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Autore: Verfall    18/03/2021    6 recensioni
Sappiamo bene come si siano svolti i due incontri del 26 marzo, ma cosa è avvenuto subito dopo entrambi? In questa serie di missing moments cercheremo di ripercorrere i pensieri e le azioni non solo di Ryo e Kaori, ma anche di altri personaggi che nell’opera non hanno avuto modo di esprimersi tanto quanto avrei desiderato. Un intimo viaggio corale alle origini della storia che tanto amiamo.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Hideyuki Makimura, Kaori Makimura, Ryo Saeba, Saeko Nogami
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: City Hunter
Capitoli:
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 El Retiro, aprile 1971 – Kenji1 Date
 
Era una bella mattina di inizio aprile e il sole, che splendeva fulgido in un cielo lievemente cobalto, riscaldava teneramente l’estesa foresta che si srotolava lungo l’estrema propaggine occidentale della Sierra De Las Minas2. Kenji percorreva lo stretto sentiero che si inerpicava sulla cima della montagna, attento a non scivolare su quel terreno terribilmente viscido a causa dell’improvviso temporale che, giunto inatteso durante la stagione secca, lo aveva bloccato tutta la notte giù al villaggio. Non negava mai il suo aiuto quando i civili lo mandavano a chiamare bisognosi di un dottore, e Dio solo sapeva quanto ci sarebbe stato bisogno di medici in quei territori così selvaggi e isolati. Per lui non era certo un sacrificio, anzi. Gli piaceva stare tra quella gente semplice e ospitale – i veri Americani come amava definirli – e poi, durante le sue visite, aveva occasione per fare lo splendido con le donne che provavano per lui sempre un’ammirazione e rispetto smisurati in quanto non solo era l’unico uomo di medicina in quelle zone, ma faceva anche parte del gruppo di guerriglieri che li difendeva dagli attacchi dell’esercito governativo3. Lui si lasciava coccolare, beandosi di quelle deliziose attenzioni, sempre attento a non eccedere e approfittarne più del dovuto; in fondo non si considerava degno di tutta quell’ammirazione, era tutto fuorché un eroe, ma allo stesso tempo non poteva rinunciarvi. Aveva bisogno di sentire quelle voci cristalline e di vedere quegli occhi dolci e luminosi sorridergli; ciò lo aiutava ad andare avanti in quella quotidianità infernale. “La bellezza salverà il mondo”4 aveva letto in un libro da ragazzo e più gli anni passavano, più si rendeva conto della forza di quell’affermazione; le donne erano sempre state il suo punto debole e la loro bellezza era la batteria che lo ricaricava. Di loro non ne aveva mai abbastanza.
Dopo aver oltrepassato un piccolo fossato perimetrale raggiunse l’accampamento, formato da una decina di baracche in legno dall’aguzzo tetto spiovente in foglie secche cementate col fango, disposte in forma semicircolare attorno al capanno riservato alla cucina – che celava sotto una botola il deposito di armi. Tutto era perfettamente silenzioso, eccezion fatta per il fruscio degli alberi e il chiacchiericcio di uccelli e grilli che riecheggiava incessantemente. Il commando era uscito in missione il giorno prima, proprio quando lui si apprestava a recarsi al villaggio. I suoi informatori da L’Avana gli avevano comunicato dell’arrivo di un gruppo di mercenari, truppe scelte e perfezionate dai berretti verdi5 che, dopo aver operato nel nord del Paese, era sbarcato proprio quella settimana a Puerto Barrios e che era in viaggio verso Purulhá, chiamati per dare manforte all’esercito stazionato in zona che negli ultimi mesi era stato sensibilmente decimato grazie alle loro azioni di guerriglia. Poiché il loro accampamento sorgeva sul monte situato a metà strada tra La Union Barrios e Purulhá, aveva prontamente suggerito a Jorge, il capo gruppo, di tendere un agguato ai nuovi arrivati e, favoriti dal fattore sorpresa, avrebbero potuto attaccarli facilmente lungo l’angusta mulattiera senza rischiare troppe perdite. Era un buon piano, difficilmente le sue idee non lo erano, ragion per cui era rispettato da tutti i guerriglieri, sebbene lui fosse l’unico a non imbracciare un fucile o una pistola; no, sebbene ne fosse più che capace aveva deciso ormai da molti anni che avrebbe combattuto con l’arma più potente che aveva a disposizione: la mente.
Con passo veloce raggiunse la sua capanna – in realtà un vero e proprio ambulatorio – che si trovava in una posizione più marginale rispetto alle altre e, una volta entrato, iniziò a cacciar fuori con velocità gli strumenti dalla sacca medica. Avrebbe sterilizzato tutto prima di raggiungere i suoi uomini che, secondo i suoi calcoli, sarebbero stati appostati ancora per qualche ora prima di iniziare la battaglia vera e propria; voleva esserci, questi mercenari dovevano essere degli ossi duri, perciò la sua presenza sarebbe stata determinante per dare un primo soccorso ai guerriglieri, anche perché Shin sarebbe stato troppo impegnato a combattere per occuparsi di feriti.
L’acqua nella piccola pentola appoggiata su un fornello da campeggio iniziò a bollire, così vi inserì garze, bisturi e aghi da sutura precedentemente passati con una miscela disinfettante ma, appena terminò l’operazione, un dettaglio colpì la sua attenzione. Un’anta del piccolo armadietto che si trovava alla sua destra era leggermente aperta, eppure lui era più che certo di aver richiuso tutto accuratamente prima di andarsene.
“Che l’abbia aperto Shin? Strano, la sua sacca medica l’avevo preparata io e avevo messo tutto l’occorrente” si disse mentre si avvicinava per controllare cosa mancasse. Con sua grande sorpresa vide che era stata presa un’ampolla vuota. Perché, a cosa gli sarebbe servita? Non sembrava che mancasse nient’altro… forse i contenitori dell’etanolo e dell’anestetico gli sembravano leggermente spostati, ma a che gli sarebbero serviti?
“A meno che…”
Ricacciò con forza quel pensiero assurdo, si diresse verso la piccola ricetrasmittente e l’accese; voleva avvisarli che li avrebbe raggiunti il prima possibile e chiedere chiarimenti a al diretto interessato.
La trasmittente emise un fruscio gracchiante, prima che una voce si fece sentire.

«Hola Prof»

L’uomo premette il tasto per attivare il microfono.

«Hola Jorge. Novità?»

«Nada» rispose secco il comandante del gruppo.

Erano uomini di azione, sapeva bene che le lunghe attese li snervavano, ma in alcuni casi, proprio come quello, erano necessarie per la buona riuscita di un’operazione.

«Ancora un po’ di pazienza amigo, i miei informatori da Cuba sono precisissimi, passeranno da lì a momenti»

«Mmh…» e prima che lui potesse parlare aggiunse «Ah, Moon vuole parlati»

«Prof mi sente?» sentì pochi secondi dopo.

Frank gli aveva parlato in inglese e non era un buon segnale: c’era qualche problema e non voleva farsi capire dal resto del gruppo. Quel piccolo sospetto iniziò a scalpitare come non mai e fece un grande sforzo per mantenersi lucido.

«Sì Frank, dimmi»

«Ho un brutto presentimento Prof. Kaibara e Ryo si sono allontanati dal gruppo ieri sera, dicendo che avrebbero approfittato della ronda notturna per perlustrare ulteriormente la zona, ma non sono ancora rientrati» il guerrigliero esitò «I suoi occhi Prof… Ieri sera erano… Insomma non li ho mai visti così. Sono preoccupato per Ryo, so che con Kaibara è sempre stato al sicuro ma stanotte non sembrava più lui… Non vorrei facessero qualcosa di avventato, quei bastardi arriveranno a momenti»

Il medico sentì il cuore perdere un battito e un brivido freddo gli corse lungo la schiena: quel terribile sospetto si era concretizzato.

«Non c’è tempo da perdere! Vai subito a cercali, porta un po’ di uomini con te, forse dovreste fare ancora in tempo!» esclamò senza riuscire a contenere l’agitazione crescente «Come ho potuto essere così cieco? Era così evidente, è colpa mia…»

«Prof mi preoccupa, che diavolo è successo? Un momento, non crederà davvero che lui…»

«Corri Frank, non fare domande cazzo! Poi ti dic-»

Dalla trasmittente echeggiarono suoni sfocati ma inequivocabili di spari, seguiti da urla di sorpresa. Kenji sentì il sangue ghiacciarsi nelle vene. Era troppo tardi.
La comunicazione si interruppe bruscamente e, mentre cercava di trattenere il tremore che sembrava aver assalito le membra, avvertì distintamente degli spari a non più di mezzo chilometro in linea d’aria. Non poteva sbagliarsi, quel rumore proveniva proprio in corrispondenza di una piccola radura laterale alla mulattiera, conosceva perfettamente quel posto.
“Che posso fare? Che diavolo posso fare?”
Lui, che fin dall’infanzia si era distinto per la sua genialità, lui che si era crogiolato nella sua infallibilità aveva ricevuto in quel momento uno smacco potentissimo al suo orgoglio. Se avesse considerato con più serietà quel primo discorso delirante, se gli avesse impedito di accedere al laboratorio dopo l’alterco della settimana precedente… Tanti se, tanti piccoli segnali che, colti al momento giusto avrebbero impedito ciò si stava svolgendo non lontano da lui.  
“Non devo pensare a quello che non ho fatto ma a quello che devo fare ora, dannazione!” si disse cercando di recuperare una parvenza di controllo.
Nel frattempo gli spari si fecero sempre più frequenti, a suggerire che si stesse nel pieno della battaglia. Non c’era un secondo da perdere, se fosse stato rapido avrebbe potuto anticipare il gruppo che si trovava un paio di chilometri più a nord.
«Che cosa potrei utilizzare? Mi servirebbe qualcosa come…» disse ad alta voce, cercando di calmarsi e, quando vide arrotolata accanto alla porta la robusta rete che utilizzavano per immobilizzare puma e altri animali di grossa taglia quando si avvicinavano al loro accampamento, ebbe un’idea.
Ritornato finalmente lucido, in gesto fulminio si allungò verso il tavolaccio che occupava il centro della stanza e con uno scatto recuperò dal doppiofondo un fucile a pompa carico con una dose di sonnifero estremamente potente, si infilò a tracolla la pesante rete e uscì come una furia; un occhio esterno l’avrebbe potuto scambiare tranquillamente per un bracconiere, solo che non era certo una bestia feroce quella che si preparava a catturare.
“Fa’ che non succeda nulla al ragazzo” si disse mentre si lanciava in una corsa infernale, guidato solo dagli spari, e non avvertì i rami secchi graffiarlo, le asperità della roccia, il declivio sempre più ripido che lo portava a scivolare sulle foglie secche. No, c’era ben altro a riempire i suoi pensieri: una conversazione avvenuta quasi un mese prima.

«Prof!» la porta del laboratorio si spalancò con un rumore secco mentre un uomo si precipitava all’interno come una furia «Abbiamo fatto troppo tardi! Non finirà, non finirà mai questa fottutissima guerra!»
Kenji vide il guerrigliero mettersi le mani tra i capelli, un gesto che palesava tutta l’angoscia e la frustrazione che aveva accumulato e non aveva potuto mostrare prima. Gli dispiacque molto vedere come Kaibara, quell’ex marine così capace, l’unico a cui aveva potuto insegnare qualcosa di scientifico, si stesse consumando. Erano diversi mesi ormai che lo vedeva rodersi lentamente dall’interno, come se un enorme tarlo lo stesse svuotando della sua parte migliore. Aveva provato di tutto, ma iniziava a sentirsi impotente: qualunque argomento o gesto sembravano inutili, era del tutto inconsolabile e il suo proverbiale riserbo non aiutava la situazione.
«Come stanno al villaggio?» chiese allarmato mentre si apprestava a prendere la borsa con tutto l’occorrente per il pronto soccorso.
«Tutto inutile» fece tetro, emettendo uno sbuffo disperato «Quei bastardi hanno iniziato una vera mattanza, non stanno risparmiando neanche i civili, ormai è la terza volta che succede non può essere un caso» e abbassando il capo aggiunse piano «Tutti trucidati: donne, bambini, anziani… Anche gli animali domestici, terra bruciata»
A quelle parole sentì seccarsi la gola: non si sarebbe mai immaginato che il governo alla fine avesse dato il via a una vera pulizia etnica dei nativi americani. Il solo pensiero lo nauseò e rapide immagini iniziarono a riaffiorare nella sua mente; ricordi di quanto aveva visto in prima persona, meno di trent’anni prima, nella vecchia Europa. Eccolo un altro sterminio, un altro crimine che, però, stava passando inosservato agli occhi del mondo.
«L’orrore… L’orrore e l’odio vinceranno sempre, è inutile pensarla diversamente… Per sopravvivere dovremo cambiare, diventare spietati»
«Cosa dici Shin? Noi dobbiamo mostrarci diversi da loro, essere migliori! Solo così potremo vincere… Dobbiamo proteggere la vita, soprattutto noi due abbiamo il dovere di non cedere…»
«Non ce la faccio più!» gli sbraitò contro, gli occhi arrossati carichi di una rabbia che non aveva nulla di umano «Tu e questi discorsi edificanti sai dove te li puoi ficcare? Con le parole non facciamo niente, la strategia prudente che tu e quel coglione di Jorge avete suggerito da un anno a questa parte sai a cosa ci sta portando? Eh, lo sai a cosa?» gli chiese minaccioso, avvicinandosi con passo zoppicante.
Kenji per la prima volta ebbe paura di quell’uomo che conosceva da anni e in cui nutriva una profonda fiducia. Che cosa gli stava succedendo?
«Te lo dico io a cosa. A un cazzo di niente. Mentre noi giochiamo a nascondino loro ne stanno approfittando per far piazza pulita di tutti i villaggi indios che ci appoggiano; hanno capito che se loro muoiono è più facile averci in pugno: niente più cibo, niente più corrieri e niente appoggio. Con le buone non si risolve niente, non si risolverà mai un cazzo di niente in questo inferno» e puntandogli un indice vicinissimo al volto occhialuto proseguì «Qui non è la tua bella guerra, non ci sono i cari nazisti precisi e metodici con i loro lager; qua regna il caos, la guerriglia incontrollata tra noi e quei macellai. Ce lo stanno mostrando bene, nessuna regola esiste in questo posto e allora perché noi ci ostiniamo a voler seguire dei principi che possono tranquillamente andare al diavolo?» urlò e con un rapido gesto gli strappò di mano la borsa gettandola con ferocia per terra.
«Shin ora basta! Torna in te!» gli urlò, la sua calma proverbiale era totalmente svanita.
Un sorriso lugubre tagliò le labbra dell’uomo che lo fronteggiava.
«Non sono mai stato più in me di così» e dirigendosi verso l’uscita aggiunse, dandogli le spalle «Sai, su una cosa i tedeschi ci avevano visto giusto: per combattere non servono uomini ma automi. Soldati che siano macchine da guerra senza sentimenti. Solo così… Solo così si vince…»
«Non dirlo neanche per scherzo, quella del Pervitin6 è stata una porcata assurda, e anche tu l’hai sempre pensata come me se non sbaglio»
«Ah, si cambia, si cambia…» e in un sibilo concluse «Vedrete, vedrete tutti quanti…» e sparì con la stessa furia con cui era apparso.

Una radice sporgente lo fece atterrare pesantemente sulle ginocchia, riportandolo dolorosamente alla realtà. Imprecò mentalmente, vedendo il pantalone liso e macchiato di sangue fresco, ma riprese la sua marcia. Quel discorso lo aveva turbato profondamente, in particolar modo l’ultima parte, ma non vi aveva dato particolar peso, prendendolo come uno sfogo, un eccesso dovuto all’evidente stato di agitazione in cui si trovava l’uomo. Proprio quando aveva creduto che il peggio fosse passato, ecco che Kaibara aveva parlato solo un paio di settimane dopo di un’idea rivoluzionaria, che li avrebbe portati alla vittoria. Di fronte a lui, Jorge e Frank – coloro che erano ritenuti i guerriglieri più influenti – aveva iniziato a vaneggiare di una sua idea, una droga che avrebbe potuto sintetizzare senza problemi su cui aveva studiato molto; una perfetta fusione tra i principi delle anfetamine e dalla fenciclidina7, capace secondo i suoi calcoli di creare un esercito invincibile, perfetto. Tutti avevano bocciato quella idea, ritenendola folle e contro natura, Jorge lo aveva ammonito, dicendo che “non bisogna giocare a essere Dio”, e che la guerriglia sarebbe continuata “senza il suo esercito di mostri”. Erano riusciti a estorcere la promessa di abbandonare quel progetto a un Kaibara evidentemente contrariato, che tuttavia aveva accettato di non farne parola con gli altri e di abbandonare il suo studio. Eppure Kenji ricordava il senso di disagio che aveva avvertito quando Shin li aveva guardati un’ultima volta prima di lasciare la capanna del capo gruppo: era uno sguardo lugubre, carico di odio e rancore, che lui in quel momento aveva interpretato come la manifestazione del suo orgoglio ferito. Nonostante ciò si era fidato del guerrigliero che si era sempre mostrato un uomo di parola, ma ora questo… Li aveva bellamente presi in giro! Sentì una fitta al fianco che lo fece annaspare per qualche secondo, costringendolo ad appoggiarsi su un tronco vicino mentre con la mano si teneva il fianco.
«Come ho potuto essere così superficiale? Perché non gli ho impedito l’accesso al laboratorio dopo quella sera? Aveva dato la sua parola e invece l’ha fatta davvero la sua droga, mi ha fregato come un cretino! Ah, devo darmi una mossa, devo arrivare prima che per Ryo sia troppo tardi» disse in un soliloquio a mezza voce prima di riprendere a muoversi.
Non riusciva a darsi pace e, mentre si torturava con un senso di colpa crescente, proseguì la sua corsa; inciampava, si graffiava, cadeva ma non avvertiva nulla se non il battito del suo cuore che gli rimbombava nel cervello assieme agli spari. Spari che, però, iniziarono a farsi sempre più vicini e sporadici. Si fermò e tese le orecchie al massimo: a qui pochi spari facevano eco urla laceranti, sovrastate da un ruggito bestiale. Per qualche istante non riuscì a formulare un pensiero logico, sentendosi come se fosse sull’orlo di un abisso; per quanto ne fosse atterrito le sue gambe non poterono fare a meno di continuare quella corsa, curiose di scoprire cosa quelle fronde fitte celassero ai suoi occhi. Dopo pochi passi gli spari cessarono del tutto, gettando la foresta in un silenzio surreale. Proseguì con circospezione e si avvicinò alla piccola radura, cercando di essere il più silenzioso possibile dato che non c’era più alcun rumore a nascondere la sua presenza. Una leggera brezza mosse dolcemente i rami degli alberi, portando con sé una zaffata rugginosa: sangue, e doveva essercene in grande quantità. Deglutì a vuoto, mentre con mano tremante scostava l’ultima barriera verdeggiante che lo separava dal campo di battaglia.
Rimase pietrificato e il respiro gli si mozzò in gola. Davanti a lui si stendeva uno scenario di morte di rara brutalità, una carneficina che difficilmente avrebbe dimenticato in vita sua. Fece un piccolo passo, esitante, e sentì l’anfibio sprofondare nel terreno fangoso per la pioggia del giorno prima, ulteriormente zuppo di sangue che aveva completamente sostituito l’acqua nelle varie pozzanghere presenti. A terra si trovavano decine di uomini, forse poco più di una trentina, la maggior parte dei quali distesi in pose innaturali come se fossero stati delle marionette gettate via da un bambino capriccioso.
“Non può essere… Non può essere vero…”
Fece un altro timido passo e notò leggermente sulla destra una figura, completamente ricoperta di fango e sangue, stagliarsi immobile come un dio infernale tra i suoi sudditi; in controluce riuscì a distinguerne la sagoma, le spalle che si muovevano ritmicamente a sottolineare un profondo affanno… delle spalle così dannatamente familiari.

«Ryo…» mormorò con voce strozzata.

Provò ad avvicinarsi ma un urlo feroce lo inchiodò sul posto. Il ragazzo lentamente si girò verso di lui e Kenji poté vedere distintamente ciò che aveva in mano; era la testa di un uomo, tenuta saldamente per i capelli, il sangue che gocciolava ancora copioso dal collo reciso così selvaggiamente da sembrare essere stata strappata via a mani nude. Ryo alzò il viso, puntandolo verso un cielo sereno e ignaro delle sozzure del mondo, e rilasciò un altro urlo ancor più forte e selvaggio che lacerò il cuore dell’uomo nel profondo; poi, con un rapido gesto, lanciò via quel macabro trofeo che venne prontamente inghiottito dalle della fitta foresta. Il Professore strinse convulsamente le mani sul fucile, avvertendo un malessere potente farsi strada per tutto il corpo, ma non si fece vincere; doveva fare qualcosa per quel povero ragazzo. Lentamente si sfilò la rete di dosso e l’appoggiò per terra, non perdendo il contatto visivo con quell’essere che lo fissava con occhi vacui. Ryo sembrava essersi immobilizzato, cose se si fosse spento, ma doveva certamente trattarsi di uno stato momentaneo; doveva renderlo innocuo quanto prima, probabilmente non avrebbe esitato ad attaccarlo e smembrarlo proprio come aveva fatto con quel manipolo di mercenari. Un suono di passi ovattati lo avvertì che anche i guerriglieri erano arrivati.

«Prof» sussurrò una voce preoccupata dietro di lui.

«Fermo Frank, non fate un passo tu e gli altri» e appoggiando il fucile accanto alla rete aggiunse «Io provo a parlarci, così lo distrarrò su di me. Appena farò un cenno con la mano lanciategli immediatamente la rete e sparategli il sonnifero…»

«Che? È impazzito?»

«Fai come dico cazzo!» sibilò, girando lievemente il capo verso il suo gruppo.

«Ok… Come vuole» fu la risposta rassegnata.

Kenji inspirò profondamente. Era rischiosa la sua idea, ma era la sola che gli fosse venuta in mente per evitare un ulteriore spargimento di sangue; e poi, se doveva morire qualcuno, avrebbe preferito fosse lui, così avrebbe pagato con la vita la sua leggerezza imperdonabile che con buone probabilità aveva decretato la fine del giovane. Iniziò a muoversi, lentamente, i piedi così pesanti che sembravano bloccati dalle sabbie mobili.

«Ryo… Ryo… Ragazzo» disse col tono più calmo possibile mentre si dirigeva verso il guerrigliero trasfigurato dalla droga. Vedendolo ancora immobile azzardò ad avvicinarsi di qualche passo.

«Ryo… Che cosa ti ha fatto?» non poté fare a meno di chiedersi appena riuscì a osservare meglio quel volto, sempre così pieno di vita, diventato una machera inespressiva, quasi fosse stato privato della sua anima e ridotto a un mero automa.

Quella vista lo addolorò più del massacro e delle urla feroci: non aveva mai visto niente del genere, nessuna droga di sua conoscenza aveva un effetto così devastante. In quel momento Ryo strinse le palpebre, tendendo i muscoli, un chiaro segnale che si stava preparando ad attaccare e fu allora che l’uomo diede il segnale: il giovane venne imprigionato in una pesante rete proprio mentre aveva iniziato a correre; iniziò a divincolarsi selvaggiamente, ma un colpo di fucile risuonò colpendolo in pieno petto. La preda braccata emise un ruggito doloroso prima di inginocchiarsi e accasciarsi pesantemente al suolo. Solo allora il medico iniziò a respirare liberamente, mentre i guerriglieri preceduti da Jorge e Frank – quest’ultimo ancora con il fucile tra le mani – lo raggiunsero, anche loro attoniti alla vista di quel luogo.

«Madre de Dios… Mai vista una cosa simile» mormorò il capo gruppo, togliendosi l’elmetto.

«È stato Ryo?! Come è successo?»

«Non è umano tutto questo»

«Ah, questo è l’inferno»

«Ma lo avete visto? Es el diablo!»

Gli uomini, incapaci di trattenersi, parlottavano tra di loro, muovendo gli occhi ora sui cadaveri orribilmente sventrati e mutilati, ora sulla rete che conteneva l’artefice di quel massacro.
Kenji si accucciò accanto al giovane guerrigliero, ormai immerso in un sonno profondo, e gli posò una mano sui capelli sporchi; era conciato malissimo, riusciva a intravedere tra il fango che lo ricopriva e la divisa sbrindellata in più punti molte ferite, più o meno profonde, e si augurò che non avesse perso troppo sangue.
“Quelle si potranno curare, ma riuscirò a farlo tornare? Potrò salvare anche il suo spirito o è perduto per sempre?” si chiese mesto, gli occhi che iniziavano a farsi fastidiosamente umidi. Era stato un colpo terribile vedere ridotto così quel caro ragazzo, Baby Face come si divertiva a chiamarlo perché si ostinava sempre a radere quella barba ancora acerba. Doveva salvarlo ad ogni costo, non si sarebbe perdonato un fallimento, non poteva permettersi neanche di pensarlo.

«Scusi Prof» la voce di Moon lo distolse dai suoi pensieri.

«Di’ pure Frank» rispose senza distogliere lo sguardo dal giovane.

«C’è un superstite»

«Cosa?» chiese, alzandosi di scatto.

«Sì, Paco ha sentito chiaramente dei lamenti provenire da quell’armadio lì in fondo» disse asciutto, indicando un uomo riverso supino sul terreno alla loro sinistra.

«Dovremo portarlo con noi, non ho qui con me il materiale per medicarlo»

«Ma come? Vuole portare i nemici dentro il nostro villaggio?»

«Stai calmo Frank» e dopo essersi avvicinato al mercenario e aver esaminato il volto che sembrava una maschera di sangue, aggiunse «La ferita è profonda e ha già perso molto sangue, ciò significa che non può rappresentare un pericolo per noi»

«Però…»

«So cosa stai pensando. È vero sono nostri nemici, ma…» e dopo essersi guardato attorno aggiunse «Questa non è stata una battaglia regolamentare, se c’è un ferito non me la sento di lasciarlo morire qui. Mi limiterò a fargli una prima medicazione e poi lo porterete lontano dal villaggio»

«Così tornerà dai suoi compari e verranno a darci la caccia!» esclamò con disprezzo il guerrigliero.

«Noi ce ne andremo comunque» e tornando accanto a Ryo proseguì «Non lo posso curare in questa giungla. Ci avvicineremo alla capitale così io potrò disporre delle attrezzature necessarie e, allo stesso tempo, avrete modo di montare il campo in un altro posto; è meglio cambiare aria, sia se quell’uomo verrà a cercarci con i rinforzi o meno. Sono convinto che anche Jorge sarà d’accordo»

Un silenzio carico di angoscia cadde tra i due. L’americano si avvicinò al ragazzo avviluppato nella rete e un lampo di dolore gli attraversò gli occhi.

«Quel figlio di puttana… Alla fine l’ha fatto davvero; ma come ha potuto, proprio a Ryo che lo considera suo padre?!» e stringendo freneticamente le mani attorno alla canna del fucile aggiunse «Si salverà?»

«Me lo chiedo anch’io» disse in un sussurro «È tutta colpa mia, ho sbagliato fin dal principio, non dovevo incoraggiare i suoi studi sulla chimica… Non dovevo insegnargli troppo»

«Non è colpa sua Prof. Shin è sempre stato un soldato eccezionale e l’uomo più generoso che abbia mai conosciuto… Ma sono alcuni mesi che mi chiedo che fine abbia fatto quell’uomo. Già da quel fatidico discorso mi è sembrato più scostante, quasi come se mi evitasse, e poi ieri sera… Cristo, aveva degli occhi da far spavento, mai visti in vita mia… Sentivo che qualcosa non andava, ma è sempre stato un uomo di parola, non avrei mai immaginato che alla fine ci avesse presi per il culo!» e dopo una breve pausa aggiunse accigliato «Prendo alcuni uomini e vado a cercare immediatamente quel bastardo, non sarà andato troppo lontano»

«No» disse prendendogli il braccio «Non ce n’è bisogno. Ha visto che la sua idea funziona…Vedrai, sarà lui stesso a venire da noi. Ora andiamo, non voglio perdere altro tempo prezioso»

Appena il guerrigliero si fu allontanato per dare gli ordini al gruppo, Kenji si portò furtivamente una mano sugli occhi e cacciò via due lacrime traditrici: quella giornata così luminosa aveva gettato un’ombra nera pece nel suo animo, pesante come un macigno. E non sarebbe andata più via, ne era certo, almeno fin quando non fosse riuscito a salvare Ryo.
 
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Era scesa la sera sul piccolo villaggio di guerriglieri e l’atmosfera era così carica di tensione da rendere l’aria opprimente. Il fuoco scoppiettava nello spiazzo centrale, Luis – l’addetto alla cucina – rimestava la solita zuppa nel pentolone ma l’atmosfera conviviale che di solito si creava in quell’unico momento della giornata era irrimediabilmente compromessa per l’accaduto della mattina. Il Professore si era chiuso nel laboratorio fin dal loro arrivo, vietando categoricamente l’accesso a chiunque, e si era messo all’opera freneticamente, con misurata precisione e freddezza. Aveva subito medicato e ricucito le diverse ferite di Ryo, come lo squarcio che gli fendeva il petto, per poi dedicarsi a quel gigante calvo. Era stato fortunato a non morire dissanguato, aveva riportato una terribile ferita agli occhi, infatti la lama non gli aveva reciso il nervo ottico solo per qualche millimetro; sicuramente la sua vista sarebbe stata compromessa per sempre, e fu sorpreso nel constatare come anche quel mercenario avesse gli occhi a mandorla. Un altro asiatico anomalo, sembrava proprio che quel posto fosse una calamita per loro. Una volta terminata la fasciatura non poté fare a meno di avvicinarsi al tavolaccio su cui giaceva supino il ragazzo, bloccato con delle corde intorno alla vita e alle gambe per motivi di sicurezza; sebbene fosse ancora addormentato non poteva prevedere con certezza fin quando l’effetto del sedativo sarebbe durato. Non osava immaginare come avrebbe reagito al risveglio, ragion per cui aveva preparato un’altra dose di sonnifero da somministrargli appena avrebbe iniziato a dar segni di coscienza; era la soluzione più semplice per gestirlo durante il viaggio, eppure una parte di lui nutriva qualche remora, temendo degli effetti collaterali.
“Non vedo l’ora di arrivare a Città del Guatemala, qui mi sento così impedito” pensò stancamente mentre con la mano si massaggiava le tempie. Si sentiva sfinito e l’aver lavorato a lungo alla sola luce del lume a olio non aveva giovato ai suoi occhi deboli. Oramai non era più così giovane e le ciocche bianche, che sempre più numerose si sostituivano ai capelli corvino, ne erano un segno più che evidente. Si diresse verso la porta e l’aprì di scatto.

«Frank» chiamò asciutto.

L’americano era rimasto accanto al laboratorio per tutto il tempo, seduto per terra a rigirarsi l’elmetto tra le mani meccanicamente, assorto in tetri pensieri. Alla chiamata rispose alzandosi velocemente e in pochi passi lo raggiunse.

«Puoi chiamare qualche uomo per trasportare questo bestione lontano da qui, possibilmente dalla parte opposta della radura» e vedendolo indugiare proseguì «Non temere gli ho dato un tranquillante, non si sveglierà prima di domani mattina. Nel frattempo comunica a Jorge che può ultimare i preparativi per la partenza. Se saremo abbastanza celeri dovremmo riuscire a metterci in marcia entro la mezzanotte, col favore del buio viaggeremo senza troppi problemi»

L’ex marines si limitò ad annuire lievemente per poi correre verso il centro dell’accampamento e richiamare all’opera i suoi commilitoni, che furono subito bel lieti di avere qualcosa da fare e sfuggire per un po’ a quel clima così pesante. Kenji li osservò e attese fuori, accanto all’ingresso del laboratorio, fin quando sei guerriglieri robusti riuscirono a trasportare, senza non poche difficoltà, il mastodontico mercenario. Stava per rientrare quando percepì distintamente degli occhi fissarlo tra la boscaglia alla sua destra; tenne lo sguardo fisso in quel punto, serrando le labbra in una linea cupa, severa. L’ombra si mosse e iniziò ad avanzare nella sua direzione.

«Allora, piaciuta la dimostrazione?» disse la voce in tono soddisfatto.

Il medico fremette di rabbia, ma decise di non rispondere.

«Ammettilo, non te l’aspettavi eh? L’allievo che supera il maestro. Eppure ti avevo avvertito»

Due occhi spiritati lo trapassarono da parte a parte, accompagnati da un mezzo sorriso. Kenji rimase ostinatamente in silenzio, sconcertato e disgustato da quell’uomo che non riconosceva più.

«Ora l’avrai capito che la mia idea era giusta. Devo dire che Ryo ha superato le mie aspettative»

«Ti rendi conto di quello che gli hai fatto?» gli chiese, scattando come una molla «Sai che potrebbe morire o portare dei danni permanenti?»

«Beh, me l’hai insegnato tu Prof, nella scienza bisogna sperimentare per raggiungere la perfezione»

«Che cos-»

«KAIBARA!» sbraitò Frank che correndo come una furia lo travolse, prendendolo per il colletto della mimetica «Fottuto bastardo, finalmente sei strisciato fuori»

«Fermati subito Moon o ti pianto una pallottola nel cranio senza troppi complimenti»

Nel frattempo tutti i guerriglieri iniziarono a raggiungere il luogo della disputa, preceduti da Jorge che si frappose tra i due uomini, separandoli.

«Insomma che sono queste buffonate? Non voglio cazzate adesso che siamo in partenza» e rivolgendosi freddo verso Shin aggiunse «Voglio delle spiegazioni Kaibara, cosa significa l’inferno di stamattina? Non avevi dato la tua parola che rinunciavi alla droga?»

Il guerrigliero serrò le labbra in una ghigno feroce e avanzando di qualche passo verso il resto del gruppo iniziò a guardare ogni suo commilitone negli occhi.

«Che irriconoscenti, ho fatto un lavoro eccellente e neppure un grazie!» e dopo una breve pausa continuò «Spero siate stati ben attenti a ciò che avete visto stamattina, perché avete assistito alla nascita della nostra arma migliore, la più potente, che ci renderà imbattibili. Dovete sapere che il vostro capo mi ha proibito di parlavi della mia scoperta, ma è giusto che anche voi sappiate. In questi anni non ho fatto altro che chiedermi “Come porre fine alla guerra?” Sicuramente con le buone non si risolve nulla, ed ecco che poi, dopo l’ennesima battaglia ho avuto un’illuminazione: bisogna creare un esercito imbattibile, fortissimo, incapace di avvertire qualsiasi emozione o dolore. Soldati che siano delle perfette macchine da guerra, e per far ciò ho messo appunto una nuova droga; avevo qualche dubbio circa la sua efficacia ma devo dire che sono molto soddisfatto. Avete visto cosa è stato capace di fare una sola persona, ma pensate la potenza distruttiva di un’intera truppa, anzi un intero esercito. I nemici non avrebbero scampo. Sì, grazie alla mia armata perfetta saremo invincibili» terminò entusiasta mentre attorno calò il gelo.

«Così, nonostante avessimo deciso che non avresti fatto nulla, con Ryo hai voluto darci una dimostrazione degli effetti della tua droga, eh?» chiese Jorge asciutto.

«Sei solo un pazzo, you motherfucker!» gli urlò Frank che lo colpì al volto con un gancio «Come hai potuto drogare Ryo? Tra tutti hai scelto proprio lui, bastardo, lo sai che è più morto che vivo?» i due ex marines iniziarono una lotta furibonda e ogni tentativo di separali risultò vana.

Kenji, che era rimasto immobile bloccato da un misto di sconcerto e ripugnanza, si fece avanti e con un rapido movimento fluido bloccò i due uomini, lasciando stupiti tutti; nessuno aveva mai sospettato che il loro medico, l’uomo minuto e all’apparenza indifeso, potesse avere una tale forza e abilità nella lotta libera.

«Frank mantieni la calma» gli sibilò secco.

«Mi meraviglio di te Moon, comportarti come un bambino sentimentale» disse sarcastico Kaibara e, dopo aver girato la testa di lato, sputò con disprezzo.

«Dimmi solo una cosa Shin» disse piano il Professore «Il ragazzo potrebbe non sopravvivere alla notte… Davvero non te ne frega niente di tuo figlio?» concluse sottolineando con forza l’ultima parola, in modo che tutti potessero sentirlo.

Kenji lo guardò fisso negli occhi, alla ricerca di qualche minimo accenno di emozione, ma ciò che vide fu uno strato di granitica freddezza. In quell’istante ebbe l’amara certezza che l’uomo che aveva conosciuto era definitivamente morto, sepolto vivo dall’odio e dalla rabbia; egli stesso si stava tramutando in un uomo senza anima, così tremendamente simile ai soldati perfetti che voleva ricreare.

«In battaglia non esistono genitori e figli» fece il guerrigliero alzando le spalle «E poi è stato così semplice convincerlo. Fisicamente Ryo è il prototipo di soldato perfetto, da solo è riuscito ad annientare più di trenta mercenari, sarebbe stato imperdonabile non usarlo»

«E dimmi Kaibara, pensi che uno di noi sarà disposto a fare la stessa fine del ragazzo?» chiese duro Jorge che, nonostante fosse rimasto in disparte, non aveva distolto lo sguardo dalla scena.

Subito un concitato chiacchiericcio si sollevò dal gruppo di guerriglieri, ognuno preso ad affermare il proprio sconcerto.

«Come vedi nessuno vorrebbe farti da seconda cavia e poi, questo è modo barbaro, infernale con cui combattere. Non è così che voglio liberare il mio Paese, non tollererei che qualcuno dei fratelli fosse ridotto in quelle condizioni» e rivolgendosi ai suoi uomini esclamò «Metto al voto la permanenza di Kaibara nel nostro gruppo. Alzi la mano chi è d’accordo a escluderlo definitivamente» disse mentre piantava il braccio fermamente in aria.
Velocemente venne seguito da tutti gli altri; solo Kenji si astenne, pensieroso e troppo occupato a captare ogni minimo rumore proveniente dalla sua capanna.

«Bene, è deciso: Kaibara prendi le tue cose e va via. Ora» dichiarò Jorge perentorio.

«Se pensate che mi metterò in ginocchio per chiedervi di cambiare idea avete sbagliato di grosso. Siete dei poveri idioti, vi siete bevuti il cervello da quando lui ha preso il comando!» urlò con disprezzo, additando il capogruppo «Io vado ma badate bene: chi ci rimette siete voi, poveri illusi. Gli altri guerriglieri mi accoglieranno a braccia aperte quando sapranno che cosa posseggo» disse toccando il taschino della mimetica.

“Se distruggessi le altre dosi che ha addosso, potrei porre fine a questo incubo. Una volta andato via non potrà procurarsi facilmente le sostanza di cui ha bisogno… Devo colpirlo adesso” pensò Kenji, e mentre si preparava a compiere lo scatto avvertì distintamente un tonfo secco provenire dalla capanna alle sue spalle.

«Ryo…» mormorò e subito vi si precipitò dentro.

Lo vide dimenarsi con tutte le sue forze contro quelle corde che lo tenevano saldamente ancorato al tavolaccio e, appena Ryo lo vide entrare, diede uno strattone così poderoso da far muore il tavolo in avanti. Nello stesso istante Kenji avvertì distintamente della confusione provenire dall’esterno: era iniziata un’altra rissa feroce, ma a lui non importava. Doveva sedarlo, prima che avesse rotto le corde e fosse stato libero di distruggere tutto, solo quello gli importava. Tutto il resto poteva andare al diavolo.
 
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Era trascorsa una settimana da quando Kenji si era sistemato in un piccolo edificio a due piani nella periferia a nord della capitale guatemalteca e non faceva altro che occuparsi senza sosta del suo giovane paziente. Il gruppo di guerriglieri, dopo averli accompagnati, era tornato indietro, insediandosi tra le montagne vicine per proseguire l’attività di guerriglia, e si tenevano in contatto via radio. Sapeva che la città non era certo il luogo più sicuro in cui risiedere in quel periodo a causa dei tumulti che la stavano sconquassando e che avevano l’aria di peggiorare terribilmente, ma solo lì poteva avvalersi di quel piccolo studio medico clandestino di proprietà dal cubano José, un medico che aveva conosciuto durante la sua permanenza a L’Avana e che come lui aveva deciso di approdare in quello Stato martoriato dalla guerra civile per portare aiuto alla popolazione. Gli aveva lasciato pieno uso dell’intero edificio e, nonostante si fosse offerto di aiutarlo, Kenji aveva rifiutato con fermezza; preferiva lavorare solo, non tollerava la presenza di qualcun altro che gli dicesse cosa fare. Su quel punto non era molto cambiato da quando era il giovane studente brillante, individualista fino al midollo.
Alle prime luci dell’alba uscì dalla sua camera – che in realtà era poco più di una celletta – percorse l’angusto corridoio e raggiunse silenzioso come un’ombra l’unica porta che si affacciava sul lato opposto. L’aprì lentamente, facendo attenzione a non emettere il minimo rumore; aveva notato che l’udito del giovane si era sensibilizzato in modo spaventoso e un suono normale lo scuoteva come una detonazione. Nella piccola stanza rettangolare, squallidamente spoglia ma abbastanza pulita, si trovava un semplice lettino con accanto una colonnina di acciaio su cui erano posizionati alcuni macchinari, – tra cui spiccava il monitor dell’holter cardiaco che in quel momento segnava un tracciato regolare –; sul muro opposto c’era una finestrella con gli scuri ben chiusi attraverso i quali filtrava qualche debole fascio di luce, sufficiente per distinguere in quella penombra una sagoma distesa in un letto che sembrava troppo piccolo per contenerla interamente. Kenji si avvicinò cautamente e osservò preoccupato il ragazzo: stava cercando di disintossicarlo impiegando tutte le conoscenze cha aveva in materia di anfetamine ma l’impresa si stava dimostrando più ostica del previsto. La sostanza era ancora in circolo e le crisi di astinenza non sembravano diminuire di intensità, costringendolo a mantenerlo in uno stato di semi sedazione. Qualunque sostanza avesse sintetizzato Shin era di un’aggressività mai vista, e aveva intaccato ferocemente il sistema nervoso del giovane mercenario condannandolo a spasmi terribili che i primi giorni lo avevano straziato a tal punto che si era visto costretto a legarlo poiché durante le crisi saltava sul letto, dimenandosi come un salmone appena pescato. Gli episodi iniziavano a farsi più sporadici, ma non erano ancora svaniti del tutto, ragion per cui non se l’era sentita di slegare quelle robuste cinghie di cuoio che avevano ormai segnato visibilmente le braccia e le gambe.

«Mmmh» Ryo emise un debole suono gutturale mentre provava ad aprire con fatica le palpebre tremolanti.

«Buongiorno ragazzo mio» disse con voce affettuosa l’uomo, posando una mano sul braccio ricoperto da flebo.

Ogni giorno gli parlava a lungo, tra una crisi nervosa e l’altra, per fargli sentire la sua vicinanza, augurandosi che tornasse alla vita. Quella era la prima volta dopo tre giorni che il giovane provava ad aprire gli occhi e Kenji si chiese se sarebbe riemerso dallo stato di incoscienza in cui sembrava essere sprofondato da quella maledetta mattina. Si scostò un attimo dal ragazzo per dare un’occhiata ai parametri vitali e sincerarsi che fosse tutto sotto controllo e, appena tornò a guardarlo provò un timida felicità nel constatare come due iridi ardesia lo fissavano tra due palpebre semiaperte.

«Sei proprio un gran dormiglione Baby Face» gli sorrise lievemente.

Non sarebbe riuscito a descrivere a parole la sensazione di sollievo che provò in quel momento. Per tutti quei giorni lo aveva consumato il dubbio di aver abbondato troppo con i sedativi e di aver così innescato involontariamente uno stato comatoso. Il buon senso gli suggeriva di non cantar vittoria, non poteva ancora sapere se ci sarebbero stati dei danni collaterali, ma per il momento gli bastava vederlo sveglio, anche perché ciò escludeva scenari più catastrofici che non mancavano di affacciarsi ogni notte nei suoi sogni tormentati.

«Riesci a sentirmi Ryo? Mi riconosci?» e prendendogli la mano aggiunse «Se sì muovi un dito»

Il ragazzo continuava a fissarlo e, sebbene il suo sguardo non fosse più quello vitreo e spettrale della radura, continuava a mantenersi leggermente vacuo, come se con la mente fosse perso in qualche ricordo. Il Professore attese pazientemente, teso come una corda di violino, il più impercettibile movimento che giunse dopo qualche minuto, accompagnato da una vistosa smorfia di dolore.
“Male, la situazione è ben più grave del previsto” pensò tra sé allarmato, ma dalla sua bocca fuoriuscirono solo parole incoraggianti.

«Bravissimo Ryo, ero certo che ce l’avresti fatta» ma quel tono allegro si spense all’istante quando riuscì a scorgere in quelle pupille un dolore sordo, incontenibile, che lo aveva travolto con la forza di un quieto uragano.

Gli lasciò la mano delicatamente e, poggiando i pugni sul bordo del letto, si avvicinò a quegli occhi che sembravano non volevo perdere di vista un secondo, quasi come fosse stata una questione di vita o di morte.

«Ricordi qualcosa Ryo?» chiese piano.

«Mmmh» rantolò, riuscendo questa volta a spalancare gli occhi.

L’uomo sospirò amaramente; in cuor suo aveva sperato che la memoria fosse stata compromessa, almeno per risparmiare al ragazzo il temibile fardello dei ricordi. In quel momento ebbe la certezza che il dolore straziante che gli stava comunicando con lo sguardo non riguardava solo lo stato fisico, ma soprattutto quello psicologico. Come poteva aiutarlo a uscire fuori dall’inferno in cui era prigioniero? Non ne aveva idea e lo scoprirsi impotente lo turbò: lui, uomo di scienza, abituato alla ricerca di una conoscenza basata su una realtà empirica, si sentiva così a disagio di fronte al mistero della mente umana. Cosa gli stava passando nella testa in quel momento? Quali parole sarebbero state le più efficaci per alleviare le sue pene? Fino a quando Ryo non avesse riacquistato la parola non avrebbe avuto risposta alle sue domande, era l’unica cosa di cui poteva essere certo. Chiuse per un attimo gli occhi ed inspirò profondamente; la verità, solo la verità era il mezzo per salvarlo, per quanto potesse essere dolorosa. Riaprì gli occhi e tornò a guardare calmo quegli occhi così disperati.

«Sono tanti anni che ci conosciamo, vero Ryo? La prima volta che ti ho visto eri alto quanto un soldo di cacio» disse non potendo fare a meno di sorridere al ricordo di quel bambino così sveglio e vivace, un vero raggio di sole in quell’oblio; un’anima troppo pura e che troppo presto aveva perso la sua innocenza e il suo candore.
«Percepisco il tuo dolore, capisco che stai soffrendo molto perché hai ricordi confusi e stai cercando con tutte le forze di capire cosa è successo davvero. Vuoi sapere cosa è successo, colmare quei vuoti di memoria terribili, vero? Se tu lo vuoi ti dirò tutto, anche se non sarà un racconto piacevole»

Un verso baritonale fu l’unica risposta che ricevette, ma tanto gli bastò per iniziare a parlare: gli raccontò di quella mattina, di come i suoi sospetti si erano concretizzati tragicamente appena aveva udito gli spari, di come lo aveva ritrovato. Gli disse tutto, omettendo solo i dettagli più cruenti – sapeva di ferirlo abbastanza senza dover essere troppo specifico – e, abbassando lo guardando, concluse:

«La situazione è seria Ryo. Per fortuna sei molto forte, hai fisico eccezionalmente robusto e in salute, ma l’effetto della droga non si è ancora esaurito. Nei prossimi giorni farò degli accertamenti per appurare se il sistema nervoso è stato più o meno compromesso… Devi essere forte ragazzo mio, ti aspetta un percorso in salita ma io ti sarò vicino; ricorda che non sarai solo, potrai sempre contare su di me. Sempre»

Si rialzò, le braccia leggermente intorpidite per essere rimaste a lungo tempo in quella posizione statica e, quando posò nuovamente lo sguardo sul giovane, sentì il cuore stringersi ulteriormente; lo vide mortalmente serio, con gli occhi ben aperti ostinatamente fissi verso il soffitto, quasi volesse provare a cacciar via le lacrime che gli rigavano silenziosamente le guance.

«Perdonami Ryo… Forse non avrei dovu-» ma si interruppe di colpo alla vista di quel volto che da serio diventò in un attimo una maschera di dolore, con il corpo che iniziò a muoversi convulsamente.

«Cristo, un altro attacco»  disse a denti stretti, mentre si metteva subito all’opera.

Sarebbero stati giorni difficili, settimane e forse anche mesi. Quanto sarebbe durata? Non poteva fare a meno di chiederselo quando assisteva a quelle scene. Sarebbe finita. Doveva finire.
 
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«Prof» chiamò Ryo con un filo di voce.

«Dimmi ragazzo» rispose mentre lo rivestiva dopo aver concluso le abluzioni mattutine.

«Sono così stanco Prof… Mi sembra di essere vicino alla morte»

L’uomo si sentì gelare all’istante, paralizzandosi sul posto.

«Mi sento ogni giorno più stanco… Non so se avrò la forza di continuare» disse in uno sbuffo.

Kenji guardò con dolore quel ragazzo che da più di un mese era bloccato in quel letto, sopportando una quotidianità insopportabile per chiunque. La disintossicazione procedeva a rilento e, sebbene la fase acuta era ormai alle spalle, gli episodi di astinenza continuavano a verificarsi con una certa brutalità. Non ebbe cuore di biasimarlo per quelle parole – la prova che stava affrontando avrebbe fiaccato anche l’uomo più stoico, figurarsi un ragazzo giovane come lui. Sospirò lievemente ma quando posò lo sguardo su quegli occhi così disperati e carichi di incertezza avvertì un brivido: quelle parole e quegli occhi lui li aveva già conosciuti, molti anni prima, e la mente lo scaraventò immediatamente nell’anticamera dell’inferno.

Il campo di Bergen-Belsen era stato liberato da appena una settimana quando lui vi arrivò con le retrovie dell’esercito. Aveva ricevuto un resoconto dettagliato di ciò che era stato ritrovato all’interno dei vari lager, tuttavia le parole non erano state sufficienti a preparalo a quello spettacolo. Fu letteralmente schiacciato dall’orrore e dal pesante sentore di morte che si percepiva in modo palpabile in ogni atomo circostante; tutto ciò lo annichilì in un modo che non avrebbe mai pensato possibile. Era il prezzo da pagare per essere sul fronte e d’altro canto lo aveva voluto lui, quando dopo l’ennesima lite aveva lasciato gli uffici della SIS8 per continuare il suo lavoro direttamente sul campo. Lì si sentiva finalmente utile, lontano dai doppiogiochisti che si annidavano all’interno del quartier generale e, inoltre, aveva la possibilità di mettere in pratica la sua seconda laurea, quella in medicina. Si diresse velocemente verso le ampie baracche che erano state allestite in tempo record come ambulatori improvvisati, in cui si cercava di prestare soccorso ai pochi sventurati che erano scampati agli stenti e alla tremenda epidemia di tifo. Scheletri viventi che un tempo erano state persone come lui, nel fiore degli anni e delle loro forze, lo fissarono intensamente al suo ingresso, facendolo sentire a disagio; gli sembrava che quegli occhi grevi fossero carichi di tutto il dolore del mondo, chiedendogli risposte che era impossibile fornire.
«Chi è lei?» l’ufficiale medico gli si avvicinò veloce.
«Capitano Ken Date signore»
«Ah sì, la stavo aspettando capitano. Venga, le faccio strada»
Si era messo subito all’opera, gli ex prigionieri era tanti – certo, in confronto ai morti erano sempre un numero irrisorio – e tutti disperatamente bisognosi di cure. Nessuno sembrava badare a lui, a quel curioso ufficiale britannico dai lineamenti così esotici, sembravano tutti così spenti, ognuno chiuso nel proprio dolore; solo un paio d’occhi, però, aveva lasciato trasparire una flebile scintilla di curiosità e tanto bastò per catturare la sua attenzione. Era un ragazzo, forse neanche ventenne, così piccolo ed esile da fare spavento. Gli occhi azzurri, grandi e infossati erano colmi di una tale sofferta rassegnazione che lo colpirono con la stessa forza di due proiettili. Gli si avvicinò e prese la cartella clinica che era appesa al bordo della testiera: “soggetto con forma di tisi avanzata” era l’impietosa diagnosi. Una condanna a morte per una persona così denutrita, e non poté evitare di provare una profonda pietà per quella giovane vita che non avrebbe mai avuto la possibilità di scoprire quanto il mondo poteva ancora offrirle. Gli appoggiò lievemente la mano sulla fronte per controllare la temperatura.
«Hai sete?» gli chiese, notando il bicchiere ricolmo d’acqua su un semplice banchetto che fungeva da comodino.
Il ragazzo lo guardò confuso.
«Bist du durstig?9»
Un lieve cenno del capo fu la semplice risposta a quelle parole dette in una lingua più familiare.
Kenji gli avvicinò prontamente, aiutandolo a bere a piccoli sorsi.
«D- Danke… Herr Doktor» disse in un sussurro.
L’uomo gli si sedette accanto, sorridendogli debolmente.
«Herr Doktor… Ich sterbe, oder?»
Si sentì la gola secca, incapace di deglutire o articolare qualsiasi suono. Cosa doveva fare? Mentire sulle sue reali condizioni? Quel ragazzo non meritava di essere ingannato, perciò preferì non parlare, limitandosi a stringergli la mano. Lui sembrò capirlo.
«Achso… Ich sterbe… aber…» e piegando le labbra in un leggerissimo sorriso aggiunse in un sussurro «Ich … möchte leben»
Il giovane gli strinse lievemente la mano, fissandolo con due occhi così intensi che si sentì tremare nel profondo: paura, rassegnazione, tristezza e disperazione. C’erano così tante emozioni all’interno di quello sguardo che si impresse nella sua memoria con una tale forza da non lasciarlo più.

«Prof?»

La voce di Ryo lo sorprese, riportandolo alla realtà; non era da lui perdere così clamorosamente la cognizione spazio-temporale, ma il suo giovane paziente senza volerlo aveva riaperto una ferita dolorosa e mai del tutto rimarginata. Ripresosi completamente si avvicinò al letto e si sedette sul bordo di quel materasso così scomodo. Il suo caro ragazzo lo guardava con un’aria leggermente interrogativa, ma per quanto si sforzasse di nasconderlo riusciva a vedere quanto fosse triste e sfiduciato.
“Ryo, quanto stai soffrendo? Quanto dolore stai nascondendo?” Poteva solo lontanamente immaginarlo, d'altronde il ragazzo era sempre stato schivo in quel senso, non lasciando mai trapelare completamente le sue emozioni. Proprio come ci si aspettava da un bravo soldato.

«Tornerò come prima?» chiese serio.

Ancora una volta gli veniva posta una domanda scomoda, accompagnata da due occhi carichi di dolorosa incertezza, ma non ebbe esitazioni; oramai non era più il giovane uomo che faceva dell’intrigo e doppio gioco il suo pane quotidiano ma un uomo di mezza età che, disilluso dalla vita, cercava di scoprire la verità in ogni ambito. Era stato onesto con Ryo i primi giorni e lo sarebbe stato anche in quel momento.

«Non lo so con certezza ragazzo mio. Tu sei la prima persona in assoluto ad aver avuto a che fare con questa droga, si può dire che la sto studiando grazie a te» rispose, mantenendosi il più tranquillo possibile.

Non poteva certo esternagli tutti i dubbi e le angosce che erano diventate sue compagne quotidiane da settimane, che lo coglievano nei momenti stanchezza quando, distrutto, rientrava nella sua stanza per cercare di riposare. No, era suo dovere mostrarsi sempre calmo e imperturbabile davanti a quel ragazzo che stava lottando strenuamente la sua battaglia più difficile, che era stato reso a sua insaputa carne da macello. Tradito proprio dall’uomo in cui aveva riposto una cieca fiducia.

«Ricorda, però, che sei molto forte Baby Face» aggiunse «E ritengo che se continui così tra un paio di mesi sarai in grado di muoverti e non stare sempre su questo letto. Credo in te, e anche tu dovresti avere fiducia nelle tue capacità; so che è difficile ma non lasciarti scoraggiare, non ora»

Ryo sospirò profondamente e girò la testa lateralmente per nascondergli il viso.

«Certi giorni ho la sensazione di impazzire… Il dolore è così forte che mi sembra di andare a pezzi, come se qualcuno mi staccasse ogni singolo muscolo a morsi… Inizio a sentirmi così sfinito Prof» e dopo una leggera esitazione aggiunse «Temo l’arrivo della prossima crisi… Mi chiedo se riuscirò a sopravvivere ancora a lungo così»

«Sì, certo che ce la farai Ryo» rispose fermo «Tu vivrai. Sì, tu vivrai perché…» e, dopo aver riflettuto un attimo, aggiunse «Quando ti sembra di non farcela e senti che stai per cedere pensa a un obiettivo, un desiderio… Insomma focalizza la tua attenzione su ciò che vorresti assolutamente realizzare. Pensaci adesso, ti viene in mente qualcosa?»

Il giovane guerrigliero tornò a guardarlo, ma con uno sguardo fin troppo duro, stringendo gli occhi in due fessure.  

«Sì… C’è una cosa che vorrei fare assolutamente prima di morire» rispose asciutto.

«Bene, allora questa motivazione ti darà la forza di sopportare i momenti più bui. Tu vivrai Ryo, ce la farai ne sono certo. Abbi fiducia in me»

Nonostante i dubbi e le incognite, Kenji si sentì risoluto come non mai. Lo avrebbe salvato per riscattarsi da tutte le vite che non era riuscito a strappare via dal prematuro appuntamento con la morte. Lo avrebbe fatto per la sua famiglia. Lo avrebbe fatto per Johann, che desiderava ricominciare ma era spirato in un freddo capannone poco fuori un campo di concentramento. E lo avrebbe fatto anche per se stesso.
 
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«Ce l’ho fatta Professore!» esclamò Ryo dopo essere riuscito a percorrere, con passo malfermo, l’angusto corridoio del primo piano.

«Bravissimo ragazzo, me lo sentivo che oggi era la giornata buona» disse soddisfatto l’uomo.

Aveva osservato attentamente le scena mantenendosi non troppo distante, pronto a sostenerlo nel caso avesse perso l’equilibrio.

«Ora riposati un attimo e poi ritorna qui»

«No, ho riposato anche troppo» e così dicendo iniziò a camminare lentamente, usando l’asta portaflebo come un debole supporto.

Kenji si sentì felice nel vedere deambulare quel ragazzone dopo più di quattro mesi passati quasi esclusivamente a letto; finalmente iniziava a vedere la luce in fondo a quel tunnel nero pece. Attraverso le piccole lenti si prese qualche istante per osservarlo con più attenzione mentre era concentratissimo nello sforzo di mettere un piede davanti all’altro; quegli occhi, quella fronte così corrucciata erano gli stessi di quando, ancora molto piccolo, si impegnava duramente durante gli addestramenti estenuanti. Ryo si era dimostrato fin da subito un bambino atipico: sempre concentrato, mai un lamento, mai una lacrima. La sua forza interiore, unita a un fisico incredibilmente prestante e imponente, tendevano a far dimenticare che in realtà quel guerrigliero era ancora poco più che un adolescente, che dietro quella facciata granitica celava un mondo interiore pieno di insicurezze. Ai suoi occhi ben allenati, però, non era mai sfuggito tutto ciò, allo stesso modo in cui non gli stava sfuggendo la strana luce che da qualche tempo animava lo sguardo del giovane; avvertiva che il ragazzo stava rimuginando su qualcosa, che l’entusiasmo dell’ultimo periodo era un riflesso di quell’attività mentale che gli stava celando. Una parte di lui avrebbe voluto chiedergli cosa lo impensieriva ma, schivo com’era, sapeva che delle domande esplicite sarebbero state il modo migliore per farlo chiudere a riccio; decise di pazientare, certo che il momento propizio sarebbe giunto in seguito. Mentre era perso nelle sue riflessioni Ryo lo raggiunse, e si appoggiò pesantemente contro il muro.

«Non pensavo che reimparare a camminare sarebbe stato difficile quanto maneggiare una pistola»

Kenji gli diede un’affettuosa pacca sulle spalle. Era orgoglioso dei suoi progressi, della sua incrollabile tenacia, di come non si fosse pianto addosso anche nei momenti peggiori; mai come in quei mesi gli era sembrato di provare un sincero affetto per Ryo, viscerale e profondo. Non avrebbe più permesso che qualcuno si approfittasse ancora del suo buon cuore.

«Ora torna a letto Baby Face, non giocare a fare il supereroe. Ti sei stancato fin troppo»

«Va bene Professore, ma quella robaccia non intendo mettermela più» disse disgustato, indicando il pigiama ripiegato sul letto.

«Intendi dormire con la mimetica adesso?»

«Beh sì» bofonchiò mentre si avvicinava al lettino «Alla fine la porto da sempre, mi sento più a mio agio quando ce l’ho addosso… Quel pigiama mi dà un senso di debolezza»

L’uomo si diede dello stupido: certo, cosa poteva aspettarsi da un ragazzo che fin dalla tenera età si era ritrovato sul campo di battaglia a giocare a nascondino con i nemici, a fare la conta delle mine, a utilizzare la pistola come unico giocattolo?
“Cosa posso fare per te Ryo? Vorrei tanto aiutarti a fuggire via di qui”.
Da mesi, da quando lo assisteva senza sosta, quel pensiero si presentava ormai insistentemente; Ryo aveva combattuto una guerra che non era la sua e non per sua scelta, vi si era trovato per caso e per sopravvivere era stato costretto ad adattarsi alle circostanze. Ultimamente, però, il pensare che il ragazzo conosceva solo quella realtà fatta di morte e violenza, ignorando il mondo che si apriva oltre il confine di quelle aguzze montagne verdeggianti, lo faceva soffrire profondamente. Avrebbe voluto farlo scappare da quell’inferno senza fine, magari inserendolo in quell’ambiente ai margini della legalità che da anni rappresentava il suo mondo; non sarebbe stato impossibile, doveva solo essere attento a non destare sospetti e far passare il tutto per una serie di coincidenze, quel testone difficilmente accettava favori da chiunque.

«Prof» disse Ryo.

Si era appena sdraiato sul letto, il braccio libero dalla flebo ripiegato dietro la nuca.

«Quando potrò tornare a combattere?»

Kenji si ritrovò spiazzato.

«Cosa intendi ragazzo?»

«Quando potrò tornare a usare la pistola?» chiese calmo, una piccola luce sinistra rischiarava i suoi occhi scuri.

«Presto, molto presto» rispose, non potendo evitare di sentirsi turbato. No, quegli occhi non gli piacevano neanche po’: il ragazzo stava macchinando qualcosa.

«Bene, bene» emise in soffio e, chiudendo leggermente le palpebre, sorrise debolmente.

“Chissà che gli passa per la testa, è sempre più difficile capire cosa prova davvero… È diventato davvero bravissimo nel rendersi indecifrabile” pensò con una punta di amarezza, ma proprio in quel momento un forte rumore attirò la sua attenzione, facendolo avvicinare alla piccola finestrella. Una Jeep Willys del ’67, dalla linea squadrata e color verde militare, si fermò proprio sotto di loro; conosceva perfettamente quel veicolo e, naturalmente, anche l’autista.

«Abbiamo viste Ryo!» esclamò mentre si dirigeva verso le scale.

«Chi è? Ancora José con le sue immancabili ceste di uova? Per colpa sua ne sto mangiando così tante che ho iniziato a cagarle ogni mattina» disse ironico, restando con gli occhi chiusi.

Il Professore non poté fare a meno di sorridere apertamente; gli piaceva molto quel lato del suo carattere, sempre pronto a scherzare anche nei momenti più impensabili, sotto quell’aspetto erano molto simili.

«Ah, è una sorpresa» disse, lanciandogli uno sguardo sibillino prima di scendere.

Giunto al piano sottostante sentì bussare alla porta con tre colpi secchi e veloce aprì la porta.

«Buongiorno Professore, è bello rivederla»

«Frank, fa piacere anche a me rivedere il tuo brutto grugno, sebbene preferirei che ogni tanto qualche bella ragazza passasse di qui»

«Ah, vedo che siamo di buon umore oggi!» esclamò l’americano sorridendo, mentre entrava nella piccola stanza che fungeva da cucina e sala da pranzo.

«Perché nasconderlo? Sì, sono proprio di buon umore» e alzando la testa in direzione delle scale aggiunse «Ha fatto progressi eccezionali e in così poco tempo… Ha davvero una fibra robusta il ragazzo»

«Allora potrò salutarlo questa volta?»

«Certo, non può che fargli bene vedere qualche faccia amica»

Kenji lo precedette su per le scale e affacciandosi alla porta della stanza esclamò «Vedi chi c’è Baby Face!» e con la mano fece cenno al guerrigliero di entrare.

Il volto di Ryo si aprì in un largo sorriso – non curandosi di nascondere la gioia che traspariva dai suoi lineamenti – appena guardò quell’uomo, a sua volta evidentemente emozionato per vederlo finalmente sveglio e vigile.

«Frank!» esclamò raggiante mentre si metteva a sedere sul letto.

«Ah Ryo, che bello vederti my boy» disse l’americano con tono affettuoso, arruffandogli i capelli che in quei mesi si erano allungati, arrivando a lambire le spalle «Mi sei mancato ragazzo» aggiunse a mezza voce.

Kenji decise di lasciarli un po’ soli, così ridiscese al piano terra e, una volta raggiunto il piccolo tavolo che si trovava accanto la porta d’ingresso, si lasciò cadere con un sospiro sulla dura panca di legno. Si sentiva sfinito sia mentalmente che fisicamente, in quei mesi si era imposto un ritmo di lavoro assurdo, incapace di rallentare; una parte di lui continuava a crogiolarsi nei sensi di colpa, non riuscendo a perdonare la sua dannata superficialità che aveva causato tutta quella sofferenza. Ogni sera quella consapevolezza lo aspettava come un guardiano impietoso, impedendogli di dormire più di tre ore filate; il suo orgoglio di studioso era stato scalfito pesantemente. Lui che si era sempre pensato più intelligente e scaltro di tutti era stato tradito dalla sua stessa superbia e quella ferita, per quanto l’avesse cacciata nelle profondità del suo animo, bruciava ancora.
Lui, diffidente per natura e necessità, si era fidato in poco tempo di Shin, sorprendendosi a sua volta per il suo comportamento anomalo, ma aveva avvertito fin da subito una certa affinità con quel giovane uomo, anche lui di origine giapponese ma statunitense di nascita. Si era unito al suo commando di guerriglieri insieme a Frank, suo amico e commilitone, pochi mesi dopo il loro arrivo in Guatemala poiché, entrambi simpatizzanti per la causa comunista del Paese, avevano deciso di lasciare i Marines per unirsi alla lotta dei civili. Presto aveva scoperto che non solo era un soldato dalle abilità eccezionali e dalla mira prodigiosa, ma era anche molto curioso e brillante, desideroso di imparare e, nei momenti di quiete, non si stancava mai di bombardarlo di domande sulla chimica e biologia. Kenji aveva sempre provato una certa ritrosia nel condividere le sue conoscenze, ma si era arreso facilmente a quel giovane dagli occhi buoni e così lo aveva iniziato anche alla medicina, rendendolo col tempo quasi un suo assistente. In lui sembravano convivere due persone: il marines letale e l’uomo altruista, che si alternavano in un equilibrio prodigioso. Ricordava ancora lo sconcerto che si era creato nel gruppo quando, dopo un giro di perlustrazione, Shin era tornato con un bambino in braccio; per giorni tutti gli diedero del pazzo ma lui non aveva voluto sentir ragioni e si era battuto strenuamente affinché il piccolo Ryo restasse con loro e non venisse portato al villaggio più vicino.
«Veder crescere una giovane vita mi dà la forza di tollerare la morte che ci circonda» gli aveva detto quando anche lui aveva esposto le sue riserve, ma a quelle parole Kenji non era stato in grado di controbattere; non era ciò che aveva fatto anche lui durante la guerra, quando aveva lasciato Londra per operare come medico militare al fronte? Capiva bene quanto, in un contesto di morte, il riuscire a salvare anche una sola vita aiutava a non perdersi, a restare umani. Lui ci aveva provato, ma per quanti soldati avesse curato non era riuscito a ritrovare l’ottimismo che lo aveva contraddistinto da ragazzo; aveva rischiato di perdere la sua umanità la mattina del 6 agosto 1945, quando una bomba aveva disintegrato la sua città natale e la sua famiglia, che era rientrata in patria solo l’anno precedente. Lui, l’unico discendente di una famiglia dalle origini prestigiose10, figlio di un console stimato in Inghilterra, si era ritrovato solo, torturato dal dubbio di aver contribuito con il suo lavoro di decriptazione alla morte della sua famiglia. Per cercare di sopravvivere aveva deciso che l’unica soluzione possibile fosse quella di sparire, inscenando la sua morte; ufficialmente Kenji Date risultava disperso in Germania, mentre ufficiosamente era nato il Professore, un uomo dalle molte capacità e identità, che clandestinamente era fuggito in America con la speranza di ricominciare una nuova vita.
Sospirò pesantemente. Durante la sua fuga nel Nuovo Continente non aveva preventivato che avrebbe passato più di quindici anni in un Paese martoriato da una brutale guerra civile, non era stata certo quella la sua idea di nuovo inizio, ma sapeva anche che quello in realtà era l’unico posto in cui fosse davvero necessaria la sua presenza. Sicuramente se non avesse conosciuto Guzmán mentre viveva a Cuba non avrebbe mai preso parte a quella guerra; l’ex presidente era un uomo colto e integerrimo che subito lo aveva preso in simpatia, raccontandogli la sua storia e di come era stato costretto all’esilio da un golpe vergognoso, fomentato da interessi politici spregevoli. Lui ne era rimasto talmente colpito che non aveva avuto esitazione a offrirsi volontario per partire assieme a un manipolo di guerriglieri, raggiungendo nottetempo il Guatemala. Con il tempo molti uomini si erano aggiunti al commando, tra cui Shin e Frank che – oltre lui – erano gli unici stranieri del gruppo; uomini diversissimi tra loro uniti da uno stesso obiettivo e ideale.
“Shin… Come hai potuto cedere in questo modo?” si chiese con amarezza. Non poteva far a meno di incupirsi ripensando alla trasformazione dell’uomo che aveva ritenuto tra i migliori che avesse mai conosciuto in vita sua. Lo stesso uomo che aveva avuto il coraggio di badare a un bambino in mezzo alla guerra, che aveva combattuto strenuamente affinché ci potesse essere una tregua, poteva essere lo stesso che voleva creare un esercito perfetto formato da uomini bestiali portatori di morte? Che ne era stato del suo animo? Perché non era stato in grado di far nulla per lui?  Il rumore pesante degli anfibi sulle scale di legno lo risvegliò dal turbinio di pensieri che lo aveva travolto in modo inaspettato.

«Ha fatto un lavoro miracoloso Professore, a distanza di un paio di mesi Ryo è davvero rinato, sembra quasi quello di prima» disse il guerrigliero in tono affabile, sedendosi accanto a lui.

«Ah, è tutto merito del ragazzo; ha tempra ma soprattutto voglia di vivere. Avrei potuto fare molto poco in caso contrario» e, dopo essersi lisciato distrattamente i baffi, aggiunse leggermente sovrappensiero «Perché hai detto quasi Frank?»

«La mia è solo una sensazione…»

«Hai idea di cosa abbia passato il ragazzo? Un’esperienza del genere segnerebbe chiunque, è inevitabile»

«Ma non intendevo questo Prof» e avvicinandosi verso di lui proseguì sottovoce «Ha cercato in tutti i modi di portare il discorso su Kaibara; non l’ha detto esplicitamente ma è convinto che io sappia dove si trovi e ha cercato in tutti i modi di farmi cedere. A momenti sembrava un interrogatorio in piena regola»

Kenji serrò le labbra ma non disse niente; che quella curiosità fosse collegata alla strana attitudine che aveva riscontrato poco prima? Che Ryo fosse risentito era comprensibile, non poteva certo condannarlo per odiare l’uomo che l’aveva quasi ucciso e, sebbene fosse sempre riuscito a evitare quell’argomento, sapeva che alla fine il momento sarebbe giunto.

«Mmmh, temevo l’avrebbe fatto prima o poi… Spero non ti sia lasciato scappar nulla»

«Per chi mi ha preso? Certo che sono stato muto come una tomba… So bene come Ryo sia impulsivo e non voglio pensare a cosa farebbe se lo sapesse così vicino»

Kenji annuì lievemente. No, sarebbe stato un errore sovreccitarlo in quel frangente, considerando che il percorso riabilitativo non si era ancora concluso; ci sarebbero voluti almeno un altro paio di mesi per assistere a una completa ripresa sia fisica che psicologica.

«Si trova sempre sulle montagne vicino Chinautla vero?» chiese in un sussurro.

«Sì, ma stando alle ultime notizie giunte al campo, il suo gruppo sta aumentando considerevolmente ed è preoccupante» e grattandosi le guance ricoperte da una corta barba ispida proseguì «A quanto pare ha testato nuovamente la droga su alcuni disperati e ciò invece di creare sconcerto – come è stato per noi, che lo abbiamo cacciato via senza condizioni – ha generato un’autentica ammirazione nella testa di quei fanatici. Paco ha avuto una soffiata proprio stamattina… Quel pazzo sta pianificando un attacco in grande, forse proprio qui in città»

«Mi auguro di no davvero! Pensa a cosa succederebbe se solo un paio di uomini in quelle condizioni si ritrovassero in mezzo alla folla di manifestanti… Non lo capisce che così peggiorerà solo le cose? La popolazione è già allo stremo… No, così l’esercitò inasprirà gli atti di repressione e sarà davvero la fine per noi»

I due uomini rimasero per qualche minuto in silenzio, ognuno oppresso a suo modo dallo stesso fardello fatto di angosce e frustrazioni che sembrava non voler avere una fine. Kenji parlò per primo, rompendo il silenzio.

«Dimmi Frank, non ti piacerebbe tornare a casa?»

«Come?!» il guerrigliero lo guardò stupito «Che idea è questa?»

«Bisogna essere realisti e tenersi pronti per qualsiasi evenienza. Allo stato attuale la situazione si sta facendo sempre più critica: i commando di guerriglieri nel Paese si sono più che dimezzati e ci manca solo che Kaibara mostri al mondo il suo esercito di morti viventi. Dobbiamo prendere in considerazione un’eventuale sconfitta e conseguente ritirata»

«Ma io non voglio scappare via come un codardo! Ormai questa è la mia guerra e ho già fatto la mia scelta molti anni fa: ho messo in conto di morire in battaglia, non ho certo paura di andare all’inferno»

«Sì, ma penso sia ancora presto per abbrustolirsi tra le fiamme eterne» e guardandolo seriamente aggiunse «Non pensi più a tua figlia?»

Sapeva di aver toccato un tasto dolente, era palesemente un colpo basso ma, cocciuto com’era, doveva essere scosso per farlo ragionare. Lo vide sbiancare leggermente, gli occhi verdi ben aperti, e capì di aver fatto centro.

«Certo che ci penso» rispose amaramente mentre abbassava il capo «Non c’è giorno in cui non pensi a lei»

«Allora vedi che hai un buon motivo per non morire proprio adesso? Non vorresti passare del tempo con lei? Non vorresti aiutare Ryo?»

«Cosa intende Prof?» domandò rialzando di scatto il volto.

«Tu sei molto affezionato al ragazzo e anche lui ti vuole bene» disse sorridendo lievemente «Potrebbe avere una vita quasi normale grazie a te, provare cosa voglia dire vivere in una vera casa, in una vera città. Hai ancora molte cose da insegnarli…»

«Ma come? Non intende portare con sé Ryo? Pensavo che dopo tutti questi mesi lo avesse preso sotto la sua custodia»

«No, non me lo potrei permettere» disse toccandosi distrattamente i baffi «Non potrei mai vivere con un’altra persona, specialmente una così giovane; devo continuare a mantenermi invisibile se voglio vivere e non soccombere nel mio mondo»

Lanciò un’occhiata al suo interlocutore e, vendendolo palesemente basito, non poté fare a meno di lasciarsi andare a una fragorosa risata. Da quanto non lo faceva? Si rese conto che era davvero moltissimo tempo.

«Andiamo Frank, non ti facevo mica così ingenuo! Pensavi davvero che le informazioni che ho ricevuto in tutti questi anni – e che continuo ad avere – mi arrivassero per pura cortesia?»

«No, certo che no» rispose lievemente piccato «Ma…»

«La verità è che c’è moltissima gente che vorrebbe la mia testa, in primis i miei cari ex colleghi del MI6 che – ne sono certo – sono ancora convinti che io sia vivo e vegeto. Con il lavoro che faccio e per i rischi che corro anni fa ho rinunciato ad avere un’identità per poter essere libero di continuare a inserirmi, e allo stesso tempo imbastire, la mia fitta rete di infiltrazioni e intercettazioni per mezzo mondo. Non posso rischiare di mettere in pericolo Ryo; qui è un conto, ma in un contesto meno isolato sarebbe impossibile mantenere un profilo basso. E poi sto ricevendo già da tempo forti minacce dagli Stati Uniti, ragion per cui credo proprio che mi sistemerò molto, molto lontano»

«Ma lo stesso discorso vale per me! Non dimentichi che sono un disertore, ho combattuto contro il mio stesso Paese… Se tornassi negli Stati Uniti sarei considerato il più schifoso dei traditori, rischio molto anch’io e Ryo con me!»

«Non hai nulla da temere. Vi procurerò nuovi documenti e ti metterò in contattato con alcuni miei uomini fidati che operano nel settore. Se non ricordo male non eri certo uno stinco di santo prima di arruolarti, e spero tu non ti sia dimenticato come si vive in quell’ambiente…»

«Vorrebbe dire tornare nel giro della malavita?»

«Non direi proprio così. Tu e Ryo entrerete nel circuito degli sweepers, penso che tu li abbia già sentiti nominare, e credo proprio che vi affermerete senza problemi, pochi uomini possiedono le vostre abilità. In questo il Guatemala si è mostrata un’ottima palestra»

Il guerrigliero fu sul punto di aggiungere qualcosa quando sentirono il rumore di accensione della Jeep seguito da una violenta sgommata.

«Cazzo, mi hanno fregato il fuoristrada!» urlò mentre sfoderava la pistola, precipitandosi fuori come una furia.

Kenji lo seguì a ruota, giusto in tempo per vedere la Jeep sparire dietro una nube di polvere; il ladro doveva essere un tipo in gamba in quanto non solo aveva lanciato il veicolo a una velocità paurosa ma procedeva anche zigzagando; in questo modo sarebbe stato quasi impossibile mirare con precisione per fermare il mezzo senza mettere in pericolo i passanti. Frank tentò comunque, ma il colpo non andò a segno ed espresse la frustrazione con una serie di imprecazioni senza fine. Per quanto fosse un ottimo combattente, l’ex marine eccelleva più nelle imboscate che nei tiri di precisione; per quelli Shin e Ryo erano senza ombra di dubbio i migliori cecchini che avesse mai visto in vita sua. In quell’istante un pensiero gli attraversò la mente come un proiettile.
“Ryo… Può essere…?” Rientrò e salì volando la piccola rampa di scale, ma quando spalancò la porta della stanza si sentì morire. Il letto era vuoto, totalmente disfatto, alcune gocce di sangue sul pavimento di legno testimoniavano come il ragazzo si fosse strappato via le flebo in fretta e le lenzuola, strettamente annodate, pendevano fuori dalla finestrella. Era scappato. Il sudore freddo iniziò a imperlargli la fronte.
“È scappato… Non è possibile, nella condizione in cui si trova si ammazzerà di sicuro!”
Aveva paura per la sua incolumità, anche perché non doveva compiere un grande sforzo di immaginazione per intuire che Ryo era riuscito a origliare la conversazione che aveva avuto poco prima con Frank. Sempre così impulsivo, poteva immaginarlo perfettamente mentre li ascoltava fremente di rabbia e, accecato dall’odio, metteva in atto quella fuga rocambolesca; ma la rabbia era una cattiva consigliera e l’odio il peggior compagno d’arme, era questa la verità che aveva imparato a sue spese e che si ripromise di insegnare al ragazzo, se si fosse salvato. Quell’ultimo pensiero lo gettò nell’angoscia più nera. Ryo non si era ancora del tutto ripreso e se avesse affrontato Kaibara ne sarebbe uscito sconfitto e, nella peggiore delle ipotesi, ci avrebbe rimesso la pelle. No, lui non l’avrebbe permesso; si era impegnato anima e corpo per salvarlo e non si sarebbe mai perdonato un simile epilogo. Come una furia entrò nella sua camera, accese la ricetrasmittente con mani leggermente tremanti e, dopo averla sintonizzata alla giusta frequenza, parlò al microfono nervosamente.

«Hola José»

Dopo qualche secondo che parve un’eternità ebbe risposta.

«Hola Prof, que pasa?»

«Vieni immediatamente con la macchina, corri non c’è un minuto da perdere!»

Spense tutto velocemente e mentre preparava la sua borsa per un eventuale pronto soccorso sentì i passi di Frank raggiungerlo.

«Ci ha sentiti vero? È corso da Shin?» chiese tetro.

«Sì, credo proprio di sì» e ultimando l’operazione aggiunse «La macchina arriverà a momenti, dovremmo riuscire a fare in tempo per evitare l’irreparabile»

«Ma come ha fatto? Stavamo bisbigliando, lui era qua sopra… è umanamente impossibile!»

«Temo sia un effetto della droga. Già durante i primi giorni avevo notato come la capacità uditiva fosse stata alterata, avvertiva anche il più lieve suono in modo amplificato e ho dovuto muovermi con la massima attenzione per evitare di scuoterlo eccessivamente. Col passare dei mesi, però, quel disturbo era scomparso del tutto e non ci ho dato peso, ma evidentemente gli è rimasto come strascico un udito più sensibile della norma. Credo che Ryo per primo se ne sia reso conto ma che non me l’abbia detto, come molte cose che si tiene per se…» e sistemandosi la sacca a tracolla proseguì «Sicuramente avrà intuito che tu gli hai mentito e, non contento delle tue risposte, si sarà steso per terra per origliare e cercare di carpire informazioni dalla nostra conversazione e, per nostra sfortuna, ci è riuscito benissimo»

Il suono di un clacson segnalò l’arrivo del mezzo e i due uomini, ognuno con il cuore stretto in una morsa di angoscia, uscirono dal piccolo edificio – in cui lasciarono di guardia il fidato cubano –, salirono veloci sul veicolo e partirono a tutta velocità, percorrendo la stretta strada che si inerpicava tra le verdi montagne, augurandosi di impedire l’irreparabile.
 
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1 Kenji è formato dagli ideogrammi賢 “ken” (saggio, intelligente) e 二 “ji” (due), traducibile grossolanamente come “il secondo (figlio) saggio, sapiente”. Naturalmente il nome ha molti altri significati che dipendo dai differenti kanji che si possono utilizzare nella scrittura, ma tra tutte le combinazioni mi sembrava questa la più adatta al personaggio.

2 Il Guatemala è stato lo scenario di una delle più sanguinose guerre civili del ‘900, durata dal 1954 al 1996 in cui venne compiuto un genocidio in piena regola nei confronti della popolazione amerinda. Poiché nel manga viene semplicemente accennato a un Paese del centro America, l’ho ritenuto il luogo più verisimile in cui ambientare questa parte, precisamente nel dipartimento di BajaVerapaz, uno dei più martoriati.

3 Il governo militare si instaurò nel Paese a seguito del colpo di stato avvenuto nel 1954 ad opera di militari supportati dagli Stati Uniti, che avevano interessi economici nel bloccare la politica rivoluzionaria e di impronta comunista dell’allora presidente Jacobo Árbenz Guzmán. Questi aveva attuato una riforma agraria atta a ridistribuire i possedimenti dei grandi proprietari terrieri tra la popolazione più povera (principalmente quella indigena). Tale operazione non venne vista di buon occhio dalla United Fruit Company (UFC), compagnia statunitense che deteneva accordi e un controllo quasi totale sulle coltivazioni del Paese, che vide così minacciati i propri affari. Poiché i fratelli Dulles (uno direttore della CIA e l’altro Segretario di Stato) facevano parte del consiglio di amministrazione proprio della UFC, non sorprende come gli USA diedero il via libera all’operazione della CIA con l’ufficioso motivo di fermare “la minaccia rossa” in Guatemala.

4 Essendo una lettrice accanita di Dostoevskij non sono riuscita a trattenermi dall’inserire una sua citazione – questa particolarmente celeberrima –, parole del principe Miškin nel romanzo L’Idiota.

5 I berretti verdi sono le United States Army Special Forces, ovvero forze militari specializzate e addestrate alla guerra non convenzionale. Molto spesso si trovano a operare in contesti di guerriglia, formando anche truppe locali.

6 Il Pervitin è una droga appartenente al gruppo delle anfetamine, largamente prodotta e distribuita in Germania a partire dal 1938. In virtù dei suoi effetti (iperattività, percezione alterata, inibizione dell’appetito) dal 1939 al 1945 venne inserita nel rancio dell’esercito. Quasi tutti i soldati erano effettivamente drogati e dipendenti dal Pervitin, tanto che non furono rari i disordini causati da crisi di astinenza, soprattutto nell’ultimo periodo della guerra. Durante la campagna di Russia le cronache descrivono soldati che, sotto l’effetto della droga, marciavano giorno e notte senza avvertire la stanchezza e il gelo che portava al congelamento degli arti inferiori. Insomma, l’idea dell’esercito efficiente e imbattibile è sempre esistita e, purtroppo, anche parzialmente realizzata.

7 La fenciclidina nasce come anestetico ma a causa dei sui pesanti effetti collaterali venne abbandonata in medicina e utilizzata come droga. Sarebbe la vera Angel Dust – e se non sbaglio Hojo ha preso spunto proprio da questa per la storia. Non mi intendo di chimica, l’ho studiata solo un anno al liceo, ma ritengo verisimile che Kaibara abbia sintetizzato la droga partendo da altre sostanze facilmente reperibili e con un buon effetto stupefacente come l’etanolo (che colpisce sensibilmente il sistema nervoso centrale) e l’efedrina (utilizzata come farmaco nella medicina cinese, ma appartenendo alla famiglia delle anfetamine).

8 Il SIS sta per Secret International Sistem e tuttora è il servizio d’intelligence per lo spionaggio estero nel Regno Unito. Durante la II guerra mondiale lavorarono a stretto contatto le divisioni MI6 (dedita allo spionaggio estero, in cui ha lavorato il Professore) e MI5 (controspionaggio) impegnate in una vasta operazione di depistaggio e decriptazione delle comunicazioni militari tedesche, giapponesi e italiane.

9 «Hai sete?»/ «Grazie dottore»/ «Dottore sto morendo, vero?»/ «Allora… sto morendo ma..»/ «Vorrei vivere»

10 Il clan Date (Date-shi) ha origini molto antiche, risalenti al 1189 circa e comandò principalmente nel nord del Giappone, avendo Sendai come centro di potere fino al 1871, quando il sistema di potere feudale venne soppresso.
   
 
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