Serie TV > The 100
Ricorda la storia  |      
Autore: Aagainst    23/04/2021    3 recensioni
“Il mio nome è Clarke, Clarke Griffin. Mia madre è un medico, posso portarti da lei.”. Lexa non rispose. Da una parte sentiva che poteva fidarsi di lei, dall’altra però il terrore di farsi nuovamente male era troppo.
“Ti prego, permettimi di aiutarti.”
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Abigail Griffin, Clarke Griffin, Lexa
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

So don't look back, let it shape you like an ocean
Even the deepest scars in time will fade
(Rise Against-Tragedy+Time)

 

 

Lexa sapeva che avrebbe dovuto tacere. Sapeva che avrebbe dovuto continuare a mentire e negare. Sapeva che avrebbe dovuto continuare a fingere di non essere sé stessa. Strinse i pugni e soffocò un urlo. La pioggia cadeva sempre più fitta. Era fradicia, ma non le importava affatto. Voleva solo scappare, mettere quanta più distanza possibile tra lei e quel posto. Scosse il capo. Lo zigomo le faceva malissimo. Poteva sentire il sangue scorrere e bagnarle la guancia e il collo, mescolandosi con le gocce di pioggia che le sferzavano il viso. Si toccò la ferita e gemette. Con tutta probabilità lo zigomo era fratturato. Sospirò, cercando di ignorare il dolore. Titus Flame, il suo patrigno, era l'uomo più violento e omofobo che Lexa avesse mai conosciuto. Quando sua madre lo aveva sposato alcuni anni prima, la ragazza sapeva già che la sua vita sarebbe stata un inferno. Titus aveva un passato da sergente nell'esercito e non gli piaceva il modo di vivere della ragazza. Non che Lexa avesse uno stile di vita così sregolato. Era una ragazza normale, che amava andare ai concerti, leggere libri e fumetti e uscire con i suoi amici. Tuttavia, a Titus tutto ciò non sembrava andare a genio. Sosteneva che Lexa stesse vivendo in modo lascivo e che sarebbe cresciuta senza spina dorsale, debole. Voleva, le disse, farla diventare una guerriera, un leader. Non che a Lexa interessasse qualcosa di tutto ciò. Anzi, la cosa non le piaceva per niente. Eppure, non poté fare a meno di arrendersi alla sua volontà. Essere un comandante è essere soli, questa fu la prima lezione che Titus le impartì. Lexa dovette tagliare i legami con tutti i suoi amici e tutte le persone a lei care. Non aveva altra scelta se non obbedire. Ciò che le apparve incredibile fu la totale noncuranza di sua madre. Aveva iniziato a prendere tutto quello che Titus diceva per oro colato. Era persino diventata una persona molto religiosa, qualcosa di davvero insolito per una donna come lei. Non che Lexa avesse qualcosa contro le persone religiose. Aveva imparato a rispettare tutti e, per certi versi, era affascinata da chi credeva in qualcosa. No, il problema non era la religione in sé. Il problema aveva un nome ed era fanatismo. Titus non era una persona religiosa, era un fanatico. Ed essere costretta a vedere sua madre prendere quella strada era stata una delle esperienze più dolorose nella vita di Lexa. Quando poi la donna si era ammalata e Titus non aveva voluto portarla in ospedale perché Dio vede e provvede, Lexa aveva sperato con tutto il cuore che quelle parole fossero vere. Non tanto per sua madre, no. Lexa aveva pregato che un Dio esistesse e la salvasse da quell’incubo che stava vivendo. Eppure, nessuno era sceso dal cielo per aiutarla. E, alla morte di sua madre, dovette accettare la cruda realtà: era rimasta sola. 

Accadde tutto così in fretta. Lexa aveva deciso di non tornare a casa quella sera, stufa di subire gli abusi del suo patrigno. Si era intrufolata in una tavola calda e lì l’aveva vista. Era così bella, una ragazza alta, slanciata, dai capelli scuri e gli occhi di una tonalità indefinibile, tra il nocciola e il verde chiaro. Il suo nome, apprese in seguito, era Costia. Era di poco più grande di lei ed era così piena di vita ed entusiasmo. E, per qualche mese, Lexa pensò che, forse, il suo destino non era essere sola. Forse non era il destino di nessuno. Eppure, spesso la vita non è clemente e, per l’ennesima volta, le certezze che aveva appena acquisito si trasformarono nella più feroce delle illusioni. Titus scoprì della sua relazione con Costia quasi per caso. Lexa aveva imparato con il tempo a non lasciare il suo telefonino in vista, in modo da evitare che l’uomo controllasse ogni aspetto della sua vita privata. Era sempre riuscita a nasconderle gli aspetti più intimi di sé. Sempre, tranne quel pomeriggio. Titus aveva aspettato che uscisse dalla doccia e poi, afferratala per i capelli, l’aveva letteralmente lanciata contro il tavolino di legno che c’era in soggiorno. Per qualche istante, Lexa aveva temuto di essersi rotta la spina dorsale. Quando poi l’uomo aveva cominciato a calciarla ripetutamente e a colpirla al volto, la ragazza si era ritrovata a desiderare solo che tutto ciò finisse in fretta, non importava come. E, di nuovo, le sue preghiere non si erano avverate. Aveva dovuto smettere di vedere Costia, nonostante l’invito di quest’ultima a denunciare l’accaduto e ad andare a vivere con lei. Lexa avrebbe voluto dire di sì. Avrebbe voluto seguirla, avrebbe voluto salvarsi. Lexa avrebbe voluto lasciarsi amare, ma non ce l’aveva fatta. Non per codardia, no. Al contrario, Lexa desiderava solo proteggere la ragazza che amava da Titus, anche a costo di ritornare ad essere sola. Costia morì pochi mesi dopo, in seguito ad un incidente stradale. E, di nuovo, Lexa non poté fare altro che ritornare a chiedersi se davvero la solitudine non fosse il suo destino. 

“Ehi, attenta!”. Lexa non realizzò immediatamente cosa fosse successo. Si ritrovò per terra, più dolorante di prima e zuppa di pioggia. Alzò lo sguardo. Di fronte a lei, accucciata, una ragazza più o meno della sua età le sorrideva, l’aria preoccupata. Aveva lunghi capelli biondi e i due occhi più azzurri che Lexa avesse mai visto. 

“Stai bene? Mi dispiace, non ti ho vista e... Ma tu stai sanguinando!”. Lexa sobbalzò. Indietreggiò, noncurante delle pozzanghere che le inzuppavano sempre di più i vestiti.

“Ehi, ehi, tranquilla. Non ti farò del male, te lo giuro.” la rassicurò la ragazza di fronte a lei. Lexa si ritrovò addossata ad un muretto, il cuore che le batteva nel petto all’impazzata. Deglutì, terrorizzata. Non aveva via di scampo. Chiuse gli occhi, pronta ad accettare qualunque cosa quella sconosciuta avesse voluto farle. Sentì una mano posarsi sulla sua guancia. Era delicata, così diversa da quella di Titus. Riaprì gli occhi. Davanti a lei, due iridi blu come il cielo e profonde quanto l’oceano la scrutavano, con una tenerezza che Lexa non aveva mai sperimentato in vita sua.

“Io...” provò a dire, ma le parole le morirono in bocca.

“Va tutto bene. È una brutta ferita, ho paura che lo zigomo si sia fratturato. Lascia che ti accompagni in ospedale, è colpa mia se sei caduta.”

“Io non... Io non posso.” Lexa mormorò, provando ad alzarsi. Non appena la sentì gemere dal dolore, però, la bionda si apprestò a farla rimanere seduta.

“Ti prego, ho bisogno di andarmene.” Lexa la supplicò, ma la ragazza di fronte a lei le fece segno di no con la testa. Sospirò. 

“Il mio nome è Clarke, Clarke Griffin. Mia madre è un medico, posso portarti da lei.”. Lexa non rispose. Da una parte sentiva che poteva fidarsi di lei, dall’altra però il terrore di farsi nuovamente male era troppo. 

“Ti prego, permettimi di aiutarti.” insistette Clarke. Non era una stupida, era consapevole del fatto che la caduta di pochi minuti prima c’entrasse ben poco con quella ferita e con quelle che sembravano essere proprio delle costole incrinate. Lexa si morse il labbro. Aveva forse scelta? 

“Va bene.” cedette. “Mi chiamo Lexa.” aggiunse poi, tutto d’un fiato. E Clarke non poté fare altro che regalarle il più dolce dei sorrisi.

 

________________

 

Quando Abby Griffin si ritrovò davanti a sé sua figlia in compagnia di una ragazza sconosciuta e decisamente malmessa, pensò immediatamente al peggio. Per qualche istante, ipotizzò che Clarke fosse rimasta coinvolta in un incidente o qualcosa di simile e il terrore la assalì, violento. 

“Mamma, lei è Lexa. Ha bisogno del tuo aiuto, poi ti spiego.” si limitò a dire Clarke, entrando in fretta e furia in casa e adagiando Lexa sul divano. I lunghi capelli scuri le incorniciavano il viso, contratto in una smorfia di dolore. Abby fece segno alla figlia di seguirla in bagno, per aiutarla a prendere l’occorrente per la medicazione. 

“Che cosa sta succedendo?” chiese, non nascondendo una certa preoccupazione.

“Mamma, non lo so nemmeno io. Mi sono scontrata con lei mentre tornavo alla macchina e poi ho notato il sangue e il resto.” 

“E non potevi portarla in ospedale?” replicò Abby. 

“Mamma, è spaventata e non mi avrebbe permesso di accompagnarla al pronto soccorso. Ho pensato che questa sarebbe stata l’opzione migliore.”. Abby sospirò. Radunò cerotti, bende e disinfettante e tornò in soggiorno. Lexa era ancora stesa sul divano. Sembrava esausta.

“Ciao Lexa, io sono Abby.” la donna tentò un primo approccio. 

“S-s-salve.” balbettò la ragazza, terrorizzata. La donna le sorrise, cercando di rassicurarla il più possibile. Lexa non era la prima persona in quelle condizioni che le capitava sotto mano, purtroppo. Abby si chiese chi mai fosse il mostro che aveva osato colpire quella povera ragazza in un modo tanto feroce. 

“Questo potrebbe bruciare un po’.” avvisò, mentre le passava delicatamente il disinfettante sullo zigomo. “Buone notizie, non penso sia rotto.”. Lexa tirò un sospiro di sollievo e parve rilassarsi per qualche secondo. Almeno fino a quando Abby non le sfiorò il costato.

“Ti fa male? Posso vedere?” chiese la donna. Lexa era nel panico. Aveva paura. Non voleva che la verità venisse a galla. E se poi anche Abby e Clarke l’avessero odiata? Se le avessero confermato che Titus era nel giusto? Se...

“Lexa, siamo qui per te. Non ti vogliamo fare del male, vogliamo solo aiutarti.” la rassicurò Clarke, carezzandole il braccio. 

“Fa male...” Lexa mormorò, lasciando che Abby le alzasse la maglia zuppa per la pioggia. La donna non si scompose davanti ai lividi e alle cicatrici. Si limitò a tastarle il costato, per rilevare eventuali fratture. 

“Penso tu abbia delle costole incrinate. Ovviamente servirebbe una radiografia per esserne certi, ma credo che un po’ di riposo possa bastare. Per sicurezza, comunque, ti metterò questa pomata e ti prescriverò degli antidolorifici. Mi raccomando, prendili a stomaco pieno.”. Lexa annuì, non troppo convinta. Da quando Titus era entrato nella sua vita, non aveva preso più medicine, nemmeno del semplice paracetamolo per far abbassare la febbre. 

“Clarke, io ora purtroppo devo prepararmi per andare a lavoro, ho il turno di notte oggi. Riesci a portarla a casa tua?”. 

“No io... Non c’è bisogno che...” Lexa tentò di protestare, ma Clarke le si accucciò davanti e le sorrise, riuscendo a calmarla.

“Solo per stanotte.” sussurrò. Lexa sospirò.

“Solo per stanotte.”.

 

________________

 

L’appartamento di Clarke era piccolo, ma confortevole. Nel soggiorno un’ampia libreria ospitava una grande quantità di libri e alle pareti erano appesi svariati quadri. 

“Eccoci qua. Perdonami il disordine, ma mi sono trasferita qui da poco. Il bagno è in fondo a destra, se vuoi farti una doccia vado a prenderti subito gli asciugamani e dei vestiti puliti. Fai pure come se fossi a casa tua, non ti preoccupare.”. A quelle parole, Lexa sentì un pugno allo stomaco. Fai pure come se fossi a casa tua, che ironia. No, quel posto non era come casa sua. Clarke e sua madre l’avevano medicata, aiutata, trattata come un essere umano. A casa sua nulla di tutto questo sarebbe mai capitato. 

“Ehi, va tutto bene?” chiese Clarke, preoccupata. Lexa scosse il capo. Stava tremando come una foglia. Sentì Clarke intrecciare le dita alle sue e tirarla a sé, per poi condurla lentamente in bagno. D’istinto, Lexa si addossò alla parete e chiuse gli occhi, pronta ad accogliere qualsiasi tipo di punizione. 

“Lexa, apri gli occhi.” le ordinò Clarke, con dolcezza. 

“Io non...”

“Apri gli occhi.” insistette la bionda. “Non voglio farti del male. Voglio solo aiutarti, Lexa. Morirai di freddo se tieni questi vestiti zuppi addosso, hai bisogno di una bella doccia calda.”. Lexa deglutì. Non c’era traccia né di violenza, né di pietà negli occhi blu di Clarke, solo preoccupazione e tanta tenerezza. La bionda allungò una mano e, titubante, la posò sulla guancia della mora. Lexa sobbalzò a quel contatto, ma la lasciò fare. 

“Ti aspetto di là. Non ho molto in frigo, spero che una semplice pasta con del sugo ti vada bene. Sei allergica a qualcosa? Glutine, latticini... O magari sei vegana o vegetariana, in ogni caso sappi che non c’è problema, mi adeguo.”

“Mangio di tutto, grazie.” Lexa rispose, sorpresa da quell’ulteriore cura nei suoi confronti. 

“Perfetto. Allora ti aspetto, tu prenditi pure il tuo tempo.”. Lexa annuì e la osservò sparire al di là della porta. Inspirò ed espirò a fondo, mentre le mani le tremavano ancora. Decise di spogliarsi e infilarsi nella doccia. Clarke aveva ragione, l’acqua calda si stava rivelando un vero e proprio toccasana. Finito di lavarsi, si asciugò e si infilò i vestiti puliti che Clarke le aveva gentilmente offerto. Si fece coraggio e raggiunse la bionda in cucina. 

“Ehi. Come stai, meglio?”. Lexa annuì, timida. “Siediti pure, ora ti do subito gli spaghetti.”. Lexa si accomodò incerta al tavolo e attese che Clarke le porgesse un enorme piatto di pasta al sugo.

“Io... Non era necessario.”

“Sì invece. Non fare complimenti, non credo nemmeno sia venuta così buona.” ribatté Clarke.

“Al contrario, è il piatto di pasta più buono che abbia mai mangiato.” la smentì Lexa, mentre divorava gli spaghetti forchettata dopo forchettata. Clarke le sorrise, guardandola mangiare di gusto. Finalmente Lexa sembrava rilassarsi. Dovevano essere coetanee, anche se i suoi occhi verdi raccontavano di una ragazza che era stata costretta a crescere fin troppo in fretta. Clarke si chiese chi fosse l’essere abbietto che aveva osato ridurla così. Nessuno meritava un trattamento simile. Eppure, non le pose nessuna domanda. Quando e se Lexa se la fosse sentita, sarebbe stata lei ad aprirsi. 

“È stata una giornata intensa, mi piacerebbe andare a riposare. Domani dovrai andare a lavorare e io non ho intenzione di disturbare oltre.”

“Non devo andare da nessuna parte, Lexa.” la tranquillizzò Clarke. “Gestisco una piccola galleria d’arte a Tower Road, ma posso benissimo delegare il lavoro a Octavia, la mia collaboratrice. E, per quanto riguarda te, nessun disturbo. Puoi restare qui per tutto il tempo che ti serve. Anzi, a me fa solo che piacere. Da quando la mia migliore amica è andata a vivere con la sua ragazza mi sento sola.”. Lexa non riusciva a credere alle sue orecchie. 

“Anche volendo io non potrei mai... Insomma, io...”. Clarke le carezzò il braccio, per calmarla.

“Lexa, ascoltami. Hai bisogno di riposo, l’hai sentita anche tu mia madre. Lasciati aiutare.”. La mora chinò il capo, pensierosa. 

“Posso decidere domani?” chiese. 

“Hai tutto il tempo del mondo, Lexa.” la rassicurò Clarke. “Bene, direi che è ora di andare a dormire.” disse poi, conducendola in camera sua e adagiandola sul letto.

“No Clarke, io non...”

“Dormirò sul divano, stai tranquilla. In questo momento ne hai più bisogno tu.” le rispose la bionda, avviandosi alla porta. Lexa la fermò per un polso. I suoi occhi verdi si scontrarono con quelli così blu e rassicuranti di Clarke. Le chiedevano di fidarsi, di lasciarsi aiutare, di non scappare via. Lexa non aveva mai ricevuto uno sguardo così carico di bene in tutta la sua vita se non da Costia. E ora lei non c’era più. 

“Ti prego, fallo per me.” insistette Clarke. E Lexa non potè fare altro che cedere, per l’ennesima volta quel giorno. 

 

________________

 

“No, ti prego. Ti prego, smettila. Smettila!”. Clarke aprì gli occhi, non realizzando subito cosa stesse succedendo. Controllò l’ora. Erano le due di notte e in casa non c’era nessuno a parte lei e... 

“Lexa! Merda!” imprecò, saltando giù dal divano e correndo in soccorso della sua ospite. Quando entrò in camera, trovò Lexa con gli occhi chiusi, rannicchiata e completamente scoperta. 

“Ti prego, basta! Farò tutto quello che vuoi, ma fermati. Fermati!” urlava, in preda agli incubi. Clarke non ci pensò due volte. Si avvicinò e le bloccò le braccia, per poi scuoterla con delicatezza, pregando che si svegliasse.

“Lexa.” la chiamò. “Lexa, svegliati. È solo un brutto sogno.”. A poco a poco, la ragazza schiuse gli occhi. 

“C-Clarke.”

“Sì, sono io. Hai fatto un incubo, sei al sicuro qui. Nessuno ti farà del male, te lo giuro.”. Per tutta risposta, Lexa le si accoccolò al petto, scoppiando in un pianto disperato. Clarke la circondò con un braccio e cominciò a cullarla, intonando un motivetto che suo padre era solito cantarle quando era piccola. 

“Ti va di parlarne?” le chiese, cercando di essere il più delicata possibile. 

“A dire il vero no.” rispose Lexa. “Ma sento di doverlo fare.”

“Non voglio forzarti a fare qualcosa per cui non sei pronta.”. Lexa scosse il capo. 

“Sento che se non parlo potrei impazzire. Non so perché, ma mi ispiri fiducia Clarke. Sento di potermi fidare di te e la cosa mi spaventa come non mai, ma allo stesso tempo mi ricorda che, forse, merito più di tutto questo.”. Clarke non rispose, limitandosi a carezzarle i capelli. Non voleva interromperla. Voleva che parlasse, che si aprisse. Voleva semplicemente aiutarla e nemmeno sapeva perché. In fin dei conti, Lexa era una sconosciuta. Certo, era in difficoltà, ma restava pur sempre una sconosciuta. 

“È stato il mio patrigno. Lui... Io... È colpa mia, io non sono come dovrei.”

“E come dovresti essere?” chiese Clarke, sentendo la rabbia montarle in corpo.

“Io... Io dovrei...” Lexa provò a confessare, senza riuscirci. 

“Ehi, guardami.” le sussurrò Clarke, circondandole il viso con le mani. “Non ti farò del male. Tu hai valore Lexa, indipendentemente da tutto e tutti. Potresti anche essere un alieno, a me non interesserebbe. Dio, ti conosco da così poche ore, ma già posso affermare con certezza che ti voglio bene. Qualunque cosa quel bastardo ti abbia mai detto o fatto, beh, non l’hai mai meritato. E mai lo meriterai.”. Lexa annuì, non del tutto convinta. Grosse lacrime le inondarono le guance e Clarke si apprestò ad asciugargliele con i pollici. 

“Io... Lui voleva che mi innamorassi di un ragazzo.”. A quelle parole, Clarke dovette fare uno sforzo per non lasciarsi andare all’ira. Strinse Lexa forte a sé, permettendole di sfogarsi contro la sua spalla. Quello che aveva subito non era umano, solo pura e atavica crudeltà di un essere fallito a cui non rimaneva altro che la convinzione di poter controllare la vita degli altri. 

“Me ne dovrò andare, vero?” mormorò Lexa e Clarke sentì una morsa al cuore. 

“Assolutamente no. Puoi restare qui tutto il tempo che vuoi. Sei al sicuro, nessuno ti farà più del male. È una promessa.”. Lexa non rispose e Clarke intuì che fosse piombata nel panico. 

“Lexa, guarda me.” le disse. “Non sei sbagliata. Non c’è nulla di male nell’innamorarsi di una ragazza. Tu sei tu ed è questo l’importante. Tu sei tu e questo ti rende unica ed insostituibile e, di conseguenza, estremamente preziosa.”. Lexa si spostò leggermente indietro, quanto bastava per poter avere Clarke di fronte a a sé. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma la richiuse subito dopo, incapace di spiccicare parola. La bionda l’aiutò a coricarsi di nuovo e le rimboccò amorevolmente le coperte.

“Ti prego, resta.” la supplicò Lexa.

“Non vado da nessuna parte, sono qui.” la rassicurò Clarke, sistemandosi accanto a lei. Cominciò a carezzarle dolcemente il braccio, per aiutarla a rilassarsi. Era buio, ma gli occhi smeraldini di Lexa brillavano alla luce lunare che filtrava dalle tende. Clarke non aveva mai visto nulla di simile. Gli occhi di Lexa erano sì pieni di dolore e sofferenza, ma al contempo nascondevano una purezza e un’innocenza uniche, più che rare.

“Clarke...” la richiamò la mora, riportandola alla realtà.

“Sono qui.” 

“Perché?” chiese Lexa. Clarke non capiva.

“Perché cosa?”

“Perché mi stai aiutando?”. La bionda si morse il labbro. 

“Perché credo che chiunque meriti di scoprire il proprio valore. E tu vali tantissimo.”. Tra le due calò un silenzio quasi irreale. Clarke spostò la sua mano dal braccio alla guancia di Lexa, per poi invitarla ad appoggiare la testa al suo petto. D’istinto, senza riflettere, le baciò il capo e la mora la lasciò fare, schiacciandosi a lei ancora di più. Alzò lo sguardo. Riusciva ad intravedere i lineamenti di Clarke e, in quel momento, la presenza della bionda le sembrò la cosa più rassicurante del mondo. Si sentiva protetta, voluta bene, degna di vivere. 

“Clarke, io...” mormorò, senza concludere la frase. Nessuna delle due seppe mai chi fosse stata a cominciare. Forse Lexa o forse Clarke, chi mai avrebbe potuto dirlo. Una sola cosa era certa. In quel bacio che si stavano scambiando Lexa intravide, per la prima volta, la possibilità di un futuro innanzi a sé. Certo, lei e Clarke erano ancora delle sconosciute l’una agli occhi dell’altra, era innegabile. Eppure era come se si conoscessero da una vita. Clarke l’aveva salvata, curata, consolata. L’aveva guardata, come mai nessun altro aveva fatto. E un’ipotesi nuova si fece largo in Lexa. Il suo destino non era quello di rimanere sola. Non lo era mai stato.



Angolo dell'autrice

Nell'attesa del nuovo capitolo di A Sort Of Homecoming, vi lascio questa one shot. Forse il finale è un po' frettoloso, ma in ogni caso spero vi piaccia. Forse in futuro potrei anche trarne una long, chissà.

Fatemi sapere cosa ne pensate, alla prossima!

   
 
Leggi le 3 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > The 100 / Vai alla pagina dell'autore: Aagainst