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Autore: kiliaduicaps    30/03/2021    0 recensioni
“Non glielo dì,” gli confida, “ma un periodo al Libanese lo sognavo spesso. (...)”
Il Dandi e tre conversazioni.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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(Everyday's my wedding day)



 

Il giorno in cui Angelina prende il cognome di Scrocchiazeppi è talmente radiosa da sembrare ancora più ragazzina di quanto già sia. Mario ha occasione di farle gli auguri solo dopo qualche ora, sfiorandole la guancia con la propria. “St'abito te sta pure meglio de come me ricordavo.”

Lei ride, arrossendo. “Tutto merito dello stilista.”

Sorride anche lui, facendole l'occhiolino e congratulandosi da solo. Quando il suo novello marito si avvicina gli getta un braccio intorno al collo e inizia a raccontare ad alta voce delle prime volte in cui gli raccontava di lei, impedendogli di divincolarsi nel momento in cui si oppone all'essere umiliato. Angelina ride, sempre meno timida, unendosi agli sfottò, e per un singolo attimo Mario si ritrova ad essere felice per loro.

I matrimoni gli sono sempre piaciuti, a prescindere dalla coppia.

“Patrì,” sbotta Scrocchia, richiamandola, “vienitelo a ripià, che già non lo sopporto più!”

Dall'altra parte della stanza, Patrizia si volta al suono del suo nome, cercandoli fra la folla. Lo guarda per un secondo, il suo Dandi, fredda e disgustata, gli occhi del colore dell'amarezza, prima di ricordarsi di dover fingere serenità, stringere il bicchiere di champagne che tiene fra le dita e mimare una smorfia ilare. Quando si rigira è con fretta e un'alzata di spalle, dandogli la schiena come si fa ad una presenza fastidiosa, le labbra stirate in un sorriso forzato che poggiano già sul bordo del flute.

“Un giorno io me la sposo, quella,” mormora, incapace di smettere di fissarla, il marinaio ipnotizzato dalla sirena. Nessuno dei due gli risponde, ma la fronte di Scrocchiazeppi si aggrotta in un'espressione pensierosa.

Il Dandi lo nota. Contrariamente a quanto si creda, si accorge di molte cose – o perlomeno molte più di Scrocchia, motivo per cui non ha bisogno del suo giudizio. Prima o poi se ne renderà conto anche lui, del resto, di come soprattutto per quelli come loro una relazione non si regga in piedi solo grazie all'amore e ai bei sentimenti, della facilità con cui si passi dalle parole dolci allo svegliarsi accanto ad una che odia te e la vita a cui l'hai costretta, solo che a quel punto sarà tardi, avranno avuto un figlio e non ci potrà nemmeno pensare, e siccome al Dandi non è mai piaciuto ricordare alle persone che glielo aveva detto perché cominciare a farlo ora?

E poi, per alcuni versi i matrimoni sono davvero occasioni felici.

Anche se avesse voluto dire qualcosa, comunque, non ne avrebbe avuto occasione, fra amici, parenti e colleghi desiderosi di scambiare quattro chiacchiere con gli sposini: presi dalle loro conversazioni, nemmeno si accorgono di quando Mario indietreggia, agita la mano e con una scusa si dilegua, alla ricerca del guardaroba. Scappare e nascondersi gli è sempre riuscito bene, perciò nemmeno quella volta fa eccezione, lasciandolo infilarsi la propria giacca e allontanarsi dalla festa senza nessun disturbo.

Qualche minuto dopo, ci pensa il Libanese a ritrovarlo. “Com'è, già stanco?”

Scuote la testa. “C'avevo bisogno de un po' d'aria.”

Pietro sbuffa una risata, gli occhi sulla sigaretta al mentolo fra le sue dita, ma non commenta. Hanno da poco finito di cenare e la notte è scesa densa intorno a loro, rendendolo una figura scura nonostante il lampione sopra le loro teste. Anche se nascosto dalla penombra, il Dandi sa bene che la sua faccia è la stessa che faceva anni fa mentre gli parlava della camicia rossa che era riuscito a rubare alle bancarelle di Porta Portese, dei giornaletti di moda che aveva trovato accanto al cassonetto della spazzatura, della straniera con cui aveva perso la verginità – come se parlassero due lingue diverse e nonostante gli sforzi non riuscisse a capire la sua.

Distoglie lo sguardo da lui, strizzando gli occhi e sospirando nonostante la stretta alla gola. Forse è già stanco davvero.

“Ho sentito l'altri. Er Terribile è morto cor cortello tuo ner core,” gli dice invece, facendogli l'occhiolino.

Libano alza le sopracciglia e spalanca gli occhi, perché Mario lo sa che nonostante le promesse, la festa e le distrazioni nell'attesa di una conferma definitiva la tensione non l'aveva ancora abbandonato. Fa un passo in avanti, sotto la bolla di luce, e la soddisfazione che gli piega le labbra lo fa sembrare ringiovanito di dieci anni, spogliandolo di quel rancore che ogni tanto inacidiva la sua espressione al pensiero dei tempi andati. “Daje,” mormora.

Mario ricambia il sorriso. La nemesi dell'ottavo Re di Roma è morta, l'ultimo ostacolo al suo potere, ma la leggerezza nella sua camminata mentre ritorna al ricevimento è quella del ragazzetto di una batteria qualunque della Magliana, perché è lui ad averlo mandato ad uccidere e solo ora può dormire sogni tranquilli all'idea di essersi vendicato dell'assassino della sua adolescenza. Il Dandi rimane a guardarlo per qualche secondo, immobile, prima di buttare il mozzicone di sigaretta a terra e seguirlo: quando gli si avvicina e si sente dire “Se passi pe casa mia me serve nfavore” annuisce di riflesso, distratto.

“Lo faccio pure subito, che me sto a dà,” gli risponde. Non aveva intenzione nemmeno di avvicinarcisi, al suo appartamento, ma non è quello che importa, perché anche se l'unica cosa che aveva intenzione di fare era di scappare da lì glielo deve. Come potrebbe rifiutarglielo? In che modo, di fronte al promemoria di non essere ancora riuscito ad espiare la sua colpa, il suo peccato originale – e in cuor suo sospetta che, come per Adamo ed Eva, non ci sia modo di rimediarvi.

Pietro lo ringrazia, sfiorandogli la spalla. Ancora una volta, mentirgli è più facile che dire la verità.

Attraversandola in macchina a quell'ora Roma dà l'illusione di essere abitabile, lontana dalla giungla urbana in cui si trasforma sotto al sole, sopita come una leonessa che si concede una dormita dopo la caccia. Per arrivare a destinazione ripercorre le strade battute per anni, perché il Libanese avrà pure la città nel palmo delle sue mani, ma non ha intenzione di lasciare il suo quartiere. Quando parcheggia e apre la portiera un ragazzino si ferma a guardarlo, mezzo nascosto dietro una staccionata, scappando a gambe levate dopo qualche secondo, e non è così strano il pensiero che fino a non molto tempo fa c'era lui al suo posto? A lui, d'un tratto, sembra un'assurdità venir visto con rispetto da quelli con cui prima condivideva i soldi dei furtarelli.

A questo sta pensando salendo le scale, l'attenzione risucchiata dai ricordi, e infilando la chiave nella toppa. Sono le 10 e quelle pareti sono così bianche da fargli venire il mal di testa, ma la porta si apre appena sfiora la serratura, che cosa insolita, e all'improvviso non c'è più spazio per la malinconia e lo spettro della loro gioventù, ora c'è chi li vuole morti e aspetta solo un loro momento di debolezza, di solitudine, in cui si sentono al sicuro–

“Ah, ma sei te,” gli fa il Freddo quando arriva in salotto, il respiro teso e la sicura già levata alla pistola.

“Ao,” risponde il Dandi con un cenno della testa a mo di saluto, rinfilando il ferro nei pantaloni e flettendo le dita. Non gli è mai piaciuto sentirsi stupido, ma in sua compagnia è spesso inevitabile. “Com'è qua?”

“Dovevo pià le ultime cose.”

Mario annuisce. Nei movimenti del Freddo c'è sempre una certa flemma solenne, un calcolo continuo dell'azione più giusta da fare per risparmiare tempo e fatica anche mentre piega i suoi vestiti. Nella pila che ha già sistemato c'è una canotta bianca, due maglioncini semplici, un paio di pantaloni e due boxer neri, perché anche se è fra le persone più ricche di Roma non si è mai concesso il lusso di possedere più del necessario. Non è come loro, Fabrizio Soleri, come lui – è diverso. “Voi?” gli fa, sfilandosi lo spinello dalle labbra.

Non glielo lascia prendere in mano: ne offre solo il filtro, costringendolo ad inspirarne un tiro e a sfiorare i suoi polpastrelli con le labbra, preciso anche nel quantificare i secondi necessari per quell'operazione. Al Dandi, comunque, complice l'ora tarda e lo stomaco pieno di cibo e vino tanto basta per chiudere gli occhi e scivolare a sedere sulla poltrona al suo fianco, sospirando.

“Gliel'hai detto al Libano der Terribile?”

“Sì, lo sa.” Incrocia i suoi occhi, sorridendo. “Dovevi vedè come sartellava, dopo.”

Il Freddo non lo ricambia, le labbra strette. Sempre più spesso gli viene voglia di chiedergli quale cazzo sia il suo problema col rilassarsi. “Basta fa cazzate, Dà,” gli dice.

Mario sbatte le palpebre, sbilanciato dal repentino cambiamento d'umore nella stanza. L'altro continua senza fare una piega, inchiodandolo sul posto con un'occhiataccia. “Dico davero. Basta perde la testa per na zoccola. Basta cercà rogne. Basta fa casini. Perché stavorta la situazione l'avemo sistemata – stavorta.” Gli dà le spalle, rimettendosi ad occupare dei panni. “Ma se non lo capisci la prossima ce vengo solo io a parlà co te. E io ai deficienti nun li tratto coi guanti come er Libanese.”

E sì, il Dandi un po' deficiente lo è, ma le cose le nota, e quello che gli mancava era solo sapere chi avesse parlato con Patrizia e l'avesse convinta, costretta a fargli credere che il suo malumore fosse passeggero e che una rinfrescata ai servizi fosse bastata a migliorare la sua luna storta. Ha tutte le carte in mano, ora, e il Freddo è un valido giocatore, solo che ancora non ha capito che ha solo anticipato quello che avrebbe fatto lui, perché per quelli come loro non esiste nessuna donna che li ami incondizionatamente senza essere pagata per farlo.

Apre la bocca, forse per spiegarglielo, ripeterglielo. Lo sguardo gli si impiglia sulla linea rigida delle spalle del Freddo, ancora girato, teso come una molla. Come er Libanese.

Scoppia a ridere. Deficiente per davvero – quasi non lo aveva notato. “Eh, Frè, te c'hai ragione.” Si alza dalla poltrona con un movimento rapido, di nuovo sobrio, di nuovo sveglio. “C'hai ragione davero, spesso e su tante cose, più de quanto pensi. Tipo…”

Muove due passi verso la porta, camminando all'indietro. “…tipo la disco music. È 'n po' vero che è da froci.”

La testa del Freddo scatta verso di lui. Mario abbassa lo sguardo. “Non glielo dì,” gli confida, “ma un periodo al Libanese lo sognavo spesso. Non è che facevamo niente de che, eh…”

Per un secondo gli si affievolisce la voce. A differenza di Pietro, col Freddo mentire non gli riesce per niente e non vuole nemmeno provare, ma quella verità è talmente intima da essere difficile da pronunciare. “…s'abbracciavamo. Dormivamo assieme. Me faceva un massaggio.”

Alza gli occhi sui suoi, un angolo della bocca sollevato. Sornione. “Ma io, nel sogno, ero contento. Me bastavano du attenzioni sue e stavo in pace. Proprio da ricchione, eh?” 

Sì, pensa, girando i tacchi, lui e Fabrizio Soleri – Er Freddo per gli amici – sono così diversi, ma quel silenzio pesante ha lo stesso rumore di mille parole.


 

Note Autrice: Mentre scrivevo questa fanfic ho risentito Boys For Pele una quantità di volte imbarazzante e realizzato quanto l'intera discografia di Tori Amos sia stata registrata per essere la soundtrack del Dandi, motivo per cui il secondo titolo era d'obbligo. Il titolo vero e proprio, invece, perché: ...d'Achille. No, non ho fantasia e l'ho cambiato letteralmente all'ultimo secondo. Denunciatemi.
   
 
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