Anime & Manga > Le bizzarre avventure di Jojo
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Autore: Per_Aspera_Ad_Astra    12/05/2021    2 recensioni
Sono passati esattamente dieci anni dall'ultima battaglia nella città de Il Cairo. Niente sembra minare la tranquillità della famiglia Joestar. Niente fino ad ora.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Dio Brando, Enrico Pucci, Giorno Giovanna, Josuke Higashikata, Jotaro Kujo
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Violenza
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Chatper six

Josuke






 
Dal porto di Morio-cho a quello di Tokyo ci erano volute tre ore.
Dal porto di Tokyo all’aeroporto Tokyo-Haneda solo quattordici minuti.
Tempo ad aspettare la coincidenza per New York: interminabile.
Tokyo – New York la bellezza di tredici ore.
Dieci lunghissimi anni erano stati impiegati da Ulisse per ritornare nella sua amata Itaca, riabbracciare sua moglie e riprendere in mano il trono che i Proci volevano sottrargli. La stessa terra che Ulisse, dopo essere sbarcato, aveva stretto, baciato ed annusato.
Nel momento in cui il piede destro aveva toccato con la punta il pavimento liscio e lucido dell’aeroporto, Josuke si sentì come il regnante di Itaca al ritorno del suo viaggio: un brivido di piacere gli percorse velocemente la colonna vertebrale.
Ma quanto era bella la gravità?
Assonnato ed ancora decisamente provato dal discorso intrapreso con il nipote, si era trascinato per tutto il perimetro che lo separavano dall’uscita e dalla vista di quella metropoli di cui aveva sentito solo nei telegiornali o descritta nei videogame. Jotaro e lui non si erano rivolti più la parola. Distanti uno dall’altro avevano recuperato i bagagli ed aspettato silenziosamente un taxi giallo sul limite del marciapiede. Che baggianata americana, pensò.
Le pupille nerissime si muovevano veloci come la pallina madre in un incontro di tennis a Wimbledon carpendo ogni minuzioso dettaglio dal piccolo finestrino posteriore: grandissimi grattacieli disposti in modo geometricamente distante, passanti affaticati e indaffarati in commissioni ipotetiche, catene di fast food colme di clienti ingordi e sudici, auto in fila, clacson e rumore. Se quella città doveva rappresentare l’occidente e lo stile di vita americano, era felicissimo di vivere nella calma e soleggiata Morioh.
Quella dannatissima cisti fra i capelli faceva un male cane.
Era stato uno stupido a lasciarla crescere cosi tanto. Sembrava quasi muoversi.
Dio, avrebbe voluto grattarsela via.

Chissà cosa Okuyasu stesse facendo. Quell’imbecille si era presentato davanti casa sua il giorno prima della partenza piagnucolando come una femminuccia e con la scusa dello studio per i test universitari lo aveva tenuto sveglio tutta la notte, con le sue conversazioni da rincitrullito. Come se non bastasse, gli aveva chiesto in prestito persino la console  – cosi per esercitarsi un po’ – . Al suo ritorno doveva fargliela pagare. Avrebbe dovuto trovare un giusto pegno. Magari Koichi in questo lo avrebbe aiutato. In quel metro e cinquanta di uomo, si annidava un senso di giustizia innato.. e pensare che quando lo aveva conosciuto, con quel suo modo di fare gentile all’estremo dell’umano, era certo di averlo odiato.
Era il primo giorno di scuola di quel fantomatico millenovecentonovantanove ed alle calcagne si era trovato, non solo un omone di due metri, ma anche un ragazzino che non faceva altro che domandargli come stesse. Poi tutto aveva iniziato a intrecciarsi inesorabilmente: la scoperta di un assassino in città, la freccia al petto, l’anziano dentro la foto… e niente era sembrato più lo stesso. Tutti tranne Hirose Koichi parvero influenzati dagli avvenimenti, lui, invece, rimaneva ancorato al senso di giustizia che lo rendeva una costante nella vita di Josuke e in quella di tutti coloro che gli erano vicini. Proprio per questo quella matta di Yukako ebbe un debole per lui. 
Non aveva mai capito le vere intenzioni di quella ragazza, anzi più le stava a distanza e meno l’intestino si contorceva, ma ogni qual volta gli occhi color violetto si posavano sulla figura minuta di lui, qualcosa in lei cambiava; sembrava illuminarsi, volteggiare come una foglia mentre danza col vento, diventare un pomodoro, irrigidirsi prima di sciogliersi e cadere ai suoi piedi. Totalmente, tremendamente, costantemente innamorata di lui.
E tutto questo lo faceva sorridere.
Era questo, per Josuke, l’amore. Qualcosa che andava oltre il piacere fisico o mentale. Doveva prenderti e scuoterti cosi forte da farti girare la testa, farti rabbrividire ed avere cosi caldo da far mancare l’aria. Travolgerti completamente ed essere, allo stesso tempo tornato bambino mentre, urlando parole senza senso sul cuscino, scopri un tremore incontenibile di quell’emozione impossibile da frenare. Farti svegliare di soprassalto di notte, con il cuore in gola ed una mano sul petto e riscoprire la beatitudine di avere quella persona accanto.
E poi, l’amore doveva essere accolto in qualsiasi modo colpiva. Bello o brutto che fosse.  E Josuke l’avrebbe fatto qualora fosse arrivato. Di tutti i tipi. Di tutti i generi.
Infondo sapeva di star già amando a modo suo tutti coloro che nella sua vita avevano contato qualcosa. Sua madre Tomoko, il vecchio Joseph, Koichi, in qualche modo strano e particolare anche Rohan. Come spettatori, tutti avevano un loro posto. Si, anche quello stupido di Okuyasu.
Forse proprio in quello strano rapporto di amicizia aveva compreso cosa fosse l’amore e che non fosse possibile concepirlo in un unico modo.
Non avrebbe mai potuto dimenticare come il proprio cervello reagì alla vista del corpo, che pareva, senza vita dell’amico: le palpebre chiuse a serrare la pupilla vitrea, il torace immobile cosi come il polso privo di battito. Non ricordava nulla del dopo, ma era certo che in cuor suo aveva sperato di morire, che Yoshikage preso da uno dei suoi momenti di follia lo avesse colpito lasciandolo stramazzato al suolo.
Non riusciva più a resistere.
Cazzo, ma quanto era grande? E poi, prudeva cosi tanto.
Si, appena fossero scesi dal taxi l’avrebbe controllata.

Incurvò leggermente la schiena sul sedile morbido della Nissan conscio di aver passato metà viaggio in silenzio a fantasticare sulla vita e sull’amore. E si, perché qualcuno in quella lista enorme l’aveva dimenticato, anche se era a nemmeno venti centimetri da lui.
Che sentimenti provava nei confronti di Jotaro? Del nipote che era piombato una mattina nella sua vita e gli aveva buttato addosso una miriade di informazioni e che ora rimaneva distante, quasi un muro li separasse?
Amore. E non aveva dubbi.
Beh, si, in realtà li aveva eccome ma avrebbe tenuto la boccaccia chiusa.
In quel tempo in cui aveva potuto imparare a conoscere Kujo Jotaro, di una cosa era totalmente sicuro di aver appreso: non aspettarsi assolutamente nulla.
No, forse cosi la frase suonava del tutto fraintendibile: non aspettarsi nulla da lui dal punto di vista emozionale. Fisico. Perché era fatto cosi e questo doveva bastare.
Non gliene aveva mai fatto una colpa, anzi quasi aveva imparato a non farci più caso, a passarci sopra ed alzare le spalle quando qualcuno di nuovo gli faceva notare la freddezza del consanguineo. Il suo comportamento non era scaturito, e di questo ne era certo, da fattori emozionali generici come la timidezza, il cinismo o il solo fatto di essere introverso; aveva capito che in lui si annidava qualcosa di talmente profondo da ricondursi alla nascita stessa. Una mancanza enorme. Josuke, infatti, era convinto che Jotaro avesse quel carattere perché fondamentalmente nessuno gli aveva insegnato diversamente. Nonostante le loro vite, sotto un certo aspetto, potessero essere molto simili, Josuke era stato continuamente imboccato di amore da parte della madre e dal nonno; aveva assimilato che il suo concepimento fosse scaturito da un amore forte e profondo e che proprio quel tipo di amore doveva ricercare negli altri.
Ecco, forse al nipote mancava proprio quel tassello: l’insegnamento.
Prima che potesse farsi avanti, dopo quell’interminabile tempo in silenzio, magari con un semplice tocco della gamba, un colpo di tosse forzato, o qualsiasi altra cosa riuscisse a catturargli l’attenzione, fu lo stesso biologo ad abbassare le difese e rivolgergli finalmente da parola.
«Josuke. Siamo arrivati.» la voce impastata era sottile e rauca come se avesse paura che l’interlocutore non fosse attento. Si meravigliò, infatti, quando voltando il capo, gli occhi del ragazzino erano puntati su di lui. Completamente incatenati.
Ancora silenzio. Il rumore della città viva fatta di clacson, urla, risate, rombi d’auto e moto, suonerie di cerca-persona attaccati alla vita, rendeva il contesto in cui erano decisamente insolito rispetto ai loro canoni. La città natale degli Higashikata era sempre – e unico – luogo dei loro incontri. Poche erano le scelte che concedeva ma erano sempre apprezzate per la scarsa densità e per il completo menefreghismo delle persone. Ora, lì, dispersi in quel trambusto stroboscopico neanche si riconoscevano. Appianare quella situazione, però, era di vitale importanza per Jotaro. «Questa è la dimora di Joseph e sua moglie Suzie Q. Vivono qui da quando ne ho memoria.»
Ecco qui, ci siamo con lo spiegone.
Jotaro era fatto cosi, prima si presentava come l’omone brutto e cattivo di cui avere paura, poi intromettendosi nelle vite altrui regalava gesti plateali e commuoventi rendendo alquanto difficile il sentimento da provare verso di lui ed infine, cosi senza saperne il motivo, si chiudeva in se stesso facendoti capire palesemente che della tua morte non gliene sarebbe fregato un tubo.  Josuke roteò gli occhi blu, cristallini e liquidi per via delle poche ore di riposo e facendo leva sui muscoli facciali riuscì a contenere lo sbadiglio evitando di ricevere un cazzotto in pieno viso. Gliene era bastato uno a suo tempo.
Il taxi, intanto, si era fermato dove Jotaro, prima dell’immenso silenzio, aveva indicato. L’enorme grattacielo svettava luminoso nella sua copertura di ferro e acciaio rendendo impossibile da individuare la sua fine da quella altezza: il sole, in quella giornata, picchiava forte e le vetrate lunghe e rettangolari ne riflettevano la luce creando particolarissimi giochi di colore simili all’arcobaleno. Davanti all’entrata coperta da un lungo ed ampio tendone parasole di un color bordeaux, si trovava l’usciere composto nella sua divisa e con le braccia poste dietro la schiena; la sua aria bonaria era resa simpatica da un paio di baffi folti e grigi che coprivano le labbra sottili. Lui insieme al facchino, presero le valige degli ospiti di casa Joestar accogliendoli dentro la hall cosi da registrarli e poi portarli al piano.
Josuke dovette sbattere più volte le palpebre poiché totalmente profano al mondo del lusso, alberghi a cinque stelle, cibi pregiati e operatori gentili pronti ad aiutarlo. Un pesce fuor d’acqua in quell’oceano talmente lontano dalla solita vita che conduceva da sembrare un sogno, quasi uno scherzo. Afferrò con le labbra la cannuccia arancione che usciva dalla bottiglietta di plastica, colma della famosissima bevanda frizzante mentre seguiva con passi lenti ed incerti le falcate lunghe e militaresche di Jotaro che continuò a parlare. «Saranno presenti i medici della Fondazione Speedwagon i quali a turnazione controllano giorno e notte Joseph. Abbiamo deciso per questa scelta invece di un ospedale. Avrebbero potuto riscontrare anomalie causate dagli Stand e questo non possiamo permettercelo. I medici della Fondazione sono molto affidabili.» spalle contro la parete marmorea rossa dell’ascensore. Uno di fronte all’altro si guardarono per interminabili minuti. Josuke scandì il tempo succhiando il liquido gasato procurando suoni sordi e continui che fecero arricciare il naso al nipote «Inoltre,» continuò Jotaro alzando la visiera del cappello bianco cosi da permettergli di fulminarlo con lo sguardo all’ennesimo suono tanto che l’altro, consapevole di aver irritato il leone in gabbia, sgranò gli occhi e sputò via la cannuccia. «incontrerai alcuni membri della famiglia Joestar mai conosciuti. Holy, mia madre nonché la tua sorellastra; Suzie Q la prima moglie. Se questo potrà creare in te un senso di insofferenza, non serve che tu me lo dica esplicitamente, andremo via. Troveremo un altro modo, qualora fosse, per farti vedere tuo padre.»
Era proprio su quelle basi su cui si fondava il discorso di Josuke: piccoli gesti premurosi che non erano dettati dal contesto sociale in cui si trovavano, ma venivano  guidati dal cuore. Jotaro aveva premura in questo modo – forse neanche se ne rendeva conto – ma accudiva coloro a cui teneva proteggendoli sotto la sua la ala. Non riuscì a trattenere un sorriso avvicinandosi ancora la cannuccia tra le labbra carnose per prendere un altro sorso.
Mai fu scelta più sbagliata.
All’ennesimo sorso, Jotaro preso dal suo flusso di coscienza, inserì una insignificante informazione in più, cioè la remota presenza di sua moglie Anne e sua figlia Jolyne, credendo fosse realmente tale. Non riuscendo bene a deglutirla, l’anidride carbonica della bevanda risalì fin sopra le narici bruciando durante il percorso procurando continui colpi di tosse che portarono a bagnare l’enorme specchio davanti a loro.
«Cosa.. tu. Aspetta tu, cosa?!» chiese con voce sottile chiudendo entrambi gli occhi per lo sforzo.
«Cosa?»
«Che aspettavi a dirmelo?! Cioè io sono tuo zio! Siamo parenti e vengo a scoprire solo ora / in questo modo / che tu hai una figlia!»
«Ci sono cose più importanti che conoscere la mia vita sentimentale.» lapidario concluse il discorso. In realtà il “discorso famiglia” non lo aveva mai aperto con nessuno se non con sua madre il giorno in cui la rese partecipe delle nozze e poi della nascita di Jolyne.  Anche lì, Jotaro, prese tutti alla sprovvista. Nessuno era mai stato reso partecipe della sua vita una volta trasferitosi a Tokyo per iniziare l’università. Non si era mai chiesto se fosse un argomento di cui dover parlarne con amici o colleghi di lavoro. Era qualcosa che era successa.. come farsi la doccia la mattina. Era importante raccontare della propria routine mattiniera agli amici?
«Signor Kujo, sono cosi lieto di vederla qui. Prego sono tutti in sala.» Roses li accolse alla porta. L’uomo sulla settantina con segni ormai visibili dell’età, era stato per tutta la sua vita il braccio destro di Joseph Joestar, di sua moglie e di tutto ciò che di più caro aveva. Affidabile, serio e coscienzioso si era preso carico della indifesa Suzie durante il viaggio nella città de Il Cairo; era stato l’unico a difendere con le unghie e con i denti il sentimento prezioso dopo la scappatella dell’anziano Joestar. Non gli aveva mai voltato le spalle anche quando il tempo e le necessità remavano contro.
Con un leggero inchino, i due, entrarono in casa. Un vociare leggero li accolse cosi come la luce filtrante tra i vetri enormi che illuminavano la stanza, ma niente di più. Quel luogo un tempo culla di freschezza, gioventù e famiglia ora pareva aver perso totalmente quel fascino trasformandosi in un ospedale asettico e vuoto; due medici stavano vociando con fare concitato dando loro le spalle mentre, più lontano, sedute sullo stesso tavolo dove Joseph e Jotaro si scambiarono le prime informazioni sul nuovo Joestar, due donne dall’aria stanca e provata parlottavano tra di loro. La più anziana delle due era Suzie Joestar raccolta in uno scialle nero ed incurvata verso il tavolo a guardare, con fare distratto, la tazza di tè bollente stretta tra le dita nodose ma ben curate; il volto ben truccato mal nascondeva la preoccupazione e i segni dell’età che avevano fatto il loro percorso. Era difficile quantificarne gli anni ma di certo la notizia del marito in fin di vita aveva marcato maggiormente la sua stanchezza. L’altra, invece, seduta in modo composto e dall’acconciatura aggraziata dietro la nuca doveva essere Holy Kujo cosi Jotaro, poco prima, l’aveva presentata come sua madre. Seduta di spalle ai due ospiti appena entrati, rendeva impossibile studiarne i lineamenti ma il portamento elegante faceva sospettare fosse una bellissima donna. La conversazione, tra le due, era flebile alla stregua dell’udibile ma la silenziosità del luogo aveva reso palese l’argomento principale: Josuke.
Il tradimento palesatosi dopo più di cinquant’anni di matrimonio fu un’incombenza di difficile gestione. Nonostante, negli anni, i due coniugi Joestar avessero provato sulla loro pelle non pochi problemi, l’arrivo di una nuova donna, e di conseguenza un figlio illegittimo, mise alla luce le fratture di quell’amore: certo, i due avevano scartato fin da subito l’ipotesi del divorzio o di un allontanamento ma la questione fiducia era diventata di ardua soluzione. Suzie, che aveva passato l’intera vita di fianco ad un uomo che aveva idolatrato, follemente amato ed incoraggiato, si era ritrovata catapultata in una situazione più grande di lei; d’altra parte, Joseph, consapevole dello sbaglio ma anche dell’amore provato per la giovane donna, non era riuscito a gestire la crisi credendo che scappare fosse la soluzione migliore. Ed ora, con l’arrivo del ragazzo nella loro vita, quello sbaglio veniva reso reale.
«Mamma,» Jotaro cercò di frenare la conversazione chiamando all’attenzione le due donne ancora completamente ignare del loro arrivo. Il guaio, però, era stato commesso.
In diciannove anni di vita era stato chiamato in molti modi tanto da aver creato una sua classifica personale. Al primo posto c’èra Josuke-kun di sua madre nei rari momenti di dolcezza o quando era in procinto di staccare via la luce e tenerlo lontano dai videogames. Al secondo posto il Bro di Okuyasu. Il modo in cui lo pronunciava lo faceva sempre ridere ma, al tempo stesso, nei momenti in cui dimenticava di appellarlo in quel modo, lo allarmava. In ultima posizione si trovava Kishibe Rohan ed il suo Tu: lo usava in mille modi, ma quello che utilizzava maggiormente era intriso di odio.
Mai nessuno, però, l’aveva chiamato sbaglio e mai, fino a quel momento, aveva pensato di esserlo. Sua madre ed il nonno Ryohei avevano lavorato sodo durante l’intera infanzia del piccolo Josuke, avevano spiegato lui cosa fosse la famiglia, i componenti ed i loro ruoli ma nello stesso tempo tutto ciò che poteva separarli ed allontanarli. La mancata presenza di una figura maschile era stata del tutto colmata dalla forza e tenacia della madre, dalle coccole e vizi da parte del nonno. Sebbene quel triangolo familiare parve funzionare, il piccolo Josuke era stato incapace di dosare le emozioni; spesso era solito conficcarsi le unghie sottili nei soffici e diafani palmi gustandosi il frammento di tempo che intercorreva tra la fine dell’adrenalina e l’inizio del fastidio tramutato in dolore. Era facile trovare sul corpicino esile e spigoloso violacei ematomi o profondi graffi, inspiegabilmente riconducibili a giochi di cui sia la madre che in nonno non approvavano la frequenza. Forse per questo motivo, o almeno cosi si era sempre convinto, era nato Crazy Diamond: la figura umanoide dall’elmo corinzio e dai colori accesi gli permetteva di curare, restaurare, mettere a posto le cose che l’animo esagitato del giovane non riusciva a contenere. Tutto ciò su cui riversava il forte turbamento poteva essere incredibilmente riparato.
Piatti, bicchieri, muri, posters, libri.
Tutto, tranne lui.
Per questo, in quel preciso momento, maledisse il suo Stand. Avrebbe voluto inondare quella stanza del suo stesso sangue, urlare, scalciare e far rimanere solo della inutile e leggera polvere.
Poi tutto si sarebbe aggiustato.
Lo sguardo abbassato era lontano dall’agitazione che le dita, ora, gli stavano facendo provare: strette una con l’altra tanto da sbiancare le nocche.
Perché… perché non poteva semplicemente voltare i tacchi, andarsene, lasciare che  lo additassero come un errore e tornare a casa.
Perché non poteva liberare i propri sentimenti e confessare al mondo intero quanto  solo, si fosse sempre sentito sotto i panni di un eterno felice.

La testa iniziò a fargli male.
«Jotaro, tesoro. Non vi— avevamo sentiti.» Holy interruppe quell’imbarazzante momento alzandosi dalla sedia con uno scatto. Le avevano sentite e questo era palese. Colpevole, la donna, si morse il labbro inferiore tinto di un rosa ciclamino soffermandosi a guardare la stretta con cui lo sbaglio, stava cercando di isolarsi. «Pensavamo arrivaste con leggero ritardo..»
«Torneremo in un altro momento» il biologo aggiunse provato dall’imbarazzo che si era creato tanto che allungò un braccio per coprire Josuke, ma egli si distaccò facendo qualche passo indietro.
«No! No, aspettate» la donna, allarmata compì qualche passo incerto facendo risuonare i tacchi sul pavimento lucido «Josuke» disse richiamandone l’attenzione «Mi dispiace tanto. Quelle parole non volevano essere un rimprovero ma uno sfogo. Deve essere molto difficile per te ritrovarti in questa situazione, essere stato catapultato in un mondo completamente diverso dalla tua isola felice. Da adesso in poi..qualsiasi cosa tu desideri, o hai voglia solo di parlare, sono qui.» le mani delicate e fredde bloccarono quell’intreccio stretto e doloroso che erano diventate le mani di Josuke, si intrecciarono ad esse e le coprirono con una dolce carezza. Gli occhi di entrambi si incrociarono e per un solo secondo, Holy, rivide in quelli del ragazzo gli stessi del padre. Gli occhi della donna divennero lucidi. «E poi, sai.. ho smesso di fare la mamma di questo bambinone da un pezzo. Potremmo farci forza a vicenda.»
Josuke non parlò. Fermo ed immobile si beò del contatto umano e delle parole che in quel momento parvero cullarlo.
Alla fine si, per tutti gli sbagli esiste una soluzione.








Joseph Joestar, ottantuno anni, magnate della finanza, si trovava in uno stato di coma indotto da due settimane. Il corpo dell’anziano era steso sul letto matrimoniale della stanza patronale, colmo di tubi e tubicini a cui macchine evidenziavano i segni vitali. La camera da letto era stata adibita a sala ospedaliera dai medici e dagli infermieri della Fondazione coprendo con macchine, utensili e divise, la preziosità di arazzi e sculture che particolareggiavano quell’ambiente. La luce naturale filtrante dalle grosse vetrate era stata resa fioca da panelli divisori che non rendevano subito palese la visione del degente.
Smagrito, dalla pelle grigiastra, aveva perso tutta la muscolatura che un tempo lo aveva reso avvenente e possente. Josuke, alla vista, dovette ricordare come l’avesse visto l’ultima volta per non lasciare che la mente avesse impresso solo quel ricordo. Si accinse al bordo del letto e timidamente toccò i filamenti delle flebo e la pelle rugosa e tremendamente tiepida: non era lui. O almeno non era nulla di ciò che ricordava. Ma cosa ricordava in realtà? L’unica volta che era riuscito a vederlo, un serial killer aveva minato alla sua vita creando scompiglio in una cittadina della periferia. Sporadiche telefonate e nulla più. A dirla tutta, e di questo se ne vergognava ad ammetterlo, Jotaro era stato un padre molto più di lui: si era preoccupato della sua salute e della sua istruzione, era sempre stato aggiornato sui suoi spostamenti ed era stato, persino, solito fargli visita.
Ma no, non poteva dargli colpe. Era vecchio, era stanco e soprattutto era stato consapevole di avere un figlio solo da pochi anni. Come poteva biasimarlo.
I pensieri vennero interrotti dall’arrivo dei due medici che aveva incontrato appena avevano varcato la soglia. Fu difficile mettere a fuoco i loro dettagli. Uno di loro, probabilmente l’infermiere, portava una strana capigliatura argentea che risaltava il suo colorito mulatto, l’altro, presumibilmente in medico, era corrucciato da una strana espressione di dissenso e da quelli che sembravano profondi graffi sul viso ma, la mascherina indosso, non gli permetteva di capirne la reale forma. Non dissero nulla, continuarono le loro faccende lasciando che Josuke rimanesse seduto accanto al letto sulla stessa sedia dove Suzie Q passava le giornate intere.
Josuke non era il tipo che se ne intendeva molto di medicina, anzi, il fatto che il suo Stand potesse riparare le cose lo rendeva ancora più lontano da tutto ciò che comprendeva quel campo; certo però, era che quella sacca vuota e trasparente appena istallata dall’infermiere non avrebbe dovuto riempirsi del sangue scarlatto del paziente, al contrario, sarebbe dovuta servire allo stesso nello stato in cui si trovava.
«L’ha visto.» pronunciò l’infermiere rivolgendosi preoccupato al medico che solo in quel momento lasciò cadere giù la maschera che copriva metà viso.
«Sai, Enrico, ho imparato che più attentamente pianifichi, più si verificano eventi inaspettati»











ANGOLO CHIACCHIERE
Heylà bella gente <3 - oserei dire buonanotte

Mi è mancato tanto non pubblicare la settimana scorsa mancando al consueto appuntamento, ma data la mia ansia era importante finire il capitolo che verrà subito dopo di questo ( che mi ha portato via parecchi e parecchi giorni) ed anche, in qualche modo, migliorare questo.
Questo chap è un po' il mio tesoro. Mi voglio spiegare bene: Josuke è il mio Jojo preferito, indipendentemente da tutto - tratti fisici e caratteriali - c'è una sorta di connessione tale che mi fa  apprezzare moltissimo il suo arco. Scrivere di lui - in un certo senso - mi è venuto molto più facile, quasi riuscissi realmente a comprenere come muoverlo in determinate situazioni. Date anche la delicatezza delle tematiche ( la famiglia, l'abbandono, la depressione infantile etc.) utilizzare lui mi è parso molto più semplice. Con questo non voglio dire che mi sia venuto SPLENDIDAMENTE, ma almeno spero di avervi fatto entrare nella mia visione di Josuke. <3
Entriamo  - finalmente - nel vivo dove qualcuno di nostra conoscenza si è fatto finalmente vivo ( cercate di capire la citazione dell'ultimissima frase <3)

Manca davvero poco per capirne le dinamiche quindi stay tuned!
Ringrazio tutti coloro che si prenderanno qualche minuto per leggere la storia e di commentare, se vi va, e far accrescere la mia esperienza.
Se siete arrivati fin qua vi mando un bacino ed un grande abbraccio
SpeedMary <3


P.s:
Vorrei precisare che pur avendomi messo la pulce nell'orecchio ( e si mi riferisco a tutte quelle bravissime scrittrici che fangirleggiano sulle coppie del fandom di Jojo - non vi citerò ma si, siete proprio voi che leggete care <3 - ) nelle mie storie non c'è nessun sentimento amoroso da parte dei protagonisti ( in questo caso JotxKak; JosxOku) ma solo un profondo senso di amicizia anche se si, Josuke non lo inserirei in nulla se non un grande amante dell'amore e dei sentimenti puri ( ma quanto è un cutiepie <3)
Chissà, un giorno ptorei cascarci anche io ( si, comunque farò in modo di potervi dare materiale su cui fangirleggiare <3)

 
  
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