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Autore: Annabeth16    08/04/2021    0 recensioni
«Ma la cosa assurda è che non amo solo la parte migliore di te, amo anche la parte peggiore di te, anche i tuoi difetti più colossali, amo ogni singola parte di te. Quindi, credo di poterti dire che ti amo. Più di ogni altra cosa Emily. Più della mia stessa vita, TI AMO».
Emily è una giovane ragazza di diciotto anni, che finalmente si trasferirà a causa del college e vivrà in casa da sola. Ma la sua vita verrà sconvolta da un ragazzo bellissimo con cui avrà una relazione che darà una svolta alla sua vita.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
Capitoli:
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Capitolo 6
Compleanno
 
 
 
 
 
 
 
 
Oggi è nata una stella
che illuminerà per sempre la mia vita
 
 
Era un pomeriggio intenso da ‘Gifts – For every occasion’. Mi ero trovata quel lavoro all’inizio dell’anno, e l’unica cosa che potevo dire al riguardo è che lo adoro. È un lavoro particolare però esiste davvero. Voglio dire, certo non lo puoi trovare in tutti i negozi, però in quelli più rinomati – ma in questo caso ci doveva essere per forza dato che è un negozio per regali – lo puoi trovare.
Facevo una specie di consigliatrice, ascoltavo i clienti e, se ne avevano bisogno gli davo consigli su cosa acquistare e al miglior prezzo. Dopodiché, - e qui arriva la mia parte preferita – impacchettavo ciò che avevano scelto. Avevo a disposizione un reparto, piccolino certo, ma fornito di carta di tutti i tipi e colori, di nastri, fiocchi, etichette, adesivi e tante decorazioni per pacchetti.
Era un lavoro che mi piaceva un sacco, perché fin da piccola adoravo fare i pacchetti regalo e li facevo anche bene. Il negozio mi aveva dato una carta con cui potevo acquistare tutto il materiale di cui avevo bisogno. Perciò, in un certo senso, era compreso anche lo shopping!
La proprietaria del negozio aveva avuto questa idea quando aveva visto che molta gente non sapeva dove cercare ciò che voleva all’interno di quell’enorme negozio. Inoltre molte persone chiedevano dei pacchetti e loro non facevano altro che mettere i regali dentro a dei sacchetti colorati. Vedeva la faccia della gente delusa dalla semplicità dell’involucro.
Quando avevo visto l’annuncio, sia online che sui manifesti appesi in giro per la città, mi ero subito presentata. Mi avevano fatto provare qualche pacchetto, con oggetti dalla forma più disparata, e io avevo superato la prova brillantemente. Mi avevano subito preso.
Ero molto contenta perché sono dell’idea che se sotto l’albero vedi un pacchetto bellissimo ti viene voglia di aprirlo, mentre se ne trovi uno un po’ trasandato e sempliciotto la voglia un po’ ti passa. E poi secondo me una bella presentazione rende ancor più meraviglioso il regalo vero e proprio.
Adesso era il periodo più intenso dell’anno da Gifts, un po’ come la bassa e l’alta stagione in una località turistica.
Sapevo che sarei stata impegnata un po’ di più, però sarebbe salito anche lo stipendio. Ovviamente dovevo guadagnare, però a me piaceva farlo, perciò mi ritenevo assai fortunata. Comunque il mio era una specie di lavoro da liceale. Ed era temporaneo, finché stavo qui.
Guardai l’orologio, erano le sei e venticinque. Per oggi il mio turno finiva qui.
Mi tolsi la spilletta con scritto il mio nome e la posai sul banco del mio reparto.
“Te ne vai?”, mi chiese Gabrielle, la mia compagna di lavoro. Faceva la cassiera, anche se poi amava girare tra i clienti, anche perché ce ne erano tanti. Eravamo colleghe, ma anche amiche ormai.
“Sì Gaëlle”, dissi ridendo. Qui in negozio gli avevamo dato questo soprannome, dato dall’unione della parte iniziale e finale del suo nome. La parte divertente però, è che il risultato era come la marca famosa di vestiti, Gaëlle. A lei piaceva abbastanza questo soprannome, anche perché era appassionata di moda.
“Devo studiare”, aggiunsi.
“Capisco, credo che mi toccherà stare qui fino a stasera”, disse, ma si vedeva che non era del tutto triste.
“Tanto adesso dovrebbe arrivare Elizabeth, giusto?”, chiesi. Se ve lo state chiedendo, Elizabeth è proprio la mia compagna di classe.
“Si sì”
Andai in camerino per cambiarmi e indossare di nuovo i miei vestiti. Quando fui in jeans e maglione e giacca pesantissima, tornai da Gabrielle.
“Allora vado”, dissi.
“Ciao BMW”, mi salutò. Ecco, quello era il mio soprannome scherzoso. Elizabeth invece era semplicemente la nostra Beth, la nostra cara dolce Beth.
“Ciao Gaëlle”, ricambiai.
Uscii dal negozio e mi diressi verso casa. Rabbrividii. Freddino. Alzai il bavero della giacca e indossai il cappello. Rimpiansi di non essere venuta con la macchina.
 
Arrivai a casa piuttosto infreddolita. Entrai subito dentro al pigiama e mi accoccolai sul divano sotto alle coperte. Ma adesso mi toccava ancora studiare. Presi il libro di storia e quello di biologia e cominciai a leggere.
Finii per le otto e poi mi preparai un piatto con prosciutto, insalata e mozzarella. Tirai fuori dal frigo una limonata. Apparecchiai la tavola e mi sedetti a mangiare lentamente, boccone per boccone. Finito di mangiare, sparecchiai buttando tutto nel lavandino. Lavai il piatto, il bicchiere e le posate e le rimisi a posto.
Mi sentivo piuttosto stanca quella sera, perciò me ne andai a letto presto. Filai in bagno e spazzolai con cura i denti. Pettinai i capelli e mi sciacquai il viso perché ero accaldata. Mi diedi un po’ di crema idratante perché avevo una pelle straordinariamente secca.
Prima di dormire recuperai il plaid dal cassetto del comodino. Mi raggomitolai sul letto avvolgendomi completamente nelle coperte. Non ci misi molto ad addormentarmi.
 
 
Io e James eravamo seduti sulla panchina del parco mano nella mano. Parlavamo tranquillamente e dai suoi occhi traspariva un vivo interesse. Ero felicissima di stare insieme a lui e sentivo di non desiderare altro in quell’istante. Dal nulla, improvvisamente, apparve una modella dal lungo vestito. Non sapevo da dove fosse spuntata, era come se provenisse direttamente dall’oblio dei miei incubi. James volse lo sguardo e corse da lei abbracciandola. D’un tratto scomparvero insieme così com’era venuta lei. Poi vidi James ricomparire, gettando per terra una bottiglia di birra, rompendola. Mi corse incontro e mi abbracciò sollevandomi.
“Ti amo”, mi disse.
Io stranamente gli credevo, mi fidavo di lui. Sapevo che mi amava e non avevo dubbi. Mi abbandonai tra le sue braccia.
 
Mi svegliai di soprassalto.
Socchiusi lentamente gli occhi, mentre la luce inondava la stanza. Scacciai il lenzuolo bianco e gettai la faccia nel cuscino fresco. Allungai le gambe per stirarle e mi rigirai mormorando che non volevo alzarmi. Avevo ancora impresso nella mente il mio sogno. Era un sogno parecchio strano. Riflettei un po’. Pensai che fosse la rappresentazione estrema e molto fantasiosa dei miei sentimenti. Da una parte, la paura di perdere James, perché sapevo di non essere granché attraente, dall’altro la più completa fiducia in lui. Scossi la testa. Non c’era ancora nulla di certo, e tutto si sarebbe aggiustato vivendo i giorni che sarebbero seguiti. Ignorai il sogno e decisi di alzarmi.
Inarcai la schiena per sciogliere i muscoli e, dopo aver aperto lentamente gli occhi, mi sentii pronta per alzarmi.
Mi misi seduta, con la faccia rivolta verso la luce, come un girasole. Spalancai la finestra e lasciai che l’aria fresca e pura del mattino rimpiazzasse quella pesante e satura di anidride carbonica della notte. Inspirai a fondo, e l’ossigeno puro circolò rapidamente nelle arterie. Con un’espirazione espulsi l’anidride carbonica accumulata nelle vene e d’un tratto mi sentii improvvisamente energica. Il mio stomaco brontolò, segnalandomi che era ora di fare colazione.
Ero improvvisamente eccitata all’idea di andare a scuola, e questo non è affatto una buona cosa.
Ma, la verità è che – inutile raccontarsi storie – io volevo vedere James.
Andai in cucina, lasciando la mia camera luminosa. Scendendo, trovai fastidioso il fatto che ci fosse buio, così scostai le tende e spalancai le finestre. Aprii la porta del frigo e presi del succo di frutta. Me ne versai un bicchiere generoso che appoggiai sul tavolo. Aprii l’anta dell’armadietto e ne trassi fuori le fette biscottate e la marmellata di frutti di bosco. Mi sedetti al tavolo di legno estraendo la sedia – l’avevo scelto di legno perché mi ricordava tantissimo quelli dei film americani dove fanno colazione con i pancake – e sorseggiai il succo, godendomi la mattinata di sole. Spalmai la marmellata sulle fette e le mangiai con gusto. Riposi tutto frettolosamente – mi ero già concessa troppo tempo – e corsi in bagno.
Quella mattina decisi di dare un po’ di tempo in più al bagno. Ero preoccupata di non essere abbastanza carina, di non essere attraente. Quel giorno più degli altri.
Pettinai con cura i capelli e decisi che quella mattina avevo decisamente bisogno di una doccia. Perciò gettai la spazzola per terra e mi rassegnai. Mi fiondai sotto la doccia accendendo l’acqua ad una temperatura tiepida. Mi lavai alla bell’e meglio, usando però il mio shampoo preferito.
Uscii di corsa e mi asciugai rapidamente il corpo. Indossai biancheria pulita e proprio in quel momento mi resi conto di non sapere minimamente cosa indossare. Corsi in camera e rovesciai l’intero armadio per trovare qualcosa di decente da mettermi. Alla fine optai per una maglietta verde con scollo a barchetta e dei jeans chiari. Mi resi conto di non essermi ancora asciugata i capelli perciò tornai sfrecciando in bagno. Fortunatamente erano già praticamente asciutti e, quando i miei capelli si asciugavano all’aria, si arricciavano leggermente. Ero contenta, dato che mi lamentavo sempre dei miei capelli lisci come spaghetti. Mi guardai un attimo allo specchio. Dopo un lungo momento decisi che ero soddisfatta di quel look. Corsi in salotto per recuperare lo zaino. Il mio cellulare vibrò, segno che mi era arrivata una notifica. Misi in spalla lo zaino e afferrai il telefono. La notifica proveniva dal sito della scuola. Curiosa, aprii l’avviso e cominciai a leggere.
 
A causa dei seggi elettorali avvenuti nella nostra scuola il giorno scorso, si comunica con gran dispiacere che le lezioni previste per oggi non potranno avere luogo.
                                              La segretaria Pearl Courcy
 
Non potevo credere ai miei occhi. Dopo tutto il tempo che avevo passato a prepararmi, la scuola non c’è. Fantastico. Dopo tutta la fatica che avevo fatto, tutto annullato. Che tempismo. Direi perfetto. Controllai tutta la bacheca del sito della scuola almeno quattro volte, per verificare che non ci fosse stato un qualche avviso precedente, ma niente, tutto completamente vuoto. Lasciai cadere lo zaino sul pavimento e mi buttai a peso morto sul divano. Ricontrollai accuratamente in ogni possibile angolo del mio cellulare, su WhatsApp, nel caso la segretaria non avesse scritto qualcosa sul gruppo della scuola. Tuttavia non trovai niente.
E fu proprio in quel momento che lo notai. Controllai l’ora sullo smartphone e mi cascò l’occhio anche sulla data. Era il sedici ottobre.
Oh-mio-Dio! Oggi è il mio compleanno! Ed io me ne ero completamente scordata! Ma come avevo fatto? Me lo chiesi, anche se in realtà sapevo già la risposta. E la risposta era un nome: James. Sospirai. E pazienza. Tanto non era la morte di nessuno. E poi, se non festeggiare il mio compleanno significava stare più tempo con James, allora andava più che bene. Ero disposta a fare questo “sacrificio”.
Mi stesi sul divano allungando le gambe senza preoccuparmi del fatto che indossavo le scarpe. Mi chiesi cosa avrei fatto. Avrei dovuto aspettare che James si facesse vivo? Oppure avrei dovuto chiamarlo io? Cosa gli avrei detto? Cosa ci saremmo detti? Cosa avremmo fatto? Ma soprattutto, lui teneva a me? Chiusi gli occhi.
Quelle domande tormentavano la mia mente fino a che il mio telefono vibrò. Aprii di scatto gli occhi e la mia mano si spostò fino a rendere visibile lo schermo del telefono. Era una notifica di WhatsApp. La aprii titubante. Era un messaggio da parte di James. Il mio cuore raddoppiò i battiti. Cosa ci sarebbe scritto? Un semplice tanti auguri? Ma come faceva a sapere del mio compleanno? Non ne avevo la più pallida idea, anche perché non mi sembrava di avergliene parlato.
Premetti il dito sopra all’icona dei messaggi e lessi il messaggio con il cuore in gola.
 
Buongiorno Principessa! Come va?
Ci vediamo tra mezz’ora davanti a casa tua
d’accordo? Non fare domande, a dopo!
P.S: metti qualcosa di comodo!
 
Rimasi un po’ perplessa di fronte a quel messaggio. Insomma, non era un messaggio d’auguri, era un messaggio… misterioso?
La mia immaginazione vola troppo, lo so. In compenso però impostai il timer per essere sicura di uscire puntuale. Tornai immediatamente in bagno per assicurarmi di essere ancora a posto. Pettinai i capelli una seconda volta, facendo attenzione a non rovinare i riccioli delicati che mi si erano formati. Non riuscii a sistemarli granché: alla fine dell’operazione avevo i capelli più simili alla criniera di un leone. Pensai che fosse colpa della spazzola, ma i miei capelli erano già elettrici di loro, poi la spazzola incrementava ancor di più questa loro caratteristica. Controllai il timer: mancava ancora un quarto d’ora all’ora x.
Guardandomi allo specchio fui assalita dal dubbio di essere troppo leggera. Spalancai la finestra per saggiare il clima. L’aria era frizzante ma non troppo pungente e non sentivo freddo. Presi un bel respiro. Non c’era niente di cui preoccuparsi. O almeno credevo.
Mi ricordai improvvisamente che nel messaggio James aveva detto di vestirsi comodi. Perciò tanti saluti al look che avevo programmato. Il sole fuori bruciava perciò indossai degli shorts e una maglietta a maniche corte e mi legai una felpa in vita. Cambiai le scarpe e indossai quelle da ginnastica.
Sentii il timer squillare e mi affrettai a spegnerlo. Aprii la porta con fare molto incerto. Fuori non c’era nessuno.
Il mio cuore rallentò i battiti. Il mio sorriso si tramutò in una smorfia di tristezza. Questo è tutto quello che fece il mio inconscio. La mia ragione dapprima si intristì, poi realizzò che un ritardo può capitare a tutti. Uscii e mi voltai per chiudere a chiave la porta. Infilai la chiave nella tasca posteriore dei jeans e mi appoggiai al vecchio albero del mio giardino. Non dovetti aspettare molto.
Le mie orecchie captarono il suono del motore di un’auto molto famigliare. Mi scostai dall’albero e mi avviai verso il vialetto con un sorriso stampato in faccia.
Mi misi in disparte per lasciar passare l’auto. Un’Alfa Romeo blu luccicante spuntò dall’inizio del vialetto. James abbassò il finestrino e mi sembrò il classico ragazzo dei film western.
“Buongiorno principessa!”, mi salutò allegramente.
“Ciao James”, ricambiai.
Scese dall’auto e mi venne incontro. Mi strinse tra le sue braccia ed io mi accoccolai sul suo petto. Mi baciò sui capelli riempiendoli d’aria. Tutto il tempo passato a pettinarli….
Il suo profumo di pulito e di bosco pervase ogni singola cellula del mio corpo. Di colpo, non desiderai altro che rimanere in quell’attimo per sempre, ma sapevo che sarebbe stato impossibile.
“Dove mi porti?”, chiesi.
“Sorpresa!”, disse sciogliendo l’abbraccio.
“Un’altra?!”, esclamai mentre lui mi trascinava verso l’auto.
“Già”, mi disse, sfoderando un enorme sorriso malizioso.
Mi aprì la portiera ed io mi accomodai sul sedile del passeggero.
“Me la lascerai mai guidare?”, chiesi, in tono rassegnato.
“Mmmm…”, fece finta di pensarci un po’ su. “Che ne dici di guidarla adesso, ti va?”, disse infine.
Io strabuzzai gli occhi. Diceva sul serio? Mi avrebbe lasciato guidare quella macchina? Come un sogno – uno dei miei cento miliardi – che si avvera.
“Dici davvero?”, chiesi ancora non del tutto cosciente della situazione.
Lui annuì.
“Ma certo principessa, ogni suo desiderio è un ordine”, disse, ma non riuscì a trattenere una risata.
Scese di nuovo dall’auto e mi venne ad aprire la portiera che aveva chiuso solo pochi secondi prima. Mi prese in braccio e mi fece accomodare sul sedile del guidatore.
“Grazie”, dissi, con gli occhi che luccicavano e che si guardavano intorno per ammirare il volante, il cambio, il cruscotto e tutto il resto. James tornò dalla parte opposta dell’auto e si sedette. Nella sua espressione si leggeva che nella sua auto stare seduto lì era un peso, però gli faceva un bell’effetto vedermi seduta al volante.
“Sarò capace di guidarla?”, domandai a voce incerta.
Scoppiò in una risata per prendermi in giro.
“Preziosa lo è senza dubbio, ma per guidarla non ci vuole un genio. E poi sono sicuro che per una appassionata di motori come te non sarà un problema, giusto?”
“Giusto”, ripetei. Il mio tono era ancora incerto.
Improvvisamente un’altra perplessità si fece largo nella mia mente. Io non sapevo dove stavamo andando. Avrei guidato a caso come una pazza? Non mi sembrava propriamente il caso.
“Ehm… Non so dove devo andare”, dissi, rendendomi conto solo in quel momento che forse era meglio che me ne restavo sul sedile del passeggero.
Lui sembrò riflettere. Evidentemente era una cosa a cui neanche lui aveva pensato.
“Guiderai lo stesso se ti dico io dove andare?”, mi chiese dopo un attimo di riflessione.
“Certo”, esclamai, fin troppo in fretta.
“D’accordo, allora metti in moto”
Non me lo feci ripetere due volte.  Avviai il motore e uscii sgommando dal parcheggio.
“Però… Che guida!”, mi disse ridendo.
“Che ti aspettavi?”, domandai mentre uscivo dal vialetto.
“Pensavo ci andassi più piano”
“Non capita tutti i giorni di guidare un’Alfa Romeo Giulietta!”, risposi.
Mi dava una strana eccitazione essere alla guida di quella macchina, tanto più perché era la sua.
Lui scosse la testa ridendo. Era evidente che anche a lui aveva dato la stessa sensazione quando l’aveva guidata per la prima volta.
“Non è come una BMW però”, rispose provocandomi.
“Assolutamente no, non ci si avvicina neanche per sogno”, risposi stando al gioco.
Mi accorsi che, presa dall’euforia, stavo andando a ruota libera senza sapere dove andare. Avevo già dimenticato la storia del compleanno. Niente poteva essere paragonato alla gioia di stare con James.
Misi il motore in folle, di colpo.
James rise. Si era accorto che stavo vagando senza meta.
“Te ne eri accorto”, dissi, ma non era una domanda, era un’affermazione.
“Non volevo rovinarti il divertimento”, rispose tra una risata e l’altra.
“Dove devo andare?”, dissi, cercando di mantenere un tono serio. Ma era impossibile resistere alla sua risata, con quel suono così armonico…
“Ehm, ehm”, si schiarì la voce. “Ti ricordo signorina che bisogna rispettare i limiti di velocità!”
“Non ci sarà bisogno di ritirarmi la patente”, annunciai.
“Lo spero. Prosegui per Elton Road e poi svolta in Wood Road”, mi indicò la strada in tono chiaro ma dolce.
Eseguii facendo retromarcia e infilandomi in Elton Road.
“Wood Road? Andremo nel… bosco?”, chiesi un po’ perplessa da quelle indicazioni.
“Ti fidi di me?”, mi chiese, con voce dolce e appassionata, ma al contempo insicura. Mi affrettai a rispondere:
“Certo!”, risposi, senza ombra di dubbio.
Lui parve rasserenato dalla mia risposta e sul suo viso comparve di nuovo il suo sorriso malizioso. 
Eravamo arrivati alla fine di Elton Road. Percorsi la rotonda e svoltai in Wood Road. Wood Road era una stradina – a dir la verità era più un sentiero che si inerpicava sopra alla montagna - poco frequentata che porta al boschetto e alle radure di montagna. La gente di qui ci andava ben poco ma era molto apprezzata dai turisti. Io stesso c’ero andata una volta sola da piccola, quando io e mio padre eravamo andati a pesca. Non ci ero più tornata. Mi riusciva difficile immaginare perché James mi stesse portando lì. Tuttavia non feci domande, perché sapevo che non avrebbero avuto risposta.
La strada si stava trasformando pian piano in uno spiazzo di ghiaia. In lontananza si potevano vedere i vari sentieri tracciati nel tempo per i turisti. Da qui era impossibile procedere in macchina. Accostai e spensi il motore.
“Adesso?”, chiesi, ancora più perplessa.
Lui scese dalla vettura, si infilò in spalla uno zaino e mi aprì la portiera.
“Vedrai”, mi disse, mentre il suo sorriso si allargava ancor di più.
“Non me la racconti giusta, tu”, dissi scendendo dall’auto.
Lui rise e buttò la testa all’indietro. Mi prese per mano e mi guidò verso uno dei sentieri che s’inerpicavano nel bosco.
“Quanti chilometri sono?”, domandai incerta se continuare quel percorso.
Lui scoppiò in una fragorosa risata.
“Non eri sportiva?”, mi chiese divertito.
“Sto rivalutando l’idea”, risposi.
“Non ti preoccupare, sono poco più di due chilometri. Ci vorrà circa mezz’ora”
Rilassai le spalle. Ce la potevo anche fare.
“D’accordo, andiamo”, dissi, e mi avvicinai a lui mettendo il primo piede sul sentiero.
Percorremmo non più di una decina di metri che un grosso tronco sovrastato da una fronda spinosa ci sbarrava la strada.
“Dev’essere da molto tempo che qualcuno non viene qui”, commentai.
“Già”, convenne lui ridendo.
“Sai una cosa? Non riesco ancora a capire perché tu mi stia portando qui”, esclamai spazientita.
Lui mi prese le braccia e mi fece voltare verso di lui. S’era fatto serio.
“Ehi, ti fidi di me?”, mi chiese per la seconda volta.
La potenza del suo sguardo era disarmante. Dimenticai tutto e il mio unico desiderio era di prolungare il tempo a nostra disposizione.
“Certo, te l’ho già detto”, risposi senza esitazione. Lui mi strinse a sé in un abbraccio ed io ricambiai stringendolo a me con quanta forza avevo in corpo.
“Mi… stai… stritolando!”, disse in tono ironico. Io mi spaventai ugualmente e lo lasciai andare di scatto. Lui rise della mia apprensione.
Io misi il broncio e lui rise riabbracciandomi.
“Proseguiamo principessa?”, mi disse.
“Senz’altro”
Tagliò la fronda con un coltellino svizzero e mi sollevò prendendomi delicatamente per i fianchi, portandomi dall’altro lato del tronco. Lui invece saltò sopra al tronco e scivolò giù come se fosse Tarzan. Quando toccò il suolo dalla mia parte sul suo volto comparve un sorriso malizioso.
“Ti è piaciuto il mio numero?”
“Esibizionista”, bofonchiai.
“Però un po’ ti è piaciuto vero?”, insistette.
“Guarda che ce la facevo anche da sola!”, precisai, anche se mia aveva fatto piacere quel contatto tra noi.
Lui rise e mi prese per mano, proseguendo sul sentiero. All’improvviso il sentiero si tramutò in qualcosa di più selvaggio, pieno di sassi grezzi e appuntiti. James era più veloce e spedito di me, quasi come se avesse già percorso quella strada più volte. Io invece arrancavo diversi metri dietro a lui. E poi accadde.
Non vidi un sasso appuntito ed inciampai, cascando rovinosamente sui sassi. Cacciai un urlo che probabilmente si sarebbe sentito fino alla città vicina. Ma non m’importava. Il dolore annebbiava tutti i sensi. Sul braccio avevo un lungo taglio, non tanto profondo, ma perdeva molto sangue. Avevo più o meno la stessa cosa sulla gamba destra. La caviglia doleva a causa dell’inciampo e non ero sicura di riuscire ancora a camminare. Ma il punto più doloroso era il petto. Avevo sbattuto in modo talmente violento da mancarmi il respiro. Restai senza fiato per poco meno di un minuto e l’annebbiamento si fece via via sempre più insopportabile e intenso. James si voltò istantaneamente quando sentì il mio urlo agghiacciante.
“Emily!”, urlò. Sentirlo pronunciare il mio nome con quel tono preoccupato mi fece piacere. Se non altro stava venendo ad aiutarmi. Improvvisamente al suono della sua voce tutto il mio dolore svanì come per magia.
“Sono… qui”, mormorai, constatando che facevo fatica a parlare dopo la botta. Il volto di James era una maschera di terrore. Evidentemente non ero un bello spettacolo.
“Non sei… costretto…”. Avrei voluto aggiungere ‘a guardarmi’, ma le forze non me lo permisero.
“Dai Emily, non fare la sciocca”, mi disse, ma si vedeva che era visibilmente preoccupato.
“è tutto… a pos..”, provai a dire, ma era una bugia molto scarsa.
“Stai sanguinando, e tanto”
“Passerà”
Spazientito mi tirò su di peso. Le sue braccia erano calde, e lui sembrava ignorare il sangue che ricopriva le sue mani e che stava sporcando la sua maglietta. Mi abbandonai a lui a peso morto, perciò dovette fare ancora più sforzo. Ma non potevo farci niente. Purtroppo. Camminammo per qualche metro, e io mi concessi il lusso di chiudere gli occhi. Ora non sentivo più nemmeno il dolore, tanto forte era il piacere di essere tra le sue braccia. Mi accoccolai sul suo petto, ma potevo sentire i suoi muscoli tendersi per la tensione che provava. Era seriamente preoccupato per me. Ci fermammo improvvisamente, e lui mia adagiò su un enorme sasso bianco e piatto. Era gelato, ma non mi importava in quel momento. Mi sdraiai. James mi guardò negli occhi.
“Come hai fatto?”, mi chiese in tono dolce.
“Credo di essere inciampata”, risposi, in tono soffocato.
“Bel taglio per essere inciampata”, commentò sarcasticamente. Sorrisi.
“Senti tanto dolore?”, mi chiese tornato serio, sul volto di nuovo una maschera d’ansia e terrore. Optai per la verità, ma forse era il mio cervello annebbiato che mi stava facendo dire ad alta voce simili cose.
“Con te accanto no”, ed era la verità. La pura verità.
Lui sorrise e la sua ansia si attenuò visibilmente. Tornò a fissarmi negli occhi. Cercava di leggere nei miei occhi ciò che veramente provavo. Mi guardò sorpreso del fatto di non trovare niente che potesse esprimere dolore. Solo felicità per essere lì con lui. Il suo sguardo si posò sulle ferite e l’ansia tornò a divorarlo.
“Cerca di concentrarti, quanto dolore senti?”
Fu difficile per me focalizzarmi sul dolore fisico, ma mi sembrava che grazie al freddo del sasso andasse un po’ meglio.
“Credo… meglio”, risposi.
Meglio”, mi scimmiottò. “Fortuna che sono stato previdente”, aggiunse poi, facendo correre lo sguardo al suo zaino. Tirai un sospiro di sollievo. Ma non tanto perché sentissi dolore, ma perché ero triste di aver rovinato la giornata che James mi aveva preparato. Anche se buona parte era di egoismo: volevo troppo rimanere con lui.
Perciò ero felice di avere quella possibilità.
James si sfilò dalle spalle lo zaino e ci frugò dentro per un po’.
“Non credevo di essere così previdente”, sottolineai.
Lui scosse la testa: “Non è colpa tua”
Dal suo tono fece capire di non voler sentire ulteriori domande. Estrasse dallo zaino del disinfettante, un pacchetto di fazzoletti e una scatola di garze.
Il sangue adesso fuoriusciva più lentamente e il dolore – per quanto lo potessi sentire – si attenuò.
Bagnò un fazzoletto con abbondante dose di disinfettante e mi pulì le ferite. Bruciava leggermente ma non ci diedi troppo peso. Avvolse i due tagli con la garza e la fermò con dello scotch apposta. Per tutta la durata dell’operazione lanciò numerose occhiate ansiose all’orologio. Doveva andare da qualche parte? Mi rattristai. Significava che non avremmo avuto tutta la giornata per noi.
“Va meglio?”, chiese incerto.
“Molto, grazie mille”, risposi grata. Senza di lui non so come avrei fatto.
“Te la senti di proseguire, o ti riporto a casa?”, domandò, con aria triste.
“Proseguo”, dissi con decisione. Non avrei sprecato nessun secondo a nostra disposizione.
Mi aiutò a smontare dal masso a cui mi aveva appoggiata e s’incamminò tenendomi per mano. Ero sicura che d’ora in avanti mi avrebbe aspettata sempre.
“Hai preso una botta forte?”, mi domandò. E capii che la sua preoccupazione non era del tutto svanita.
“No, è stato perlopiù all’inizio, ma adesso non mi fa più male”
“Sicura?”
“Sì”, risposi, e non stavo mentendo.
La caviglia reggeva piuttosto bene, anche se nei primi passi sentivo un po’ di dolore. A mano a mano che proseguivo il dolore si attenuava sempre di più fino a scomparire. In lontananza si poteva vedere una vegetazione più controllata e meno selvaggia di quella che ci aveva aggredito nel bosco.
“Siamo quasi arrivati”, annunciò infatti.
Sorrisi, e anche il suo viso tornò a risplendere di gioia pura. Anche lui era contento di essere qui con me. Pro­seguimmo per qualche metro fino a che non incontra­mmo qualcosa di meraviglioso. Un arco, formato da una fronda verde e decorato con mille fiori colorati: azzurri, rosa, gialli, rossi e viola.
Era un tripudio di colori la cui bellezza era inspiegabile a parole. Notai che quell’arco faceva da ingresso a quello spiazzo d’era che avevo visto in lontananza poco fa. Trattenni il respiro. Era quella la sorpresa di James?
Mentre ero persa nella contemplazione della bellezza dell’arco fiorito, mi cascò l’occhio su qualcosa che non avevo notato prima. Nel punto più alto dell’arco, si potevano distinguere alcune lettere di cartone dai colori sgargianti. Lessi la scritta.
 
BUON COMPLEANNO EMILY!
 
Le mie gambe stavano per cedere. Dai miei occhi colavano giù lente lacrime di gioia e sorpresa.
Per tutto il tempo James era rimasto a guardarmi ed ora era leggermente in ansia perché stavo piangendo. Mi buttai tra le sue braccia e lo abbracciai fortissimo.
“James… è… bellissimo! Ma… insomma tu… come facevi a saperlo?”
Lui sorrise con quel suo modo malizioso che mi fece dimenticare tutto in un attimo. Mi sollevò facendomi fare una giravolta fra le sue braccia, e volteggiammo a lungo nell’aria e sentivo la brezza mattutina scompigliarmi i capelli. Il mio cuore batteva di gioia pura.
“Buon compleanno principessa!”, mi sussurrò James all’orecchio dopo che mi ebbe riposata a terra. Io non potevo ancora credere a ciò che avevo davanti ai miei occhi, sapevo solo di trovarmi in uno stato di pura beatitudine e felicità, di provare emozioni talmente forti che mai in vita mia le avevo mai provate.
James mi prese per mano ed insieme varcammo la soglia di quel bellissimo arco fiorito. Al di là dell’arco vi era uno spiazzo verde, con tutta l’erba tagliata. Ai lati tantissimi alberi di frutta ai quali erano appesi palloncini e striscioni con scritto Buon Compleanno Emily.
“Tu hai… fatto questo per… me?”, domandai incredula.
“Non proprio…”, rispose, lasciando la frase in sospeso.
All’improvviso da dietro gli alberi si sentì gridare ‘Tanti Auguri!’. Sbucarono fuori Irene, Letizia, Diego e Gabriel. Non ci potevo credere. Non era… reale. Tutto questo… per me? Cosa avevo fatto di così straordinario da meritarmi tutto questo?
Poi, di colpo, mi venne in mente tutti gli atteggiamenti strani che avevano avuto James, Irene e Letizia negli ultimi giorni, e tutto mi fu più chiaro. Ora capivo. Mi aprii in un sorriso a trentadue denti. Ero… felicissima. Non potevo descrivere ciò che provavo, sarebbe stato tutto troppo limitato.
Di nuovo, mi sgorgarono lacrime di pura gioia dagli occhi. Mi portai le mani alla bocca. Ormai erano tutti intorno a me.
“Voi… siete fantastici!”, esclamai.
“Su, su non ci ringraziare, sei speciale per noi!”, mi dissero, quasi in coro.
Sei speciale per noi. Wow. Era la prima volta che mi guadagnavo l’affetto di persone a quel modo.
“Ti piace?!”, mi chiesero Irene e Letizia esitanti. Dovevo immaginare che c’erano loro due dietro a tutto questo.
“Se mi piace? È assolutamente fantastico anzi, meraviglioso!”, dissi convinta, e non stavo mentendo. Non c’era spazio nel mio cuore per qualcosa che non fossero gioia e felicità pura.
«Beh, non potevamo mica lasciarti trascorrere un compleanno come gli altri… Sei MAGGIORENNE! Ti rendi conto? Potrai fare un sacco di cose! Sarà fantastico!», disse Letizia, entusiasta.
«E così anche l’ultima della combriccola si è unita al club dei diciottenni!», mi prese in giro Diego, e io lo guardai imbronciata.
Si strinsero tutti intorno a me abbracciandomi. Che bell’abbraccio di gruppo. Non potevo essere più felice di così. Poi, mi si accese una lampadina nel cervello.
“Tu… ecco perché avevi il kit, qualcuno si era già fatto male risalendo la montagna!”, indovinai.
James alzò le mani in segno di rassegnazione.
“Per la precisione è caduto Diego”, specificò. “E ti posso assicurare che la prima volta che siamo venuti quassù ci abbiamo messo due ore a salire: non hai idea di cosa c’era sul cammino”
Il mio pensiero corse subito a Diego.
“Ti sei fatto male?”, domandai ansiosa.
Diego scoppiò in una fragorosa risata.
“Emily, mi sono fatto male una settimana fa…”
“Oh”, fu tutto quello che dissi.
Letizia mi stava squadrando.
“Ti sei fatta male?”, disse guardando con un’occhiata truce la mia garza sul braccio e sulla gamba.
“Ehm… niente di che, tranquilla”
Niente di che??”, esclamò Irene quando mi vide anche lei.
“Dopo ci racconterai tutto”, dissero, in tono perentorio.
Non avevo idea di quale fosse il dopo, ma in quel momento non m’importava granché.
“E adesso, che ne dici di aprire i regali?”, disse Gabriel. Io ero stupita. Regali? Se non mi aspettavo la festa, figuriamoci i regali!
“Regali? Davvero?”, chiesi confusa.
“Credevi che ci saremmo dimenticati il tuo compleanno? Neanche per sogno!”, mi disse Letizia.
Mi trascinarono fino al centro dello spiazzo. Ci sedemmo per terra, in cerchio. Io avevo James da un lato e Diego dall’altro. Irene e Letizia erano davanti a me. Gabriel e Irene erano vicini e si tenevano per mano. Ormai il sole aveva quasi raggiunto il punto più alto. Controllai velocemente l’orologio. Erano le undici e dieci.
Vedevo intorno a me i loro volti eccitati. Io ero un po’ in imbarazzo all’idea di ricevere tutti quei doni, magari anche costosi. Sperai che non lo fossero.
I primi che mi allungarono il pacchetto furono Gabriel e Diego. Io ero stupita.
“Anche voi? Non dovevate!”, esclamai, e lo pensavo davvero. Loro sorrisero.
“Non potevamo non farti un regalo!”, rispose Diego raggiante. Come resistere al suo entusiasmo contagioso? Gli lanciai un’occhiataccia scherzosa e afferrai il pacchetto.
Prima di aprirlo lo osservai. Era impacchettato con una carta rossa e chiuso con un nastro dorato. Sul davanti c’era scritto il mio nome in lettering.
Lo tastai con le mani per indovinarne il contenuto. Era un pacco soffice, perciò dovevano essere dei vestiti. Lo aprii curiosa. Rimasi piacevolmente sorpresa.
Mi avevano regalato dei jeans di un colore particolare, né chiaro né scuro. Li sollevai per guardarli meglio, poi mi accorsi che sotto c’era qualcos’altro. Un maglioncino rosso-bordeaux con scollo a V. Era aderente.
“Il colore l’ha scelto James, è il suo preferito, dice che ti dona in un modo che gli dà alla testa”, disse Diego ridacchiando. James lo fulminò con lo sguardo. Io gli accarezzai la mano e si tranquillizzò, anche se non era veramente arrabbiato. Anzi, potevo vedere sul suo viso che in realtà era felice che qualcuno me l’avesse detto al posto suo. Ma provava anche vergogna per non essermelo riuscito a dire.
“è vero, sei ancora più bella del solito quando indossi quel colore, risalta la forma e i colori del tuo viso”, disse, e io arrossii violentemente.
“Su, su, non è questo il momento per le smancerie, adesso si apre i regali”, ci interruppe Gabriel. Io mi ripresi. Di nuovo, i complimenti e la forza del suo sguardo mi avevano fatto dimenticare il resto.
“Oh, scusa. Sono bellissimi entrambi, davvero. Non so come ringraziarvi”
“Non devi farlo, infatti”, mi rimproverarono loro. Adoravo quei regali, se non altro avrei avuto un capo d’abbigliamento sicuro che potevo indossare tutte le volte che stavo con James.
“Adesso tocca a noi!”, dissero Irene e Letizia.
Stringevano tra le mani un pacchetto verde brillante – esattamente il mio colore preferito – con un bel fiocco rosa. Era bellissimo. Riconobbi lo zampino di Letizia. Anche lei era brava ad impacchettare. Tastai anche quel regalo.
Rimasi senza fiato. Era un album per scrapbooking! Mi rigirai la scatola fra le mani. Stando a quello che c’era scritto sopra, conteneva dieci penne colorate metallizzate, cinque fogli di stickers, due stencils, tre scotch colorati per decorare e un libretto contenente carta per fare da sfondo alle foto che ci avrei messo.
“Dato che ami tenere le foto come ricordi, abbiamo pensato che così potrai anche decorarle e tenerle tutte insieme!”, mi spiegò Irene. Non trovavo parole per descrivere quel bellissimo regalo.
James tirò fuori dal suo zaino – che dopo il kit medico di prima chiamerò zaino di Mary Poppins – una macchina fotografica. Sorrise.
“Le foto le faremo con questa”, mi disse, indicando la fotocamera.
“Io… è perfetto. Come regalo”, riuscii a dire, ma non erano parole del tutto coerenti.
Immaginavo già cosa metterci: le foto che ritraevano i momenti passati con James. Avrei reso quello scrapbook un album di ricordi della nostra storia. Perché sembrava proprio che ne stessimo iniziando una.
Vidi tutti i volti dei miei amici sorridermi. Pensai che l’espressione dei miei occhi fosse eloquente e senza bisogno di traduzione.
“Ma adesso… si mangia!”, annunciò Letizia sorridendo.
Mangiare? Cosa?
Controllai l’orologio. Erano
Letizia mi indicò un tavolino ai margini dello spiazzo. Non sapevo come avevo fatto a non notarlo prima, era il punto più decorato di tutta la radura. Ci alzammo tutti per poi risederci sulle sedie del tavolo.
“Oggi menù speciale per la nostra festeggiata!”, dichiarò Irene.
Lei e Letizia si addentrarono nel bosco per poi uscire con due teglie di carta stagnola.
“Chi ve le ha date? Tarzan?”, dissi, prendendole in giro per il fatto che le avessero prese dalla foresta.
“Non dire sciocchezze, le abbiamo messe su un altro tavolo in modo che tu non le potessi vedere”, mi rispose Letizia ridendo.
“Come siete organizzate”, commentai.
“Cos’è?”, aggiunsi poi, curiosa.
“Tagliatelle al ragù!”, annunciò Irene orgogliosa.
Mi venne l’acquolina in bocca solo a sentire il nome! Oserei dire che quelle erano il mio piatto preferito, ma non volevo arrischiarmi a cacciare in seconda e terza posizione la pizza e i tortelli.
Me ne servirono un generoso piatto, e fecero altrettanto con tutti gli altri.
Poi James tornò dalla foresta con una bottiglia di champagne tra le mani.
“Champagne? Per me?”, domandai, strabuzzando gli occhi.
“Una persona speciale, un vino speciale”, rispose lui, tranquillo.
Quelle parole fecero raddoppiare i miei battiti cardiaci e mi resero il respiro affannoso. Come se ciò non bastasse, diventai tutta rossa.
“Oh, qui la signorina è arrossita!”, disse Diego, ridacchiando sotto i baffi. Io – se possibile – arrossi ancor di più e gli lanciai un’occhiataccia.
James fece il giro del tavolo e riempì i bicchieri con una dose moderata. Poi levò in alto il suo bicchiere e disse:
“Un brindisi alla stella che ha illuminato e che illuminerà per sempre la mia vita!”, esclamò, e le sue parole erano più sincere di qualsiasi altre.
Per sempre. Wow. Mi soffermai soprattutto su quella parola. Aveva un significato che andava oltre i limiti della comprensione umana.
Diventai ancor più rossa, e il mio desiderio impetuoso di stare con lui si trasformò in un fuoco ardente. Volevo baciarlo, volevo toccarlo adesso. Ma non potevo farlo. E tutto questo andava a fuoco. Sentivo ogni singola cellula del mio corpo bruciare di desiderio, crogiolarsi in ciò che sapeva non avrebbe potuto fare. Almeno non in quel momento. Ma in quella giornata speciale, ce ne sarebbe stato uno solo per noi due? Ne dubitavo. Ma lo speravo fortemente. E non perchè non desiderassi la compagnia degli altri, anzi. Ma perché in quel momento lui era tutto ciò che vedevo, e malgrado ogni singola parola che ci eravamo detti fosse stata chiara ed esplicativa, ancora nessun ti amo era uscito dalle nostre bocche. Ed io volevo aspettare di avere la certezza di poter stare insieme, che quel sentimento di fuoco che provavo per lui fosse reciproco. Lui fissò su di me i suoi occhi scuri e profondi, ma io non ricambiai per paura di cedere ai miei desideri che stavano ardendo in modo doloroso, più dei tagli che recavo sul braccio e sulla gamba.
«E anche alla nostra nuova maggiorenne!», aggiunse Irene levando il calice. Noi la imitammo e brindammo… beh, io brindai a me stessa.
Il pranzo proseguì con molto gusto e allegria. Diego non la smetteva di fare battute, anche su me e James. Ma la cosa più interessante fu senz’altro uno strano annuncio.
“Ehm… scusatemi se interrompo il pranzo in tuo onore, Emily”, esordì Gabriel “Ma la cosa che devo dire, la voglio dire davanti a tutti, in modo che sia chiara. Sappiate che in questo momento faccio molta fatica, ma spero che possa aiutarvi a comprendere la purezza e l’intensità di ciò che provo”, fece una pausa.
Irene pendeva dalle sue labbra. Vidi che stava sudando per l’agitazione. Letizia le teneva la mano. Feci lo stesso.
“Beh, quello che voglio dire è che… Ti amo Irene, più di ogni altra cosa, e spero tu ricambi”, disse e diventò tutto rosso. Era passato dall’essere evasivo a mirare dritto al bersaglio. Irene lo imitò arrossendo. Si alzò in piedi anche lei.
“Gabriel…”, cominciò, e lui trattenne il fiato. Ma io sapevo già quale sarebbe stata la sua risposta.
“…ti amo anch’io”, concluse e sul volto di Gabriel si dipinse una smorfia di puro stupore.
Quasi come una calamita e il ferro, si avvicinarono l’una all’altra senza rendersene conto e si baciarono. Quando si staccarono – era stato un bacio breve ma intenso – loro stessi non riuscivano a credere a ciò che era successo. Ora stavano insieme. Quel bacio per me fu come l’ossigeno per il mio fuoco che ardeva. Le fiamme si agitarono ancor di più, rendendo sempre più difficile il controllo su di esse.
Finito di mangiare ballammo sotto le note di musiche provenienti dal lettore cd di Diego. Passando da Fly The Intouchables di Ludovico Einaudi a Cin Cin di Alfa, ci liberammo da tutto, sciogliendoci in un ballo liberatorio. Ballavamo per lo più a coppie: io e James, Irene e Gabriel e Diego e Letizia, che non erano una coppia, ma che erano amici stretti.
Beh, a dir la verità neanche noi lo eravamo. Quel particolare mi rattristò, e cercai di scacciarlo dalla mente.
La musica si fermò improvvisamente e ci fermammo istantaneamente anche noi.
“Mi dispiace signori, ma adesso è giunto il momento della seconda sorpresa!”
   
 
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