riesce a capire come chiunque altro non la possa pensare come lei “o che secondo le statistiche di gradimento di statue simili la loro ha una probabilità del 27% di essere un flop.” 

Ha senso, dannazione, certo che ha senso, quello è Takeshi in pinta. 

“E Sophia?”

“Sophia è un sex-bot, evidentemente.” 

E oh, certo, ha senso anche questo, ha tutto un senso.

Suo padre si alza, pulendosi le mani nei pantaloni. “Ho finito” sospira, prima di guardarla negli occhi e sorriderle con quello che Eva può riconoscere essere amore - e forse non la ama come un essere umano, ma è pur sempre sua figlia, generata dal lavoro delle sue mani. 

“D’accordo, tesoro. È ora di tornare a dormire” le dice.  

E il mondo si spegne lentamente. 

 

* * *

 

“Stai meglio oggi?” Le chiede Takeshi ed Eva si passa una mano tra i capelli e sorride prima di lasciarsi cadere sulla sua sedia. 

C’è qualcosa che si dovrebbe ricordare, qualcosa che si era detta di dover riferire ai suoi amici, ma non le viene in mente cosa sia.  

“Sì, grazie, l’influenza mi è passata.”
“Bene, perché è stata una noia senza di te” la informa John, serafico come suo solito, e Sophia ridacchia. 

“Oh, John, ti è mancata la nostra piccola Eva? Vorresti vederla più spesso, forse?” 

Eva sbuffa, eccola qui Sofia con i suoi doppi sensi e le sue battutine stupide. 

“Posso insegnarvi qualche trucco o due da usare insieme…” 

John non la degna nemmeno di una risposta. 

Eva sospira, cercando di ignorarla per concentrasi sul qualcosa che non riesce a ricordare. 

“C’è qualcosa che non va?” Chiede Takeshi, da bravo osservatore.

Eva scossa la testa. “No, è solo che… c’è qualcosa che non ricordo.”

“Dai, ti verrà in mente.”

Forse. 

  
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