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Autore: Chiccagraph    01/04/2021    0 recensioni
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«Hai mai pensato di andare via e non tornare mai più? Far perdere ogni tua traccia per andare in un posto lontano e ricominciare a vivere?»
«Ci penso ogni giorno, rubia» rispose, Zulema, con una punta di nostalgia nella voce «e ci ero anche riuscita, se solo tu non avessi rovinato tutto».
Genere: Fluff, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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La Primavera Araba

 

 


«Hai mai pensato di andare via e non tornare mai più? Far perdere ogni tua traccia per andare in un posto lontano e ricominciare a vivere?»

«Ci penso ogni giorno, rubia» rispose, Zulema, con una punta di nostalgia nella voce «e ci ero anche riuscita, se solo tu non avessi rovinato tutto».

Macarena si girò verso la donna seduta alla sua sinistra, offrendole la sigaretta che aveva appena finito di rollare, nella speranza che quel gesto cancellasse, o per lo meno attutisse, l’amarezza del suo tono di voce.

Sapeva che la donna le aveva perdonato da tempo quello che era successo in Marocco, ma nonostante questo continuava a sentirsi colpevole per la condizione in cui l’aveva costretta a vivere.
Era giusto ritenersi responsabile per tutto quello che la donna aveva dovuto affrontare in questi ultimi mesi?
Zulema non era di certo uno stinco di Santo, e chiunque l’avrebbe rassicurata dalle sue preoccupazioni dicendole che la donna aveva avuto solo ciò che si meritava.
“Chi semina vento, raccoglie tempesta”, le aveva detto una volta Castillo, ma nel suo caso non sapeva chi tra le due meritasse di essere travolta da quel violento tornado che procedeva devastando e annientando ogni cosa.
Forse era stato l’egoistico desiderio di libertà che le aveva racchiuse entrambe in gabbia.
A distanza di anni le capitava spesso di lavarsi le mani e rimanere a fissarle sotto il getto dell’acqua, in attesa di veder scorrere via dalle dita il sangue di Casper.
Non era stata lei a premere il grilletto, ma di sicuro aveva caricato la pistola. E poco importava se il fine era stato quello di assicurare una criminale alla giustizia. Durante la sua permanenza a Cruz del Sur aveva imparato che il fine non giustificava mai i mezzi.

Con un lungo sospiro Macarena si stese sui gradini di legno del cortile e, alzando lo sguardo, rimase in silenzio ad osservare il cielo, suddiviso in tanti cubetti di filo spinato.

«Dahab»

«Qué?»

«Mi piacerebbe andare a Dahab» ripeté Zulema, soffiando via una nuvola di fumo e, spingendosi all’indietro con le braccia, si appoggiò con la schiena alla calda parete di cemento. «È un villaggio costiero al centro della costa orientale del Sinai, in Egitto. Non c’è un granché da vedere in realtà, ma la sera quando tramonta il sole, puoi perderti tra le dune del deserto mentre sei circondato dal mare».

Macarena rimase ad osservare Zulema, concentrata sui lineamenti spigolosi del suo volto. Da questa angolazione poteva dire che la donna stesse sorridendo, persa nelle dune di sabbia della sua mente. Non era mai stata in Egitto e non aveva mai visto un deserto, ma in quel preciso istante, sentì che forse anche a lei sarebbe piaciuto andare in quella città. Immergersi nelle acque cristalline della costa e camminare a piedi nudi nella sabbia al chiaro di luna.

La bruna continuava a guardare dritto davanti a sé. Lo sguardo assente e perso nel vuoto. E poi, proprio nel momento in cui Macarena iniziò a parlottare rumorosamente, riprese a parlare.

«C’è una leggenda che riguarda un pozzo situato in un giardino. Un’oasi di pace in mezzo al nulla» disse, affondando i denti sul labro, pensierosa. «Il pozzo è abbellito da un coperchio di quercia inglese sul quale è intagliata una costruzione geometrica formata da due cerchi identici, tagliati in mezzo in modo che il centro di ogni cerchio si trovi sulla circonferenza dell’altro» disegnò in aria i due cerchi con le mani, sovrapponendo le dita. «Rappresenta l’incontro di due mondi, l’unione tra cielo e terra, dello spirito e della materia, del conscio e dell’inconscio del maschile e del femminile. Stando a quanto raccontano i guardiani del giardino, figure spirituali che coltivano l’arte della magia, Il potere curativo dell’acqua consiste nella forza vibrante, che rilascia quando affiora e interagisce con le forze della terra, della luce e dell’aria».

Si girò, e incatenò il suo sguardo a quello di Macarena. «C’è chi afferma che il pozzo fu costruito dagli Imām stessi utilizzando pietre giganti; c’è poi chi dice che bevendo l’acqua rossa è possibile riunirsi alla Dea Madre, la grande Madre terra che risveglia il nostro potere creativo e distruttivo».

A questo punto abbassò lo sguardo, riprendendo fiato. Quando i loro occhi si incontrarono di nuovo Macarena poteva vedere una nuova luce brillare in quelle due pietre verdi.

«Simbologia pagana e cristiana s’intrecciano e si districano e si riannodano creando un’atmosfera che dispone l’uomo a vedere qualcosa che non può essere visto» inghiottì la saliva e con essa mandò giù anche il timore che sentiva nel pronunciare le prossime parole. «Vorrei trovare quel pozzo, vorrei specchiarmi e ritrovare tutto quello che ho perduto» sussurrò sotto il suo respiro.

Macarena rimase per un primo momento in silenzio, ancora incantata dalle parole della donna. Lo sguardo vibrante nei suoi occhi le diceva che Zulema non stesse parlando solo di un pozzo. Quella non era altro che una fiaba, un’allegoria, una storia da raccontare per avvolgere con un alone di mistero la città e i suoi abitanti.
La donna era abbastanza intelligente da sapere che fosse solamente un mito, probabilmente un’attrazione turistica, ma nonostante questo dalle sue parole capiva il suo vero desiderio. La speranza che ci fosse davvero un posto nel mondo in cui fosse possibile immergersi e dimenticare sé stessi e ricominciare da capo.
In fondo, ci sperava anche lei.

«Dahab» mormorò anche lei, fantasticando con la mente. «D’accordo, va bene».

«Va bene… qué?» chiese Zulema, voltandosi verso la donna, accigliata.

Macarena si girò a pancia in giù, appoggiando il mento sul palmo delle mani. «Dico che va bene. Va bene anche per me andare lì».

La donna più anziana lasciò uscire una risata leggera, mentre con i denti si mordeva il labbro inferiore. «Mi hai chiesto dove volessi andare, non dove volessimo andare. Perché in quel caso ti avrei risposto da nessuna parte».

Macarena si spostò in avanti afferrando dalla sua mano la sigaretta, fumata per metà, e prese una lunga boccata, rimanendo a guardala in attesa.

«Rubia, lo sai che non mi piace quan-»

«Se avessi un euro per ogni volta che ti ho sentito dire questa frase» rispose Macarena, interrompendola.

«Questo perché sei una persona fastidiosa» sibilò la donna stringendosi tra le dita il ponte del naso. «Comunque, non puoi venire. Questo è il mio desiderio, trovati un altro posto dove andare».

Macarena continuò a fissarla in silenzio, in attesa che la donna si girasse verso di lei.
La osservava sorridendo, mentre le solite tenere fossette facevano capolino sulle guance.

In quel momento si avvicinò una guardia carceraria per informarle che il loro tempo in cortile era finito e che sarebbero dovute tornare ai loro compiti. Zulema si tirò in avanti e, facendo leva con le mani sulle ginocchia, si alzò in piedi. Rimase in attesa, mentre con la coda dell’occhio osservava la bionda fare lo stesso movimento e alzarsi al suo fianco.
Si incamminarono insieme fino alla porta e, una volta varcata, presero direzioni opposte.

Era sempre così per loro. Potevano convivere pacificamente durante il loro tempo all’esterno, ma non erano in grado di respirare la stessa aria nella stanza per più di cinque minuti di fila.

Saray da lontano era rimasta ad osservare l’interazione tra le due donne, scuotendo tra sé e sé il capo. Era tempo che quelle due la smettessero di fingere e iniziassero a far pace con la realtà.
L’odio che andavano tanto decantando era finito da tempo, un lontano ricordo dei primi mesi di carcere, e ora aveva assunto un’altra forma. Peccato che le due dirette interessate preferissero continuare a illudersi di farsi la guerra, piuttosto che ammetterlo.

Zulema non era una donna facile, questo la gitana lo sapeva bene. Non aveva avuto un’infanzia come tutte le altre bambine. Era stata cresciuta con l’unico obiettivo di essere utilizzata come merce di scambio per prosciugare la sete di denaro della sua famiglia.
Uno stupro legalizzato, era così che una volta Zulema aveva definito il suo matrimonio, in una delle rare volte in cui si era aperta a parlare del suo passato.
Saray sapeva bene cosa significasse non avere libertà di scelta, ma per lo meno, lei, era stata guidata dall’amore verso i suoi genitori. Era stata costretta a sposarsi, questo sì, ma lo aveva fatto per un bene più grande.
Zulema era stata costretta e basta.

Saray allungò il passo e raggiuse l’amica proprio nel momento in cui stava per entrare nella lavanderia.

«Oye Zule» disse, alzando il tono della voce per farsi sentire «di cosa stavate parlando tu e la rubia?»

Zulema alzò gli occhi al cielo, possibile che la gitana soffrisse ancora così tanto la presenza della donna?

«Una sciocchezza» rispose, non convincendo l’altra donna che rimase a guardarla in attesa di avere una risposta più esaustiva. «Mi ha chiesto dove mi piacerebbe andare» sbottò, spostando la mano in aria come a puntualizzare che fosse davvero una banalità.

«Vamos Zule, non starai pianificando un’altra fuga?» chiese Saray preoccupata. Fino ad ora i tentativi di fuga di Zulema erano stati un susseguirsi di insuccessi. L’ultimo bruciava ancora vivido sulla loro pelle.

La bruna abbassò lo sguardo al pavimento, prendendo un lungo respiro: «Tranquila, non ci penso proprio ad organizzare un’altra evasione».

L’ultima fuga le era costata la vita di Altagracia e di sua figlia.
Aveva giurato a sé stessa che non avrebbe più messo a repentaglio la vita delle persone a cui teneva.
Troppi morti pesavano come macigni sulla sua coscienza.

«E allora… qué?» chiese, poggiando una mano sulla piega del gomito della donna per impedirle di continuare a camminare. «Non starete mica progettando di vivere insieme una volta uscite da qui»

Lo sguardo malizioso nei suoi occhi innescò immediatamente la reazione dell’altra donna. «De qué coño estás hablando?» mosse il braccio per tirarlo via dalla presa dell’amica e continuò a camminare, maledicendola a voce bassa.

Saray sapeva che aveva colpito un nervo scoperto e con Zulema c’era solo una cosa che poteva fare per avere delle risposte: doveva battere il ferro finché è caldo.
Così entrò anche lei nella stanza e raggiunse la donna che aveva già iniziato a raccogliere le lenzuola stese.

Si guardò intorno con attenzione. Nella stanza non c’era nessuno oltre loro due. Decise per questo di provare a far parlare la donna e tentare il tutto per tutto.
Anche prendersi un pugno in faccia.

Le tolse dalle mani un angolo del lenzuolo e si allontanò per aiutarla a piegarlo più facilmente. «Lasciati aiutare»

La donna la guardò di sottecchi, sbuffò e fece un passo indietro.

Non le avrebbe reso le cose facili, questo lo sapeva, ma Saray era determinata a cacciarle fuori dalla bocca le parole che da tempo chiedevano di essere dette.

«Dove volete andare?»

«Dove voglio andare»

«Vale» alzò la mano destra in segno di pace. «Dove vuoi andare?»

Zulema restò a fissarla per un momento, indecisa se raccontarle o meno quello che aveva detto poco fa alla bionda. Prese il lenzuolo piegato e lo ripose nello scaffale alla sua sinistra.

«In Egitto»

Saray raccolse un altro lenzuolo dai fili appesi tra le mura della stanza e consegnò a Zulema un lato. «Mmh… non credevo che ti mancasse la tua terra»

«Infatti, non mi manca» rispose, guardando ovunque tranne che la donna. «È il primo posto che mi è venuto in mente. Tutto qui» alzò le spalle fissando il bordo del lenzuolo bianco.

Saray continuò a guardarla con un’espressione indecifrabile. «E cosa c’entra la rubia in tutto questo?»

«Beh, perché il mio sogno è quello di vivere con Macarena e tante piccole rubite al seguito» la guardò sorridendo maliziosa. «Ma allora non mi hai sentito?» sbottò subito dopo, «Era una domanda, Saray. Una semplice domanda per passare il tempo visto che siamo chiuse in questo buco di merda»

Si passò una mano sulla fronte schiacciandosi la frangetta con il palmo. «Joder, mi state facendo venire il mal di testa»

La gitana continuava a fissarla senza muoversi. «Sai che c’è, Zule?» aspettò che la donna la guardasse prima di continuare a parlare. «Hai questo modo di proteggere i tuoi sentimenti sotto strati di cinismo e ironia: a volte riesci così bene da farli languire nell’ombra finché sono perduti»

Zulema abbassò le braccia, portandosi dietro le lenzuola che ora sfioravano il pavimento. Guardava la donna con gli occhi stretti e le labbra arricciate. «Ti sbagli di nuovo. Non c’è nessun sentimento da proteggere»

«Sì, invece. Ma ti ostini a portare così tanto rancore che non permetti a nessuno di raggiungerti»

Zulema fece un passo indietro e posò sul tavolo al suo fianco la parte delle lenzuola che ancora teneva strette tra le mani. Non le piaceva per niente la piega che stava prendendo questo discorso. Voleva solo finire di ordinare queste benedette lenzuola e tornarsene nella sua cella.

«Io adoro i miei rancori, li costudisco come animaletti» rispose, con un sorriso beffardo dipinto sul volto.

«Hai minimamente idea di quanto sia difficile starti dietro?»

«Non te l’ha chiesto nessuno, infatti» rispose amaramente.

«Non sto parlando di me»

«Saray…»

«No, smettila. Metti tra parentesi le tue paure e corri il rischio di essere felice» disse, fermandosi a pochi centimetri dal corpo della donna. «Zule, ascoltami», sussurrò, «so quanto sia difficile per te, ma devi smetterla di fingere che non ti importi di niente e di nessuno»

La donna cercò di allontanarsi, ma Saray la bloccò nuovamente afferrandole il polso. «Cosa ti spaventa così tanto?»

«Io non ho paura di niente» rispose quest’ultima rabbiosa.

«E invece sì. Da quando Fatima non c’è più ti sei chiusa come un riccio. Non è sano e poi…»

Ma non ebbe il tempo di finire la frase perché la bruna la colpì in pieno viso con uno schiaffo. Il palmo della mano ben aperto era rimasto impresso sulla pelle della guancia della donna.
Strattonò nuovamente il braccio nel vano tentativo di liberarsi e, non riuscendo nel suo intento, sbuffò irritata.

«Saray, te lo dirò una volta sola: lasciami»

La donna continuava a tenerla saldamente.

«Saray»

La seconda volta che pronunciò il suo nome la gitana la tirò verso di sé, le passò una mano intorno alla vita, e la imprigionò in un abbraccio.
A questo punto Zulema si sentiva in trappola, e non c’era cosa che odiasse di più.

«Zule, por favor…hàblame» sussurrò con le labbra contro l’orecchio della donna.

Inaspettatamente Zulema smise di lottare per liberarsi dalla presa e abbandonò il corpo contro quello dell’altra donna.
Sentendo la donna che si appoggiava inerme sul suo petto, Saray, allentò la presa che aveva sul polso e lasciò scivolare la mano verso il basso fermandosi sul fianco.

Seguirono alcuni secondi di silenzio prima che Zulema si decise a parlare. «Non so dove iniziare per trovare un primo filo e districare ciò che ho nella testa»

Saray spostò la testa fino a che le loro fronti non si toccassero e rimase a fissare la donna guardandola negli occhi.
A differenza di Zulema era sempre stata una persona tattile, aveva bisogno di toccare una persona per capirla davvero. Aveva bisogno di sentirne la pelle, l’odore, il calore.

«Te escucho»

Zulema prese un lungo respiro e si allontanò leggermente dalla donna. «No sé» si portò una mano sul volto cercando di ricomporsi, «credo che per la prima volta dopo tanto tempo sento di avere una speranza. Una possibilità.»

Tirò su con il naso e slacciò i loro corpi facendo un passo indietro. Non era facile per lei parlare, non lo era mai stato, ma lo sguardo caldo e fiducioso di Saray le dava la forza di cui aveva bisogno per andare avanti.

«Somos gemelas vitelinas» Zulema rise, scuotendo la testa incredula. «O almeno così ci ha definite Altagracia»

Al suono del nome della donna entrambe tremarono impercettibilmente.
Erano stati due mesi intensi quelli che avevano condiviso dopo l’evasione.
La messicana, nonostante i suoi modi burberi e poco ortodossi, si era saputa conquistare un posto nel cuore dell’araba, ma come era stato in passato per Hanbal, Zulema, si era ritrovata nuovamente a dover scegliere: salvare la figlia o la donna?
Peccato che le aveva perse entrambe.
Un’altra pesante croce che abbelliva il collo della sua anima.

Tradendo Altagracia aveva tradito la sua parola, e se c’era una persona che non era in grado di perdonare per quello che era successo, era proprio sé stessa.

Saray passò una mano sul lenzuolo aggrovigliato sul tavolo, schiacciando con il dito le pieghe. «Cosa hai intenzione di fare?»

«Credevo che la primavera araba fosse una grandissima stronzata» disse, mentre una lacrima faceva capolino all’angolo dell’occhio. «Invece è sbocciata, è esplosa, e mi ha travolta completamente… e ora non so come gestire tutto questo.»

«Non pensi che sia giusto che lo sappia anche la rubia?»

Zulema guardò l’amica, con il solito sorriso sghembo. «Mph, forse».

 

*

 

La mezzanotte era passata da un pezzo quando Zulema decise di alzarsi dal letto e sgattaiolare nel bagno per fumare. Non riusciva a togliersi dalla testa le parole di Saray, nonostante fossero passati tre giorni dal loro incontro nella lavanderia, e ora aveva maledettamente bisogno di fermare tutto quel ciarlare nella sua mente e godersi due minuti di pace.
Si infilò le scarpe e scese dal letto facendo ben attenzione a non svegliare nessuna delle sue compagne di cella.
Il leggero russare delle sue compagne la fece sorridere. Aveva sempre avuto il sonno leggero, ma dopo tutti questi anni aveva imparato a dormire anche sui gemiti di piacere o di dolore delle altre detenute. Come una ninna nanna quelle urla la cullavano e la accompagnavano nel mondo dei sogni. Almeno fino a poco fa. Ora continuava a fissare il soffitto contando le ore che la separavano dalla sveglia.
Dalla luce che proveniva dalla finestra sul muro, stimò che fossero le 3:00 massimo le 4:00 di notte. Avrebbe avuto ancora tre ore per rilassarsi prima che le docce si riempissero con le detenute del primo blocco.

Raggiunse i bagni e con un rapido movimento entrò nella stanza lasciando la porta chiudersi da sola alle sue spalle.
Una volta arrivata sulla panca vicino alla finestra si mise seduta, con la schiena poggiata al muro, e si accese una sigaretta. Alla prima boccata sentiva già l’ansia e lo stress della notte scivolare lentamente via dal suo corpo.
Un secondo tiro e il suo cervello si liberava delle immagini del sole che brillava sulle dune di sabbia.
Il terzo cancellò l’immagine della donna bionda al suo fianco, di quel corpo che poteva così vividamente immaginare nella sua mente.

Il vero grande problema del carcere non era solo l’essere rinchiusa, ma l’essere rinchiusa senza poter avere un minimo di privacy. Chiunque poteva invadere il tuo spazio senza doverti chiedere il permesso. Non solo erano continuamente controllate come sotto una lente d’ingrandimento, non avevano neanche la possibilità di pisciare in pace.
Ed è proprio alla mancanza di una chiave per poter chiudere la porta che stava pensando Zulema nel momento in cui sentì cigolare la porta del bagno. Aprirsi. Richiudersi su sé stessa accompagnata dal rumore dei cardini della cerniera che tornavano al loro posto.

La stanza piombò nel silenzio.

La nuova arrivata non si era mossa dal suo posto e Zulema continuava a fumare in silenzio, tamburellando con una mano sulla coscia, in attesa di essere disturbata.

La donna fece pochi passi prima di essere illuminata dal cono di luce della finestra.
Avrebbe riconosciuto quelle due gambe magre ovunque. Anche ad occhi chiusi.

«Ciao»

«Che ci fai qui, rubia?» sbuffò Zulema, portandosi l’accendino alle labbra per riaccendere la sigaretta.

«Avevo voglia di fumare» la guardò con la coda dell’occhio. «Devo per caso chiederti il permesso?»

«Sarebbe del tutto inutile dal momento che faresti comunque di testa tua» mormorò, con un’espressione beffarda sul viso.

Macarena prese il suo silenzio come un invito per potersi avvicinare e sedersi al suo fianco.
Continuava a giocherellare con l’elastico per i capelli che aveva al polso, mentre con lo sguardo non abbandonava mai la mano che Zulema muoveva sulla gamba.

«Smettila di fissarmi»

«Non ti sto fissando»

«Allora smettila di non fissarmi»

Macarena sbuffò l’aria dalla bocca arricciando le labbra, tirò indietro le testa e l’appoggiò alla parete alle sue spalle.

Zulema continuava a fumare fingendo che la donna non fosse seduta al suo fianco. «Non volevi fumare?» chiese all’improvviso, interrompendo contemporaneamente il movimento della sua mano.

«Certo» farfugliò Maca, raggiungendo con la mano il pacchetto di sigarette nella tasca dei pantaloni. Si portò la sigaretta alla bocca e con la mano destra girò la rotella, provocando una serie di scintille senza che si formasse una vera e propria fiamma.

«Joder» Zulema ha articolato con la testa, sbattendola all’indietro contro il muro. Poi tirò fuori dalla tasca il suo accendino e lo passò alla donna.

«Gracias» rispose con calma. Ruotò nuovamente la rotella di accensione e immediatamente la fiamma iniziò a bruciare la parte iniziale della sigaretta.

«Deve piacerti proprio» una risatina sommessa accompagnò le sue parole. Zulema la fissava con un’espressione confusa. «Il giallo» disse, ruotando l’accendino colorato tra le dita e poi lo posò al centro della panca, alla stessa distanza dalle loro cosce.

«Idiota» Zulema scosse la testa sorridendo.

Continuarono a fumare ognuna persa nei propri pensieri.
Tante cose erano successe in questo ultimo periodo: il ritorno di Macarena, la morte di sua figlia, la rivolta, la morte di Sandoval. Zulema continuava ad elencare con ordine nella sua mente tutte le cose che l’avevano portata a questo punto. Seduta accanto alla donna che aveva giurato di odiare, condividendo una sigaretta nell’unico momento in cui avrebbe potuto starle lontana.
La cosa che la destabilizzava più di tutte però era questo senso di serenità che si era impossessato di lei non appena la bionda si era seduta al suo fianco.
Erano pochi i momenti in cui si sentiva tranquilla, in cui poteva lasciarsi andare ed abbassare le sue difese. La prima cosa che impari una volta entrata in carcere è a difenderti.
Dalle persone, dalle guardie, dalle bugie.
Con il passare del tempo la tua pelle diventa come una corazza, uno scudo per poterti proteggere. O ti fai le ossa, o te le fanno.
Per questo erano rari i momenti in cui ci si poteva rilassare e lasciarsi andare.
E proprio in questo momento di velata spensieratezza sentiva il peso dei suoi pensieri dileguarsi.
Si sentiva serena accanto alla stessa persona che le aveva iniettato l’aria nelle vene senza un briciolo di rimorso; alla stessa persona che l’aveva ingannata e costretta ad uccidere Casper; alla stessa persona che l’aveva venduta per la sua libertà.
Come è possibile sentirsi al sicuro tra le braccia del proprio aguzzino?
Era forse impazzita?
Era forse questo quello che intendeva Saray quando le aveva detto di lasciare andare il passato e permettersi di vivere il presente?

E ora, con il calore del corpo della bionda al suo fianco, Zulema, si chiedeva se rinnegare un sentimento estremamente forte possa rivelarsi in un modo o nell’altro più distruttivo del sentimento stesso.
Per lei era estremamente difficile affrontare questa situazione e fare chiarezza in questo guazzabuglio di sentimenti che la opprimeva.
La bionda l’avrebbe ascoltata o derisa?
Era di questo che aveva paura?

Ognuno ha parole che non ha mai detto e che pesano come macigni. Forse è troppo tardi per dirle o forse... esiste un modo - magari diverso da quello che si credeva essere l'unico possibile - per pronunciarle quelle parole, finalmente.
Si continua a rimandare quel momento per paura, vergogna, imbarazzo, timore di non essere corrisposta, perché “non si fa”, perché si pensa di avere tempo… e poi ci si trova a rimpiangere quello che non si è detto.
Si dice che una seconda possibilità è concessa a tutti, ma non sempre la vita è in grado di offrire una seconda occasione. Così quelle parole restano lì e, in genere, pesano come macigni. Perché avrebbero potuto fare la differenza, cambiare il corso delle cose o, comunque, darci o dare la pace a qualcuno.
Quelle parole continuano a galleggiare nella tua mente, occupare ogni spazio, invadere ogni cellula fino a che non si impossessano completamente dei tuoi pensieri e a quel punto non puoi far altro che soccombere a quel bisogno di pronunciarle.

«Maca»

La donna emise un leggero sbuffo e muovendo impercettibilmente la testa per dirle che la stava ascoltando.

«Perché sei qui?» Zulema sussurrò debolmente.

«Avevo voglia di-»

«Dico per davvero. Perché sei qui?» sospirò guardandola negli occhi.

«Ti ho vista uscire dalla cella e… ecco, volevo sapere dove stessi andando» rispose sincera.

La donna più anziana chiuse gli occhi, lasciando la testa ciondolare in avanti. «Sembra che il bagno sia il nostro luogo preferito. Continuiamo ad incontrarci qui senza darci appuntamento» sorrise, piegando la testa verso la donna e riportando i suoi occhi in quelli color nocciola.

«Già»

Continuavano a fissarsi, in questa gara di sguardi, entrambe in attesa che l’altra si decidesse a parlare per prima.

«La felicità è una creatura volubile. Compagna costante di alcuni, si nasconde completamente ad altri» mormorò sommessamente. «Per me è stata una creatura sfuggente. Ma eccola qui, finalmente tra noi. E le dico: “Benvenuta”!» fissò un punto perso nel vuoto prima di prendere l’ultima boccata di nicotina «Non le farò pesare il ritardo» disse, sorridendo malinconica.

Macarena sorrise osservando la donna. «Meglio tardi che mai»

I loro sguardi viaggiarono nuovamente nella stessa direzione, incontrandosi a metà strada.
Le due calde pozze nocciola si immersero nel freddo verde smeraldo degli occhi della bruna e per un attimo persero il senso di orientamento.
Il suo corpo era da sempre attratto da quelli della donna come una calamita. Si erano distrutte, ferite, spezzate ma rimanevano sempre e comunque attratte l'una dall'altra.
Come un polo magnetico che anche se viene perso, in qualche modo è sempre lì, attrae sempre senza che ci si possa fare niente, anche se fa male ed è sbagliato e stupido e assurdo, perché in buona sostanza è fisica. E alle leggi della fisica si obbedisce per forza.
E così Macarena obbediva al richiamo di Zulema. Come era stato il punteruolo per la bella addormentata, così era l’araba per lei. E dopo tutto questo tempo aveva deciso di smettere di reprimere quel sentimento e arrendersi a quella trazione invisibile. Non era una semplice pulsione sessuale, c’era qualcosa di molto più profondo che la spingeva ad avvicinarsi a questa donna così problematica.
Che cosa succede quando una forza inarrestabile incontra un oggetto inamovibile?
Sarà più inarrestabile la forza o inamovibile l'oggetto? Oppure si annullerebbero come la somma di due limiti matematici?
E ora, fissando da vicino i suoi occhi tristi, si chiese chi delle due fosse la forza e chi l’oggetto.

Con Zulema non doveva fingere di essere una brava ragazza. Non doveva fingere di essere nessuno tranne che sé stessa. Zulema aveva conosciuto il peggio di lei e quando si arriva a conoscere il peggio di una persona, si hanno due possibilità: liberarsene definitivamente o cominciare ad amarla per davvero.
La donna era ancora al suo fianco e questa era tutto ciò che aveva bisogno di sapere.

«La felicità ha un sapore amaro. Ti rimane in bocca e non riesci più a dimenticarlo, mai. Per tutta la vita» Macarena annuì leggermente «Non esiste una strada che puoi o devi percorrere per raggiungerla. Perché la felicità è la strada stessa» si passò la lingua sulle labbra, mordendone il bordo, «e in fondo anche un viaggio di un milione di chilometri inizia con il primo passo».

«Dovrei imparare a camminare e smetterla di correre» Zulema disse, sorridendole con dolcezza e poggiando la mano sulla sua, ferma sulla panca.

C’era voluto del coraggio per prendere un’iniziativa così, e infatti non aveva il coraggio di guardarla in faccia e si era nuovamente voltata dall’altra parte con una rapidità fulminea.

Macarena si girò verso di lei con aria sorpresa e quando la vide così, praticamente di spalle, come se si stesse vergognando per il gesto che aveva appena compiuto, proprio lei che aveva sempre creduto estremamente intraprendente, sorrise intenerita.

Tolse la mano da sotto la sua e la riposò sopra, stringendola dal dorso. «Lo so» le disse solamente, tornando a guardare la finestra sulle loro teste, mentre Zulema, piacevolmente sorpresa da quella dimostrazione di affetto si distese finalmente.

Aveva temuto di aver agito un po’ troppo avventatamente, in fondo lei non era un tipo da sdolcinatezze e pensava che nemmeno la bionda lo fosse e che probabilmente avrebbe preso male quel gesto così intimo. Così era trasalita quando Macarena aveva tolto la sua mano, pensando che fosse stata davvero una stupida a comportarsi in quel modo, facendo lei la prima mossa e scegliendo per di più un atto da bambina dell’asilo e stava per togliere anche la sua mano dalla panca quando, sentendo quella di Maca che tornava a ricoprirla, aveva provato quella strana sensazione di tranquillità, per aver avuto la certezza di non aver sbagliato, e di agitazione folle, con il cuore che le rimbalzava in gola.

Era così piacevole, per ognuna delle due, il contatto della mano calda e ferma dell’altra, così rassicurante… un gesto semplicissimo, di una castità assoluta, che eppure sembrava tanto azzardato e intimo da emozionarle a dismisura. Non c’era bisogno, in quel momento così calmo e sereno, di altre parole o chiarimenti. C’era tempo, per quelli. Quello era invece il momento di godersi una sensazione nuova e terribilmente appagante senza dover pensare a niente, senza doversi porre domande.

«Quando usciremo da qui… vuoi venire con me?»

Macarena contò fino a dieci prima di rispondere. All'uno conosceva già la risposta, ma quel briciolo di orgoglio femminile che le era rimasto la fece attendere per altri nove secondi.

«Sì».

Ci sono solo due momenti decisivi nella vita di una persona: il prima e il dopo.
Il prima e il dopo non sono mai uguali per tutti.
Macarena era il suo dopo, ora lo sapeva.







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*Imām significa letteralmente “guida”, è il capo della comunità islamica.

Per la frase di Zulema sulla felicità ho preso spunto dal dialogo di Margaret in The Crown

   
 
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