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Autore: Obiter    26/04/2021    3 recensioni
ADLOCK.
Sherlock si racconta, ci confessa un segreto che (forse) non conosce nemmeno John.
Perché le cose belle accadono sempre quando meno te l'aspetti.
Genere: Hurt/Comfort, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Irene Adler, John Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Hai fatto sesso.”
“Come lo sai?”
“La musica, Sherlock!”
 
Eurus e Sherlock, The final problem.


 



 

Sono sdraiato sul letto, non riesco a dormire. Rosie dorme come un sasso qui di fianco a me, abbiamo la coperta delle principesse.

Sento John di là che sta facendo l’amore. Sono rumori soffocati, distanti, lui e questa Jennifer sono molto discreti. Devo concentrarmi e tendere le orecchie per sentirli e so che questa è una premura di John. Lui le ha chiesto di fare piano per non svegliare la sua bimba piccola, ma in realtà Rosie non c'entra. John sa meglio di me che nemmeno la sirena di un transatlantico potrebbe svegliare la sua figlia duenne quando dorme, e poi ci sono io a trattenerla, caso mai le venisse la malaugurata idea di sgattaiolare in camera di papà mentre è "impegnato". E potrebbe averla, quella bambina ha delle antenne formidabili nello scegliere i momenti meno opportuni per presentarsi o per fare pipì (per dire un grazioso eufemismo). Perciò no, Rosie non è il punto. La verità è che John mantiene un certo pudore anche per me, soprattutto per me, perché non sa. Apprezzo comunque moltissimo il suo garbo e il riguardo che ha sempre nei miei confronti. Davvero, lo apprezzo molto. Aiutarlo a crescere Rosie è il minimo che io possa fare, sia perché sono a tutti gli effetti il suo padrino, sia perché Mary si è sacrificata per me, dando letteralmente la sua vita per salvare la mia.
E poi non capita spesso che lui si porti delle ragazze a casa, anzi mai. Se la memoria non mi inganna, questa dovrebbe essere la terza volta da quando ci conosciamo, e sono tanti anni ormai. Si astiene dal farlo per Rosie senza alcun dubbio, ma anche per me. È premuroso, gentile. Non vuole farmi pesare ciò che non ho… O meglio, ciò che pensa che io non abbia. In effetti sarebbe piuttosto masochista da parte mia cercare di ascoltare due amanti ansanti, ma non potrei comunque farne a meno. La mia testa precede le mie emozioni, spesso le schiaccia. E poi ascoltarli mi farebbe sentire più... Integrato nel mondo? Normale? Non saprei.

Chiudo gli occhi e mi concentro sui loro sospiri soffusi, sorrido quando sento che hanno finito.

Domani mattina John sarà di buon umore, sorseggerà il tè con lo sguardo assorto e avrà un sorrisetto a fior di labbra. Farà fare a Rosie l’aeroplanino per tutta la casa, arriverà in ritardo al lavoro e dimenticherà qualcosa. Mi telefonerà e mi pregherà di portagliela, ma io gli dirò di no, perché sarò troppo impegnato a stare a carponi su un tombino puzzolente dove è stato trovato un braccio mozzato proprio poche ore fa.

Amo quando accade, è come se l’avessi fatto anche io.

Quando ero solo non pensavo mai al sesso, ma da quando c’è lui mi capita. Sento quando si trattiene più del dovuto sotto la doccia, so cosa nasconde nel suo computer, ho visionato certi siti che visita, noto certe espressioni che fa... È un uomo molto fisico, ma non è mai diretto, la sua spiccata introversione gli impedisce di parlarne o fare commenti. Fortunatamente. Io fino a poco tempo fa non avevo assolutamente niente da dire in questi argomenti e lui lo sapeva. Probabilmente non mi parlava mai del sesso anche per questo. Ma ci ha provato una volta, dopo quella scandolosa avventura consumatasi nei quartieri alti di Londra, ci ha provato ma invano, dato che non mi ha cavato una sola parola di bocca. In realtà, dentro di me, c’era una profonda irrequietudine che io stesso schiacciavo e fingevo di non avere. L’avevo come rimossa.

A parte mia madre non avevo mai visto una donna nuda prima d'allora. O meglio, non avevo mai visto una donna nuda viva, prima d’allora. In obitorio vedo donne nude molto spesso, ma suppongo che non sia la stessa cosa. Sono solo nudi corpi, carcasse in putrefazione, disgustose e spesso raccapriccianti. Irene Adler non era una carcassa in putrefazione quando si è presentata tutta nuda di fronte a me, ma una donna di esimia bellezza, ad alto potere seduttivo. Quando la vidi, mi bloccai e rimasi attonito, il mio cervello andò completamente su di giri. Non riuscii a dedurre nulla se non la sua nudità integrale, che con la vista periferica avevo osservato in ogni pur minimo dettaglio. È stato uno spigolo erotico su cui ha sbattuto la mia casta esistenza.

Ma ad avermi turbato ancor di più furono i suoi teneri sentimenti per me. Irene Adler utilizzò il mio nome come password del suo cellulare. Una romanticheria molle e sciocca, ridicola e stupida, che va a caldeggiare la bontà della mia tesi sulla dannosità dei sentimenti. Io sono spesso vittima del contesto emotivo che mi circonda, ma non faccio scivoloni del genere. Lei lo ha fatto innamorandosi di me, e io fui molto duro. Una pietra insensibile, indifferente e sprezzante, e la condannai a morte privandola della protezione che lei stessa ci aveva supplicato. Ma fu solo una facciata, una breve rivincita fine a se stessa, durata sì e no una notte. Non sono mai stato una pietra...

Appena venni a sapere che era stata catturata, mi mobilitai e mi precipitai a salvarla. Mi sono addentrato nel cuore di una cella terroristica in Karachi, Pakistan, rischiando di morire in modo disumano. Mi sono travestito da miliziano, ho decapitato un cadavere, lanciato bombe a mano, rubato segreti di stato al governo britannico e speso migliaia di sterline, ma alla fine ho salvato la Donna. L’ho strappata dalla lama della scimitarra per un pelo. Ammetto di essere stato teatrale, una parte di me voleva impressionarla e credo modestamente di esserci riuscito.
E poi mi sono divertito come un pazzo. Visitare una cella terroristica, fingere di essere uno di loro, dare dieci rupie a un bambino per rubare dei documenti… John non sa cosa si è perso.
Dopo il salvataggio, io e Irene Adler abbiamo rubato una gip, siamo andati un aeroporto e abbiamo preso il primo aereo disponibile. La destinazione infatti non era importante, la priorità era scappare da quel territorio nemico. Pertanto abbiamo preso un volo per Hong-Kong, con un lungo scalo a Nuova Delhi. Giunti in India, c’era un diretto per Londra che partiva nelle tre ore successive, il costo dei biglietti era iperbolico ma poco importava: saremmo finalmente ritornati a casa da quella sorta di odissea asiatica. Fummo un’ottima squadra. Lei dimostrò una rapidità e un sangue freddo disarmanti, era piena di risorse. Parlava fluentemente francese ed era cintura nera di Taekwondo. E poi mi tenne la mano tutto il tempo e si affidò completamente alle mie scelte, dimostrando una remissività che cozzava col ritratto caratteriale che mi ero costruito su di lei. Forse il suo ritratto era stato un po' scontato e approssimativo. Mi ero basato su delle risultanze immediate e avevo tirato le somme con del pressappochismo, dando per scontato tante cose. Irene non aveva un animo dominante o aggressivo, anzi, il contrario. Era soave, elegante, delicata in tutto ciò che faceva e diceva. Femminile in modo esasperante. Ancheggiava invece di camminare, mi sentivo quasi un bisonte vicino a lei e a un certo punto dissi  “Trore” invece di tre ore. Questa sua grazia mi incantava e mi attorcigliava la lingua. La sua lingua invece era sempre sciolta, il suo sguardo era esplicito, ma imperscrutabile, così diverso da quello vellutato e bonario di John.

Mi piaceva? Mi piaceva. Che patetico cliché, capirai se non potevo invaghirmi della Donna come un qualsiasi cretino che c’era in terra. O incartarmi di fronte a lei come un qualsiasi idiota. O compiacermi del fatto che la gente potesse credere che lei fosse mia. Ed era stato un compiacimento davvero stupido e infantile, degno di un idiota che non aveva mai avuto una ragazza. Un idiota preciso a me.
Ero legato a doppia mandata dal senso di inadeguatezza, ma azzardai comunque qualche sorriso. Le tenni la mano anche in aereo, mentre dormiva. Ogni occasione era buona per mettermi in mostra e mostrarle la mia coda da pavone.

Ma quando siamo sbarcati a Londra avvenne il momento più cruciale e importante. Lei mi pregò di non andarmene e di accompagnarla nella sua villa a Belgravia, che era stata presumibilmente depredata e svaligiata dai terroristi. Ed è stato allora che ho capito e mi sono illuso, davvero illuso. Ho sperato. Mi ero illuso che quello fosse un pretesto per fare l’amore con me, che lei volesse esprimermi la sua riconoscenza e la sua stima nel modo più semplice e naturale del mondo. Lei dopotutto era innamorata di me…

Questo mi destabilizzò con violenza, perché provai un insieme di emozioni impreviste. Eccitazione sessuale prima di tutto. Timore in secondo luogo. Aspettativa. Ansia. Gioia. Smania. In quel momento realizzai di desiderarla ardentemente, di volerlo fare. Le dissi di sì e la seguii nella bollente convinzione che presto saremmo stati nudi e abbracciati.

Ovviamente non accadde nulla di tutto questo.

Quando arrivammo la delusione fu cocente, più di quanto potessi immaginare. A Belgravia c’era già Mycroft ad aspettarci, infuriato con me (i segreti di stato erano suoi) e ben organizzato con lei. Ha dato ad Irene una nuova identità e le ha intimato di sparire dalla circolazione e di lasciare l’isola. Per tutti, Irene Adler non esisteva più, era morta e sepolta in Pakistan, freddata dalla lama dei terroristi, e la cellula in cui era avvenuta la sua esecuzione era stata misteriosamente bombardata poco più tardi da dei nemici non identificati. Fu una mossa necessaria, l'Inghilterra non poteva certo entrare nel mirino di quei terroristi. E lei ha obbedito ed è sparita, mi ha dato solo un affettuoso bacio sulla guancia e poi è sparita. Ho ispirato forte il suo profumo. Fu una delusione amara, mi mortificò molto... Era stata la mia prima cotta, probabilmente l’unica della mia vita.

Credevo fosse stato un addio, ma in realtà dopo nemmeno un mese lei mi contattò di nuovo, da un altro numero di cellulare. Mi mandò gli auguri di compleanno e da quel momento abbiamo iniziato a sentirci sporadicamente.

In realtà era sempre lei che mi scriveva.

Io… Le scrivevo, ma non ero mai me stesso. Una mia grande aspirazione era comprendere in quale luogo lei si trovasse, e ci provavo in un modo o nell’altro. Prendendo in prestito il cellulare di un turista, ad esempio.

 

“Pronto?”

“Salve signola, lei molto bella, signola. Dove lavola, signola?”

Lei esitò, aveva già capito.

“Salve a lei” disse infatti, cambiò tono “Con chi ho il piacere di parlare?”

“Cliente intelessato, signola”

“Ha il raffreddore, Mr. Holmes?” mi domandò con la sua voce eufonica. Precisamente. Mi schiarii la voce.

“Mi è passato” le risposi come se niente fosse, con la mia voce normale.

“Parlare con me fa miracoli, evidentemente. Dovremo vederci” mi propose con voce divertita “Potrebbe accadere un miracolo ancora più grande”

Intuii a quale miracolo si stava riferendo. Non ci vuole un genio per capirlo.

“Apprezzo il suo ottimismo” ironizzai, ormai mi ero disilluso.

“Abita ancora lì?”

“Sì” le risposi. Io invece non avevo idea di dove si trovasse lei. Non un benché minimo indizio.

“Un giorno le farò una sorpresa, quando meno se lo aspetta”

I nervi del mio bassoventre sussultarono.

“Deve ancora nascere una persona che può farmi una sorpresa”

“Non mi sottovaluti, Mr. Holmes, l’ha già fatto una volta” mi rispose lei, sagace come al solito.

“Non l’ho mai sottovalutata” ho replicato. Non aveva idea della stima che le serbavo.

“Sherlock?” mi chiamò.

“Sì?”

“Ti amo”

Rimasi in silenzio e chiusi gli occhi, un sorriso spontaneo germogliò nelle mie labbra. Mi lasciai cullare dal potere commovente di quelle due parole, non le risposi, restai solo in linea in uno stato di adorante paralisi. Lei lo sapeva, mi conosceva, io la conoscevo. Mi stava sorridendo.

“Grazie per avere chiamato” aggiunse dopo un po’.

“Prego” le dissi.

“Ciao, tesoro”

“Ciao” la salutai e riagganciai io.

 

Passò un anno.

Trascorsi qualche mese ad aspettarla, ma poi smisi. Non cessai di sperarci.

Nel frattempo non ci eravamo più sentiti, non a voce, solo per messaggio. Lei mi scriveva, io a volte le rispondevo, altre volte no. Ma stavano diventando molto più frequenti le volte in cui le rispondevo. La pensavo, non spesso, ma capitava. Rivedevo il suo corpo nudo, lo conoscevo a memoria come se fosse il mio. Spesso lo scacciavo, altre volte mi procuravo degli infelici orgasmi. In ogni caso avrei potuto cucirle addosso un abito, tracciare una mappa dei suoi nei piccoli e sporadici. L’ho fatto una volta, ho notato anche l’ombra in rilievo di una cicatrice, il morso di un crotalo. E il mio corpo reagiva, desiderava intensamente fare l’amore con lei. In realtà lo desiderava in generale, un desiderio molto comprensibile a dire il vero. Ero più vergine di un giglio ed ero più vicino ai quaranta che ai trenta. Ma lei lo sapeva. All’inizio trovavo annichilente il fatto che lei lo sapesse, una pugnalata mi avrebbe fatto meno male. Ma poi ne sono diventato felice, era un amaro sollievo, non dovevo nasconderle nulla. Lei lo sapeva e pur essendo una Donna con un bagaglio di esperienze davvero inimmaginabile, continuava a cercarmi e a dimostrarmi affetto. Dovevo farle tenerezza e lo detestavo. Sotto la tenerezza si cela la commiserazione, la pena e la consapevolezza indiretta di essere migliori. Mi faceva sentire patetico e ridicolo, ma non era colpa sua, il fatto è che pensavo di esserlo e quindi lo sembravo. Mi sentivo patetico e ridicolo in queste cose e non era certo colpa di Irene Adler, ma mia. Dovevo accettarlo, l’ho accettato e ho iniziato a risponderle, a farle capire che sì, la mia risposta era sì, un convinto e implorante sì.

Ho iniziato anche a scriverle, mi sentivo terribilmente a disagio ogni volta, ma lo facevo. Le ho scritto anche quando ho inscenato la mia morte. Un semplice “Non sono morto”. Avrei voluto aggiungere “ceniamo insieme?” esattamente come aveva fatto lei durante il noto scandalo a Belgravia, ma non lo feci. Ero ancora legato dall’imbarazzo e non avevo accettato di essere umano come tutti. Lo fece lei, comunque, mi rispose così e dopo venti minuti mi telefonò. Il video del mio salto nel vuoto l’aveva angosciata, credeva fossi in un letto d’ospedale.

Dopo ciò trascorsi due anni allo stato brado, lontano da casa per smantellare la rete criminale di Moriarty. Facevo a botte di continuo, dormivo nei luoghi più disparati, rischiavo di morire a giorni alterni e puzzavo come un gatto selvatico. Mi mancava la civiltà, mi mancavano John, Londra, il mio appartamento polveroso e perfino Molly e Mrs Hudson. Non mi mancava Mycroft, dato che lo sentivo almeno una volta al mese. Il pezzo di ghiaccio si preoccupa quando si tratta del suo fratellino...

E poi finalmente tornai a casa, pieno di emozioni, paure, disagi e difficoltà che sapevo mascherare in modo magistrale. John è sempre stato incline al perdono, ha bisogno di sfogarsi, gli occorre del tempo ma poi perdona. È umano e comprensivo.

Nel tempo in cui ero stato via, lui si era costruito una nuova vita e si era fidanzato, ma questa volta seriamente, gli abiti nuziali erano alle porte. Fui felice per lui ma disperato per me.

Non volevo che John si sposasse e lasciasse il 221B, questo fatto acuiva terribilmente il mio senso di solitudine, quell’enorme buco nero che c’era nella mia vita e che avevo cercato di riempire con il lavoro, con la cocaina e con lo studio... E con un caro amico bistrattato. Avevo reso John Watson il mio compagno di vita, ma giustamente non potevo pretendere che stesse con me per sempre. Che amico egoista ed egocentrico sarei stato? Dovevo essere felice per lui, felice che mi avesse perdonato, felice che avesse trovato una donna sveglia e piena di qualità come Mary. Dovevo esserlo ma non lo ero. Perdiana, se non lo ero. Il mio tanto sognato 221B era diventato un cimitero di ricordi senza John. Un luogo vuoto e troppo grande, un luogo ostile e pieno di solitudine. Non tolleravo la vista della sua poltrona vuota. Lui era il mio compagno e Mary me l’aveva portato via, la odiavo e mi odiavo per questo, perché Mary era un’ottima persona e si meritava John più di me.

Scrissi a Irene in piena notte, col cuore pesante. Patetico, patetico, patetico. Il verginello che scrive alla Dominatrice, alla Donna, mi sembrava una cosa esilarante e priva di dignità.

“John tra un mese si sposa con una donna perfetta per lui. Sarò il suo testimone”.

Le scrissi così, ero stato sintetico e prolisso al tempo stesso. “John si sposa” sarebbe stato sufficiente. “John si sposa, mi sento solo, solo, solo, solo. Ti prego, vieni subito, subito, subito” sarebbe stato più esauriente. Il suo gemito riempì la mia camera da letto quasi subito, presi il cellulare e lessi la sua celere risposta. 

“Stai soffrendo?”

Quel messaggio mi fece sorridere, come mi conosceva. Non le ho risposto, ma è risaputo che chi tace acconsente. Ancora mi sorprendeva la sua capacità di comprendermi.

Il giorno del matrimonio arrivò e fu meno orribile di quanto mi aspettassi. Anzi fu divertente, un tentato omicidio tra i fiori d’arancio era proprio ciò di cui avevo bisogno. Ha dato un po' di brio alla cerimonia e maggior senso alla mia presenza. Ho conosciuto anche la damigella d’onore, una donna mora, bella, formosa e molto ordinaria. Poco interessante, sgraziata. Mi ha messo severamente a disagio più volte ma ho cercato di non darlo a vedere.

Tutto l’insieme mi ha messo severamente a disagio più volte. La felicità che mi diede John nell’avermi scelto come suo testimone fu direttamente proporzionale all’angoscia di dover tenere un discorso di fronte alla platea degli invitati. Un sogno e allo stesso tempo un incubo. Inutile dire che la parte in cui sono sentito più a mio agio è stata quella dei cammei vaticani.

Ma alla fine giunse al termine anche quell’avventura, che aveva in qualche modo addolcito l”ufficiale separazione mia e di John. Amavo John Watson. Non in modo sessuale ma lo amavo, più di quanto amassi Mycroft, probabilmente. In realtà non lo so, non esiste un termometro per misurare l’amore. Sta di fatto che una persona che amavo e che volevo avere nella mia vita, si era unita in modo formale e indissolubile con un’altra.

L’ho visto ballare un lento con lei, darle un bacio. Ho suonato per loro, ho composto per loro. Suonavo e la mia anima gemeva, piena di malinconia.

Mary era incinta.

Aspettavano un bambino. John aspettava un bambino e io ero felice, giuro ero felice, ma c’è stato un momento in cui ho ceduto, non riuscivo più a sorridere. La gioia che provavo per loro è stata eclissata dalla disperazione che provavo per me. È stato un attimo angosciante.

E mentre tutti gli invitati ballavano e si divertivano, io mi sono ritrovato da solo, imbarazzato e a disagio. Mi sono sentito più fuori posto del solito. Più inadeguato e disadattato del solito, e me ne sono andato senza salutare nessuno, nemmeno John. Non volevo che si preoccupasse per me. Chiamai un taxi e tornai a casa, nella mia casa vuota.

Avevo l’umore sotto terra, non mi sentivo così depresso dal liceo. Arrivai perfino a pensare di chiamare Mycroft, tanto ero sull’orlo del baratro.

E la cosa più triste era che non ne avevo motivo. Era puro e vergognoso egoismo il mio. Una persona che amo, John, aveva sposato una donna fantastica e aspettava con lei un bambino e io, invece di essere felice, ero addolorato. Dovevo ragionare, usare il cervello, ma per quanto fosse ovvio quello che mi ripetevo, continuavo ad avere questo senso di dispiacere nel petto. Ero di nuovo preda del contesto emotivo.

Arrivai in Baker Street, pagai il tassista ma come aprii la porta di casa, mi bloccai sull’uscio.

Ambra.

Note talcate, anzi cipriate.

Tutto il mio corpo si irrigidì. Sgranai gli occhi e mi addentrai furtivamente, inspirai forte col naso.

Ylang ylang.

Gelsomino.

Capii subito. Mi mancò il fiato, non potei crederci. Mi sembrava impossibile. Mi sembrava impossibile ma più salivo le scale e più il profumo diventava forte e intenso, una scia poetica e seducente.

Realizzai ben presto che lei era ancora lì. L’abbattimento e l’amarezza che avevo provato furono subito sostituiti dalla sorpresa, dall’adrenalina.

Salii le scale e mi lasciai travolgere da quella nuvola di profumo. Era un profumo da sposa, ironia della sorte.

Dopotutto aveva detto che mi avrebbe fatto una sorpresa. Che tempismo divino, non poteva scegliere momento più opportuno.

Entrai nel mio appartamento rigido come una colonna, emozionato come un bambino. Sapevo che lei era lì, ma quando la vidi non fui pronto. Non avrei mai potuto essere pronto a una visione del genere.

Irene mi fece una sorpresa, riuscì a sorprendermi e a farmi sgranare gli occhi anche quella volta. Non indossava il suo vestito da battaglia, sarebbe stato troppo banale e di cattivo gusto indossare lo stesso abito due volte... No, lei indossava un altro vestito. Un vestito bianco, lungo, con il velo.

Rimasi abbacinato per un istante. Lo aveva fatto sul serio.

“Cos’è quell’espressione sorpresa?” mi domandò lei invece di salutarmi. Era vestita da sposa, ma non una sposa qualunque, la mia.

“Miss Adler” esclamai, faticavo a restare serio. Un sorriso stupido premeva contro le mie labbra “Non sono sorpreso, non del tutto” mentii, ero trasecolato “Se non erro, fu lei a dirmi che i nostri travestimenti in qualche modo ci rappresentano”.

Lei era innamorata di me.

“Sì, è vero” mi si avvicinò, io ero già a corto di ossigeno. L’immagine di per sé era violentissima: la Donna che amo vestita da sposa in casa mia. “Ma questo non è un travestimento, Mr. Holmes”

Certo che non lo era.

“Non trova che sia un abito un po’ impegnativo?”

“Impegnativo da togliere, intende?” mi rispose con la sua solita malizia equivoca, a cui sorrisi, non potei farne a meno.

Per un istante sciocco ed emotivo pensai di inchinarmi di fronte a lei, mettermi in ginocchio e diventare ufficialmente un beato prigioniero delle catene domestiche. Mrs. Hudson era ancora vestita da cerimonia. Io ero vestito da cerimonia.

Una telefonata a John “Ciao, John. Scusa se interrompo la tua prima notte di nozze ma oggi mi sposo anche io, ti dispiace farmi da testimone?” E il gioco era fatto. Ma fu un istante sciocco ed emotivo, che lei trascorse meglio di me. Si avvicinò lentamente, il suo profumo cipriato, molto da sposa e simile a quello che aveva quel giorno Mary, mi accarezzò il naso ed esaltò i miei sensi.

“Piaciuta la sorpresa?” mi domandò con voce suadente e mi toccò, appoggiò entrambe le mani sul mio corpo. Cercai di non far guizzare gli occhi nei punti in cui mi aveva toccato.

“Quale sorpresa? Non sono mica sorpreso” mentii, non ero credibile  “Io ho una sorpresa per te”

Lei si mise a braccia conserte e alzò le sopracciglia. Io le diedi le spalle e mi voltai dove era custodito il mio prezioso violino. Ed eccomi di nuovo a sfiorare il ridicolo. Un uomo molto adulto e molto vergine che si accinge a fare una serenata per una Dominatrice bisessuale e senza scrupoli... Non credo possa esistere uno scenario più imbarazzante. Ma non me ne importò niente, lei era innamorata di me.

“Oh cielo” esclamò infatti lei non appena mi vide col violino in mano “Sherlock?”

“Perdona il cliché, ma l’ho scritta per te” le dissi subito e poi iniziai a suonare il brano che le avevo dedicato e che lei mi aveva ispirato di comporre, uno dei più belli del mio repertorio, se non il più bello. Certamente il mio preferito. Lei tacque subito, io suonai senza stonare, le mie dita erano concentrate, pizzicai e glissai con soavità fino alla fine.

Quando ebbi finito, la guardai senza celare l’aspettativa. Avevo il cuore in gola, lei aveva gli occhi lucidi e mi si avvicinò, io sentii i muscoli tendersi, compresi cosa stava per accadere. Non sarebbe stato il mio primo bacio, per le indagini è capitato che io avessi baciato in bocca delle donne, ma non con la lingua, ovviamente. Non avevo mai baciato nessuno con la lingua, a stento immaginavo come si facesse.

Ma lei lo sapeva, sapeva di essere di fronte a un novellino impacciato quando mi ha messo le braccia sul collo e ha appoggiato le labbra sulle mie. Ma fu un bacio asciutto e romantico, più pudico di quanto immaginassi. Estremamente gradevole, pieno di morbidezza

Non ero già sufficientemente innamorata di te?” mi sussurrò con dolcezza “Era il caso di infierire con quel violino?”

Le diedi un bacio io, asciutto come il suo.

“Mi piace strafare” scherzai, ma fino a un certo punto.

“Oh, Sherlock...”

“Dimmi” le ho chiesto, ero smarrito. L’ho guardata ma non riuscivo a dedurre nulla, vedevo solo i dettagli superficiali della sua esimia bellezza.

Lei mi ha sorriso “Se ti dicessi che ti amo, faresti l’amore con me?”

Ci ho pensato su un istante, anzi meno, una frazione di istante: “No” le ho risposto in modo inequivocabile “Puoi anche non dirmi che mi ami”.

E dopo ciò.

E dopo ciò lei mi ha sorriso e si è voltata di schiena. Aveva i nastri bianchi del corsetto tutti intrecciati, sciolse da sola il primo nodo e poi mi guardò con la coda dell’occhio. Mi sorrise con lo sguardo.

Era tutto così incredibile e inaspettato che non riuscivo a capacitarmi, mi sentivo stordito. Mai avrei creduto di trovarmi a svestire una sposa, mai. Non mi ero nemmeno concesso il lusso di sognarlo.

Sciolsi i nodi del suo costoso e profumato abito con mani molto delicate, quasi mi dispiacque doverlo fare, era come smontare un’opera d’arte. Lei teneva gli occhi chiusi e sospirava leggermente... Le diedi un bacio tra le scapole nude, questo la fece sussultare.

Era proprio innamorata di me.

E quello era effettivamente un abito impegnativo da togliere. Mi dovetti perfino inginocchiare di fronte a quella gonna vaporosa ma molto fine. Lei rise e mi accarezzò con dolcezza i capelli. Io la guardai negli occhi, ero in ginocchio di fronte a lei...

“No!” mi fermò subito “Non ti azzardare. Stai zitto”.

Mi venne da ridere, non voleva che glielo chiedessi perché non avrebbe saputo dirmi di no. E dopotutto lei era… Già.

“Va bene. Sto zitto” promisi e feci scivolare giù la gonna dalle sue gambe sottili e graziose. Come tutti gli abiti da sposa anche quello possedeva diversi strati. Un capo di Chanel a dir poco elegante, che la lasciò con una corta sottoveste in raso di seta. Mi sono alzato in piedi e l’ho guardata a stento, era troppo bella, troppo disarmante e improvviso il tutto. Abbiamo fatto l’amore alla fine, l’abbiamo fatto eccome, più di una volta ed è stato sublime, surreale, oserei dire inverosimile. Ma l’inizio fu davvero difficile per me, una sfida.

Ero intimidito, rigido e tachicardo. La mia inesperienza mi imbarazzava, mi faceva sentire un totale idiota, soprattutto a fronte della sua “professionalità”. Lei lavorava con il sesso, anche se non era una prostituta e non si lasciava nemmeno sfiorare dai suoi clienti. Forse nemmeno guardare, certo non integralmente come si è mostrata a me la prima volta. Tra noi c’era un divario di esperienze ampio come una galassia. E poi non volevo mostrarmi impacciato o insicuro, non di fronte alla Donna, il mio orgoglio me lo impediva. Volevo fare l’uomo, essere alla sua altezza e amarla come meritava. Ma più cercavo di mostrarmi sicuro, meno lo sembravo. Mi mettevo l’armatura invece di toglierla e spogliarmi. Ma lei sapeva guardare dentro di me, lo ha sempre fatto. Sapeva cosa provavo quando mi si è avvicinata con quella sottoveste bianca e angelica. Nei tre secondi che ha impiegato a mettermi le mani sul viso, io avevo già calcolato la distanza approssimativa dei buchi che avevo sparato sul muro. E la circonferenza della faccina gialla che sorrideva, primo e unico emoji della mia vita. Ma le sue mani fresche mi disincantarono brutalmente. Me la trovai di fronte all’improvviso, c’eravamo dati un bacio in bocca ma quell’attimo fu ancora più intimo. Ci guardammo proprio negli occhi e fu come un amplesso per me, non ero mai stato così fisicamente e spiritualmente vicino a un altro essere umano in vita mia. L’idea del sesso in quell’attimo mi spaventò. Non mi sentivo adatto per farlo e il mio corpo in risposta si eccitò, come se volesse ribellarsi e smentire il mio cervello. Non aveva tutti i torti.
Irene distolse lo sguardo per prima e mi accarezzò le spalle, le braccia e poi scese intorno ai miei fianchi, congiunse le mani nel mio addome. Io ovviamente indossavo ancora la camicia da cerimonia. E la giacca. E il cappotto. E la sciarpa. Mi ero irrigidito come un pezzo di legno.

“Sei così bello” mi disse, le sue mani avvolgenti salirono sul mio petto “Ne sei consapevole?”

“Sì” risposi a stento. Ero belloccio, il mio aspetto mi era stato utile. Le persone tendono a fidarsi di un uomo bianco, belloccio e ben vestito. Le persone sono stupide.

“Non ne sembri molto consapevole…” esclamò, mi accarezzò con entrambe le mani le scapole sotto la giacca, la schiena e anche il fondoschiena.

“Ti assicuro che lo sono”

Lei scosse di nuovo la testa “No, non lo sei, invece. Non puoi esserlo. Nessuno ti ha mai amato e sai in che senso lo intendo”

La guardai nel viso, ma fui estremamente distratto dalle sue mani che vagavano sulle mie cosce, sui quadricipiti, vicine alla zona più bisognosa e surriscaldata del mio corpo.

“Ma ora ci sono io” alzò gli occhi su di me “Vuoi che smetta?”

“No, non smettere” mi sorpresi a risponderle immediatamente. Non volevo che smettesse. L’avrei supplicata affinché non smettesse, due volte. Lei mi fece un sorriso malizioso.

“Allora continuo” mi provocò con lo sguardo, fece anche un sorriso incantevole. Con le mani aveva fatto tutto il giro del palazzo, mancava solo quella parte lì. Trattenni la pancia e mi eccitai ancora di più. Fremevo perché la toccasse, ma ovviamente lei non lo fece e tornò al mio addome, zona franca. Voleva darmi filo da torcere e ci stava riuscendo perfettamente, ormai avevo un’erezione. Lei mi tolse il cappotto e la giacca di dosso, entrambi caddero per terra ai miei piedi. Avevo ancora la camicia inamidata e abbottonata fino al collo, sembrava quasi lo specchio della mia non voluta e protratta castità. Ci pensò lei a liberarmi, me la sbottonò e poi me la tolse, la camicia cadde a terra e lei mi baciò.

Tutto il suo corpo aderì al mio, i suoi seni si schiacciarono contro il mio petto, i nostri bacini premettero sensualmente uno sull’altro, il suo profumo mi lasciò stordito. Il suo bacino che premeva mi lasciò stordito. Dischiusi le labbra istintivamente e sentii la sua lingua, ci sfregai contro la mia con poca poesia. La volevo da morire, da un secolo, volevo farlo con lei, volevo fare l’amore subito, ora, con ansia, volevo che mi prendesse e mi accogliesse tra le sue sublimi cosce calde, strizzandomi fino a schizzare fuori il cuore dal petto. Non volevo restare vergine per tutta la vita. Lei era l’unica, l’unica che avrebbe potuto spezzare questa maledizione, la mia sola e ultima speranza. Ne avevo dannatamente bisogno, anche se non riuscivo a comunicarlo.

In un impeto di passione le sollevai una coscia intorno al mio fianco sinistro e spinsi nel mezzo.

Meraviglioso.

Inverosimile.

Mai provato niente del genere in vita mia, la cocaina in confronto era… bah, acqua fresca.

Irene sollevò anche l’altra coscia e io la presi subito in braccio, i miei fianchi innamorati risposero istintivamente, ma questa volta scattarono più in alto e con più entusiasmo. Avevo cinquantaquattro chili di peso tra le braccia e mi sembrava di averne due.

Alla quarta spinta dalle mie labbra uscì un “oddio” inedito che non mi ero mai sentito. Stavo per avere un orgasmo nei pantaloni, tutto quel desiderio represso si stava facendo sentire. Era come se avessi delle bolle di piacere che mi scoppiavano nel bassoventre e che si propagavano ovunque.

“Mettimi giù” mi disse, io malgrado tutto le obbedii subito. Non mi sentivo più le braccia ma le mie mani non la lasciarono, rimasero ben ancorate sui suoi fianchi, non mi sarebbe scappata questa volta.

“Siediti” mi ordinò, secca.

“Ti siedi su di me?” le domandai di scatto, se voleva cavalcarmi mi andava più che bene.

“Oh, cielo. Siediti” ridacchió lei, spingendomi indietro. Lo feci subito, mi sedetti sulla mia poltrona, che in quel momento mi sembrava quella di qualcun altro, tanto ero estraniato e fuori di me. Irene mi venne di fronte con il suo portamento regale e intimidatorio. Ce l’aveva nel dna. Indossava anche i tacchi alti, che la facevano svettare più in alto di John, ma comunque più in basso di me. Era statuaria, sinuosa, aggraziata, divina e io la stavo desiderando con tutto me stesso. Strinsi forte i braccioli.

Lei torreggiò su di me e come prima cosa si chinò a recuperare la mia sciarpa blu che era abbandonata per terra col resto. La fissai mentre se la arrotolava tra le mani e restai in spasmodica attesa, fermo e dritto come una sfinge. Iniziai a immaginare cosa volesse farmi, visioni erotiche riempirono il mio campo visivo e sconquassarono il mio bassoventre allucinato. Lei tese la sciarpa come se fosse una frusta e sogghignò, mi sentii arrossire.

“Irene” le sussurrai, la guardai negli occhi.

“Mi stai supplicando?” mi domandò con un sorriso malizioso “Oh, Sherlock, tesoro. Hai idea di quanti idioti ho sentito supplicare in vita mia? Tutti i clienti e le clienti che ho avuto, tutti agognano sempre di ricevere un bacio, una carezza, toccarmi…” mi girò intorno e mi sfiorò le spalle nude “Possedermi, addirittura. Vengono da me per farsi sottomettere e poi iniziano a desiderarmi, si innamorano e mi supplicano senza alcun ritegno” esclamò e mi mise la sciarpa intorno agli occhi, io mossi appena una mano “Quanti di loro ho accontentato, secondo te?”

Ero bendato e privato della vista, vedevo solo il colore bluastro della sciarpa che traspariva dalle mie palpebre. La lana mi dava fastidio e pizzicava ma non me ne importò, le mie attenzioni erano completamente rivolte a lei.

“Nessuno” le risposi, ero senza voce. Potevo solo immaginare lo stato di prostrazione mentale e sessuale in cui lasciava i suoi sottomessi. Immaginai gli uomini (perché sì, avevo la sensazione che le donne fossero trattate meglio) imploranti e legati alla sponda del letto, disperati più per la dolorosa erezione che per i segreti di stato che le avevano appena rivelato. 

“Bravo, amore. Ora prova tu, supplicami tu” mi invitò da vicino, sulla destra “Vediamo che succede”.

“Ti supplico” le dissi subito, e meno male che non avevo mai supplicato in vita mia “Ti supplico, Irene”

Ci fu un attimo di totale silenzio. Rimasi in fervida e spasmodica attesa, avevo le orecchie tese, i riflessi pronti e il naso completamente inebriato dal suo profumo. Non resistetti più e mi tolsi la sciarpa dalla faccia.

Sgranai gli occhi, Irene non c’era più. Panico. No, mi imposi di non andare nel panico. Era ancora qui, si era solo nascosta. Andai subito verso la mia camera da letto e pregai che lei fosse lì, ma non c’era, né sul letto né sotto, nemmeno dentro l’armadio. Era innamorata di me, non poteva essersene andata. Guardai nel bagno, non c’era. Guardai nella vecchia camera di John e non c’era, non ci aveva nemmeno messo piede. La finestra era chiusa. Mi iniziò a venire l’ansia. Se davvero se ne fosse andata, mi sarei messo urlare così forte da restare senza voce. Ma no, doveva essere ancora qui e io dovevo essere proprio stravolto se non riuscivo a trovare un essere umano in casa mia, e infatti…

“Non sei tutto questo granché come detective, vero?”

Appena la vidi, seduta sulla mia poltrona e con il mio cappello da detective in testa, provai una sensazione di gioia e sollievo indescrivibile.

“Dov’eri?”

Lei mi fece un sorriso incantevole. Strega. Fata.

Basta, basta, basta. Mi era passata l’ansia da prestazione (merito suo, lo aveva fatto a posta). Andai da lei e la presi in braccio come se fosse una sposa, la strinsi forte, lei sorrise e strinse forte me, mi baciò una guancia.

“Sei mia” le dissi e la scortai in camera.

“Sono tua” mi rispose con una dolcezza inaspettata, le sue labbra erano tese in un sorriso “Sono mille volte tua, ti amo. Ti amo da sempre, fai tutto ciò che vuoi, non trattenerti più”.

E quelle parole mi diedero l’ultima scarica di coraggio che necessitavo. Le obbedii, la deposi sul letto e non mi trattenni, pur rimanendo nei limiti della dolcezza e della galanteria. Con mani tremanti le tolsi la sottoveste e nel farlo le accarezzai i seni. Le abbassai anche le mutandine e mi permisi di guardarla, pochi istanti ma sufficienti. Avevo visto tutto.

Era completamente nuda. Mi sdraiai con garbo sopra di lei, ero completamente nudo anche io, ma non mi sentii nudo nemmeno per un istante, era come se lei fosse il mio vestito e io il suo, i nostri corpi si riparavano e proteggevano a vicenda.

“Vestito da battaglia” constatai, lei trattenne a stento un sorriso.

“No, non lo sto indossando. Guarda meglio” mi sfidò con dolcezza.

Io aggrottai le sopracciglia ma poi capii la risposta l’istante successivo.

“Le scarpe col tacco” realizzai subito “Non hai le scarpe col tacco”

“E?” mi sorrise. Le afferrai i fianchi e le baciai il petto.

“Manca il rossetto rosso, anche lo smalto rosso sulle unghie” le dissi sulla pelle.

“E?” ansimò, mi accarezzò i capelli. Ci pensai su e alzai gli occhi su di lei.

“Il profumo all’assenzio?” azzardai, ma poi la guardai in viso e compresi “L’espressione, il tono di voce, quel sorriso”

Lei annuì “Non sto lavorando adesso, a differenza tua”

Io mi sollevai verso il suo viso, il mio bacino fu in un attimo in mezzo alle sue cosce, le sue mani mi aiutarono.

Entrai dentro di lei, nel suo condotto viscoso di umori, vellutato, caldo, sublime, stretto, anzi strettissimo, era come se le sue pareti volessero spremermi, ma in un modo drammaticamente piacevole. Dovrei forse prendere in prestito la penna di un poeta per descrivere ciò che provai. Amore, inclusione, accettazione, meraviglia.

Lei era innamorata di me, lo sapevo, lo avevo anche esperito scientificamente prendendo il suo polso, ma mi era difficile crederlo, al limite dell’impossibile. Aveva tutte le ragioni del mondo per non farlo e francamente non capivo come fossi riuscito a guadagnarmi la sua stima e il suo affetto. L’avevo salvata a Karachi, ma ero stato io a metterla in pericolo. Se l’avevano rapita e segregata era solo colpa mia. Ma volli comunque fidarmi di lei, i suoi sentimenti andavano al di là della mia comprensione, non erano logici o razionali, ma dentro di me sentivo che erano sinceri. È difficile da spiegare, sono sensazioni istintive ed emotive inspiegabili.

E quando sono entrato dentro di lei non fu tanto la sensazione fisica a sorprendermi, quanto l’unione in sé, l’amore totale e incondizionato. La perfezione con cui i nostri corpi si incastravano e si veneravano a vicenda mi ricordava il glissare e il pizzicare di un archetto sulle corde del violino. C’era dell’arte anche in noi, emanavamo vibrazioni positive e melodiose.

Lei era diventata il mio violino, la mia Pace, la mia Irene.

 

 

E ripenso a questo anche adesso, con John di là insieme a una ragazza e la piccola Rosie che dorme qui di fianco a me. Non so mai dove si trovi Irene Adler, ma lei sa sempre dove trovare me. Io sono qui e sarò sempre qui in Baker Street, con John, Rosie, Mrs. Hudson e uno spumoso e profumato vestito da sposa nell’armadio…

John una volta mi ha chiesto delle spiegazioni sul vestito, era... Come dire, perplesso. Io gli ho risposto con un’alzata di spalle e lui ha preferito lasciar perdere. Dopotutto io sono Sherlock, faccio sempre così.

 

“Dovevo prendere un appuntamento?”

Sorrisi e rimboccai la copertina a Rosie. “Stanotte sono impegnato con un’altra, mi dispiace”

L'intrusa si avvicinò alla luce della finestra. Era vestita in modo irriconoscibile, casual oserei dire, indossava un paio di jeans neri attillati e una camicetta leopardata, si era tagliata di netto i capelli sulle spalle.

“Sherlock?”

“Dimmi” le ho sorriso, sapevo già cosa mi avrebbe detto.

“Ti amo”

 




 

 



 

Note dell’autore

Spero che la storia vi sia piaciuta, malgrado questa non sia una coppia particolarmente quotata nel fandom. Il breve dialogo di Eurus e Sherlock all'inizio  è stato ciò che mi ha ispirato per scriverla. Sherlock anche nella serie sembra che sia andato a letto con lei, la mente geniale di Eurus non l'avrebbe dedotto, se non fosse così. Perciò ho immaginato il come...
Irene significa pace dal greco, nel caso qualcuno non lo sapesse. 
A presto,
Obi

   
 
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